Rime scelte di M. Cino da Pistoia/Esiglio, dolori civili, morte di Selvaggia

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Esiglio, dolori civili, morte di Selvaggia

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Esiglio, dolori civili, morte di Selvaggia
Dolori dell'amore Ultimi anni
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ESIGLIO, DOLORI CIVILI, MORTE DI SELVAGGIA




LXXVIII


     Sì m’ha conquiso la selvaggia gente
Con gli suoi atti novi,
Che bisogna ch’io provi
Tal pena che morir cheggio sovente.
     Questa gente selvaggia5
È fatta sì per farmi penar forte,
Che troppo affanno sotterra mia vita:
Però chieggio la morte;
Ch’io voglio, innanzi che facci partita
L’anima dallo cor, che tal pena aggia;10
Ch’ogni partenza di quel loco è saggia,
Ch’è pieno di tormento:
Et io, per quel ch’i’ sento,
Non deggio mai se non viver dolente.
     Non mi fora pesanza15
Lo viver tanto, se gaia et allegra
Vedess’io questa gente e d’un cor piano:
Ma ella è bianca e negra,
E di tal condizion ched ogni strano
Che del suo stato intende n’ha pesanza;20
E chi l’ama non sente riposanza,
Tanto n’ha coral duolo:
Dunque, ch’io son quel solo
Che l’amo più, languisco maggiormente.
     Cotal gente già mai non fu veduta,25
Lasso!, simile a questa;
Ch’è crudel di sè stessa e dispietata,

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Che in nulla guisa resta
Gravar sua vita come disperata,
E non si cura d’altra cosa or mai:30
Però quanto di lei pietoso i lai
Movo col mio signore,
Tanto par lo dolore
Per abundanza che ’l mio cor ne sente.
     Altro già che tu, morte a me parvente,35
Non credo che mi giovi:
Mercè dunque! ti movi!
Deh vieni a me, chè mi se’ sì piacente!

(Corretta su la lezione datane dal Mazzoleni nelle Rime oneste.)




LXXIX


     Cecco, io ti prego per virtù di quella
Ch’è della mente tua pennello e guida,
Che tu scorra per me di stella in stella
Nell’alto ciel, seguendo la più fida:
     E di’ chi m’assecura e chi mi sfida5
E qual per me è laïda e qual bella,
Perchè rimedio la mia vita grida
(E so da tal giudizio non s’appella);
     E se m’è buon di gire a quella pietra
Dov’è fondato il gran tempio di Giove10
O star lungo ’l bel Fiore o gire altrove,
     O se cessar della tempesta tetra
Che sopra ’l genital mio terren piove.
Dimmelo, o Tolomeo che ’l vero trove.

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LXXX


     Con gravosi sospir traendo guai,
Donna gentil, dalla vostra rivera,
E contra ’l mio voler, mi dislungai:
Il dimorar peggio che morte m’era.
     Ma per la speme del tornar campai,5
E tornai a veder voi donna fera:
Così non fossi io ritornato mai!
Deh male n’aggia quella terza sfera,
     Perch’è contra di me cotanto strana!
Dolente me tapin! son io giudìo,10
Che nulla val per me mercede umana?
     In che ventura e ’n che punto nacqu' io,
Ch’a tutto ’l mondo sete umile e piana
E sol vêr me tenete ’l cor sì rio?




LXXXI



     Li più begli occhi che lucesser mai,
Oimè lasso!, lasciai:
Ancider mi devea quando il pensai.
     Ben mi dovea ancider io stesso,
Come fe Dido quando quell’Enea5
Le lasciò tanto amore;
Ch’era presente, e fecimi lontano
Da quella gioia, che più mi diletta
Che nulla creatura.
Partirsi da così bello splendore!10
Dov’io tanto fallai,
Che non è colpa da passar per guai.
     Oimè!, più bella d’ogni altra figura,
Perchè tanto peccai,
Che nulla pena mi tormenta assai?15



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LXXXII


     La dolce vista e ’l bel guardo soave
De’ più begli occhi che si vider mai,
Ch’i’ ho perduto, mi fa parer grave
La vita sì ch’io vo traendo guai;
E ’n vece di pensier leggiadri e gai5
Ch’aver solea d’amore,
Porto desii nel core
Che nati son di morte,
Per la partita che mi duol sì forte.
     Oimè! deh perchè, Amor, al primo passo10
Non mi feristi sì ch’io fussi morto?
Perchè non dipartisti da me, lasso!,
Lo spirito angoscioso ched io porto?
Amor, al mio dolor non è conforto:
Anzi, quanto più guardo.15
Al sospirar più ardo;
Trovandomi partuto
Da quei begli occhi ov’io t’ho già veduto.
     Io t’ho veduto in quei begli occhi, Amore,
Tal che la rimembranza me n’occide20
E fa sì grande schiera di dolore
Dentro alla mente, che l’anima stride
Sol perchè morte mai non la divide
Da me; come diviso
Mi trovo dal bel viso25
E d’ogni stato allegro,
Pel gran contrario ch’è tra ’l bianco e ’l negro.
     Quando per gentil atto di salute
Vêr bella donna levo gli occhi alquanto,
Sì tutta si disvìa la mia virtute.30
Che dentro ritener non posso ’l pianto,
Membrando di madonna, a cui son tanto
Lontan di veder lei.
O dolenti occhi miei,
Non morite di doglia?35
Sì per vostro voler, pur che Amor voglia.

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     Amor, la mia ventura è troppo cruda,
E ciò che 'ncontran gli occhi più m’attrista:
Dunque, mercè! che la tua man li chiuda,
Da c’ho perduto l’amorosa vista;40
E quando vita per morte s’acquista,
Gli è gioioso il morire:
Tu sai dove de’ gire
Lo spirto mio da poi,
E sai quanta pietà s'arà di noi.45
     Amor, ad esser micidial pietoso
T’invita il mio tormento:
Secondo c’ho talento
Dammi di morte gioia,
Sì che lo spirto al men torni a Pistoia.50




LXXXIII


     Giusto dolore alla morte m’invita;
Ch’io veggio a mio dispetto ogn’uom giulivo
E non conforto alcuno, stando privo
Di tutto ben, chè ogni gioi’ m’è fallita.
     Ma non so che mi far della finita,5
Ch’al morir volentier già non arrivo;
Così ’n questo dolor, misero!, vivo
In fra 'l grave tormento di mia vita.
     O lasso me, sopra ciascun doglioso!
Se gli occhi miei non cadessero stanchi,10
Mai non avrei di lagrimar riposo;
     Chè a ciò non vuol Amor ch’un’ora manchi.
Poi che in oscuro di stato gioioso
Si mutaro i color vermigli e bianchi.



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LXXXIV


     Lasso!, pensando alla distrutta valle
Spesse fïate del mio natìo sole,
Cotanto me n’accendo e me ne dole,
Che ’l pianto al core 'n sin dagli occhi valle:
     E rimembrando delle nuove talle5
Ch’ivi son delle piante di Vergiole,
Più meco l’alma dimorar non vuole,
Se la speranza del tornar gli falle.
     E senza creder d’aver frutto omai,
Sol di veder il fior era ’l diletto;10
Nè ad altro ch’a quel già mi pensai.
     E se creder non voglio in Macometto,
Dunque, Parte crudel, perchè mi fai
Pena sentir di quel ch’io non commetto?




LXXXV

Frammento


     Quando l’anima trista e ’l corpo e ’l core
Guerreggian tutti insieme per la morte,
Che qual l’adastia e qual pur la disia;
Sovra me sento venir un tremore,
Che per le membra discende sì forte5
Che io non saccio in qual parte i’ mi sia:
Ma allor la donna mia
Per mia salute ricorro a vedere,
La cui ombra giuliva fa sparere
Ogni fantasma che addosso mi greva;10
Ch’ogni gravor mi leva
Lo suo gentile aspetto virtüoso
Che mi fa star gioioso:

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Però membrando ciò testé, che avere
Non posso da tutt'ora tal conforto,15
Dunque sarebbe me’ ch’io fosse morto.
     Di morir tengo col corpo mia parte;
Chè non avrei se non minor tormento,
Ch’io aggia stando senza veder lei.
Deh, travagliar mi potess’io per arte20
E gir a lei, per contar ciò ch’io sento
O per vederla, ch’altro non vorrei!
Piangendo le direi
— Donna, venuto son per veder voi;
Ch’altro che pena non senti’, da poi25
Ched io non vidi la vostra figura.
Menato m’ha ventura
A veder voi, cui mia vita richiede:
Certo che in me si vede
Pietà visibil, se porrete cura30
Ciò che vi mostra il mio smagato viso,
Che mostra fuor come Amor m’ha conquiso. —
     Quand’ïo penso a mia leggiera vita
Che per veder madonna si mantiene,
È la cagion per che io sto gravoso:35
E ’l gaio tempo presente n’invita
Per la fresca verzura a gioia e bene
Chi si sente aver core disïoso:
Ciascheduno amoroso
Va per veder quella donna che ama:40
E ciò vedendo, l’alma mia s’imbrama
Tanto ch’ella non pote star in pace;
Col cor lamento face,
E dice — Lassa!, che sarà di meve? —
Lo core dice — Fia tua vita greve,45
Secondamente ch’ai nostro Amor piace. —
Volesse Dio che, avanti ch’io morissi,
La vedess’io, che consolato gissi.


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LXXXVI


     Lo gran disìo, che mi stringe cotanto,
Di riveder la vostra gran beltate,
Mena spesse fïate
Gli occhi lontani in doloroso pianto:
5E di dolore e angoscia è tal pietate,
Che Amor devrìe venir da qualche canto
A voi, per fare alquanto
Membrar di me la vostra nobiltate;
Poi ch’è secondo la sua voluntate;
10Sì che quasi nïente in me risiede,
Vien d’ogni tempo e riede
Lo spirto, donna mia, ove voi state:
E questo è quel ch’accende più ’l disìo
Che m’uccidrà, tardando il redir mio.
     15Non so se Amor, per questa pietà sola,
In lei cangiato, a voi, madonna, vegna;
Chè pur ciò non m’insegna
Lo ’nnamorato spirito che vola.
Però con più dolor morte mi spegna:
20Ch’io fino; e voi credete a tal parola
Ch’è sì come una sola,
Che morto è quei cui ’l nome or vi disdegna.
Oh Dio!, che ’n vece della morta insegna
Qualche figura pinta in mio sembiante
25Poi v’apparisse avante!
Chè, quandunque di me pur vi sovvegna,
L’alma che sempre andrà seguendo Amore
Gioia n’avrà come fosse nel core.
     Quanto mi fora ben sopra ogni cosa,
30Se voi doveste sopra ’l mio martìro
Far lo pietoso giro
De’ bei vostr’occhi là ’ve Amor si posa!
Chè, come ho sempre desto ’l mio sospiro,
Vi chiamerei, di selvaggia, pietosa.
35Per ciò ched amorosa
Per me chiamarvi avuto ho un desiro;
Ancor che quando in vostra beltà miro

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Che fugge il saver nostro e quanto e come,
Selvaggia n’è 'l bel nome;
Nè fuor di sua proprïetà lo tiro,
S’ancor vo’ dir selvaggia, cioè strana
D’ogni pietà, di cui siete lontana.5
     Ma poi che pur, lontan di voi vedere,
Lasso!, convien che di mia vista caggia
La vostra mente saggia,
E ’l core sempre men potrà valere;
Prego che quel disdegno più non aggia,10
Che nacque allor che cominciò apparere
In me sì come fere
Lo splendor bel che de’ vostr’occhi raggia;
Et ogni mal voler vêr me ritraggia,
Se, guardando, noioso a voi so’ stato;15
E non vi sia in disgrato
Se da me parte, chiamando Selvaggia,
L’anima mia ch’a voi servente viene:
Voi siete ’l suo desìo e lo suo bene.
     Canzone, vanne così chiusa chiusa20
Entro in Pistoia a quel di Pietramala;
E giugni da quell’ala,
Dalla qual sai che ’l nostro signor usa;
Poi sì, se v’è ’l dritto segno. . . . . .
Guardami, come dèi, da cuor malvagio.25




LXXXVII


     Onde ne vieni, Amor, così soave
Con il tuo spirto dolce che conforta
L’anima mia, ched è quasi che morta,
     Vien tu da quella da lo mio cor have?5
Dillomi, che la mente se n’è accorta:
Per quella fè che lo mio cor ti porta,
Di’ se di me membranza le recave.

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     Mercè, Amor, fai; che confortar mi vuoi.
Tu vita e morte, tu pena e tu gioia
Mi dài; e, come signor, far lo puoi.
     Ma, ora che ’l partir m’è mortal noia,
Per dio, che non mi facci come suoi:
Fammi presente, se non vuoi ch’io moia.




LXXXVIII


     La bella stella che ’l tempo misura
Sembra la donna che m’ha innamorato,
Posta nel ciel d’Amore:
E come quella fa di sua figura
A giorno a giorno il mondo illuminato,5
Così fa questa il core
Alli gentili et a quei c’han valore,
Col lume che nel viso gli dimora:
E ciaschedun l’onora;
Però che vede in lei perfetta luce,10
Per la qual nella mente si conduce
Piena vertute a chi se n’innamora:
E questa è che colora
Quel ciel d’un lume ch’agli buoni è duce,
Con lo splendor che sua bellezza adduce.15
     Da bella donna più ch’io non diviso
Son io partito innamorato tanto
Quanto convien a lei,
E porto pinto nella mente il viso;
Onde procede il doloroso pianto20
Che fanno gli occhi miei.
— O bella donna, luce ch’io vedrei,
S’io fossi là d’ond’io mi son partito
Afflitto sbigottito —
Dice tra sè piangendo il cor dolente:25
Più bella assai la porto nella mente
Che non sarà nel mio parlar udito,
Per ch’io non son fornito

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D’intelletto a parlar così altamente
Nè a contar il mio mal perfettamente.
     Da lei si muove ciascun mio pensiero,
Perchè l’anima ha preso qualitate
Di sua bella persona;5
E viemmi di vederla un desidèro
Che mi reca il pensier di sua beltate,
Che la mia voglia sprona
Pur ad amarla e più non m’abbandona,
Ma fallami chiamar senza riposo.10
Lasso!, morir non oso,
E la vita dolente in pianto meno.
E s’io non posso dir mio duolo a pieno,
Non mel voglio però tenere ascoso;
Ch’io ne farò pietoso15
Ciascun cui tiene il mio signor a freno,
Ancora ch’io ne dica alquanto meno.
     Riede alla mente mia ciascuna cosa
Che fu di lei per me già mai veduta
O ch’io l’udissi dire;20
E fo come colui che non riposa,
E la cui vita a più a più si stuta
In pianto ed in languire:
Da lei mi vien d’ogni cosa il martìre;
Che se da lei pietà mi fu mostrata25
Et io l’haggio lassata,
Tanto più di ragion mi dè’ dolere:
E s’io la mi ricordo mai parere
Ne’ suoi sembianti verso me turbata
O ver disnamorata,30
Cotal mi è or quale mi fu a vedere;
E viemmene di pianger più volere.
     L’innamorata mia vita si fugge
Dietro al desìo ch’a madonna mi tira
Senza nïun ritegno;35
E ’l grande lagrimar che mi distrugge,
Quando mia vista bella donna mira,
Diviemmi assai più pregno;
E non sapre’ io dir qual io divegno;
Ch’io mi ricordo allor quand’io vedìa40

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Talor la donna mia,
E la figura sua ch’io dentro porto
Surge sì forte ch’io divengo morto:
Ond’io lo stato mio dir non potrìa,
Lasso!; ch’io non vorrìa5
Già mai trovar chi mi desse conforto,
Fin ch’io sarò dal suo bel viso scorto.
     Tu non sei bella ma tu sei pietosa,
Canzon mia nova; e cotal te n’andrai
Là dove tu sarai10
Per avventura da madonna udita:
Parlerai riverente e sbigottita
Pria salutando, e poi sì le dirai;
Com’io non spero mai
Di più vederla anzi la mia finita,15
Perch’io non credo aver sì lunga vita.

(Corretta su l’edizion giuntina, ove è attribuita ad incerto autore, e su la lezione datane dal Fraticelli nelle Rime apocrife di Dante, ed. cit.)



LXXXIX


     Mille volte ne chiamo il dì mercede,
Dolce mia donna, chè dovunque sia
La mente mia desïosa vi vede;
Et il mio cor da ciò non si desvìa,
Ch’è sì pien tutto d’amor e di fede5
Per voi, ch’ogn’altra novitate oblìa,
In vostra signorìa sì son distretto,
Che morte e vita aspetto
Di me, qual più vi piace,
Pur ch’abbia in su ’l finir la vostra pace,10
E certo sì verace amor mi stringe,
Che già ’l cuor non s’infinge
D’amare ad un rispetto;
Ma tanto ho più d’angoscia e men diletto.

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     Ahimè! spesso m’assale Amor pungendo
In ogni parte il cor, sì che gridare
Mi fa — Mercè! mercè! — forte piangendo;
E poi c’ho pianto, comincio a cantare,
Sempre grata mercede a voi chiedendo,5
Che di bellezza al mondo non ha pare.
E tal vita d’amore ogn’ora porto,
Chè di voi mi conforto
Membrando quand’io canto,
E sovviemmi di me quand’io fo pianto;10
Ch’io riconosco tanto il mio destino,
Che non potrìa Amor fino
Far ch’io venissi in porto
Del mio voler, così n’è ’l tempo corto.
     Sì m’è crudel nemica la ventura,15
Ch’ogni ragione ogni ben mi contende
E strugge quello in che pongo ogni cura;
Perchè pietate da mercè discende,
E mercè da pietà, ch’altronde indura
Il core quanto più gentil voi prende.20
E se ’l vostro non m’imparte a bastanza
D’una greve possanza,
Non è se non ria sorte
Che m’è invidiosa e più crudel che morte.
Dunque perchè sì forte e spesso grido25
Amor? però ch’io sfido
Con la vostra possanza
Vincer, se si mantenga quest’usanza.
     Vola, canzone mia, non far soggiorno;
Passa ’l Bisenzio e l’Agna,30
Riposandoti appunto in su la Brana
Dove Marte di sangue il terren bagna;
E cerca di Selvaggia ogni contorno:
Poi di’ — Senza magagna
Mio signor farà presto a voi ritorno.35



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XC


DANTE A M.CINO


     Poich’io non trovo chi meco ragioni
Del signor cui serviamo e voi ed io,
Convienmi soddisfare il gran desìo
Ch’i’ ho di dire i pensamenti boni.
     Null’altra cosa appo voi m’accagioni5
Dello lungo e noioso tacer mio,
Se non il loco ov’io son, ch’è sì rio
Che ’l ben non trova chi albergo gli doni.
     Donna non c’è che Amor le venga al volto,
Nè uomo ancora che per lui sospiri;10
E chi ’l facesse sarìa detto stolto.
     Ahi messer Cino, com’è il tempo vôlto
A danno nostro e delli nostri diri.
Da poi che ’l ben ci è sì poco ricolto!

(Dal Canzoniere di Dante, edizione Barbèra, 1861.)




XCI


M. CINO A DANTE


     Dante, io non odo in quale albergo suoni
Il ben che da ciascun messo è in oblìo;
E sì gran tempo è che di qua fuggìo.
Che del contrario son nati li tuoni;
     E, per le varïate condizioni,5
Chi ’l ben facesse non risponde al fio:
Il ben sai tu che predicava Dio,
E non tacea nel regno de’ demoni.
     Dunque, s’al bene ogni reame è tolto
Nel mondo, in ogni parte ove tu giri,10
Vuo’mi tu fare ancor di piacer molto?

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     Diletto fratel mio di pene involto,
Mercè per quella donna che tu miri:
Di dir non star, se di fè non sei sciolto.




XCII


     Di nuovo gli occhi miei per accidente
Una donna piacente
Miraron, perchè mia donna simiglia:
E per sola cagion ched io ’l consente,
Sua figura lucente5
Con vaga luce a me porse le ciglia.
Io guardai lei, ma paventosamente,
Come colui che sente
Ch’altra vaghezza con desìo mi piglia.
Per questo al suo dover torna la mente;10
E con valor possente
Tanto ’l voler la sua voglia assottiglia,
Ch’Amor si fa di ciò gran maraviglia.
Ma tace, per veder di me la prova;
Sì li par cosa nova,15
Che per altra beltà cangi la fede.
E celarmi da lui che tutto vede
Non posso, e conscïenzia mi ripiglia.
Ond’io veggio la briglia,
E con gran tema dimando mercede.20




XCIII


     Donna, io vi miro; e non è chi vi guidi
Nella mia mente, parlando di vui:
Tanta paura ha l’anima d’altrui,
Che non trova pensier in cui si fidi;

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     Ond’ella pur convien che pianga e gridi
Dentro allo core ne’ sospiri sui
Per quella donna, della quale io fui
Sì tosto preso pur com’io la vidi.
     Ella mi tiene gli occhi su la mente5
E la man dentro al cor, com’una fiera
Nemica di pietà crudelemente.
     Non si può aitar in nessuna maniera;
Chè, s’essere potesse, solamente
Sareste voi, e non più quella altiera.10




XCIV



     Novellamente Amor mi giura e dice
— D’una donna gentil sì fa riguardo; —
Che per virtute del suo nuovo sguardo
Ella sarà del mio cor beatrice.
     Io, c’ho provato poi come disdice,5
Quando vede imbastito lo suo dardo,
Ciò che promette, a morte mi do tardo;
Chè non potrò contraffar la fenice.
     S’i’ levo gli occhi, e del suo colpo perde
Lo cor mïo quel poco che di vita10
Gli rimase d’un’altra sua ferita,
     Che farò, Dante? ch’Amor pur m’invita,
E d’altra parte il tremor mi disperde
Che peggio che l’oscur non mi sia ’l verde.



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XCV


DANTE A M. CINO


     Io mi credea del tutto esser partito
Da queste vostre rime, messer Cino;
Chè si conviene omai altro cammino
Alla mia nave, già lunge dal lito:
     Ma perch’i’ ho di voi più volte udito,5
Che pigliar vi lasciate ad ogni uncino,
Piacemi di prestare un pocolino
A questa penna lo stancato dito.
     Chi s’innamora, siccome voi fate,
Et ad ogni piacer si lega e scioglie,10
Mostra ch’Amor leggiermente il saetti:
     Se ’l vostro cuor si piega in tante voglie,
Per Dio vi prego che voi ’l correggiate,
Sì che s’accordi i fatti a’ dolci detti.




XCVI

M. CINO A DANTE


     Poi ch’io fui, Dante, dal mio natal sito
Per greve essilio fatto peregrino
E lontanato dal piacer più fino
Che mai formasse ’l piacer infinito;
     Io son piangendo per lo mondo gito,5
Sdegnato del morir come meschino:
E se trovat’ho di lui alcun vicino,
Dett’ho che questo m’ha lo cor ferito.
     Nè dalle prime braccia dispietate
Nè dal fermato sperar che m’assolve10
Son mosso, perchè aita non aspetti.
     Un piacer sempre mi lega e dissolve,
Nel qual convien che a simil di biltate
Con molte donne sparte mi diletti.



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XCVII


     Occhi miei, deh fuggite ogni persona,
E col pianto emendate il gran fallire
Ch’avete fatto sì che di morire
Sete più degni che di cosa alcuna:
     S’Amor per cortesìa non mi perdona,5
Consigliovi anzi piangendo finire
Che voi vogliate lo mio cor tradire:
Di ciò sovente l’Amor v’accagiona.
     Deh!, come mai comparirete avanti
A quella donna, da cui voi faceste,10
Per dipartir, sì dolorosi pianti?
     Diravvi — Poi che voi non mi vedeste,
Occhi vani, voi foste sì costanti
Che 1 cor ch’io haggio sottrar mi voleste. —




XCVIII


     Deh! quando rivedrò ’l dolce paese
Di Toscana gentile
Dove ’l bel fior si vede d’ogni mese,
E partirommi del regno servile,
Che anticamente prese5
Per ragion nome d’animal sì vile;
Ove a buon grado nullo ben si face,
Ove ogni senso e bugiardo e fallace
Senza riguardo di virtù si trova;
Però ch’è cosa nova10
Straniera e peregrina
Di così fatta gente Balduina.
     O sommo vate, quanto mal facesti
A venir qui: non t’era me’ morire
A Piettola colà dove nascesti?15
Quando la mosca per l’altre fuggire
In tal loco ponesti,
Ove ogni vespa doverrìa venire
A punger quei che su ne’ boschi stanno.

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Come scimia senza lingua vi stanno,20
Che non distinguon pregio o bene alcuno.
Riguarda ciascheduno,
Tutti a un par li vedi
De’ loro antichi vizi fatti eredi.
     O gente senz’alcuna cortesìa,25
La cui invidia punge
L’altrui valore e d’ogni ben s’oblìa,
O vil malizia, a te però sta lunge
Di bella leggiadrìa
La penna ch’or Amor meco disgiunge.30
O suolo, suolo, vôto di virtute,
Perchè trasformi e mute
La gentil tua natura,
Già bella e pura, del gran sangue altero?
Ti converrìa un Nero35
O Totila flagello,
Da poi ch’è in te costume rio e fello.
     Vera satira mia, va’ per lo mondo,
E di Napoli conta
Ch’ei ritien quel che ’l mar non vuole al fondo.40




XCIX


     Ciò ch’io veggo di qua m’è mortal duolo,
Poichè io son lunge in fra selvaggia gente;
La quale io fuggo, e sto celatamente,
Perchè mi trovi Amor col pensier solo;
     Chè allor passo li monti e ratto volo5
Al loco ove ritrova il cor la mente;
Imaginando intelligibilmente,
Mi conforta un pensier, che tesse un volo.
     Così non morragg’io, se fia tostano
Lo mio redire a far sì ched io miri10
La bella gioia da cui son lontano:
     Quella, ch’io chiamo, lasso!, coi sospiri,
Perch’odito non sia da cor villano
D’Amor nemico e degli suoi desiri.



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C


     Io guardo per li prati ogni fior bianco
Per rimembranza di quel dhe mi face
Sì vago di sospir ch’io ne chieggo anco:
     E mi rimembra della bianca parte
Che fa col verdebrun la bella taglia5,
La qual vestìo Amore
Nel tempo che, guardando Vener Marte,
Con quella sua saetta che più taglia
Mi diè per mezzo il core:
E quando l’aura move il bianco fiore,5
Rimembro de’ begli occhi il dolce bianco
Per cui lo mio desir mai non fu stanco.




CI


     Deh!, non mi domandar perch’io sospiri;
Ch’io ho testè una parola udita,
E svarïato ha tutti i miei desiri:
Fuor della terra la mia donna è gita;
     Ed ha lasciato me ’n pene e martìri5
Col cuore afflitto; e gli occhi l’han smarrita.
Parmi sentir che or mai la morte tiri
A fine, oh lasso!, la mia grave vita.
     Rimaser gli occhi di lor luce oscuri
Sì ch’altra donna non posso mirare;10
Ma, credendogli un poco rappagare,
     Veder fo loro spesso gli usci e’ muri
Della casa u’ s’andaro a innamorare
Di quella che lo cor fa sospirare.



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CII


     Ohïmè, lasso!, quelle trecce bionde,
Dalle quai rilucièno
D’aureo color i poggi d’ogn’intorno!
Ohimè la bella ciera e le dolci onde,
Che nel cor mi sedièno,5
Di quei begli occhi al ben segnato giorno!
Ohimè ’l fresco et adorno
E rilucente viso!
Ohimè lo dolce riso,
Per lo qual si vedea la bianca neve10
Fra le rose vermiglie d’ogni tempo!
Ohïmè! senza meve.
Morte, perchè ’l togliesti sì per tempo?
     Ohimè caro diporto e bel contegno!
Ohimè dolce accoglienza15
Et accorto intelletto e cor pensato!
Ohïmè ’l bello umile alto disdegno,
Che mi crescea l’intenza
D’odiar lo vile e d’amar l’alto stato!
Ohimè ’l desïo nato20
Di sì bella creanza!
Ohimè quella speranza
Ch’ogni altra mi facea veder a dietro
E lieve mi rendea d’amor il peso!
Ohimè!, rott’hai qual vetro,25
Morte, che vivo m’hai morto et impeso.
     Ohïmè donna ch’ogni virtù donna,
Dea per cui d’ogni dea,
Sì come volse Amor, feci rifiuto!
Ohïmè, di che pietra qual colonna30
In tutto ’l mondo avea
Che fosse degna in aer darti aiuto?
Ohimè!, vasel compiuto
Di ben sopra natura,
Per volta di ventura35
Condotto fosti suso gli aspri monti;
Dove t’ha chiusa, ohimè!, fra duri sassi

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La morte, che due fonti
Fatto ha di lagrimar gli occhi miei lassi.
     Ohïmè, Morte! sin che non ti scolpa,40
Dimmi almen per li tristi occhi miei:
Se tua man non mi spolpa,
Finir non deggio di chiamar omei?

(Corretta su l’edizion giuntina e su la lezione datane dal Fraticelli nelle Rime apocrife di Dante, ed. cit.)



CIII

A DANTE ALIGHIERI


     Dante, io ho preso l’abito di doglia,
E innanzi altrui di lagrimar non curo;
Chè ’l vel tinto ch’io vidi e ’l drappo scuro
D’ogni allegrezza e d’ogni ben mi spoglia;
     Et il cor m’arde in desïosa voglia5
Di pur doler mentre che ’n vita duro;
Tal ch’Amor non può rendermi sicuro,
Ch’ogni dolor in me più non s’accoglia.
     Dolente vo pascendo i miei sospiri,
Quanto posso inforzando 'l mio lamento10
Per quella in cui son morti i miei desiri.
     E però se tu sai nuovo tormento,
Mandalo al desïoso de’ martìri,
Che fìe albergato di coral talento.




CIV

AL MEDESIMO


     Signor, e’ non passò mai peregrino
O ver d’altra maniera viandante
Con gli occhi sì dolenti per cammino
Nè così greve di pene cotante;

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     5Com’io passai per lo monte Apennino;
Ove pianger mi fece il bel sembiante
Le trecce bionde e ’l dolce sguardo fino;
Che Amor con l’una man mi pone avante,
     E con l’altra in la mente mi dipinge
10Un piacer simile in sì bella foggia,
Che l’anima guardandol se n’estinge;
     Poscia dagli occhi miei mena una pioggia
Che ’l valor tutto di mia vita stringe,
S’io non ritrovo lei cui ’l voler poggia.




CV


     Io fui ’n su l’alto e ’n sul beato monte,
Ove adorai baciando il santo sasso,
E caddi ’n su quella pietra, ohimè lasso!,
Ove l’Onesta pose la sua fronte
     5E ch’ella chiuse. d’ogni virtù ’l fonte.
Quel giorno che di morte acerbo passo
Fece la donna dello mio cor lasso,
Già piena tutta d’adornezze conte.
     Quivi chiamai a questa guisa Amore
10— Dolce mio dio, fa’ che quinci mi traggia
La morte a se, che qui giace il mio core. —
     Ma poi che non m’intese il mio signore.
Mi dipartii pur chiamando Selvaggia;
L’alpe passai con voce di dolore.



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CVI

IN MORTE DI ARRIGO VII IMPERATORE


     Da poi che la natura ha fine ’mposto
Al viver di colui, in cui virtute
Com’in suo proprio loco dimorava,
Io prego lei che ’l mio finir sia tosto,
Poi che vedovo son d’ogni salute:5
Che morto è quel per cui allegro andava,
E la cui fama ’l mondo alluminava,
In ogni parte, del suo dolce lome.
Rïaverassi mai? non veggio come.
     In uno è morto il senno e la prodezza,10
Giustizia tutta e temperanza intera.
Ma non è morto: lasso!, che ho io detto?
Anzi vive beato in gran dolcezza,
E la sua fama al mondo è viva e vera,
E ’l nome suo regnerà ’n saggio petto;15
Che vi nutricherà lo gran diletto
Della sua chiara e buona nominanza,
Sì ch’ogni età n’avrà testimonianza.
     Ma quei son morti, i quai vivono ancora,
Che avean tutta lor fede in lui fermata20
Con ogni amor sì come in cosa degna;
E malvagia fortuna in subit’ora
Ogni allegrezza nel cor ci ha tagliata:
Però ciascun come smarrito regna.
O somma maestà giusta e benegna,25
Poi che ti fu ’n piacer tôrci costui,
Danne qualche conforto per altrui.
     — Chi è questo somm’uom, potresti dire
O tu che leggi, il qual tu ne racconte
Che la natura ha tolto al breve mondo,30
E l’ha mandato in quel senza finire
Là dove l’allegrezza ha largo fonte? —
Arrigo è imperador, che del profondo
E vile esser qua giù su nel giocondo
L’ha Dio chiamato, perchè ’l vide degno35

[p. 128 modifica]

D’esser co gli altri nel beato regno.
     Canzon, piena d’affanni e di sospiri,
Nata di pianto e di molto dolore,
Movi piangendo, e va’ disconsolata;
E guarda che persona non ti miri40
Che non fosse fedele a quel signore
Che tanta gente vedova ha lasciata:
Tu te n’andrai così chiusa e celata
Là dove troverai gente pensosa
Della singular morte dolorosa.45

(Corretta e migliorata su la lezione datane dal conte Galvani nelle Osservazioni sulla poesia dei trovatori, Modena, 1829.)




CVII

SUL MEDESIMO SOGGETTO


     L’alta virtù, che si ritrasse al cielo
Poi che perdè Saturno il suo bel regno
E venne sotto Giove,
Era tornata nell’aurato velo
Qua giuso in terra ed in quell’atto degno5
Che ’l suo effetto move:
Ma perchè le sue ’nsegne furon nuove
Per lungo abuso e per contrario usaggio,
Il mondo reo non sofferse la vista;
Onde la terra trista10
Rimasa s’è nell’usurpato oltraggio,
E ’l ciel s’è reintegrato come saggio.
     Ben de’ la trista crescere il suo duolo,
Quant’ha cresciuto il disdegno e l’ardire
La dispietata Morte:15
E però tardi si vendica ’l suolo
Di Linceo, che si schifa di venire
Dentro dalle sue porte;
Ma contro a’ buoni è sì ardita e forte,
Che non ridotto di bontà ne schiera20

[p. 129 modifica]

Né valor val contr’a sua dura forza;
Ma, come vuole e a forza,
Ne mena ’l mondo sotto sua bandiera;
Né altro fugge da lei che laude vera.
     L’ardita Morte non conobbe Nino,25
Non temèo d’Alessandro né di Iulio
Né del buon Carlo antico;
E, mostrandone Cesar e Tarquino,
Di quei piuttosto accresce il suo peculio
Ch’è di virtute amico:30
Sì come ha fatto del novello Enrico,
Di cui tremava ogni sfrenata cosa,
Sì che l’esule ben sarìa redito
Ch’è da virtù smarrito,
Se morte non gli fosse sta’ noiosa:35
Ma suso in ciel lo abbraccia la sua sposa.
     Ciò che si vede pinto di valore,
Ciò che si legge di virtute scritto,
Ciò che di laude suona,
Tutto si ritrovava in quel signore40
Enrico, senza par, Cesare invitto,
Sol degno di corona.
E’ fu forma del ben che si ragiona,
Il qual gastiga gli elementi e regge
Il mondo ingrato d’ogni previdenza;45
Per che si volta senza
Rigor che renda il timor alla legge
Contro la fiamma delle ardenti invegge.
     Veggiam che Morte uccide ogni vivente,
Che tenga di quell’organo la vita50
Che porta ogni animale:
Ma pregio che dà virtù solamente
Non può di Morte ricever ferita,
Perch’è cosa eternale.
A chi ’l permette amica, vola e sale55
Sempre nel loco del saggio intelletto,
Che sente l’aere ove sonando applaude
Lo spirito di laude,
Che piove Amor d’ordinato diletto,
Da cui il gentil animo è distretto.60

[p. 130 modifica]

     Dunque, al fin pregio che virtude spande
E che diventa spirito nell’âre
Che sempre piove Amore,
Solo ivi intender de’ l’animo grande;
Tanto più con magnifico operare,65
Quant’è in stato maggiore:
Ne è uom gentil ne re ne imperadore,
Se non risponde a sua grandezza l’opra;
Come facea nel magnifico prince,
La cui virtute vince70
Nel cor gentil, sì ch’è vista di sopra,
Con tutto che per parte non si scuopra.
     Messer Guido Novello, io son ben certo
Che ’l vostro idolo, Amor, idol beato,
Non vi rimuove dall’amore sperto75
Per ch’è infinito merto:
E però mando a voi ciò che ho trovato
Di Cesare, che al cielo è incoronato.

(Corretta su la lezione che ne dà il Fraticelli nelle Rime apocrife di Dante, ed. cit.)



CXVIII

A M. AGATON DRUSI


     Ciò che procede di cosa mortale
Convien provar naturalmente morte;
Contra la qual valor niente vale;
Senno o beltade non è vèr lei forte;
     Et è questo crudele e duro male,5
Qie vita stringe, d’està umana sorte;
E spesse volte gioventute assale.
Et a ciascuna età rompe le porte.

[p. 131 modifica]

     Non si può racquistar mai con preghiera
Nè con tormento di doglia o di pianto10
Ciò che divora esta spietata fiera.
     Però, dopo ’l dolor che v’ha cotanto
Fatto bagnar di lagrime la ciera,
Ben vi dovreste rallegrare alquanto.




CIX


     O Morte, della vita privatrice
E de’ ben guastatrice,
Davanti a cui di te porrò lamento?
Altri non sento che ’l divin fattore:
Perchè tu, d’ogni età divoratrice,5
Sei fatta imperatrice,
Sì che non temi fuoco acqua nè vento:
Non ci vale argomento al tuo valore;
Tutt’or ti piace eleggere il migliore,
Lo più degno d’onore.10
Morte, sempre dai miseri chiamata
E dai ricchi schivata come vile,
Troppo se’, ’n tua potenza, signorile:
Non previdenza umìle,
Quando ci togli un uom fresco e giulivo.15
Ahi, ultimo accidente distruttivo!
     Ahi. Morte oscura di laida sembianza,
Ahi di nave pesanza,
Che ciò che vita congiunge e nutrica
Nulla ti par fatica a sceverare!20
Perchè, radice d’ogni sconsolanza,
Prendi tanta baldanza?
D’ogni uom sei fatta pessima nemica,
Doglia nova ed antica fai gridare,
Pianto e dolor tutt’or fai ingenerare:25
Ond’io ti vo’ biasmare;
Chè, quando l’uom prende diletto e posa
Da sua novella sposa in questo mondo,

[p. 132 modifica]

Breve tempo lo fa viver giocondo,
Che tu lo tiri a fondo;30
Poi non ne mostri ragion ma usaggio,
Onde riman doglioso vedovaggio.
     Ahi, Morte, partimento d’amistate!
Ahi senza pietate
Di ben matrigna et albergo di male!35
Già non ti cale a cui spegni la vita,
Perchè tu, fonte d’ogni crudeltate,
Madre di vanitate,
Sei fatta arciera et in noi fai segnale;
Di colpo omicidial siei sì fornita.40
Ahi come tua possanza fie finita,
Trovando poca vita,
Quando fìe data la crudel sentenza
Di tua fallenza dal segno superno,
Poi fìe tuo loco in fuoco sempiterno!45
Lì starai state e verno,
Là dove hai missi papi e imperadori
Re e prelati et altri gran signori.
     O Morte, fiume di lagrime e pianto,
Inimica di canto,50
Desidro che visibile ci vegni;
Perchè sostegni sì crudel martìre,
Perchè di tant’arbitro hai preso manto
E contra tutti il vanto.
Ben par nel tuo pensier che sempre regni,55
Poi ci disdegni in lo mortai patire.
Tu non ti puoi, maligna, qua coprire
Nè da cagion disdire,
Che ben trovasi più di te possente;
Ciò fu Cristo, possente alla sua morte,60
Che prese Adamo, e disprezzò le porte,
Incalzando te forte:
Allora ti spogliò della vertute
E dall’inferno tolse ogni salute.
     Ahi, Morte nata di mercè contrara,65
Ahi passïone amara!
Sottil ti credo poner mia questione
Contra falsa ragion della tua opra;

[p. 133 modifica]

Perchè tu fatta nel mondo vicara
Se vien senza ripara,70
Nel dì giudizio avrai quel guiderdone
Che la stagione converrà che scopra.
Ahi come avrai in te la legge propra!
Ben sai che Morte adopra
Simile di ricever per giustizia.75
Poi tua malizia sarà raffrenata
O da terribil Morte giudicata,
Come sei costumata
In farla sostener ai corpi umani.
Per mia vendetta vi porrò le mani.80
     Ahi, Morte! s’io t’avessi fatta offesa
O nel mio dir ripresa,
Non mi t’inchino ai piè, mercè chiamando;
Chè disdegnando io non chero perdono;
Io so che non avrò vêr te difesa,85
Però non fo contesa;
Ma la lingua non tace mal parlando
Di te in reprovando cotal dono.
Morte, tu vedi quale e quanto sono,
Che con teco ragiono:90
Ma tu mi fai più muta parlatura,
Che non fa la pintura alla parete.
E come di distruggerti ho gran sete,
Che già veggio la rete
Che tu acconci per voler coprire95
Cui troverai a vegliar o dormire!
     Canzon, andra’ne a quei che son in vita
Di gentil core e di gran nobiltate:
Di’ che mantengan lor prosperitate,
E sempre si rimembrin della Morte,100
In contrastarle forte;
E di’, che se visibil la vedranno,
Che faccian la vendetta ch’ei dovranno.



[p. 134 modifica]


CX


     Mille dubbi in un dì mille querele
Al tribunal dell’alta imperatrice
Amor contro me forma irato, e dice
— Giudica chi di noi sia più fedele.
     Questi, sol mia cagion, spiega le vele5
Di fama al mondo, ove sarìa ’nfelice. —
— Anzi d’ogni mio mal sei la radice,
Dico, e provai già di tuo dolce il fele. —
     Et egli — Ahi falso servo fuggitivo!
È questo il merto che mi rendi, ingrato,10
Dandoti una a cui ’n terra egual non era? —
     — Che vai, seguo, se tosto me n’hai privo? —
— Io no — risponde. Et ella — A sì gran piato
Convien più tempo, a dar sentenza vera. —