Le femmine puntigliose/Atto I

Da Wikisource.
Atto I

../Personaggi ../Atto II IncludiIntestazione 19 aprile 2020 100% Da definire

Personaggi Atto II

[p. 107 modifica]

ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Appartamento nella locanda in cui sono alloggiati D. Fiorindo e Donna Rosaura1.

Donna Rosaura e Don Florindo.

Florindo. Signora consorte carissima, credo che ce ne possiamo tornare al nostro paese, e se aveste aderito a quello che io diceva, non saremmo nemmeno venuti a Palermo.

Rosaura. Che avrebbero mai detto di noi le donne del nostro rango, se dentro il primo anno del nostro matrimonio non fossimo venuti a far qualche sfarzo nella città capitale?

Florindo. E che cosa diranno di noi, se torneremo alla patria, senza che una dama di questo paese siasi degnata di ammetterci alla sua conversazione? [p. 108 modifica]

Rosaura. Ciò basterebbe a farmi morir di rossore.

Florindo. Penso che sarebbe stato meglio, se in luogo di aspirare alla conversazione delle dame, ci fossimo contentati di quella delle mercantesse della nostra2 condizione.

Rosaura. Oh, questo poi no. Sono venuta a Palermo per acquistare qualche cosa di più. Per essere distinta a Castellamare3, basta ch’io possa dire: sono stata in Palermo alla conversazione delle dame.

Florindo. Ma se questa conversazione non si può ottenere?

Rosaura. Il conte Lelio mi ha dato speranza, che forse forse si otterrà4.

Florindo. Il conte Lelio e molti altri cavalieri ci trattano, ci favoriscono, mostrano desiderio d’introdurci per tutto; ma so che le dame non vogliono ammetterci assolutamente5.

Rosaura. Eppure sono stata a casa di alcune, e mi hanno ricevuta6.

Florindo. Sì; in privato tutte ci faranno delle finezze; ma in pubblico non è possibile7.

Rosaura. Mi ha promesso il conte Lelio che la contessa Beatrice prenderà ella l’impegno d’introdurmi.

Florindo. Questa dama non la conosco. Non le ho portato veruna lettera di raccomandazione.

Rosaura. La lettera di raccomandazione che dovremo noi presentarle, sarà un piccolo regaletto di cento doppie.

Florindo. Cento doppie? A che motivo?

Rosaura. Per gli incomodi che si dovrà prendere per causa nostra.

Florindo. E sarà tanto vile per vendere a denaro contante la sua protezione?

Rosaura8. Il conte Lelio maneggia l’affare: io gliel’ho promesse, e son certa che in questo non mi farete scorgere. Purchè ot[p. 109 modifica]tenghiamo l’intento nostro, che importa a voi il sagrificio di cento doppie?

Florindo. Quando riesca la cosa bene, le sagrifico volentieri unicamente per compiacervi.

Rosaura. Anzi ho divisato donare al conte Lelio un orologio d’oro, per gratitudine dei buoni uffici che fa per noi.

Florindo. Ed egli l’accetta?

Rosaura. Perchè volete che lo ricusi?

Florindo. Per quel ch’io vedo, si vende la protezione, come il panno e la seta.

Rosaura. Ci siamo, bisogna starci.

Florindo. In otto giorni che siamo qui, abbiamo speso più di trecento scudi, senza veder cosa alcuna.

Rosaura. Non voglio andare in nessun luogo, senza una dama che mi conduca.

SCENA II.

Brighella e detti.

Brighella. Signori...

Rosaura. Villanaccio. (a Brighella con isdegno, girandogli un fazzoletto in faccia)

Brighella. Lustrissima...

Rosaura. Dammi quel fazzoletto.

Brighella. Lustrissima sì. Gh’è qua l’illustrissimo sior Pantalon, che li vorria reverir.

Rosaura. Pantalone non è illustrissimo.

Brighella. La perdona, signora...

Rosaura. Asino!

Brighella. Illustrissima, la me compatissa.

Florindo. Digli che passi.

Brighella. Signor sì... Illustrissimo sì. (No me posso9 avvezzar). (parte) [p. 110 modifica]

Rosaura. Non voglio sentire le seccature di questo vecchio. Vado nella mia camera: se viene il conte Lelio, mandatelo da me.

Florindo. Sarete servita.

Rosaura. Se questa dama ci favorisce, bisognerà trattarla.

Florindo. Siamo forestieri, probabilmente sarà ella la prima a trattarci.

Rosaura. Basta; purchè si spunti, si ha da spendere senza riguardo. (parte)

SCENA III.

Don Florindo, poi Pantalone.

Florindo. Bel negozio che ho fatto a prendere questa signora sposa! Ella mi ha dato una ricca dote, ma credo che al terminar dell’anno sarà finita.

Pantalone. Sior don Florindo, mio patron reverito.

Florindo. Buon giorno, il mio caro signor Pantalone.

Pantalone. Son vegnù a reverirla, e in tel medesimo10 tempo a dirghe che ho recevesto la lettera d’avviso per pagarghe i mille zecchini a tenor della lettera de cambio, che gieri lu m’ha fatto presentar.

Florindo. Non v’era bisogno che per questo v’incomodaste; mentre ieri, anche prima della lettera d’avviso, avete con bontà accettata la mia cambiale11.

Pantalone. Gh’ho tanta stima per la so degna persona, gh’ho tanto credito alla so ditta, che anca senza lettera de cambio l’averia servida, se la s’avesse degnà de comandarme12.

Florindo. Vi sono molto tenuto per la bontà che mi dimostrate.

Pantalone. La sarave bella! Semo stai tanto amici col sior Anselmo so barba13, che gierimo, se pol dir, fradei. Quello el giera un omo! Quello ha fatto i bezzi! Con mille ducati, che gh’ha dà so pare, in manco de dies’anni l’ha fatto un capital de cinquantamille. [p. 111 modifica]

Florindo. Veramente a mio zio Anselmo ho tutta l’obbligazione.

Pantalone. Credo de sì, l’ha lassà tutto a ela, co l’è morto; el giera la prima ditta de sti paesi, e ela, la me permetta che ghe diga, se la seguiterà el bon ordene de so sior barba, la sarà un dei primi mercanti della Sicilia14.

Florindo. Io, caro signor Pantalone, sono in un grado di non aver più bisogno di far il mercante. Ho tanti capitali, ho tanti crediti, ho tanto denaro in cassa da poter vivere comodamente senza continuare la mercatura.

Pantalone. La me perdona, se me avanzo troppo. Cossa gh’ala d’investìo?

Florindo. Oh, poco! A riserva d’un bel palazzo per villeggiare, con tre o quattro campi tirati a giardino, non ho poi comprato nè terreni, nè case.

Pantalone. La senta, e l’ascolta un omo vecchio, pratico delle cosse del mondo, interessà per i so vantazzi. I bezzi i se spende, e quando che in tel scrigno se cava e no se mette, presto se ghe vede el fin. La mercanzia la val poco in te le man de chi no seguita a negoziar, e i crediti i gh’ha la so gran tara, e no se scuode quando che se vol. Voggio mo dir che continuando a negoziar la pol mantegnir e aumentar i bezzi e el capital; che lassando el negozio, la pensa almanco a investir, per no aver un zorno da suspirar. La xe zovene, la xe novizzo; probabilmente l’averà dei fioi; a questi, anca solamente previsti, semo obbligai a pensar. La fazza conto de ste parole, e la le receva da un omo, che per etae, per amor e per debito, se protesta d’esserghe come pare.

Florindo. Caro il mio amatissimo signor Pantalone, voi siete pieno di bontà per me, vi ringrazio de’ salutevoli documenti, e vi prometto di porli in pratica.

Pantalone. Quando la crede che mi ghe diga la verità, e che la sia persuasa de voler mantegnir in credito la so ditta, mi [p. 112 modifica] la conseggio andar al so paese, tender ai so negozi, e seguitar le pratiche e le usanze e le corrispondenze de so sior barba.

Florindo. Ho i miei ministri che agiscono in mia vece.

Pantalone. I ministri i xe bei e boni; ma col15 paron no gh’abbada, le cosse no le va mai ben. Tutti cerca el proprio interesse, e pochi xe quei che s’impegna con zelo e con calor in favor dei so principali.

Florindo. Quanto prima tornerò a Castellamare; ma giacchè sono in Palermo, non è giusto ch’io parta, senza far vedere alla mia sposa le cose principali della città.

Pantalone. Se la comanda, mi la farò servir.

Florindo. Vi vorrebbe qualche signora, che si prendesse l’incomodo di accompagnare mia moglie.

Pantalone. Gh’ho una nezza16 maridada in t’un dei primi mercanti. La gh’ha carrozza, la gh’ha staffieri, la la servirà ela.

Florindo. Ma poi c’introdurrà in veruna17 conversazione?

Pantalone. M’impegno che i ghe farà tre o quattro sontuose conversazion, e che la sarà trattada come una principessa.

Florindo. Quand’è così, riceveremo le vostre grazie.

Pantalone. Vago subito a avvisar mia nezza.

Florindo. Trattenetevi un momento, tanto che avvisi di ciò la mia sposa. Ehi, signora Rosaura? (la chiama)

SCENA IV.

Donna Rosaura nell’altra camera, e poi esce, e detti; poi Brighella.

Rosaura. Cosa volete? (di dentro)

Florindo. Favorite, venite qui che vi ho da parlare.

Rosaura. Non vi è nessuno che alzi la portiera? (come sopra)

Florindo. Non vi è nessuno.

Pantalone. Gh’ala mal ai brazzi? La servirò mi. (alza la portiera)

Rosaura. Obbligatissima alle sue grazie. (esce) [p. 113 modifica] Florindo. Il signor Pantalone è tutto bontà, tutto gentilezza. Sentite le belle esibizioni ch’egli ci fa. Ci offerisce la buona grazia d’una signora sua nipote, la quale ci favorirà colla sua carrozza, e ci introdurrà alla conversazione.

Rosaura. È dama questa sua nipote? (a Pantalone)

Pantalone. No la xe dama; ma la xe unà delle prime mercante de sta città18.

Rosaura. Va alla conversazione delle dame?

Pantalone. Va alle conversazion da par soo, de signore tutte oneste e civil, signore che no xe nobili, ma che gh’ha dei soldi19.

Rosaura. Signor Pantalone, la riverisco. (vuol partire)

Pantalone. Come! No la se degna de lassarse servir da mia nezza?

Rosaura. Sì, anzi mi farà piacere. (sprezzante)

Pantalone. Vago subito a dirghe che la se prepara per vegnirla a reverir20.

Rosaura. No, no, per oggi non s’incomodi. Mi duole il capo.

Pantalone. Donca la vegnirà doman.

Rosaura. Se starò bene, vi avviserò.

Pantalone. Mo gh’ala mal?

Rosaura. Mi duole il capo. Non posso nemmeno sentir parlare.

Pantalone. Co l’è cussì, per no disturbarla de più, vago via.

Rosaura. Scusi, di grazia. Quando mi duole il capo, non so che cosa mi dica.

Pantalone. Me despiase infinitamente. Sior don Florindo, bisogna remediarghe; no sentela che alla sposa ghe dol la testa?

Florindo. Lo so pur troppo. (Mia moglie ha il suo male nella testa, e mi dispiace che non vi è rimedio). (da sè)

Brighella21. Lustrissima, el sior conte Lelio desidera de reverirla. (a Rosaura)

Rosaura. Venga, è padrone. (a Brighella che parte)

Pantalone. Mo se ghe dol la testa, come farala a sentirlo a parlar? (a Rosaura)

Rosaura. La ragione per cui egli viene, interessa tutte le mie [p. 114 modifica] premure. Fate una cosa, signor Fiorindo, servite in un’altra camera il signor Pantalone, e lasciatemi col conte Lelio a trattar l’affare che voi sapete.

Florindo. Ma non potremmo noi prevalerci del signor Pantalone che ci esibisce una sua nipote?...

Rosaura. Mi maraviglio di voi. Sapete l’impegno in cui sono.

Florindo. Signor Pantalone, andiamo, se vi contentate. (stringendosi nelle spalle)

Pantalone. (Poverazzo! E1 se lassa menar per el naso), (da sè)

Rosaura. (Ehi, per vostra regola, acciò non facciate qualche cattivo giudizio, osservate, ho preso le cento doppie). (piano a Florindo, e gli mostra la borsa)

Florindo. (Si potrebbero pur risparmiare). (piano a Rosaura)

Rosaura. Son chi sono; voglio così. (adirata)

Florindo. Andiamo, andiamo, signor Pantalone. (parte)

Pantalone. (Questi i xe de quei dolori de testa che patisse le muggier, co le gh’ha per marii de sta sorte de mamalucchi). (parte)

SCENA V.

Donna Rosaura, poi il conte Lelio e Brighella.

Rosaura. La nipote del signor Pantalone? Farei una gran figura, se andassi con lei22!

Lelio23. Riverente m’inchino alla signora donna Rosaura.

Rosaura. Serva, signor Conte. Chi è di là? (chiama)

Brighella. Lustrissima.

Rosaura. Da sedere.

Brighella. Lustrissima sì. (porta due sedie)

Lelio. Galantuomo, siete forestiere? (a Brighella)

Brighella. Sior sì.

Rosaura. Dimmi, il moro è in casa24? (a Brighella) [p. 115 modifica]

Brighella. Lustrissima sì.

Lelio. Siete lombardo? (a Brighella)

Brighella. Sior sì.

Rosaura. Va via. (a Brighella)

Brighella. Lustrissima sì.

Lelio. Sentite una parola, (a Brighella) Mi date licenza ch’io dica un non so che al vostro servitore? (a Rosaura)

Rosaura. Siete padrone.

Lelio. (Voglio un poco vedere, perchè a lei dà dell’illustrissima, e a me del signore). (da sè) (Ditemi, quel giovine, al vostro paese che regola si usa nel dare i titoli?) (a Brighella, a parte)

Brighella. Ghe dirò, signor: in certi paesi, dove che ho pratica mi, chi li merita non li cura, e a chi non li merita, i se ghe dà per burlarli.

Lelio. Bravo, mi piacete. Se vi occorre nulla, sarò per voi.

Brighella. Signor sì.

Rosaura. Portateci la cioccolata.

Brighella. Lustrissima sì. (caricato, e parte; e a suo tempo ritorna)

Lelio. (Così con bella maniera costui si burla della sua padrona). (da sè)

Rosaura. Favorite d’accomodarvi.

Lelio. Ricevo le vostre grazie. (siede)

Rosaura. Che buone nuove mi recate del nostro affare?

Lelio. Il tutto è accomodato. La contessa Beatrice verrà da qui a pochi momenti a visitarvi; voi le anderete a render la visita; in casa sua farà che si trovino varie dame. V’introdurrà con esse, e vi condurrà pubblicamente nella loro conversazione.

Rosaura. Caro Contino, siete adorabile. Non poteva sperare diversamente dal vostro spirito, dalla vostra buona condotta.

Lelio. Circa alle cento doppie, bisogna condur la cosa con buona maniera.

Rosaura. Le si potrebbe dare un anello che fosse di tal valore.

Lelio. No, un anello non accomoderà i suoi interessi.

Rosaura. Il danaro è pronto. Disponetene come vi aggrada.

Lelio. Faremo così; procureremo che accada di fare una [p. 116 modifica] scommessa di cento doppie fra voi e la contessa Beatrice, voi perderete la scommessa, ed ella avrà il danaro contante.

Rosaura. In questa maniera non riconoscerà da me il dono, ma dalla sorte.

Lelio. Se la cosa è prima concertata, lo riconoscerà unicamente da voi25.

Rosaura. Se si concerta così, può anche ricevere le cento doppie, senza far la scommessa.

Lelio. Signora no; ella pretende salvar con ciò la delicatezza del suo decoro.

Rosaura. Può salvarla presso di tutti gli altri, quando non lo sappiano altri che ella ed io.

Lelio. Non vuole scomparire nemmeno con voi.

Rosaura. Ma se io ho da sapere la verità!

Lelio. Non importa; le resta sempre un rimorso di meno, e ancorchè ella sia certa che la scommessa sia inventata per regalarla, ciò non ostante vanterà con voi medesima il suo bello spirito nell’aver saputo trionfare coll’opinione.

Rosaura. E qual è la scommessa che dobbiamo fare?

Lelio. La scommessa caderà sopra le ore. Voi, per esempio, direte che sono sedici. Ella dirà che sono diciassette. Si farà la scommessa; io deciderò in favore della Contessa, e voi le darete le cento doppie.

Rosaura. Benissimo, per decidere con fondamento, favorite, tenete quest orologio. (gli dà un orologio d’oro)

Lelio. Credo che il mio sarà sufficiente.

Rosaura. Non pretendo sprezzare il vostro; ma questo è uno dei migliori di Londra. Tenetelo, e state certo che non isbaglierete.

Lelio. Ve lo renderò dopo la scommessa.

Rosaura. Spero che non mi farete un simil torto.

Lelio. Donna Rosaura, voi siete troppo obbligante.

Rosaura. Un cavaliere che mi dimostra tanta parzialità, può anche [p. 117 modifica] permettermi ch’io mi possa prendere con esso lui una simile confidenza.

Lelio. Per dir il vero, la premura ch’io nutrisco delle vostre soddisfazioni, non è senza interesse; ma la mercede, a cui aspira il mio cuore, vai molto più di quello mi avete graziosamente donato.

Rosaura. E qual è la mercede che a misura del vostro merito possiate da me ottenere?

Lelio. Qualche generosa porzione della vostra grazia.

Rosaura. Oh via, signor Conte; vedo che vi prendete spasso di me.

Lelio. Mostrerei di esser poco conoscitore del merito, se non aspirassi all’onore di essere da voi ben veduto.

Rosaura. Ben veduto, stimato e venerato voi siete.

Lelio. E niente più?

Rosaura. Che cosa pretendereste di più?

Lelio. Niente amato? Niente affatto?

Rosaura. Onestamente posso anche amarvi.

Lelio. Oh, si sa, onestamente26.

Rosaura. Caro Conte, ditemi con sincerità. Siete impegnato con alcuna dama?

Lelio. Cinque ne ho servite in un anno, e tutte cinque si sono disgustate di me per femminili puntigli. La prima, perchè ho procurato di accomodare in un’altra casa un servitore che aveva ella licenziato. La seconda, perchè in faccia sua ho detto che mi piacevano gli occhi d’una Romana. La terza, perchè giuocando all’ombre27 le ho dato un codiglio. La quarta, perchè innocentemente ho scoperta una sua bugia; e la quinta, per essermi scordato una sera d’andare a prenderla alla conversazione. All’ultimo mi sono posto a servire la contessa Beatrice, la quale non è tanto puntigliosa, quanto le altre.

Rosaura. Presto presto essa pure vi scarterà.

Lelio. Per qual motivo?

Rosaura. Può essere per causa mia. [p. 118 modifica]

Lelio. Per sì bella cagione rinunzierei tutte le più belle dame del mondo.

Rosaura. Mi burlate?

Lelio. Dico davvero.

Rosaura. Caro Conte!

Lelio. Adorabile madamina!

Brighella28. Lustrissima. La signora contessa Beatrice l’è fermada colla carrozza alla porta, e la manda a veder se vossustrissima è in casa, e se la poi vegnir a farghe una visita.

Rosaura. Padrona. (s’alza)

Brighella. (Adesso la camisa no ghe tocca el preterito). (parte)

Rosaura. Veramente è sollecita questa dama.

Lelio. Spero che resterete contenta.

Rosaura. Ha marito?

Lelio. Sì. Il conte Onofrio. È un buonissimo uomo; mangia e beve, e non pensa ad altro.

Rosaura. Lascia far tutto alla moglie?

Lelio. Tutto.

Rosaura. Felici quelle donne che possono far così.

Lelio. Bisognerà andarle incontro.

Rosaura. Ma dove?

Lelio. Io direi alla scala.

Rosaura. Oh no, Contino mio; basterà ch’io vada alla porta di camera.

Lelio. Per la prima volta che viene a visitarvi, potete far qualche cosa di più.

Rosaura. Se lo facessi una volta, sarei obbligata di farlo sempre.

Lelio. Abbondare in gentilezza è cosa sempre ben fatta.

Rosaura. Chi troppo si abbassa, non esige rispetto.

Lelio. Finalmente è una dama.

Rosaura. Ed io non sono la sua cameriera.

Lelio. Presto, andatele incontro. Vedetela, è qui alla porta.

Rosaura. Basta che mi veda disposta per incontrarla. (fa qualche passo Verso la porta) [p. 119 modifica]

SCENA VI29.

La contessa Beatrice e detti.

Beatrice. E qui la signora Rosaura?

Rosaura. Oh! servitori ignoranti! Non mi hanno avvisata. Sarei venuta a riceverla.

Beatrice. Non importa, non importa.

Rosaura. Serva umilissima, signora Contessa.

Beatrice. Serva sua, signora donna Rosaura. Addio, Conte.

Lelio. Con tutto il rispetto. (inchinandosi)

Rosaura. Mi rincresce che la signora Contessa siasi preso l’incomodo di venire sin qui; sarei venuta io a riverirla.

Beatrice. Il conte Lelio mi ha procurato l’incontro di conoscere una signora di merito particolare, ed io non ho tardato ad accelerarmi un tal piacere.

Rosaura. S’accomodi. (Parla molto sostenuta). (piano a Lelio)

Lelio. (Si serve dei veri termini). (piano a Rosaura)

Rosaura. (Converrà misurar le parole). (da sè) Ma favorite d’accomodarvi. (a Beatrice)

Beatrice. Eccomi accomodata. (Siedono tutti e tre uniti; Beatrice alla dritta, Rosaura in mezzo, il Conte alla sinistra.)

Lelio. (Così non istiamo bene. La Contessa non ha il suo posto). (piano a Rosaura)

Beatrice. Conte, avete fatto ammobiliar voi questo appartamento per la signora Rosaura?

Lelio. Sì signora, ho avuto io una tale incombenza.

Beatrice. E i suoi servitori li avete procurati voi?

Lelio. Ne ho ritrovati alcuni per la pratica della città.

Beatrice. Perdonatemi; l’avete servita male. Cattivi mobili e pessimi servitori.

Lelio. Perchè dite questo, signora Contessa?

Beatrice. Non vedete? Siete pur Cavaliere. In una camera di [p. 120 modifica] udienza le sedie tutte eguali non istanno bene. E i servitori non le sanno disporre.

Lelio. (Non ve l’ho detto? La Contessa non ha il suo posto, e vi voleva una sedia distinta). (piano a Rosaura) Signora, regolerò io le mancanze del servitore, giacchè per i mobili non vi è rimedio. (5’ alza, porta la sua sedia in distanza di Rosaura, e fa che Beatrice resti alla dritta della medesima.)

Rosaura. (Ho piacer d’imparare; anch’io a Castellamare farò così).

Beatrice. Conte mio, vi siete preso un incomodo che lo potevate risparmiare. L’errore non consisteva nella vostra sedia, ma nella mia. Il sole di quella finestra mi offende la vista.

Lelio. (Ho capito). (da sè) Permettetemi ch’io vi rimedi. (S’alza, fa alzare Beatrice, e porta la di lei sedia in distanza di Rosaura, colla spalliera verso la finestra, cosicchè viene a restare in faccia a Rosaura, nel primo luogo della camera d’udienza.)

Beatrice. (Conte, se l’ho da condurre alla conversazione delle dame, insegnatele qualche cosa). (piano al Conte, e siede)

Rosaura. (Questa poi non l’intendo). (piano al Conte)

Lelio.(Quello è il primo luogo. Nella camera d’udienza, sempre la persona che si riceve va collocata in faccia alla padrona di casa, e in faccia alla porta, o almeno di fianco). (piano a Rosaura)

Rosaura. (Anche questa è buona per Castellamare).

Lelio. Su via, signore mie, diciamo qualche cosa di bello. (Torna a portare la sua sedia vicino a Rosaura, e gira alquanto quella di essa Rosaura, acciò resti in faccia alla contessa Beatrice.)

Beatrice. E così, signora Rosaura, come vi piace la città di Palermo?

Rosaura. Non posso dirlo, perchè non l’ho ancora veduta.

Beatrice. Quant’è che ci siete?

Rosaura. Saranno otto giorni.

Beatrice. In otto giorni sarete stata in qualche luogo.

Rosaura. Non sono uscita di casa, altro che una volta sola.

Beatrice. Per qual ragione? [p. 121 modifica]

Rosaura. Per non avere avuto una dama che mi favorisse30.

Beatrice. (Che pretensione ridicola!) (da sè) E partirete di Palermo senza vederlo?

Rosaura. Spero che la signora Contessa mi onorerà della sua compagnia.

Beatrice. Conte, che ora abbiamo?

Lelio. Non lo so davvero; il mio orologio va male: voi, che venite ora di fuori, potreste saperlo meglio di me. (a Beatrice)

Beatrice. Ma pure che ora direste voi che fosse?

Lelio. Signora Rosaura, dite voi la vostra opinione.

Rosaura. Io dico che saranno sedici ore.

Beatrice. Ed io dico che saranno diciassette.

Rosaura. Quando la signora Contessa lo dice, sarà così.

Lelio. (Oh diavolo! E la scommessa?) (piano a Rosaura)

Rosaura. (È vero, non ci ho pensato). Signora Contessa, io scommetto che sono sedici ore.

Beatrice. O sedici, o diciassette, non ci penso. Ma è ora che vi levi l’incomodo, e me ne vada. (sostenuta)

Lelio. (Sentite? Se l’ha avuto per male). (piano a Rosaura)

Rosaura. (È molto puntigliosa!) (piano a Lelio)

Lelio. (Eppure è delle più correnti e facili che vi sieno). (piano a Rosaura)

Beatrice. A mezzogiorno devo esser a casa, ove alcune dame saranno per favorirmi.

Lelio. A che ora suona il mezzogiorno?

Beatrice. Alle diciassette.

Lelio. (Dite alle diciotto). (piano a Rosaura)

Rosaura. Perdoni, signora Contessa, ella s’inganna; il mezzogiorno suona alle diciotto.

Beatrice. Lo volete insegnare a me? Suona alle diciassette.

Lelio. (Ora è il tempo). (piano a Rosaura)

Rosaura. Scommetto che suona alle diciotto.

Beatrice. Scommetto che suona alle diciassette. [p. 122 modifica]

Lelio. Animo, che cosa volete scommettere, signore mie?

Beatrice. Tutto quello che vuole la signora Rosaura.

Rosaura. Scommetto cento doppie.

Beatrice. Doppie di Spagna?

Rosaura. Vi s’intende.

Beatrice. Benissimo. Accetto la scommessa. Cento doppie di Spagna, che mezzogiorno suona alle diciassette.

Rosaura. Che suona alle diciotto.

Beatrice. Ma chi deciderà la scommessa?

Lelio. Io, signore, se vi contentate. Ecco un giornale veridico ed accreditato. Ecco qui: Tavola del mezzogiorno: undici Aprile, a ore diciassette. Signora donna Rosaura, avete perduto la scommessa.

Beatrice. Ho vinto, ho vinto. (con allegria)

Rosaura. Benissimo, ed io sono pronta a pagare. Ecco, signora Contessa, una borsa con cento doppie di Spagna. Contatele, se ne avete dubbio.

Beatrice. Mi maraviglio. Mi fido di voi.

Lelio. (Anche questa è andata bene, che non credeva). (da sè)

Beatrice. Il mezzogiorno dunque suona alle ore diciassette; ma presentemente che ora sarà?

Rosaura. Io direi che fossero sedici.

Beatrice. Ed io scommetto che sono diciassette.

Rosaura. Signora Contessa, siete troppo brava; con voi non iscommetto più. (Ne piglierebbe altre cento). (da sè)

Beatrice. Orsù, volete venire con me? (a Rosaura)

Rosaura. Dove?

Beatrice. A casa mia, dove vi saranno quattro o cinque dame, invitate unicamente per voi.

Rosaura. Riceverò volentieri le vostre grazie. Ma prima, se vi contentate, beviamo la cioccolata. Chi è di là? (chiama) [p. 123 modifica]

SCENA VII31.

Arlecchino e detti, poi Brighella.

Arlecchino. Comandar.

Rosaura. Porta la cioccolata.

Arlecchino32. Subito servir. (in atto di partire)

Beatrice. Che grazioso moretto!

Arlecchino. Mi star graziosa moretta, e ti star galanta bianchetta. (a Beatrice)

Beatrice. Come ti chiami?

Arlecchino. Mi chiamar con bocca.

Rosaura. Va via di qua, impertinente.

Lelio. Lasciatelo dire, che la Contessa avrà piacere. È il più caro moro del mondo.

Arlecchino. Per ti star cara. (a Lelio)

Lelio. Per me sei caro? Perchè?

Arlecchino. Perchè non aver quattrini per mi comprar.

Beatrice. Bravo, moretto, bravo!

Arlecchino. Oh, quanto33 star bella! Mi voler bena. Mi, se ti voler, far razza mezza bianca e mezza mora. (a Beatrice)

Rosaura. Va via, briccone. Porta la cioccolata.

Arlecchino. Per ti e per ti portar cioccolata. (a Rosaura e Beatrice) E per ti polentina. (a Lelio e parte) Lelio. Maledetto34 costui! ’

Beatrice. Dove l’avete avuto? (a Rosaura)

Rosaura. Vi dirò; questo è un moro che, quando fu preso, fu portato a Venezia, dove ha principiato a parlar italiano; e sentitelo, che dice quasi tutte parole veneziane corrotte. Egli poi venne in Sicilia sopra una nave, e piacendomi infinitamente il suo spirito e le sue facezie, l’ho comprato dal capitano.

Beatrice. Che nome ha? [p. 124 modifica]

Rosaura. Perchè è tanto burlevole e giocoso, gli ho messo nome Arlecchino.

Lelio. Ma gli arlecchini sono goffi, e costui è furbo come il diavolo.

Rosaura. In oggi i buoni arlecchini sono più spiritosi che goffi.

Brighella. L’illustrissimo sior conte Onofrio vorria riverirla. (a Rosaura)

Beatrice. Mio consorte. (a Rosaura)

Rosaura. Favorisca, è padrone. Presto, un’altra sedia. Lì, lì, presso la signora Contessa. (a Brighella)

Beatrice. Che volete ch’io faccia di mio marito vicino?

Rosaura. Aspetta. (a Brighella) (Dove l’abbiamo da mettere?) (piano a Lelio)

Lelio. (Appresso di voi). (piano a Rosaura)

Rosaura. (Di sopra, o di sotto?) (come sopra)

Lelio. (Oh, di sopra, di sopra).

Rosaura. Mettila qui. (a Brighella)

Brighella. (Se i mi padroni i sta troppo qua, i deventa matti). (mette la sedia, e parte)

Beatrice. (Questa povera donna è in una gran confusione). (da sè)

SCENA VIII35.

Il conte Onofrio e detti.

Onofrio. Schiavo di lor signori.

Lelio. Amico, vi son servo.

Rosaura. Signor Conte, posso bene annoverarmi fra le donne più fortunate, se vi degnate di onorar la mia casa colla vostra36 presenza.

Onofrio. Oh garbata signorina! Chi è questa signora? (a Beatrice)

Beatrice. Questa è la signora donna Rosaura, moglie del signor Fiorindo Aretusi di Castellamare.

Onofrio. Mercante, non è vero? (a Rosaura)

Rosaura. Fu mercante. [p. 125 modifica]

Onofrio. Ed ora che cosa è?

Rosaura. Vive del suo, signore.

Onofrio. Non si è ancora fatto nobile?

Rosaura. Quanto prima comprerà un titolo.

Onofrio. Se vuole il mio, glielo vendo. (ridendo)

Beatrice. Siete qui sempre colle vostre barzellette. (al conte Onofrio)

Lelio. Il conte Onofrio è sempre di buon umore.

Onofrio. Contessa, sono venuto ad avvisarvi che la contessa Ele onora e la contessa Clarice, col conte Ottavio, sono a casa nostra che vi aspettano. (Ditemi, avete bevuto la cioccolata?) (piano a Beatrice)

Beatrice. (Or ora la portano). È molto tempo che ci sono?

Onofrio. Sarà mezz’ora.

Beatrice. Signora donna Rosaura, queste due dame le ho fatte venire per voi; se volete che andiamo, principierete a conoscere queste, e vi servirà d’introduzione all’altre.

Rosaura. Sì signora, andiamo; non le facciamo aspettare, non commettiamo questa mala creanza.

Beatrice. Io non so commettere male creanze. (alterata)

Rosaura. Voglio dire... Vi s’intende. Se aspettan me...

Beatrice. No, no, non aspettano voi.

Rosaura. Dunque io non ci ho da venire?

Beatrice. Sì, verrete con me.

Rosaura. (Io mi confondo). (da sè)

Beatrice. (Poverina! È imbrogliata a voler far da signora), (da sè)

SCENA IX37.

Arlecchino, poi Brighella e detti.

Arlecchino con una guantiera con quattro chicchere di cioccolata e vari biscottini38.

Rosaura. Ecco la cioccolata.

Beatrice. Ma l’ora si fa tarda, e le dame aspettano. [p. 126 modifica]

Onofrio. Che aspettino. Quando avremo bevuto la cioccolata, anderemo.

Rosaura. Vi prego, accomodatevi39. (a Beatrice, perchè prenda la cioccolata)

Beatrice. Potreste intanto prendere il ventaglio, e prepararvi per montare in carrozza. (a Rosaura)

Rosaura. Ho tempo d’accomodarmi la testa?

Beatrice. Eh, che siete accomodata abbastanza.

Rosaura. Servitevi della cioccolata; vengo subito. Ehi.? (chiama Brighella viene)

Rosaura40. Alza quella portiera, (a Brighella, e passa nell’altra camera)

Brighella. (Se i la vedesse a Castellamar, i creperia da rider). (da sè, parte)

SCENA X.

Il conte Onofrio, la contessa Beatrice e il conte Lelio.

Onofrio. Sediamo, la cioccolata si raffredda. (siede, e prende una chicchera di cioccolata col biscottino)

Arlecchino41. Per quella panza non volir cioccolata, ma polenta.

Beatrice. Moretto, è buona questa cioccolata? (ne prende una chicchera)

Arlecchino. Star bona, perchè star color de moretta. (porta la cioccolata a Lelio)

Lelio. Non ne voglio. L’ho presa.

Beatrice. Bevetela, che è buona. (a Lelio)

Lelio. No, no, mi mette troppo calore.

Arlecchino42. Bever, bever, che ti star povera giazzada43. (a Lelio)

Lelio. Se non portassi rispetto alla tua padrona, ti bastonerei. [p. 127 modifica]

Onofrio. Ehi? (Ad Arlecchino; mette la chicchera vuota e ne prende un’altra piena, col biscottino.)

Arlecchino. Star cavalier de bona fama.

Beatrice. Prendi. (mette giù la sua chicchera)

Arlecchino. Voler quest’altra? (a Beatrice)

Beatrice. Non voglio altro; bevila tu.

Arlecchino. A mi no piasèr; piasèr maccarugna.

Onofrio. Ehi? (Mette giù la chicchera vuota, e prende la terza piena, col biscottino, e beve.)

Arlecchino. Evviva scrocca!

Lelio. (Quel conte Onofrio è veramente sordido). (da sè)

Beatrice. (Mio marito non si contenta mai). (da sè)

SCENA XI 44.

Donna Rosaura e Don Florindo, poi Brighella e detti.

Rosaura. Signora Contessa, mio marito vuol aver l’onore di rassegnarle la sua servitù.

Florindo. Rendo infinite grazie alla signora Contessa per la bontà con cui si degna favorire mia moglie, e la prego ricevere me pure nel numero dei suoi servitori.

Beatrice. Signora donna Rosaura, avete un bel giovinotto per marito.

Florindo. E questo signore chi è? (a Lelio, accennando il conte Onofrio)

Lelio. È il signor conte Onofrio, consorte della contessa Beatrice.

Florindo. Permetta che con lei pure... (ad Onofrio)

Onofrio. Schiavo, schiavo, senza cerimonie. (voltandogli le spalle)

Florindo. (Questo trattamento non mi finisce). (da sè)

Onofrio. Signora Rosaura, avete della cioccolata molto buona.

Rosaura. Ne ho portata un poca per me; se comandate, la spartiremo.

Onofrio. Mi farete piacere, vi sarò obbligato. [p. 128 modifica]

Rosaura. Ehi? (chiama)

Brighella45. Lustrissima.

Rosaura. Senti, porta subito subito venti libbre di cioccolata a casa della contessa Beatrice. (piano a Brighella)

Brighella. Subito la servo. (parte)

Beatrice. Oh via, andiamo. Conte Onofrio, date mano alla signora donna Rosaura.

Onofrio. Volentieri, son qui, la mia ragazza46. (a Rosaura)

Rosaura. Fiorindo, servite la signora Contessa.

Beatrice. Eh no, non v’incomodate. Conte Lelio, favorite. (chiama Lelio)

Lelio. Ma se si esibisce l’amico Florindo...

Beatrice. Andiamo, andiamo. (prende Lelio per la mano)

Rosaura. Mio marito verrà in carrozza con noi? (a Beatrice)

Beatrice. In carrozza non vi si sta che in quattro. Verrà a piedi.

Rosaura. Basta... abbiamo anche noi la nostra carrozza.

Beatrice. Dunque verrà colla vostra. (parte con Lelio)

Rosaura. Florindo, abbiate pazienza.

Onofrio. Ehi? Avete buon cuoco? (a Florindo)

Florindo. Sì signore, buono.

Onofrio. Lo proveremo. (parte con Rosaura)

SCENA XII47).

Don Florindo solo.

Ed io ho da andare a piedi, o solo nella mia carrozza a vettura? E il signor conte Onofrio mi usa questa bella creanza? E la signora contessa Beatrice, che vuol trattar mia moglie, fa di me questa stima? E quel che è peggio, mia moglie lo comporta? Ma io sono stato una bestia. Me l’ha detto il signor Pantalone, me l’ha detto. Rosaura ha pagate le cento doppie, e queste serviranno a comprarci mille dispiaceri, mille torti, mille affronti. Tra i mercanti, io era distinto. Qui, tra i cavalieri, non [p. 129 modifica] sono considerato. Mai più faccio una simile bestialità. Dalla contessa Beatrice non ci voglio andare, e quando torna mia moglie a casa, faccio i bauli, e subito prendo le poste, e la riconduco a Castellamare. (parte)

SCENA XIII48.

Appartamento in casa della contessa Beatrice.

La contessa Eleonora, la contessa Clarice ed il conte Ottavio.

Eleonora. Per assoluto49, voglio andar via.

Ottavio. Ma perchè, signora contessa Eleonora, v’impazientite voi tanto?

Eleonora. La contessa Beatrice non sa il trattare. Ci manda l’ambasciata, perchè venghiamo da lei a sedici ore, e sono oramai diciassette.

Ottavio. Vi ha pur fatto dire da suo marito, che abbiate la bontà di trattenervi, se ella tardasse alcun poco a venir a casa.

Clarice. Queste ambasciate si fanno fare alle serve, non alle dame che sono al par di lei50, e qualche cosa più di lei. Si vede bene che i vizi di suo marito le hanno fatto non solo consumare l’entrate, ma perdere ancora la civiltà.

Ottavio. Anche voi vi riscaldate, contessina Clarice?

Clarice. Mi riscaldo con ragione; e se non avessi licenziato la mia carrozza, me ne anderei assolutamente.

Eleonora. Venite nella mia, andiamo. Già io sto poco di qua lontano. Vi contenterete che smonti al mio palazzo, e vi farete servire a casa.

Clarice. No, no51, vi ringrazio. Aspetterò ancora un poco.

Ottavio. Sentite una carrozza; sarà quella della contessa Beatrice.

Clarice. Sarà la mia, sarà la mia.

Ottavio. Or ora ve lo saprò dire. (parte per assicurarsene, e poi torna)

Eleonora. Per che causa mai ci ha fatto venir qui stamattina? [p. 130 modifica]

Clarice. Non lo so nemmen io. Ma suo marito, che è stato a invitarmi, mi ha fatto una gran premura.

Eleonora. È stato il conte Onofrio a invitarvi?

Clarice. Egli in persona.

Eleonora. Ed a me ha mandato il bracciere: non so perchè abbia a usar questa differenza.

Clarice. Ha voluto far a me questa finezza.

Eleonora. Dunque voi restate, ed io partirò, (in atto di andarsene)

Ottavio52. Per dove, signora Contessa? (incontrandola)

Eleonora. Dove mi pare e piace.

Ottavio. Così risoluta?

Eleonora. Risolutissima, e voi che mi avete accompagnata qui, riaccompagnatemi sino a casa.

Clarice. Brava! ed io resterò sola, come una pazza.

Ottavio. Io non posso dividermi in due.

Clarice. Ebbene53, di chi era la carrozza? (ad Ottavio)

Ottavio. Non era nè la vostra, nè quella della contessa Beatrice.

Clarice. Dunque di chi?

Ottavio. Era della contessa Flaminia.

Eleonora. E per qual ragione non è smontata?

Clarice54. Sarà stata invitata come noi; non ha trovato la dama in casa e se ne sarà andata.

Eleonora. Ha fatto benissimo, andiamo anche noi.

Ottavio. Eppure non è partita per questo.

Clarice. Dunque perchè?

Ottavio. Mentre voleva smontare, ha veduto venir la carrozza della marchesa Ortensia, e per non essere obbligata a salutarla, ha ordinato al suo cocchiere tirar di lungo.

Eleonora. Se s’incontravano, a chi toccava di loro a salutare l’altra?

Clarice. Toccava alla Marchesa, perchè la Contessa era ferma, ed ella andava.

Eleonora. Ma la marchesa Ortensia è qualche cosa di più della contessa Flaminia. Siamo cugine di sangue. [p. 131 modifica]

Clarice. Circa al sangue, la contessa Flaminia non è punto inferiore; è imparentata anche colla mia casa.

Ottavio. Sentite un’altra carrozza.

Clarice. Sarà la mia, sarà la mia.

Ottavio. Ne domanderò ai servitori. (parte)

Eleonora. Se viene la contessa Flaminia, vado via subito.

Clarice. Non siete amiche?

Eleonora. Non sapete che cosa mi ha fatto?55 L’altro giorno, che eravamo alle nozze della baronessa Lucrezia, mi passò dinanzi due volte senza nemmeno salutarmi.

Clarice. Ma per che causa?

Eleonora. Ha collera56 con me, perchè nell’ultimo festino che abbiamo fatto al casino, io ho ballato dodici minuetti, ed ella solamente otto.

Clarice. Oh, in quanto a quella pazza, si disgusta con tutte. Una volta è stata un mese senza guardarmi in viso, perchè nel giorno che ella si è messo57 un abito nuovo, io ne ho rinnovato58 uno più bello del suo. Ecco la contessa Beatrice.

Eleonora. Eccola, eccola la contessa senza creanza.

Clarice. Non ne ha mai avuta, e non ne avrà mai.

SCENA XIV59.

La contessa Beatrice servita dal conte Lelio, Rosaura dal conte Onofrio, il conte Ottavio e dette.

Beatrice. Vi domando scusa, se vi ho fatto aspettare. (ad Eleonora ed a Clarice.)

Eleonora. Niente, Contessina mia, niente. (a Beatrice)

Beatrice. In verità, aveva del rammarico per causa vostra. (come sopra)

Clarice. Voi siete piena di gentilezza; abbiamo aspettato pochissimo. (a Beatrice) [p. 132 modifica]

Eleonora. Chi è questa dama? (a Beatrice, accennando Rosaura)

Rosaura. Una vostra umilissima serva. (inchinandosi ad Eleonora)

Beatrice. Appunto io desiderava di farla conoscere a voi due, che siete le più compite dame della nostra conversazione. (ad Eleonora ed a Clarice)

Eleonora. Per parte mia vi sono molto tenuta, dandomi questo vantaggio.

Clarice. Io pure mi chiamerò fortunata per questo felice incontro.

Beatrice. Sediamo, se vi contentate. Chi è di là? Da sedere. (i servitori portano le sedie)

Rosaura60. (Io non so qual abbia ad essere il mio posto). (da sè)

Eleonora. Contessa Beatrice, fatemi il piacere, ponete a sedere quella dama vicino a noi.

Clarice. Ecco il suo posto. In mezzo.

Beatrice. Signora donna Rosaura, compiacete quelle due dame.

Rosaura. Per obbedirle, anderò. (s’incammina, poi siede in mezzo alle due dame suddette)

Eleonora. (Avete sentito? Le ha detto: signora donna Rosaura; non è titolata). (a Clarice, piano)

Clarice. (Non importa, basta che sia nobile). (ad Eleonora, piano)

Beatrice. (Dimmi, è stata portata certa cioccolata?) (ad un servitore, piano)

Servitore. (Illustrissima sì).

Beatrice. (Presto, corri a farne tre chicchere).

Servitore. (Subito! Già l’acqua è calda). (parte)

Beatrice. Conte Ottavio, accomodatevi lì, presso la contessa Clarice.

Ottavio. Obbedisco. (vuol sedere presso Clarice)

Eleonora. Si obbediscono volentieri questi dolci comandi. (con ironia, ad Ottavio)

Ottavio. I comandi della contessa Beatrice sono da me in ogni tempo stimati.

Eleonora. Ma specialmente adesso che vi fanno sedere vicino a una bella dama. (accennando Clarice) [p. 133 modifica]

Clarice. Ah, ah; ora vi ho inteso. Conte Ottavio, questo non è il luogo vostro.

Ottavio. Ma qual è il mio luogo?

Clarice. Cercatelo; questo assolutamente non è.

Ottavio. Io non credeva di meritarmi di essere discacciato, (si alza) e parte di la) Sarà più discreta a soffrirmi la contessa Eleonora. (va a sedere presso Eleonora)

Eleonora. Io non servo per ripiego a nessuno. (si alza e gli Volta la schiena)

Ottavio. Fermatevi.

Eleonora. Andate dove siete stato sinora.

Ottavio. Signora contessa Beatrice, in casa vostra decidete voi.

Beatrice. In casa mia non comando, quando vi sono delle dame alle quali, per debito e per rispetto, devo cedere tutta l’autorità.

Ottavio. Sicchè dunque me ne posso andare.

Onofrio. (Conte Ottavio, sentite una parola. Frattanto che queste pazze puntigliose taroccano fra di loro, volete venire con me in cucina a mangiar quattro polpette?) (ad Ottavio, piano)

Ottavio. (Vi ringrazio, per ora non ho appetito). (ad Onofrio)

Eleonora. Conte Lelio, venite qui.

Lelio. Dove comanda la contessa Beatrice.

Beatrice. Sì, sì, sedete presso di lei, ch’io sederò qui vicino a voi.

Ottavio. Posso aver l’onore di sedervi appresso? (a Beatrice)

Beatrice. Siete padrone, se queste dame non s’oppongono.

Eleonora. Oh, siete pur buona! Accettarlo voi, quando lo hanno rifiutato le altre!

Beatrice. Dice il proverbio, che i bocconi rifiutati sono i migliori.

Eleonora. Sì, sì, tanto più che è un boccone grosso.

Ottavio. E voi siete un bocconcino... (verso Eleonora)

Eleonora. Via, tacete. (ad Ottavio, con imperio)

Ottavio. Ma se due dame...

Clarice. Basta così, non dite altro. (col medesimo tuono)

Ottavio. Contessa Beatrice...

Beatrice. Via, quando lo dicono, tacete. [p. 134 modifica]

Ottavio. (Ecco qui, le donne sono tutte puntigli, e noi abbiamo da soffrire senza parlare). (da sè)

Onofrio. Io sederò presso di voi, se vi contentate. (a Clarice)

Clarice. Mi fate onore.

Eleonora. Contessa Beatrice, favorite dirci chi è questa dama?61

Beatrice. È una signora di Castellamare.

Eleonora. (Guardando Clarice) Ehi, di Castellamare!

Clarice. (Guardando Eleonora) Castellana!

Lelio. (Principiano ad arruffare il naso). (piano a Beatrice)

Ottavio. (Contessa, siete in un brutto impegno), (piano a Beatrice)

Beatrice. La nostra signora donna Rosaura è piena di merito. Oltre le ricchezze non ordinarie della sua casa, possiede poi molto spirito e molta virtù.

Eleonora. È ricca? Me ne rallegro. (deridendola)

Clarice. È virtuosa? Brava. (fa lo stesso)

Rosaura. Io non son nè ricca, nè virtuosa; ma quello di cui mi pregio, è di esser vostra umilissima serva.

Eleonora. Obbligatissima, ah, ah, ah62. (ride, guardando Clarice)

Clarice. La ringrazio, ah, ah, ah63. (ride, guardando Eleonora)

Rosaura. (Come! mi deridono? E la contessa Beatrice non parla?)

Lelio. (Prevedo che voglia nascere qualche brutta64 scena). (piano a Beatrice)

Ottavio. (Le avete scelte dal mazzo queste due signore). (piano alla detta)
(Servitori con tre cioccolate)

Beatrice65. Ecco la cioccolata per chi non l’ha bevuta. Noi l’abbiamo presa.
(i servitori la portano ad Eleonora)

Eleonora. Non ne voglio.
(i servitori la presentano a Clarice)

Clarice. L’ho bevuta.

Onofrio. Non la volete? La beverò io. (ne prende una chicchera66)
(Servitore va da Ottavio.) [p. 135 modifica]

Ottavio. Obbligato. L’ho presa.

Beatrice. Questa signora ha molta stima per le dame palermitane, ed è venuta apposta a Palermo per conoscerne alcuna delle67 più cortesi, e poter poi rappresentare al di lei paese con quanta urbanità e pulitezza si trattino da noi le persone di merito come lei.

Rosaura. La signora contessa Beatrice mi fa troppo onore.

Lelio. Infatti presso le persone del secondo ordine passa la nostra nobiltà per austera e troppo sostenuta; non è mal fatto disingannare chi pensa malamente di noi, e dobbiamo ringraziare la signora donna Rosaura, che ci abbia offerta l’occasione di far conoscere al mondo, che sappiamo distinguere il merito in ogni rango e in ogni carattere.

Rosaura. Sentimenti propri d’un cavalier generoso.

Ottavio. Mi pare che il signor don Florindo abbia tralasciato di negoziare. (a Rosaura)

Rosaura. Sì signore. Sono più di tre mesi.

Onofrio. E poi una bella donna si ammette per tutto.

Clarice. Quel giovine, guardate se è venuta la mia carrozza. (ad un servitore, e s’alza)

Eleonora. Contessa, è tardi, bisogna ch’io vada. (a Beatrice, e tutti s’alzano)

Rosaura. (Ho inteso. Queste dame non mi vogliono; ma la contessa Beatrice me ne renderà conto). (da sè)

Beatrice. (Va vicino a Clarice e le parla piano) (Cara amica, vi prego, fatemi questa finezza, dissimulate qualche poco. Soffrite per amor mio. Se sapeste in qual impegno mi trovo68, mi compatireste).

Clarice. (Vi pare una cosa ben fatta? Mettermi a sedere vicino ad una69 mercantessa?) (a Beatrice, piano)

Lelio. (Cara signora Contessa, non fate questo dispiacere alla contessa Beatrice, non le fate un affronto di questa sorta). (ad Eleonora, piano) [p. 136 modifica]

Eleonora. (L’affronto l’ha fatto a me, invitandomi a questa bella conversazione). (a Lelio, piano)

Beatrice. (E una giovane propria e civile, mi è stata raccomandata da un ministro70 della Corte. Ella ha dell’altissime protezioni. Credetemi che questa cosa vuol esser la mia rovina. (a Clarice, piano)

Clarice. (Se fossi sola, non m’importerebbe, ma ho riguardo per la contessa Eleonora. La conoscete; sapete chi è. Una ciarliera che lo direbbe per tutto. Fate ch’ella se ne vada, e vedrete se le farò delle cortesie). (piano a Beatrice)

Lelio. (Finalmente non è una plebea: è una signora ricca, onesta e civile; possibile che abbiate cuore di mortificarla così?) (piano a Eleonora)

Eleonora. (A casa mia, o a casa sua, non avrei difficoltà di trattarla; ma qui, dove vi sono due altre dame, guardimi il cielo). (piano a Lelio)

Servitore71. Illustrissima, la carrozza non è venuta. (a Clarice)

Clarice. Grand’asino quel cocchiere! Non la finisce mai. Contessa Eleonora, se volete andare, non restate per me, ch’io aspetterò la carrozza.

Eleonora. Dunque anderò io. Amica, compatitemi, non posso più trattenermi. (a Beatrice) Signora Rosaura, vi riverisco, (sostenuta)

Rosaura. Serva sua. (mortificata)

Eleonora. (Povera ragazza, mi fa compassione). (a Lelio, piano)

Lelio. (Volete che andiamo a casa sua a consolarla?)

Eleonora. (Se credessi che non si sapesse, lo farei volentieri).

Lelio. (Oggi ci parleremo). (ad Eleonora)

Eleonora. Conte Ottavio, andiamo. (gli dà la mano)

Ottavio. Sono a’ vostri comandi. Vedete, se anche voi vi degnate del boccon rifiutato? (ad Eleonora, dandole mano)

Eleonora. Signor no, non mi degno. Non ho bisogno di voi. (parte, scacciando da se Ottavio)

Ottavio. Che72 maledetti puntigli! Non si sa come vivere, non si [p. 137 modifica] sa nemmeno come parlare. Tutto prendono in mala parte, tutto le mette in ardenza. Pur troppo è vero: i puntigli delle donne fanno impazzire i poveri uomini. (parte)

SCENA XV.

La contessa Beatrice, la contessa Clarice, Donna Rosaura, il conte Onofrio e il conte Lelio.

Rosaura. La carrozza della signora contessa Clarice non è ancor venuta, onde per non farla maggiormente arrossire colla mia conversazione, anderò via, se mi date licenza. (a Beatrice)

Clarice. Oh cara donna Rosaura, che dite? Voi avete preso in sinistra parte le mie parole. Godo infinitamente della vostra conversazione, e mi rincresce che l’ora è tarda; che per altro vi pregherei lasciarvi servire nella mia carrozza, e vi condurrei per Palermo senza alcuna difficoltà73. (Il dirlo non mi costa niente). (da sè)

Rosaura. Mi sorprende questa vostra inaspettata dichiarazione, la quale non corrisponde certamente al trattamento che ho ricevuto sinora da voi e dalla contessa Eleonora.

Clarice. Oh, in quanto a quella pazza di Eleonora, non occorre abbadarvi. Ella è sempre così. Anzi mi sarò burlata delle sue caricature, e voi avrete creduto che io ridessi di voi. Me ne dispiace infinitamente.

Lelio. (Che74 femmine accorte! che femmine maliziose!) (da sè)

Clarice. Che dite, amica, vi do piacere? (piano a Beatrice)

Beatrice. (Vi sarò eternamente obbligata)75. Posso assicurarvi, signora donna Rosaura, che la contessa Clarice è piena di buon cuore, e non è nè superba, nè puntigliosa.

Clarice. Guardimi il cielo! Voglio bene a tutti. Tratto bene con tutti e non fo male creanze a nessuno. Anzi, per farvi vedere che fo stima di voi, oggi verrò a visitarvi. (a Rosaura)

Rosaura. Sarò infinitamente obbligata alle vostre finezze. [p. 138 modifica]

Beatrice. (Cara amica, quanto vi sono tenuta). (piano a Clarice)

Clarice. (Lo fo unicamente per voi). (piano a Beatrice)

Onofrio. Ditemi, fate mai venir del salvaggiume dal vostro paese76? (a Rosaura)

Rosaura. Sì signore, spessissimo. Anzi ieri sera mi hanno mandato delle starne77.

Onofrio. Oh buone!

Rosaura. Due fagiani78.

Onofrio. Oh cari!

Rosaura. E due cotorni79.

Onofrio. Oh vita mia!

Rosaura. Se volete venir questa sera a favorirmi, li mangeremo insieme.

Onofrio. Sì, vengo, vengo. Quando si tratta di salvaggiume, non mi fo pregare.

Rosaura. Se queste dame si degnassero, lo riceverei per onore 80.

Beatrice. Non ricuserei le vostre grazie, ma non so se la contessa Clarice vorrà venire all’albergo.

Clarice. Cara contessa Beatrice, queste cose non si dicono nemmeno.

Onofrio. Facciamo una cosa. Mandate qui, e si cenerà qui da noi. (a Rosaura)

Rosaura. Questo sarà per voi troppo incomodo.

Onofrio. Niente affatto. Staremo meglio, e con libertà.

Rosaura. E la signora contessa Clarice ci sarà?

Beatrice. In casa mia spererei non dicesse di no.

Clarice. Quando non vi sia soggezione, verrò volentieri.

Onofrio. A tavola non ha da venir altri: siamo anche troppi.

Servitore81. Illustrissima, è qui la sua carrozza. (a Clarice)

Clarice. Contessa, a rivederci. (a Beatrice)

Beatrice. Ricordatevi che vi aspettiamo.

Clarice. Verrò senz’altro. [p. 139 modifica]

Rosaura. Spero di godere anticipatamente le vostre grazie. (a Clarice)

Clarice. Oggi sarò da voi. (Vi anderò presto, in ora che probabilmente non sarò veduta da alcuna dama). (parte)

SCENA XVI.

La contessa Beatrice, Donna Rosaura, il conte Lelio ed il conte Onofrio.

Lelio. Questa sera, se la signora Beatrice l’accorda, si potrebbe anche fare una piccola festa di ballo82.

Beatrice. Perchè no? Che dite, signora donna Rosaura?

Rosaura. Io mi rimetto.

Onofrio. (Amico, la cera costa cara). (piano a Lelio)

Lelio. (La signora Rosaura ne ha portate due casse).

Onofrio. Bene, via, faremo la festa di ballo.

Lelio. Signora Contessa, potete per il ballo invitare qualche altra dama. (a Beatrice)

Onofrio. Per il ballo sì; ma per la cena no.

Beatrice. Non vorrei mi nascesse qualche altro sconcerto.

Lelio. In casa vostra potete far ballare chi volete.

Beatrice. Per la mia cara Rosaura farò di tutto.

Rosaura. Vi sono molto obbligata. Permettetemi ch’io torni a casa. Mio marito non si è veduto, e mi aspetterà.

Onofrio. Son qui, vi servirò io.

Rosaura. Riceverò le grazie del signor conte Onofrio. A rivederci questa sera. (a Beatrice)

Onofrio. Ehi? Non mi aspettate a pranzo, che non vengo. (a Beatrice)

Beatrice. E dove andate?

Onofrio. Resto con la signora donna Rosaura.

Rosaura. Ma non so se questa mattina vi sarà salvaggiume.

Onofrio. Non importa. So che avete un bravo cuoco. Ci sarà qualche buona zuppa. (parte con Rosaura) [p. 140 modifica]

SCENA XVII.

La contessa Beatrice ed il conte Lelio.

Beatrice. E voi, conte Lelio, potete restare a pranzo con me.

Lelio. Riceverò le vostre grazie.

Beatrice. Non vi sarà la tavola della signora Rosaura.

Lelio. Vi sarete voi, e tanto basta.

Beatrice. Che ne dite di queste due dame?

Lelio. Dico che vi è più fumo che arrosto.

Beatrice. Io sono nell’impegno; voglio spuntarla.

Lelio. Se non altro, in grazia della scommessa di cento doppie.

Beatrice. Ecco qui, subito un rimprovero delle cento doppie.

Lelio. Siamo tra noi.

Beatrice. Siete incivile. Non si mortificano le dame così.

Lelio. Ma se nessuno ci sente.

Beatrice. Vi sento io, e tanto basta.

Lelio. Via, compatitemi. Andiamo a pranzo.

Beatrice. Andate al diavolo. Io non pranzo con gente che non sa trattar colle dame. (parte)

Lelio. Ecco che cosa si avanza colle83 donne. Sempre puntigli, sempre puntigli! Per buone, per umili, per discrete84 che sieno, sono puntigliosissime85.

Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. L’ed. Bettinelli ha soltanto: Camera di Rosaura.
  2. Bett.: della nostra medesima.
  3. Le antiche edd. così stampano: Castell’a Mare. - Ed. Bett.: Per essere distinta fra le mie eguali in Livorno.
  4. Mancano queste parole nell’ed. Bett.
  5. V. nota preced.
  6. C. s.
  7. C. s.
  8. Così segue e si chiude la scena nell’ed. Bettin.: «Ros. Il Conte Lelio maneggia l’affare. Io gliele ho accordate, e son certa che voi non mi farete in ciò scomparire. Flor. Per quel ch’io vedo, qui si vende la protezione, come da noi il panno e la seta. Ros. Ci siamo, bisogna starci».
  9. Bett.: No me ghe posso.
  10. Bett.: medemo.
  11. Mancano nell’ed. Bettin. queste parole.
  12. V. nota prec.
  13. Suo zio.
  14. Bett.: dell’Europa. Manca poi nell’ed. Bett. il resto di questa scena, fino alle parole di Florindo: Quanto prima tornerò ecc.
  15. Quando il.
  16. Nipote.
  17. Bett., Paper, ecc.: Ma poi s’anderà in qualche.
  18. Bett.: cittae
  19. Bett.: bezzi.
  20. Bett.: a ricever.
  21. Qui comincia nell’ed. Bett. la sc. V.
  22. Segue nell’ed. Bett.: Trattandosi poi da mercante a mercante, noialtri Livornesi siamo qualche cosa più dei Fiorentini. Noi siamo in una città ch’è porto di mare; noi siamo i primi a preoccupare le merci, e noi provvediamo tutti questi mercantucci della Toscana.
  23. Qui comincia nell’ed. Bett. la sc. VI.
  24. Segue nell’ed. Bett.: «Ros. Sta attento, che non esca di casa. Brig. Lustrissima sì. Lel. Sei lombardo? ecc.»
  25. Manca, ciò che qui segue, nell’ed. Bett., fino alle parole di Rosaura: E qual è la scommessa ecc.
  26. Segue nell’ed. Bett.: Amatemi onestamente, ma concedetemi qualche cosa.
  27. Goldoni descrive questo gioco nella Donna di garbo, A. II, sc. 2: v. vol. I, p. 458.
  28. Qui comincia nell’ed. Bett. la sc. VII.
  29. Nell’ed. Bett. è sc. VIII.
  30. Bett.: che mi accompagni.
  31. Nell’ed. Bett. è sc. IX.
  32. Nell’ed. Bett. manca il dialogo che qui segue, fino alle parole di Arlecchino: L’illustrissimo signor Conte Onofrio ecc.
  33. Ed. Paper.: Oh cara! Quanto.
  34. Pap.: È maledetto
  35. Nell’ed. Bett. è sc. X.
  36. Bett., Pap. ecc.: coll’autorevole vostra.
  37. Nell’ed. Bett. è sc. XI.
  38. Bett. ha invece: Lacchè con una guantiera, che porta quattro cioccolate e pani di Spagna.
  39. Nell’ed. Bett. manca ciò che qui segue, fino alle parole di Rosaura: Servitevi della cioccolata ecc.
  40. Qui comincia nell’ed. Bett. la sc. XII.
  41. Manca nell’ed. Bett., fino alle parole di Lelio: Non ne voglio ecc.
  42. Manca in Bett., fino alle parole: «Onof. Ehi. ripone la vuota e ne prende un’altra. Beat. Prendi, mette giù la tazza. Onof. Ehi. come sopra. Lel. (Quel conte Onofrio ecc.)»
  43. Povero agghiacciato, cioè miserabile. [nota originale]
  44. Nell’ed. Bett. è sc. XIII.
  45. Qui comincia nell’ed. Bett. la sc. XIV.
  46. Bett.: ragazzotta.
  47. Questa sc. è unita con la precedente nell’ed. Bett.
  48. Nell’ed. Bett. è sc. XV.
  49. Bett. assolutamente.
  50. Bett.: quanto lei.
  51. Bett., Pap. ecc.: (Vuol esser servita prima lei?) No, no ecc.
  52. Qui comincia nell’ed. Bett. la sc. XVI.
  53. Bett.: E così.
  54. Manca nell’ed. Bett., fino alle parole di Ottavio: Mentre voleva ecc.
  55. Segue nelle edd. Bett., Paper, ecc.; «Clar. Non lo so, da dama d’onore. Eleon. L’altro giorno ecc.»
  56. Bett., Paper, ecc.: Ve lo dirò io il perchè. Ha collera.
  57. Bett.: che lei ha sfoggiato.
  58. Bett.: vestito.
  59. Nell’ed. Bett. è sc. XVII.
  60. Qui comincia nell’ed. Bett. la sc. XVIII.
  61. Segue nell’ed. Bett.: «Beat. È una signora Livornese. Eleo. Livornese! Clar. È Livornese! Ros. Son nata e maritata in Livorno, ma sono originaria di Lucca. Eleo. Di Lucca, sì sì, di Lucca. Clar. Mezza Lucchese e mezza Livornese. Buono, buono. Lelio. (Principiano ad arricciare il naso).
  62. Bett.: oh, oh, oh.
  63. Bett.: ih, ih, ih.
  64. Bett.: brava.
  65. Qui comincia nell’ed. Bett. la sc. XIX.
  66. Bett. ha invece: (servitore va da Onofrio, che una dopo l’altra le beve tutte tre.)
  67. Bett.: delle più nobili e delle.
  68. Bett.: ch’io sono.
  69. Bett.: appresso una.
  70. Bett.: da un gran personaggio.
  71. Qui comincia nell’ediz. Bett. la sc. XX.
  72. Bett.: Gran.
  73. Bett.: senza una difficoltà immaginabile.
  74. Bett.: Gran.
  75. Nell’ed. Bett. segue qui Clarice: Per farvi vedere che ho qualche stima di voi ecc.
  76. Bett.: del pesce da Livorno?
  77. Bett.: una palamida.
  78. Bett.: Quattro lucerne di due libbre l’una.
  79. Bett.: E due pancette di tonno.
  80. Segue nell’ed. Bett.: «Onof. Facciamo una cosa ecc.».
  81. Qui comincia nell’ed. Bett. la sc. XXI, ultima del I Atto.
  82. Segue nell’ed. Bett.: «Beatr. Non vorrei mi nascesse qualche altro ecc.».
  83. Bett.: a interessarsi colle.
  84. Bett.: ordinarie.
  85. Bett.: Tutte e poi tutte le donne sono puntigliose. Basta dire che anco la cameriera di casa mia si e licenziata, per averle detto che ha il naso grosso; e Pap.: per discrete che sieno, tutte e poi tutte le donne sono puntigliosissime.