Ricordi storici e pittorici d'Italia/Subiaco, Monastero il più antico dei Benedettini in Occidente

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Subiaco, Monastero il più antico dei Benedettini in Occidente
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SUBIACO

MONASTERO IL PIÙ ANTICO DEI BENEDETTINI

IN OCCIDENTE

1858.

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I.

Alla distanza di quarantaquattro miglia da Roma, ed in una delle più belle valli della campagna romana bagnata dalle acque sempre fredde dell’Anio giace la rinomata abbazia dei Benedettini di Subiaco. Gli Apennini stendono ivi una catena di alture, i monti Simbrivini, i quali dividono gli stati della chiesa del reame di Napoli, i confini del quale sono formati in quel punto dall’antico territorio dei paesi Marsi, oggi Marsica, distretto degli Abruzzi. L’Anio scaturisce al confine di questi, e scendendo impetuoso forma una lunga valle per lo più ristretta, i cui monti coltivati ad olivi, ed ombreggiati da castagni, si stendono fino a Tivoli. In cima a quei monti, lungo il corso del fiume sorgono brune castella del medio evo romano. Filettino, Trevi, Jenna, Subiaco, Agosta, Cerbara, Marano, Anticoli, Roviano, Cantalupo, Saracinesca, Vicovaro, San Polo, Castelmadama, e Tivoli. Fanno parte i più del territorio dell’antica abbazia, e furono teatro della storia, poco conosciuta ancora, del Lazio romano nel medio evo, e furono anzitutto la culla del monachismo in Occidente.

Dai monti sterili di quel remitaggio severo, trassero origine tutti i monasteri ed i conventi, i quali, poco per volta quasi altrettante colonie, allargarono la giurisdizione di Roma sull’Italia, sulla Sicilia, sulla Germania, sulla Francia, non che sulla lontana Inghilterra. Dessi mantennero quelle regioni in comunicazione con Roma, e durante secoli tenebrosi di barbarie, ebbero il merito [p. 258 modifica]che loro non si potrà mai denegare, di avere gettato alcuni semi di civiltà, di avere mantenuta in vita la scienza classica degli antichi, copiando, ricercando, commentando al lume della notturna lampada, nelle loro mute celle; e finalmente di averci lasciato nelle cronache dei loro tempi tempestosi, nei documenti da essi raccolti, tesori preziosi, per lo studio e per la cognizione del medio evo. È fuori di dubbio che quegli uomini, i quali vivevano appartati da tutto il mondo, furono i padri delle scienze storiche; strano contrasto, il quale però cesserà di comparire tale, quando si voglia riflettere, che a que’ tempi, i conventi ed i monasteri, stavano in relazione continua con il mondo politico.

È mia intenzione delineare in queste pagine a larghi tratti, la storia di una di quelle meravigliose abbazie. Per importanza storica e scientifica, Montecassino superò di gran lunga Subiaco. Se non che, fu quella la figliuola primogenita di quest’ultima, sulle vicine sponde del Liri; faro scientifico durante tutto il medio evo, ed oggidì tuttora benemerita per i tesori de’ suoi archivi, non che per gli studi e per la dottrina de’ suoi monaci. Tuttavia la storia di Subiaco è di somma importanza, per la cognizione delle condizioni del territorio romano durante il medio evo, non che istruttiva da un tempo, quale tipo del feudalismo clericale. Difatti, mentre questo monastero si andò formando poco a poco uno stato feudale, non tardò a figurare nella campagna di Roma, quale principato possente, di cui l’abate era il re, ed i monaci i baroni, ed al quale prestavano omaggio ed obbedienza castella, città, nobili e popolani.

La fondazione della badia, risale ai tempi in cui la stirpe generosa dei Goti sotto Teodorico dominava Roma e l’Italia, ponendo durante un mezzo secolo per via di leggi miti e sapienti, argine alla totale rovina della civiltà romana. L’impero romano era però di già scomparso. Mentre si andava sfasciando l’antico ordinamento del mondo, che altre forme non conosceva all’infuori di quelle [p. 259 modifica]che lo avevano retto fino a quel punto; mentre si andavano spezzando tutti i vincoli civili e politici della società, si riprodusse fra gli uomini il fatto avveratosi di già in principio del secolo IV, della tendenza ad abbandonare il mondo, ad abbracciare la vita solitaria. Benedetto fondò il monachismo in Occidente, e fu con suo contemporaneo più giovane Papa Gregorio Magno, il secondo fondatore della gerarchia romana. Gregorio colla sua distinta intelligenza, riconobbe di quanto gli fosse debitore, descrivendo nel secondo libro de’ suoi dialoghi le gesta del suo compagno, il solitario di Subiaco, il quale tutto ad un tratto liberò l’Occidente dalla dominazione degli ordini bisantini, secondo la regola di S. Basilio, creò un ordine religioso nazionale romano, e spedì suoi allievi in tutte le regioni, per collegarle a Roma.

Benedetto, nato circa il 480 in Nursia della Valeria, venne in età di quattordici anni a Roma, per studiarvi le umanità, se non che colto tutto ad tratto da ardente brama di solitudine, si ritirò nelle fresche gole dei monti Simbrivini, e visse ivi in una grotta assorto ne’ suoi pensieri, ed in continue meditazioni. La località aveva nome Subiaco, ed era nota a Plinio quale villa preziosa di Nerone, che sbarrando l’Anio vi aveva formati tre laghi artificiali, nei quali pescava le trote con le reti di fila d’oro. Le trote vi sono tuttora, e saporite del pari che ai tempi di Nerone, ma i laghi scomparvero durante il medio evo.

All’epoca in cui il giovane solitario colà viveva, non esisteva ancora la città di Subiaco, sorgeva unicamente di già, sulle rovine dell’antica villa di Nerone, un monastero dedicato a S. Clemente, e un monaco di quello, per nome Romano, era quegli che portava il cibo al giovanetto nella sua grotta. Benedetto, finalmente, incoraggiato dalla pia sua sorella Scolastica, uscì come Maometto dalla sua caverna; la fama della sua santità si era di già allargata nei dintorni, e siccome parecchi Romani si erano venuti accostando al giovane anacoreta, questi prese a dettare la regola generale dell’ordine, e ripartì i suoi [p. 260 modifica]fratelli in dodici piccoli conventi, che prese a fondare. Stavano tutti in quella valle, regione selvaggia, ed in allora, secondo ogni probabilità, totalmente incolta. Nel contemplare quella cerchia di monti severi e silenziosi, i quali ora sorgono ripidi verso il cielo privi d’ogni vegetazione, ora rivestiti di foreste, nelle quali l’usignuolo fa sentire il suo canto armonioso, non si può a meno di apprezzare il senso delle bellezze naturali del giovane romito. Nessuna delle viste stupende di cui è cotanto ricca la campagna di Roma, distrae ivi da vita severa e contemplativa; tutto l’orizzonte è limitato, e circoscritto dai monti.

A settentrione sorgono due picchi colossali, e fra questi si precipita impetuoso l’Anio, rompendo tutti gli ostacoli che i sassi frappongono al suo corso, volgendo le sue acque argentee a traverso gole ombreggiate da annose piante, mentre il romore incessante e malinconico di quelle, invita al riposo, ed alla solitudine. Sorgevano in quella valle, appoggiati alle pareti dei monti i dodici conventi abitanti dai Romani seguaci di Benedetto, e la valle di Subiaco si sarebbe allora potuta paragonare ad una di quelle del deserto d’Egitto, dove Atanasio ed Antonio, avevano radunati attorno a sè le nomerose schiere dei monaci d’Oriente.

Intanto l’invidia di un prete, del vicino Vicovaro (Varias) cacciava da Subiaco i novelli patriarchi. Pelagio tentò un giorno di mandare all’aria quei conventi per mezzo di belle ragazze, che ebbe la malizia di introdurre nelle celle dei monaci. Benedetto abbandonò il luogo profanato, dove per tanti anni aveva predicato la sua dottrina, afflitto ed incerto dove si dovesse recare, portando seco tre giovani corvi che aveva addimesticati. Andò a Montecassino fondandovi, nell’anno 529, quel famoso monastero.

Erano però rimaste in Subiaco le sue istituzioni; e desso medesimo aveva chiamato e suo successore il fratello Onorato, insediandovelo nella qualità di abate. Se non che da quell’epoca la storia dei dodici monasteri diventa oscura, e pare che la guerra devastatrice dei Goti, abbia impedita la loro prosperità. Probabilmente l’abate Onorato fu [p. 261 modifica]quegli che edificò il monastero principale, che venne dedicato ai santi Cosimo e Damiano, tuttora oggidì esistente sotto il titolo di S. Scolastica, e secondo ogni probabilità l’ultimo che rimanga dei dodici primi monasteri. Imperocchè i Longobardi distrussero quelli fin dall’anno 601, ed i seguaci di S. Benedetto dispersi durarono fatica a salvarsi in Roma, dove il Papa loro assegnò a stanza il convento di S. Erasmo sul monte Colico. Nella storia della badia di Subiaco, il rinomato Papa Gregorio figura qual fondatore principale della sua giurisdizione temporale. I monaci ripetono specialmente da lui un diploma dell’anno 599 col quale vengono assegnati alla badia numerosi beni e privilegi, e si ritiene con fondamento, che quella pergamena sia stata la base di molti diritti, che i Benedettini di Subiaco furono abili a far valere. L’originale di questa donazione andò perduto, come pure avvenne del famoso diploma del monastero di Montecassino, e solo se ne conserva una copia del 1654, detta autentica. Esistono pure altri documenti di ugual natura, donazioni di Gregorio IV, di Nicolò I, del re Ugo e del re Lotario dell’anno 941, i quali difficilmente si possono ritenere legittimi, imperocchè le falsificazioni di tanto erano venute in uso nel convento, che papa Leone IX nel 1051 consegnò di propria mano alle fiamme molti documenti.

L’abbazia di S. Benedetto rimase per il corso di cento quattro anni abbandonata, e deserta, finchè nel 705 Papa Giovanni VII vi chiamò novelli abitatori. Se non che i Saraceni la distrussero nell’anno 840 e non venne ricostrutta che circa la metà di quello stesso secolo, dall’abate Pietro I. Ma di bel nuovo nel 938 la distrussero gli Ungheresi, e non fu che nel 981 che Subiaco venne finalmente riedificato per l’ultima volta da Papa Benedetto VII, il quale nel dì 4 di dicembre consacrava la chiesa, sotto il titolo di S. Benedetto e di S. Scolastica. Da quell’epoca la badia non ebbe più a soffrire danni per mano di nemici, ed arricchita di donazioni effettive, e non contestate, cominciò grandemente a fiorire. [p. 262 modifica]

I cronisti vanno d’accordo nel far risalire al secolo Xl il potere feudale dell’abbazia, nel tempo appunto in cui il reggimento feudale si andava stabilendo ed allargando in tutti i paesi. L’importanza di Subiaco era diventata tale, che possenti baroni della campagna facevano donazione a S. Benedetto di castella, e di possessioni; e fra gli altri Rainaldo conte di Marsi donava Arsoli, Anticoli, e Roviano ai monaci, i quali riducevano altre castella alla loro giurisdizione. Se non chè era strano che non fossero riusciti a ridurre in loro podestà Subiaco stesso, dove avevano sede fin dai tempi più remoti, e dove erano venuti crescendo in possanza.

Nella corte del monastero di S. Scolastica, esiste una lapida infissa nel muro presso la porta della chiesa, in cui si può leggere una preziosa iscrizione del 1052, anno quarto del pontificato di Leone IX, dicente che il degno abate Uberto, fece costrurre il campanile del monastero, in onore di Cristo, di Benedetto suo confessore, e di Scolastica sorella di questi: in quella iscrizione sono annoverate tutte le possessioni della badia a quell’epoca, la grotta di S. Benedetto per la prima, i due laghi che in allora tuttora esistevano; il fiume Anio co’ suoi molini, e coi diritti di pesca; e per ultimo ventiquattro castelli, o villaggi nella valle dell’Anio, e fra questi Subiaco non figura. Sembra come narra uno storico dell’abbazia, che Subiaco sia venuto soltanto in podestà di questa dopo che l’abate Giovanni V vi ebbe fatta costrurre la rocca ed il castello nell’anno 1068. Questo castello, diventato palazzo abbaziale, sussiste tuttora oggidì, e sebbene mutato di aspetto, torreggia tuttora imponente ed ardito in cima al monte piramidale, sulle cui pendici giace la città odierna.

Pare che vero e reale fondatore del dominio temporale di Subiaco, sia stato Giovanni V cardinale diacono di S. Maria in Dominica a Roma, abate straordinariamente intraprendente e battagliero. Regnò per il corso di ben cinquantanove anni quale principe temporale, combattè guerre fortunate con tutti i baroni dei dintorni, e dopo di [p. 263 modifica]avere arricchito largamente il monastero, e raccomandata la sua memoria colla costruzione di una chiesa sopra la grotta di S. Benedetto (Sacrum Specus), mori in estrema vecchiezza nell’anno 1121.

Da quell’epoca gli abati benedettini comparvero addirittura quali principi guerrieri nella campagna romana, rispettati, e temuti al pari degli Orsini e dei Colonna, con i quali si trovano non di raro in lotta. I vassalli della badia, l’infelice popolo e gli abitanti dei castelli dei dintorni, sottostavano ad un dispotismo feudale tanto più duro, inquantochè era esercitato da monaci, gente estranea ed inaccessibile alle passioni, ai sentimenti civili, e spesso più tiranni ancora dei baroni secolari. Dessi medesimi, poi tuttochè si abbandonassero a vita sregolata, soggiacevano al dispotismo ferreo del monastero, e nei primi tempi particolarmente, alla podestà illimitata dell’abate che avevano eletto; e se ne procuravano compenso torturando, ed angariando i vassalli presso i quali risiedevano, coll’ufficio di collettori di tributi, di castellani, di amministratori dei beni del convento, di giudici con diritti di vita e di morte. Imperocchè l’abate spediva in ogni castello, in qualità di castellano, un monaco il quale vi amministrava la giustizia nella foggia barbara ed inumana del medio evo; e fin dal 1232, allo scopo di menomare la dura sorte dei vassalli, Papa Gregorio IX aveva ordinato che i monaci, ogni qual volta dovessero amministrare la giustizia, avessero ad aggiungersi un cittadino qual procuratore fiscale. Si dava a questi, secondo l’uso del tempo, il nome di buon uomo, e più tardi quello di castellano. Finalmente venne tolta ai monaci nei castelli la giurisdizione civile e criminale, e mentre ivi risiedevano quali amministratori di beni o collettori di imposte, o comandanti della fortezza, il castellano scelto dall’abate, amministrava indipendentemente da questi, sebbene a di lui nome la giustizia.

I sudditi dell’abbazia eran di tre classi; liberi, i quali non avevano dovere di prestare servigio militare al convento, perchè non possedevano beni tenuti a prestazione [p. 264 modifica]feudale verso di quello; militi, i quali nella loro qualità di vassalli erano vincolati a prestazione di servizio militare; finalmente servi della gleba. Tutti i vassalli della categoria di militi i quali abitavano in un castello, obbedivano ad un contestabile. Per tal guisa l’abate aveva di continuo un piccolo esercito a sua disposizione; più tardi prese pure ad assoldare bande, al pari di tutti gli altri baroni, e quando era uomo di guerra, portava desso stesso le sue truppe in campo a cavallo, colla spada in pugno. Le continue contestazioni con i vescovi vicini di Tivoli, di Preneste e di Anagni, le lotte con i baroni dei dintorni, davano frequentemente occasione ad imprese guerriere. Soventi volte nella tomba, a fianco dell’abate morto, si deponeva la spada.

Appartenevano questi, anche di quando in quando, alle famiglie distinte della campagna di Roma, e può citarsi fra gli altri l’abate battagliero Lando, nipote d’Innocenzo III, della cospicua famiglia dei conti di Segni, il quale morì nel 1244. Intanto nè il dispotismo ferreo degli abati, nè il rigore della regola dell’ordine, valevano ad impedire di quando in quando nel monastero i più gravi disordini. Le vicende del papato in Roma si riproducevano in iscala minore nella badia di Subiaco. I monaci parteggiavano nel modo il più scandaloso, e l’ambizione sfrenata di taluno, prendeva a dileggio tutte le costituzioni di Benedetto. Dopo la morte dell’abate avvenuta nel 1276, il monaco Pelasgio sorprese il monastero coi suoi partigiani, a mano armata, nell’intenzione d’impadronirsi del potere temporale; cacciò i monaci che gli opposero resistenza, e dopo di avere saccheggiato il monastero, si ritirò in Cervara, regione deserta e solitaria, superiormente a Subiaco, dove si mantenne armato per ben quattro anni, durante i quali il monastero rimase vuoto. Il Papa aveva pure nominato un nuovo abate, e lo aveva pure spedito con un piccolo esercito, ma non fu che dopo un formale assedio, che riuscì a questo di ridurre al dovere il monaco ribelle. [p. 265 modifica]

Le condizioni del monastero si andarono aggravando durante l’esilio dei Papi in Avignone; i monaci orgogliosi, disobbedienti, indisciplinati, scuoterono più di una volta il giogo dell’abate, in guisa che il monastero rimase per vari anni e ripetutamente senza capo, e quando poi il Papa mandava da Avignone un abate a Subiaco, questi col suo dispotismo senza freno, riduceva vassalli e monaci alla disperazione. Si sa di Bartolomeo di Montecassino, eletto abate in Avignone nel 1318, che viveva la vita la più dissoluta, essendosi formato un vero harem di belle ragazze nel suo palazzo, mentre i monaci alla loro volta si abbandonavano a tutti i stravizi. Il monastero minacciava di andare in rovina, e solo il terribile rigore del francese Ademaro, valse a mantenerlo in vita. Questa specie di tiranno fu abate circa il 1353, e sarà facile rappresentarsi in quale stato deve aver trovata l'abbazia, quando si sappia, che non ebbe ribrezzo un giorno a far appendere sette monaci ostinati per le gambe, ed a tormentarli lentamente per mezzo di fuoco accesso sotto le loro teste. Ademaro era Ghibellino arrabbiato, e sconfisse pienamente le truppe del vescovo di Tivoli, in riva all’Anio alle porte di Subiaco. Gli abitanti di questo menano tuttora oggidì vanto di quel trionfo locale, ed additano con orgoglio al forastiero un ponte di un arco solo con una piccola torre sull’Anio, fatto costrurre da Ademaro col prodotto delle prede, e coll’opera dei prigionieri dell’esercito di Tivoli.

Se non che i disordini si rinnovarono, e presero sempre maggiori proporzioni; gli abati dissoluti si erano assuefatti a passare di continuo i loro giorni in palazzo, banchettando in compagnia di donne di mal affare. Gli uni dopo gli altri furono obbligati ad abdicare, e siccome non valevano a ridurli al dovere, nè ordini della curia romana, nè riforme ripetutamente tentate, Urbano VI si decise porre termine all’anarchia con un colpo di stato. Colla sua bolla del 1368 tolse ai monaci di Subiaco l’antico ed importante diritto di eleggere il proprio abate. Dalla fondazione del monastero, lo avevano esercitato già ben [p. 266 modifica]cinquantasette volte, orgogliosi del loro piccolo stato elettivo, che per veneranda antichità sorpassava i regni più ragguardevoli del mondo. I monaci si piegarono mormorando alla onnipotenza del Pontefice, e da quell’epoca lo splendore della badia prese rapidamente a declinare.

Da quel momento il Papa elesse desso gli abati, i quali ebbero il nome di Manuales, siccome quelli i quali ricevevano il loro ufficio, la loro dignità, dalle mani del sommo pontefice. Il primo abate di questa serie fu Tommaso da Celano, caldo fautore del partito di Urbano, ed uomo distinto per doti pregevoli. Durò questo ordine di cose fino all’anno 1455, nel quale gli abati perderono parimenti la giurisdizione feudale, che avevano fino a quell’epoca continuata ad esercitare sul territorio appartenente all’abbazia.

II.

Narrasi abbia data spinta a privarli ancora di questo diritto la continua tirannia che facevano pesare sui loro dipendenti. Il governo dei monaci era diventato una vera calamità per i loro sudditi infelici i quali venivano incarcerati per ogni minimo pretesto, sottoposti alla tortura, e non di rado precipitati nei sotterranei del castello; l’indegnazione della popolazione era giunta al colmo. Un caso fortuito diede occasione alla rivolta. In novembre del 1454 una quindicina di giovani presero a beffeggiare due monaci sulla via pubblica, e finirono per aizzare contro di essi i cani. I due frati maltrattati porsero querela all’abate, e questi nella notte fece arrestare nelle loro case dai suoi arcieri i giovani, alcuni dei quali appartenevano alle famiglie le più distinte del paese, e quando sorse il sole la popolazione li potè vedere tutti quindici appesi al patibolo. La collina sulla quale subirono dessi l’estremo supplicio, porta oggidì tuttora il nome di Colle delle forche. Il popolo indegnato si sollevò, diede l’assalto al monastero, ne atterrò le porte a colpi di ascia, trucidò i monaci, li [p. 267 modifica]precipitò dalle finestre, e saccheggiò tutto il convento. Questo fatto ebbe serie conseguenze; imperocchè fin dal 15 gennaio 1455 Calisto III ridusse la badia di Subiaco a commenda cardinalizia, e stabilì che quel ricco istituto dovesse essere retto quindinnanzi da un cardinale col titolo di abate. Lo assegnò al dotto spagnuolo Giovanni Torquemada, cardinale di S. Maria in Trastevere, ordinandogli riformare la costituzione dell’abazia, non che di tutti i castelli che ne dipendevano. Promulgò questi uno statuto, che ogni novello abate doveva giurare davanti alla comunità dei monaci, prima di entrare in carica, e prima che i vassalli della badia gli avessero a prestare giuramento di fedeltà. A questo primo cardinale abate, ed al monastero di Subiaco appartiene la gloria di avere dato alla luce il primo libro stampato in Italia. I due sommi tipografi Corrado Schwenheim, ed Arnoldo Pannartz prima d’impiantare la loro stamperia in Roma nel palazzo Massimi, dove pubblicarono il Virgilio, trovarono generosa ospitalità nella badia dei Benedettini di Subiaco. Ultimarono ivi nel dì 30 ottobre del 1465 la stampa delle Istituzioni di Lattanzio, e nel 1467 vi pubblicarono l’opera di S. Agostino De Civitate Dei. La biblioteca del monastero di S. Scolastica conserva oggidì tuttora quei due bei monumenti della signoria dei monaci, i quali fanno ad un tempo onore alla nostra patria germanica.

Il dotto protettore delle lettere Torquemada, cessò di vivere in Roma nel 1467. Suo successore fu parimenti uno spagnuolo, il famigerato Rodrigo Borgia, diventato più tardi Alessandro VI. Narrasi che durante la sua temporaria residenza in Subiaco, nella qualità di cardinale abate, abbia superato in dissolutezza i suoi predecessori. Abitava il palazzo del castello, e nel percorrere oggi quelle sale e quei quartieri, l’imaginazione si porta naturalmente a rappresentarseli popolate dalla società voluttuosa di Roma a quei tempi, evocando le ombre di Alessandro, di Cesare e di Lugrezia Borgia, non che dell’infelice giovanetto che fu di poi duca di Candia. Quell’appartata e severa dimora [p. 268 modifica]andò soggetta nel corso dei tempi alle più grandi mutazioni, e può porgere nella sua solitudine i più spiccati contrasti della umana natura. Tutti i vizi, tutte le iniquità del dispotismo si erano venute annidando colà dove un pio gruppo di santi anacoreti aveva cercato l’allontanamento dal mondo, ed un asilo tranquillo per la preghiera. Nerone e Benedetto avevano cercato ivi rifugio, ed ora stavano in quella valle dell’Anio cacciando, e perdendo le notti in orgie continue i Borgia, macchinando in quella solitudine i piani ambiziosi del loro avvenire.

La memoria del Borgia non fu raccomandata alla pubblicazione di opere dotte, siccome quella del suo predecessore; però il suo nome vive tuttora nel palazzo presso il castello. Desso ne costrusse un’ala nel 1476 colla torre quadrata che tuttora sussiste. Scorgonsi tuttora le sue armi sulle mura all’esterno, ed un’iscrizione accenna che il cardinale Rodrigo fortificò Subiaco, per proteggere i monaci e la badia, non che a sicurezza degli stati limitrofi della chiesa romana. Sedici anni dopo fu innalzato al soglio pontificio. Pagò le voci ottenute in conclave da Giovanni Colonna coll’assegnare l’11 agosto 1492 a questi la badia di cui era stato fino a quel punto commendatore; se non che la buona armonia fra Papa Alessandro ed i Colonna fu di breve durata; quella famiglia, la più potente di Roma, cercò di attraversare i disegni ambiziosi dei Borgia, i quali miravano a formarsi coll’arte e colla violenza una signoria a danno dei grandi. Giovanni dovette cercare ricovero in Sicilia, e venne spogliato dalla commenda, la quale durante il papato di Alessandro, venne amministrata da Luigi de Aspris palermitano.

Appena morto però Alessandro VI e venuta meno la potenza di sua famiglia, Giulio II richiamò Giovanni Colonna al reggimento dell’abbazia. Nell’anno 1508 lo abbandonò questi al suo nipote il famoso Pompeo. Questo cardinale dotto e galante, viveva vita voluttosa e senza pensieri nel palazzo dell’abbazia, narrasi vi avesse portato la bella Marsilia, figliuola di Attilio Corsi, che aveva [p. 269 modifica]costretta o saputo persuadere a seguirlo colà. Il padre di lei, entrò un giorno colla spada sguainata nella stanza del cardinale, ma afferrato dai servitori di questo, venne l’infelice senz’altra formalità, cacciato giù dal balcone. Pompeo intanto era venuto in disaccordo con Giulio II, perchè questi aveva riunito all’abbazia di Subiaco quella di Farfa. Era questo il terzo antico e famoso monastero dei Benedettini, fondato fin dal secolo VI nella campagna della Sabina, ed accresciuto ed arricchito dai duchi Longobardi di Spoleto. La riunione delle due abbazie diede luogo d’allora in poi a continua contestazioni, imperocchè un partito fra i monaci pretendeva la riunione con Montecassino, la quale ebbe luogo nel 1514, e l’altro partito, composto di Tedeschi, era favorevole alla riunione con Farfa. Portava questa il titolo di abbazia imperiale, ed annoverava molti tedeschi fra suoi monaci. Porsero questi vivi e ripetuti richiami agl’imperatori germanici, i monaci stessi di Subiaco finirono per unirsi ad essi, e più volte furono cacciati i Montecassinesi, che sempre vennero dai Papi richiamati e ristabiliti in possesso.

Pompeo Colonna, scomunicato da Giulio II, restituito alla carica da Leone X cedette la commenda a suo nipote Scipione. Tale si fu la politica dei Colonnesi; potenti signori nella campagna del Lazio, dove già da tempo erano riusciti a formarsi quasi un piccolo regno, composto delle città di Volsci e degli Ernici, mirarono costantemente ad annettere la bella abbazia di Subiaco alle loro altre possessioni, e coll’ottenere i cardinali di quella famiglia dai Papi di poterla cedere nel loro vivente tuttora ai loro nipoti, riuscirono ad averne il reggimento per la durata incredibile di ben centosedici anni, e per tanto la mantennero ad onta delle loro continue gare con i Papi. Clemente VII toccò anzi una disfatta notevole. È noto che questo pontefice dovette la sua rovina ai Colonna, contro i quali entrò in guerra aperta. Le sue truppe distrussero nel 1527 la rocca di Subiaco, ma al 28 giugno dell’anno seguente, vennero pienamente sconfitte da Napoleone [p. 270 modifica]Orsini, sui monti vicini. I Subiacesi s’impadronirono perfino della bandiera delle truppe papali, la quale si conserva tuttora, quale trofeo, nella chiesa del monastero di S. Scolastica, ed in ogni anno, nel giorno della battaglia la memoria di una vittoria contro un Papa, viene festeggiato con una processione.

La signoria dei Colonna nella abbazia era tirannica e secondo gli usi dei secoli XVI e XVII, un reggimento baronale, pienamente arbitrario sulla foggia di quello lombardo-spagnuolo descritto dal Manzoni nei suoi Promessi Sposi. Quei cardinali lussuriosi, ambiziosi, nel loro palazzo non consideravano la porpora di cui erano rivestiti, altrimenti che un’assisa principesca; i loro banditi assoldati, che portavano di già il nome di bravi, obbedivano ad ogni loro cenno, e non eravi nè proprietà nè onore di famiglia che fosse sicuro contro gl’insulti di quei masnadieri, accampati nel cortile della rocca baronale. Nel momento in cui erano più ardenti le contestazioni tra Farfa e Montecassino avvenne che in una notte Scaccia diavolo, il temuto bravo del cardinal Pompeo, alla testa di quaranta quattro uomini armati, assalì il monastero di S. Scolastica, e dopo averlo messo a sacco, nè cacciò tutti i monaci. Si disse che il cardinale non fosse estraneo alla bella impresa, e difatti venne dal Papa deposto dalla carica, alla quale non tardò però ad essere richiamato. La storia di quei tempi è ricca pur troppo di tali atti di prepotenza, e non mancano in Subiaco località, le quali ricordano memorie feroci. Si fa vedere tuttora sotto la piazza della rocca un sito dove parecchi cittadini vennero sepolti vivi, barbara maniera di supplicio, perchè s’interravano fino al collo, lasciandoli poi perire lentamente. Fra le altre scene, Subiaco fu pure spettatore di quell’orribile parricidio, che fu di ostacolo alla grazia verso la famiglia Cenci. Un giovane della casa S. Croce di Roma, aveva uccisa la propria madre nel 1599 in Subiaco, ed è noto che all’annuncio di questo orribile misfatto, il Papa sottoscrisse la sentenza di morte di Beatrice Cenci, della sua madrigna, e di suo fratello. [p. 271 modifica]

Intanto l’abbazia passava di mano di un Colonna in mano di un altro Colonna; figurano nella storia del monastero i nomi più illustri di quella famiglia, e pertanto quelli di Marcantonio Colonna, di Camillo, di Ascanio ultimo cardinale abate. Ascanio viveva pubblicamente nel castello colla sua ganza Artemisia, e ciò con tanta impudenza, che allorquando si doveva assentare, incaricava formalmente l’astuta e bella donna di rappresentarlo in ogni occorrenza che potesse abbisognare per il monastero. Il malcontento generale fece alla fine allontanare i Colonna dal governo dell’abazia, e morto il cardinale Ascanio nel 1608, il Papa l’assegnò al suo proprio nipote, Scipione Caffarelli Borghese, il quale la conservò fino alla sua morte avvenuta nel 1633.

I Colonnesi non lasciarono punto buona memoria in Subiaco, ed il paese non ritrasse neppure vantaggi dal loro soggiorno; rimangono unicamente nel palazzo della rocca alcune stanze che vi fecero costrurre, ed ornare di pitture, nelle quali si scorgono tuttora i loro stemmi.

Nella stessa guisa che nel medio evo, e poi verso la metà del secolo XVI, i Colonna e gli Orsini avevano dominato nella campagna di Roma, presero il loro posto nel secolo XVII, e posteriormente le famiglie recenti di nipoti dei Papi Borghese e Barberini. Desse acquistarono i più cospicui latifondi del Lazio, e li posseggono tuttora. Le città ed i castelli di quella regione, fanno vedere tuttora i palazzi grandiosi ed imponenti di quelle famiglie, alle cui deserte pareti stanno appesi tuttora i ritratti dell’epoca. Si trovano anche nelle piccole città dei monti Ernici, ed io scrivo queste pagine sedendo in mezzo a ritratti di vecchi cardinali, e di belle gentildonne del secolo XVI, e propriamente di fronte all’aspetto ilare di Scipione Borghese. L’età del galante assolutismo, della morale facile, vi è rappresentata dalle parucche incipriate, alle calze di seta, in tutto il suo carattere molle, effeminato, intrigante, ed eminentemente prosaico. I baroni corazzati di ferro del medio evo sono diventati principi comodi, i [p. 272 modifica]quali più non sfoderano la spada, ma che sdraiati sopra molli cuscini, si godono senza pensiero i tributi che i vassalli trafelati ed ansanti, recano al palazzo baronale. Allorquando i cardinali facevano il loro ingresso solenne in Subiaco, per prendervi possesso della commenda, arrivavano con grande corteggio di nobili, ed alla testa di un piccolo esercito, con grande codazzo di servitori arroganti, e giunti alle porte, ricevevano dalla magistratura locale le chiavi della città e del castello.

Intanto i Borghesi non tardarono ad essere cacciati dalla badia di Subiaco dai Barberini. Urbano VIII, fondatore di questa ricca famiglia di nipoti, assegnò la commenda nel 1633 a suo nipote Antonio, e dopo d’allora seppero i Barberini imitare con esito felice l’esempio dei Colonna, mantenendo nella loro famiglia il possesso della badia per ben centocinque anni. Antonio accrebbe inoltre l’importanza della carica di cardinale abate, aggiungendo alla giurisdizione baronale quella vescovile eziandio, la quale nei luoghi posseduti dal monastero, era stata fino allora esercitata dai vescovi di Tivoli, Anagni, e Palestrina; il commendatario di Subiaco pertanto, fu barone e vescovo ad un tempo, regnando con doppio potere sui corpi e sulle anime di quegl’infelici suoi vassalli, per la loro maggiore oppressione. Le leggi erano severissime, disumane; l’uccisione ad esempio di una quaglia, di un faggiano, era punita con dieci anni di galera. Il reggimento però dei Barberini recò alcuni vantaggi al paese. Subiaco, adatto naturalmente per la sua posizione, e per gli abbondanti salti di acqua allo stabilimento di industrie, va debitore ai Barberini dell’aumento dei molini che appartengono tuttora oggidì al cardinale vescovo, come del pari di alcune fabbriche di carta, di filatura e tessitura di cotone, le quali occupano e fanno vivere alcune centinaia di persone; le quali però non possono prendere grande sviluppo, imperocchè tutte quante le industrie sono rimaste ivi monopolio della commenda cardinalizia.

Mentre la badia continuava a rivestire questo carattere, [p. 273 modifica]i monaci non avevano punto dimenticato che erano stati dessi stessi baroni feudali. Ricordavano sempre con desiderio i loro diritti ed afferrarono quale propizio per tentare di riacquistarli, il momento della morte di Francesco Barberini avvenuta nel 1738 e con pronta risoluzione elessero di loro autorità a vicario della badia il loro abate Bernardo. Questi si fece portare nella chiesa della città, ed ivi ricevette dal gonfaloniere il giuramento solenne di fedeltà, giurò gli statuti del comune, e dopo quella presa solenne di possesso, venne portato processionalmente per Subiaco sur una sedia, quasi ad imitazione della funzione di presa di possesso dei Papi nuovamente eletti. Quasi fosse tuttora un abate del secolo XIII promulgò editti, nominò ufficiali pubblici nei castelli, fece grazie, richiamò esuli, e si comportò in ogni cosa quale principe assoluto. Gli atti del suo governo erano solennemente intitolati «Noi Don Bernardo Cretoni, dell’ordine di S. Benedetto, monaco e professo del sacro ed imperiale monastero di Farfa, ed attualmente per grazia di Dio abate regolare del sacro monastero di S. Scolastica, e per grazia della santa sede apostolica vice regente spirituale e temporale per la santa sede stessa.» Se non che il temerario abate incontrò la più viva opposizione sia presso il popolo, il quale non ne voleva sapere di ritornare sotto il dispotismo della tonaca, sia nella gelosia del clero secolare della città. Si ebbe ricorso al Papa, il quale assegnò la comenda al cardinale Spinoza. Questi munito dei pieni poteri del santo padre, convocò il consiglio municipale ed i monaci nella chiesa della città, e mentre dava loro lettura ivi della bolla pontificia, fu interrotto dalle mormorazioni vivissime dei monaci, i quali si ricusarono al solito omaggio del bacio della mano, e ad onta dovessero poi finire per cedere, non deposero però la loro arroganza nè cessarono dall’usare mali tratti ai coloni.

Circa la metà però del secolo XVIII l’odio contro le istituzioni feudali era diventato generale, e la compagnia di Gesù, come gli altri ordini religiosi, non potevano a meno di doverne subire le conseguenze, in quantochè si [p. 274 modifica]trovavano in urto colle istituzioni civili dei governi. In Subiaco si era ordinata una congiura contro i Benedettini, si cantavano pubblicamente canzoni contro i monaci, e nelle strade della città oratori popolari andavano inasprendo gli animi, narrando una storia del convento la quale descriveva con vivaci colori le miserie ed i patimenti degli antichi Subiacesi, allorquando vivevano sotto il dispotismo feudale degli abati. I monaci avevano chiamati segretamente alcuni pochi soldati in convento, e dopochè non erano valsi quelli ad impedire una sommossa, nel 13 maggio 1752 cercarono antivenire nuovi e maggiori eccessi, chiamando truppe da Roma. Venne una compagnia di Côrsi, e con questa un commissario pontificio, incaricato di fare una inchiesta, la quale avendo chiarito che le origine del malumore dovevansi ripetere dall’odio del popolo contro il reggimento feudale dei monaci, e come unicamente colla soppressione di questo si potessero tranquillare gli animi, Benedetto XIV, Lambertini, da quel Papa prudente che era, si decise a privare i Benedettini dei diritti feudali. Un Papa per nome Benedetto si ebbe questo coraggio, e col sopprimere una delle più antiche signorie clericali che fosse al mondo, entrava desso risolutamente in quella via di riforme, sulla quale doveva tenergli dietro con ben maggiore energia l’infelice suo successore. Papa Lambertini colla sua bolla del 7 novembre 1753 tolse per sempre ogni giurisdizione civile al cardinale abate di Subiaco, lasciandogli unicamente alcuni titoli, e redditi di natura feudale, dei quali trovasi quello tuttora in possesso, e che sono gli ultimi, abbastanza gravi ancora, per coloro i quali li debbono soddisfare. Il potere civile venne assunto del governo dello stato, ed esercitato da un governatore, e da un giudice nominati entrambi dalla Sacra Consulta. La commenda cardinalizia rimase un semplice beneficio ecclesiastico, ed il primo ad esserne investito, dopo questa mutazione, si fu il cardinale Giovanni Battista Banchieri.

Per tal modo ebbe fine l’abbazia di Subiaco del medio evo, e da quel momento la sua storia non ha più pregio. [p. 275 modifica]

Però nella serie degli abati commendatari, uno se ne riscontra pregevole secondo le idee moderne, ed il quale operò molto bene a pro di quelle regioni. Si fu questi Pio VI, Braschi. Nominato cardinale abate nel 1773 conservò la carica eziandio durante il suo pontificato, e fu vero benefattore di Subiaco. Oltre alla costruzione di parecchi edifici, fra quali la cattedrale della città, ed un grandioso seminario, rinnovò pure il palazzo, e sovratutto si acquistò vero titolo alla gratitudine di quelle contrade, colla apertura della strada carrettiera lungo l'Anio, la quale porta a Tivoli, agevolando con questa le comunicazioni fra l'abbazia e quest'ultima città. Gli abitanti di Subiaco riconoscenti gl'innalzarono un arco di trionfo in cima alla strada stessa, opera d'arte pregevole, sul modello dell'arco di Tito, e bello ornamento del luogo, innalzato da Pio VI alla dignità di città. In maggio del 1789 il pontefice fece il suo ingresso solenne in Subiaco, passando per quell'arco, e vi venne accolto con ogni maniera di onoranze.

Se non chè, poco dopo la rivoluzione francese e romana riuscì fatale pure alla antica istituzione; il convento venne soppresso per ben due volte, in fino a tanto fu ristabilito da Pio VII nel 1814. Le condizioni dell'abbazia rimasero d'allora in poi, quali erano state stabilite nel 1753. Il cardinale abate trovasi investito di uno fra i migliori beneficii della chiesa romana, del reddito di otto mille scudi; i monaci non sono più signori di castelli, non hanno più vassalli, ma posseggono tuttora vaste tenute coltivate a viti ed olivi dai loro coloni ed affittaioli, le quali si stendono fino ai piedi dei monti Volsci. Il reddito netto che ne ritraggono può valutarsi dagli otto ai dieci mille scudi. I dipendenti dell'abbazia sono all'incirca ventun mille, ripartiti in sedici comuni o castelli, cioè Subiaco, Trevi, Jenna, Cervara, Camerata, Marano, Agosta, Rocca di Canterano, Canterano, Rocca di Mezzo, Cerreto, Rocca di S. Stefano, Civitella, Roiate, Afile e Ponza. Tra questi, Trevi ed Afile sono antiche colonie romane. [p. 276 modifica]

Il punto migliore per osservare la valle superiore dell’Anio, contrada di meravigliosa bellezza, si è la sommità del monte Serrone, il quale divide la valle dell’Anio, da quella ampia latina del Sacco. Stupendi monti circoscrivono quel tratto del territorio, a guisa di anfiteatro; i paesi posseduti dall’abbazia, ad eccezione di Subiaco il quale giace al basso, sorgono bruni e neri in cima ai monti, costrutti di tufo calcare. La lora foggia bizzarra di costruzione, la loro solitudine in quella regione romantica, il modo di vestire, la lingua gli usi, i costumi degli abitanti, producono una profonda impressione. Se non chè la miseria di quei poveri montanari è spaventosa; il loro nutrimento limitato a poca quantità di cattivo gran turco, è meno sicuro di quello degli animali dei campi, a cui provvede largamente la natura. Non ho vista miseria uguale in veruna altra parte d’Italia, e nell’entrare nelle casuccie di rozza pietra di quei coloni, nel vederli vangare la terra al canto dei loro malinconici ritornelli, nello scorgerli ad arrampicarsi su per quelle rupi, carichi quasi animali da soma, non è possibile non sentirsi stringere il cuore. Nei cenci che li ricoprono, sulle loro fisonomie pallide e scarne per la febbre si legge la storia dolorosa del feudalismo dei monaci e dei baroni, molto più chiaramente di quanto la si possa raccappezzare da magre cronache.

III.

Più gradita al lettore che la storia politica del monastero, sarà una breve descrizione delle sue rarità, la quale lo distrarrà dalla contemplazione della miseria del popolo, e darà corso diverso a suoi pensieri. Imperocchè mentre i vassalli sudavano sui campi, e pativano la fame, i monaci ben pasciuti nel loro convento si compiacevano ad ornare questo di pregevoli opere d’arte, le quali rimangono monumenti dei tempi antichi, ed a quelli ci riportano. [p. 277 modifica]

Sono propriamente due i monasteri dei Benedettini in Subiaco, i quali dipendono dallo stesso abate, e formano un’unica corporazione. Il primo porta il titolo di S. Scolastica, il secondo è dedicato più propriamente a S. Benedetto, ed ha nome pure il sacro speco. Sorgono fuori della città, più in alto a sponda destra dell’Anio, e nella solitudine dei monti. Il monastero di S. Scolastica, che si trova per il primo è il più antico ed il principale; presenta una mole bizzarra e pittorica, costrutta in roccia calcare, di color giallo bruno della località. Il misto di stile romano e gotico nelle finestre, nelle nicchie, rivela costruzioni di varie epoche; nel complesso però, sussistono tuttora alcuni avanzi dei tempi più remoti, particolarmente nelle corti; imperocchè il monastero fu rinnovato parecchie volte, e la sua chiesa per esempio è moderna, non risalendo che al secolo scorso, a cui appartiene parimenti la facciata del convento, mentre la seconda corte interna, attorniata da portici ad arco tondo, risale al secolo XVII. Il complesso porge aspetto deserto, abbandonato, e si scorge che la rovina si avanza a gran passi. Alcune pitture sui muri, in cattivo stato e di poco pregio artistico, ricordano la storia dell’abbazia; vi sono i ritratti in grandezza naturale di Papi e di principi, i quali visitarono il monastero, e fra questi ultimi dell’imperatore Ottone III e della imperatrice Agnese. Sono pure ricordati da iscrizioni, tutti i luoghi posseduti un tempo dalla abbazia.

Da queste si va in un altro piccolo cortile, che precede immediatamente la chiesa. Sono notevoli in questo, alcuni avanzi di architettura gotica, particolarmente un grande arco acuto in pietra, ornato di figurine e di rabeschi. Trovasi in quella corte la memoria più antica che possegga il convento, cioè incastrato in un pilastro un basso rilievo in marmo dell’anno 981, periodo degli Ottoni di Germania, e della più profonda barbarie di Roma, il quale merita fissare l’attenzione, relativamente alla storia del Papato come a quella della scienza, e dell’arte. Il basso rilievo rivela al primo aspetto tutta la barbarie della [p. 278 modifica]scultura di que’ tempi. La lapide è quadrata, dell’altezza e della larghezza di circa un piede, lavorata nello stile dal medio evo, come se ne possono rinvenire altre qua e là. Rappresenta un vaso collocato sopra una specie di rozzo basamento, o piedistallo; due animali orecchiuti si sono arrampicati sul basamento per bere nel vaso ai due lati di questo. La loro forma è cotante barocca e primitiva, che io non mi arrischierei a pronunciare se siano lupi, capre, volpi, o cani, o quale altra specie mai di bestie. Sul dorso di uno di essi, si scorge un uccello che pianta in quello il becco. Il tutto è attorniato da rozzi rabeschi. Questa scultura, probabilmente di scalpello romano, è preziosa per la sua grande antichità; ed inoltre perchè sul corpo di uno degli animali, si legge una antica iscrizione la quale accenna che Benedetto VII, dopo avere desso costruita la chiesa del convento, la consacrava il 4 dicembre 931.

edificatio uius eccle sce scolastice tempore
domni benedicti vii pp. ab. ipso ppa dedicata
q. d. s. an ab incarnatione dni ccccccccclxxxi
m. decb. d. iiii. indictione viii.

Sopra il basso rilievo esiste pure un’altra iscrizione tutta rovinata, che non mi fu possibile dicifrare neanco in parte, e di fronte, presso la porta della chiesa, trovasi l’iscrizione del tempo di Leone IX della quale ho fatta di già menzione.

La chiesa poi, quella che in origine era stata consacrata da Benedetto VII, è ora moderna, e nulla porge meritevole di osservazione. A dritta di questa si entra nella vera corte del monastero, di forma rettangolare, con una fontana nel mezzo a piccole colonne, e con archi tondi, quali si possono vedere in parecchi conventi di Roma, lavoro questo del principio del secolo XIII e ricordo del possente abate Lando, non che della rinomata famiglia di artisti romani i Cosmati. Si leggono sulla fronte i seguenti esametri. [p. 279 modifica]

cosmus et filii lucas et jacobus alter
romani cives in marmoris arte periti
hoc opus esplerunt abbatis tempore landi.

Per dir vero però, quei bravi artefici furono più felici nei loro monumenti sepolcrali e nei loro tabernacoli, che in quest’opera architettonica, la quale non presenta in veruna guisa l’aspetto grazioso del cortile del convento dei Benedettini a Roma presso S. Paolo. Le colonne, una torta, fra due semplici, sono senz’arte, rozze; i loro capitelli pesanti a foggia di architravi, e gli archi e le cornici sono nudi senza ornamento. Si direbbe che l’arte siasi voluta ivi adattare alla natura severa della civiltà.

Sono queste le sole antiche reliquie del convento meritevoli di attenzione, scarsi avanzi di un passato così lungo e cotanto ricco, se non che la cosa a facile a spiegare per le ripetute devastazioni, alle quali andò soggetta la badia. Il monastero all’interno è vasto, con grande quantità di corridoi, celle, stanze, sale adatte a diversi usi. Sono queste disadorne, ed in gran parte di recente costruzione. Visitai con piacere l’archivio, e la libreria dei monaci, i quali contengono nelle loro scanzie bene ordinate, ricchi tesori per la storia del medio evo nel Lazio. Talune sono aperte, ed accessibili agli studiosi, altre chiuse in modo impenetrabile; la stessa verga magica del Muratori non valse ad aprirle. È di grande pregio il Regestum insigne veterum monum. Monas. Scholastici in pergamena, raccolta di documenti, i quali risalgono al secolo IX. Mancano intieramente documenti anteriori a quell’epoca, ed è probabile siano andati perduti nelle varie devastazioni, a cui andò soggetto il monastero. Nessuna fra le cronache di Subiaco venne pubblicata, ad eccezione di quella breve ed anonima, la quale non arriva che all’anno 1390 e che fu data alla luce da Muratori. Non gli fu permesso pubblicare la cronaca propriamente detta, scritta da un tedesco di Treviri monaco nell’abbazia nel 1629 intitolata Chronicom Sublacense P. D. Cherubini Mirtii [p. 280 modifica]Trevirensis. Anno Dei 1629. I monaci permettono però, di prenderne visione. Dessa è più completa della cronaca, parimenti inedita di Guglielmo Capisucchi di Narni, del 1573, ma non è però lavoro gran che pregevole, e non guari altro che una semplice compilazione, senza corredo di documenti. La storia della badia giace pertanto tuttora sepolta in quell’archivio. La scrisse per dir vero di recente il canonico Janucelli, ma anche la sua opera ha poco pregio scientifico. Mi sorprese del resto venire in cognizione a Subiaco di un manoscritto del 1833, il quale contiene una storia discreta, e recente dell’abbazia. Ne fu autore un Livio Mariani, cittadino di Subiaco, il quale morì da poco, fuoruscito in Grecia. Desso trasse partito di tutte le cronache, di vari documenti, e della sua opera di quattrocento novantadue pagine, dettata in senso liberale, non esiste che una sola copia. Tolsi da quella la maggior parte delle notizie riferite in queste pagine.

La biblioteca non è abbondante, ma preziosa assai per le antiche edizioni degli stampatori tedeschi, dei quali ho fatta di già parola. Mi furono comunicati quei rispettabili in foglio, stampati con somma nitidezza, da un connazionale, giovane frate Benedettino. In fine al Lattanzio si legge: Lactantii Firmiani, de divinis institutionibus adversus gentes, libri septem, nec non eiusdem ad Donatum de ira Dei liber unus; una cum libro de opificio hois ad Demetrianum finiunt sub anno Dni MCCCCLXV pontificatus Pauli papæ. Anno ejus secundo. Indictione XIII die vero antepenultima mensis octobris. In venerabili monasterio Sublacensi. Deo gratias. Con queste parole l’eccellente tipografo prendeva congedo dal lettore, tacendo per modestia il proprio nome. Mi ricordò la bella sentenza colla quale i copisti greci e latini del medio evo, ponevano fine alle loro fatiche nei loro manoscritti.

Il monastero di S. Scolastica, conta tuttora oggidì circa settanta monaci, fra quali parecchi tedeschi. L’attuale abate Don Pietro Casaretto, vi ha introdotta una riforma severa, e mi si disse che i monaci vi vivano piuttosto [p. 281 modifica]magramente. Nel visitare però la stupenda e vasta cucina, ho potuto sentirvi il piacevole odore di un banchetto omerico il quale mi persuase che i monaci non debbano osservare alla lettera la regola pitagorica di S. Benedetto, la quale vieta i cibi animali.

Rechiamoci ora a visitare il santuario propriamente detto dei Benedettini, vale a dire quel secondo piccolo monastero, che venne edificato alla metà del secolo XI sopra la grotta S. Benedetto, e che pertanto ha nome di sacro speco. I monaci di Montecassino costrussero nel 1688 la strada che su per la rupe porta alla grotta, salita ripida e faticosa, ma dalla quale si scorgono punti di vista stupendi. Imperocchè, mentre si sale lungo l’Anio, il quale romoreggia profondamente al basso, si scorge la bella valle di Subiaco che fa seguito alla gola grandiosa dell’Anio stesso. In lontananza, colà dove la valle pare aver termine, si scorge la piccola e montuosa città di Jenna, patria di Papa Alessandro IV e dell’abate Lando, della famiglia dei conti di Segni. Di fronte alla sacra grotta, sorge un folto ed ombroso bosco di elci, il quale risale probabilmente ai tempi di Benedetto, e che sembra al pari dei boschi sacri degli antichi, annunciare la vicinanza di un mistero.

Le piccole costruzioni dei monasteri, e delle chiese fabbricate poco a poco sopra la grotta, sono quasi incastrate nella ripida parete gigantesca della rupe, e porgono una mistura originale di stile di epoche diverse; nè mancano qua e là pitture a fresco sui muri esterni. Si passa sopra un ponte in muratura, il quale nel medio evo può aver servito di ponte levatoio, e si entra in una galleria lunga e stretta, la quale porta nell’interno del convento. Vi si scorgono buone pitture di soggetti tolti dai Vangeli, di data moderna, e stanno scritte sulle mura sentenze morali, che si possono leggere con piacere. Vi lessi, Peccare pudeat, corrigi non pigeat ed in un altro punto, i distici seguenti:

Lumina si queris Benedicte quid eligis antra?
Quæsiti servant luminis antra nihil. [p. 282 modifica]
Sed perge in tenebris radiorum querere lucem
Nonnisi ab obscura, sidera nocte micant.

Al disotto sta scritto D. O. M. ordinis S. Benedicti occidentalium Monacorum Patriarchæ cunabula.

Si vive quivi involontariamente quasi in un’atmosfera di medio evo, alla quale così mirabilmente corrisponde il senso mistico di quei versi. Ed in verità io mi credetti trasportato in pieno in quei tempi meravigliosi; allorquando uscendo da quella galleria, entrai nella prima piccola chiesa, e mi trovai tutto ad un tratto in un tempio della migliore architettura gotica, tutto istoriato dal tetto alle pareti, con numerose pitture a fresco, qua e là annerite dal tempo. I monaci invisibili nel coro, stavano recitando i vespri; stupende voci di bassi risuonavano sotto le vôlte della chiesa immersa quasi nell’oscurità; e nelle pause, e negli intervalli del loro canto, si udiva il gracchiare dei corvi, imperocchè tre di questi animali sono mantenuti di continuo nel cortile del monastero, a ricordo di S. Benedetto, e pare che il numero di questi, simboli viventi dell’ordine, non debba mai essere oltrepassato.

Sarebbe malagevole il dare una descrizione del monastero, il quale è pregevole per le sue pitture. Le piccole chiese, e cappelle sono molte, e formano un vero labirinto, imperocchè si dovettero adattare agli accidenti della rupe. Sono in parte costruite nelle caverne stesse, di cui si scorgono in molti punti tuttora le costruzioni granitiche, in parte addossate alle pareti della rupe, salendosi dall’una all’altra per mezzo di scala, in modo che pare trovarsi in meravigliose catacombe adorne di pitture, ed illuminate dai cerei che ardono davanti agli altari. Le pitture sono innumerevoli, potendosi dire che ne sono per intiero ricoperte le mura di tutti quegli edifici. Si riferiscono per la maggior parte alla vita, ai miracoli di S. Benedetto, alla storia del monastero; ovvero rappresentano fatti della vita di altri santi, ed allegorie di argomenti religiosi. La storia del monachismo, ebbe nella vita di S. Benedetto la [p. 283 modifica]sua epoca eroica, la quale andò paralella ai romanzi di cavalleria. Non è storia sanguinosa e severa come quella dei martiri cristiani, i quali lottarono col paganesimo, ma bensì storia improntata di dolcezza notevole, ed attraente per tempi e per siti classici, storia la quale si presta mirabilmente alla rappresentazione figurata. Mi pare anzi, che i miracoli di S. Benedetto abbiano un non so chè di più poetico, di quelli di altri santi. L’amore tra fratello e sorelle raddolcisce il rozzo egoismo di una vita di solitario, apparato totalmente dal mondo; questo amore compare bello e religioso tra Benedetto e Scolastica, ed i loro casi, la loro solitudine, le loro peregrinazioni su per i monti, la distruzione dei tempi pagani, la costruzione dei loro monasteri, si avvicendano con varietà piacevole, nel corso della loro vita. Si aggruppano attorno al maestro i giovani suoi discepoli, e primi fra tutti Placido apostolo della Sicilia, Mauro apostolo della Francia, i quali ritraggono la fantasia dalla ristretta cerchia della vita di semplici anacoreti, e la spingono in ben più ampie sfere. La vita di S. Benedetto si prestava pertanto mirabilmente alla rappresentazione per mezzo della pittura, ed il grandioso romanzo del monachismo, trova qui, in Subiaco, la sua classica rappresentazione.

Nulla si trova in tutto quanto il Lazio, che si possa paragonare a queste pitture, se non sotto un certo aspetto quelle della cripta del duomo di Anagni. Il loro studio è di grande utilità per la storia dell’arte, imperocchè quegli affreschi appartengono a diversi stili, al pretto bizantino, ai tempi di Cimabue e di Giotto, ai secoli XV e XVI. Farò menzione unicamente delle più rilevanti.

La prima piccola chiesa di architettura gotica, eretta, secondo che si legge in una iscrizione esistente in quella, dall’abate Giovanni V nel 1116, venne dipinta a fresco sotto Giovanni VI circa il 1220. Le pitture, che disgraziatamente hanno sofferto molto, ricoprono alla lettera tutte le pareti. Sebbene siano dure, e rivelino poca scienza di disegno, sono però piene di vita, e porgono tutta l’inge[p. 284 modifica]nuità di imaginazione popolare, quale traspare pure dalle cronache di quei tempi. A diritta ed a sinistra sono rappresentati con gran numero di figure, fatti della vita di Gesù Cristo, fra i quali la sua entrata in Gerusalemme, composizione ricca di figure, la sua passione, ed i fatti avvenuti dopo la di lui morte. Sono queste pitture in gran parte annerite dal tempo, ma per buona sorte non vennero manomesse da ristauri intelligenti, siccome avenne ad altre pitture, le quali si riferiscono a fatti della vita di S. Benedetto. Una fra queste lo rappresenta nell’atto che si sta rotolando fra le spine, per cacciare dalla sua fantasia l’imagine di una bella ragazza di Roma, in un’altra lo si vede occupato nella sua caverna a scrivere la regola del suo ordine, e sotto vi si legge il seguente antico tetrastico, in versi leonini.

Hic mons est pinguis multis clarui signis
A Domino missus sanctus fuit Benedictus
Mansit in cripta fuit hic nova regula scripta
Quisquis amas Christum tale sortire magistrum.

Termina questa prima chiesa in una piccola tribuna, formata dalla nuda cavità dello scoglio, e dove termina la navata della chiesa, sorgono tre archi acuti, sustenuti da graziose colonne, nelle cui lunette sono dipinte le imagini dei genitori di Benedetto, Probo ed Abbondanzia. Stanno al di là un piccolo altare, ed il tabernacolo, unici lavori di genere alessandrino che io abbia visto nel monastero, in cui gli ornamenti non vennero tolti dalla scoltura, ma unicamente dalla pittura, in contraddizione di quanto si osserva in tutti i lavori di quell’epoca.

Per mezzo di una serie di piccole cappelle, si penetra sempre più nell’interno; desse formano una breve ed angusta galleria, uguale alla navata della chiesa; ed anche ivi, tutte le pareti sono ricoperte di pitture, ma disgraziatamente furono ristaurate in così mal modo da poco tempo, che hanno perduto pressochè ogni pregio. Rappresentano figure isolate, o piccole composizioni. Vi si vede [p. 285 modifica]Benedetto cha sta pranzando colla sua sorella; la morte del santo; quella di Placido e di Mauro. Vi si scorge pure un antico sarcofago di un ragazzo, con graziosi bassi rilievi rappresentati uccelli, il quale collocato sopra una colonnetta, venne impiegato ad uso di vasca per l’acqua santa.

Una scalinata porta nella chiesa sotterranea, degna di particolare osservazione. Anche in questa tutte le pareti sono dipinte, ed anzi alcune iscrizioni ricordano l’epoca ed il nome del pittore. Vi si legge scritto in carattere gotico, Magister Conxolus pinxit hoc opus, ed altrove, Stamatico Greco pictor perfecit A. D. MCCCCLXXXIX. Consolo dipingeva in principio del secolo XIII, e pertanto prima di Cimabue; prima che la pittura italiana si francasse dal carattere tipico dello stile bizantino. Forse fu lo stesso pittore che ai tempi di Papa Onorio III dipinse a Roma il portico di S. Lorenzo, imperocchè queste pitture, e quelle di Subiaco sono contemporanee, e di un medesimo stile. Le opere di Consolo, come si può rilevare dai suoi affreschi in Subiaco appartenevano tuttora alla maniera greca, ma erano però meno rigide, e di maggiore scienza di disegno. Sono in quegli affreschi molte figure eccellenti, di forme nobili e vi si rileva una semplicità di panneggiamenti, la quale ritrae dell’antico. In ogni caso quell’antico maestro il cui nome (κομψος) pare rivelare un Greco, fu pittore di merito, e probabilmente dipinse, al pari dei Cosmati, greci pure dessi di nome (κοςμετες) e suoi contemporanei a Roma; in Subiaco, e nella cripta del duomo di Anagni.

Le pitture della chiesa sotterranea di Subiaco, si riferiscono a vari argomenti; la maggior parte però, riguardano la storia del convento. Sulla scala, a cagion d’esempio, si scorge Papa Innocenzo III, il quale porge un diploma all’abate Giovanni III, non chè Gregorio I, il quale rimette all’abate Onorato, l’atto di donazione. Molte pitture poi si riferiscono alla vita di S. Benedetto, e quella fra la altre che lo rappresenta colla sua nutrice, è pregevole per la [p. 286 modifica]bella e graziosa figura di donna, non chè per la buona disposizione dei paneggiamenti. Un’altra rappresenta la morte del santo in un modo molto originale; giace questi disteso sul letto, rivestito della tonaca nera, un raggio di luce parte dalla sua bocca, e l’anima sua è rappresentata da una piccola figurina nuda, che un angelo trasporta in cielo. L’angelo è stupendamente disegnato, con un profilo greco purissimo, ed i suoi belli e grandi occhi hanno molta espressione; il suo capo inclinato, tratto caratteristico della grazia, anche prima di Giotto, ricorda vivamente le migliori pitture delle catacombe. Per buona sorte, questo stupendo affresco, soltanto alcun poco annerito dal tempo, non venne ristaurato, e parecchi altri ve ne sono improntati dello stesso carattere di grazia ingenua, tutta primitiva. Non sono tutte quelle pitture dello stesso pennello, e parecchie ve ne sono le quali appartengono evidentemente al secolo XI, ed anzi precisamente al peggiore stile bizantino. Tali sono certe figure colossali di appostoli e di santi, le quali fanno troppo contrasto colle composizioni dipinte a fresco sulle pareti. Furono del resto ristaurate nel peggior modo che si possa dire.

Trovasi in quella chiesa sotterranea la grotta di S. Benedetto, la quale mi ricordò vivamente quella di S. Rosalia sul monte Pellegrino presso Palermo. Dietro l’altare, riccamente ornato, si vede la statua in marmo del giovane Benedetto, il quale prega in ginocchio ai piedi della croce, scultura abbastanza buona della scuola del Bernini, il cui effetto d’altronde è molto favorito dalla luce dubbia della caverna. Per verità tutto colà possiede un carattere singolare, originale; la piccolezza, l’eleganza di tutte quelle chiesuole, cappellette, grotte, paiono un gioco dalla fantasia, di cui non ho trovato l’uguale nella sfera della rappresentazione delle cose religiose. Si direbbe che si svolgano i fogli di un libro illustrato di leggende poetiche, tranquille, innocenti, ma fantastiche come la vista dei santi anacoreti nella solitudine, in mezzo gli uccelli della foresta. La religione assume qui il carattere di una leggenda [p. 287 modifica]ingenua, e vi produce impressione corrispondente. Tale mi parve il carattere generale di questo monastero curiosissimo, e forse unico della sua specie. Nulla qui porta al pensiero di cose serie; neanco il cattolico il più convinto può provare in questa santa grotta un senso di vero rispetto, tanto meno di terrore religioso. Anche i pittori, i quali ebbero a rappresentare que’ soggetti dolorosi, paiono avere risentita questa impressione, e che abbia questa esercitata un’influenza sulla loro fantasia.

Facevo questa osservazione nel guardare due affreschi, che sono l’uno di fronte all’altro presso la scala che dalla grotta porta nella cappella sotterranea. Rappresentano il trionfo della morte, secondo la conosciutissima canzone del Petrarca. La morte, a cavallo galoppa sopra i cadaveri e colpisce colla sua spada un giovane, il quale si sta trattenendo con alcuni compagni. Di fronte stanno tre bare aperte; in una si scorge il cadavere di una giovane donna morta di recente; nella seconda lo stesso cadavere in orribile stato di putrefazione, e nella terza lo si vede ridotto alla condizione di puro scheletro. Un vecchio pare spiegare queste varie fasi dell’annientamento della vita umana mentre lo si vede parlare con tre bei giovani, magnificamente vestiti, i quali tengono falchi in pugno, e lo stanno ascoltando in attitudine seria. Non è conosciuto l’autore di questa bella composizione, la quale per buona sorte ha sofferto poco, ma sembra dessa appartenere alla scuola del Ghirlandaio. Nella stessa scala trovasi dipinta, dallo stesso penello, la strage degli innocenti. La composizione è semplicissima, e sviluppata con molta espressione. Un gruppo di madri stringono con somma tenerezza i loro bambini al seno, mentre uomini armati muovono loro incontro colle spade sguainate. Non ho vista mai questa scena dolorosa oggetto di predilezione dei pittori di tutti i tempi, trattata con tanta maestria e con sentimento drammatico così profondo; ed in presenza di esso si apprezza tanto più l’intelligenza, ed il sentimento dell’autore, ricordando la orrenda carnificina rappresentata sugli arazzi del Vaticano. [p. 288 modifica] Il pittore di Subiaco comprese che per commuovere gli era mestieri dissimulare, e lasciare indovinare soltanto, quanto quel fatto aveva di troppo crudele, di troppo disumano.

Trovai ancora colà altre pitture originali, particolarmente due figure di S. Stefano e di S. Lorenzo. Il primo è rappresentato nell’atto di essere lapidato, e l’autore, o chi restaurò più tardi quel dipinto, ebbe l’idea di introdurvi veri sassi, ed andò tant’oltre in questa da rappresentare quale oggetto materiale la stessa aureola che circonda il capo del santo, raffigurandola squarciata e rotta da una sassata. S. Lorenzo è rappresentato sotto l’aspetto di un bel giovane, vestito della tonaca di diacono, in piedi sulla graticola, con una palma nella mano destra, ed un libro nella sinistra.

Soggiungerò ancora che dall’ultima cappella che ho descritta, si scende in una piccola grotta, dove vuole la tradizione che S. Benedetto facesse scuola a suoi discepoli. Le mura vi sono rivestite di stucco, e vi si scorgono tuttora avanzi di pitture antichissime.

Tali sono le principali rarità del monastero. Merita però ancora di essere ricordata la corte superiore, dalla quale si ha la migliore vista della rupe gigantesca alla quale sono addossate tutte quelle costruzioni. Dessa scende a picco, e pare minacci schiacciare il monastero, se non che per buona sorte sorge in mezzo alla corte la statua del santo, la quale stende la mano diritta verso la rupe, pronunciando le parole «Ferma o rupe, non danneggiare i figli miei!» Allorquando entrai nella corte vidi tre corvi i quali stavano ai piedi della statua, gracchiando in tuono melanconico. Quegli uccelli indiscreti, colla loro voce rauca, e colle loro penne nere come la tonaca dei Benedettini, mi parvero attributi molto originali del santo, quali sono altri uccelli di alcuni Dei, nella mitologia degli antichi. I corvi figurano più di una volta nella vita di S. Benedetto; ho di già accennato che lo accompagnarono allorquando si portò da Subiaco a Montecassino, e debbo ancora [p. 289 modifica]partecipare al lettore, che gli salvarono pure la vita. Imperocchè una volta che i nemici del santo gli apprestarono vivande avvelenate, i corvi le portarono via su per i monti. Mi pare del resto che il corvo di montagna sia animale addatto per monaci, ed in ogni caso attributo migliore che non il cane colla fiaccola in bocca, che tolsero a simbolo i Domenicani.

Havvi inoltre nel monastero un’altra località la quale richiama alla memoria i tempi antichi, o piuttosto un nome famoso. È questo un piccolo giardino fra gli scogli, tutto piantato di rose. Erano dapprima spine, e precisamente quelle nelle quali S. Benedetto si era rotolato nudo. Allorquando nel 1223 il famoso fondatore dell’ordine di S. Francesco visitò Subiaco innestò rose su quelle spine, le quali continuano a vegetare ed a fiorire. Col tempo si scoprirono a queste rose proprietà miracolose. Un monaco mi diceva con tutta serietà, che ridotte in polvere e tranguggiate, guariscono ogni infermità, e cacciano gli spiriti maligni. Il buon monaco non mi diceva se quelle rose possedessero pure la qualità presiosa di quelle di Apuleio, e non avrà del resto avuto campo di osservarlo.