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Saggi critici/Dell'argomento della «Divina Commedia»

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Dell'argomento della «Divina Commedia»

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Dell'argomento della «Divina Commedia»
«Cours familier de littèratur» par M. de Lamartine Carattere di Dante e sua utopia
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DELL’ARGOMENTO DELLA «DIVINA COMMEDIA»


La critica antica non comprese, non poteva comprendere Dante; la Divina Commedia stava troppo al di sopra, troppo fuori delle sue regole. Avvezza a giudicare secondo certi modelli, non seppe qual luogo assegnare ad una poesia cosí originale. E, ponendo la forma nella elocuzione e nella lingua, che sono i semplici suoi mezzi materiali, trovò che la forma era ancor cruda e rozza. Il che spiega la sua predilezione per il Petrarca e l’obblio nel quale dopo un’ammirazione inintelligente cadde la Divina Commedia. Si citava ancora, si ammirava come per un tacito accordo. «Sit Divus, ne sit vivus.». Continuarono a chiamarla «divina», ma non la lessero piú.

La scuola moderna è stata in principio sotto il nome di romantica, parziale, sistematica; ora l’esagerazione è finita. Alzatasi dalla polemica ad unitá superiore, in luogo del rispetto tradizionale e passivo per gli antichi, ha in noi destata una conscia ammirazione verso di quelli; ha ristorata l’autoritá delle regole divenute un cieco dommatismo, col riaccostarle ai loro principi] generatori; ed ha insieme combattuta T imitazione degli antichi e richiesto nell’arte la veritá e la freschezza della vita moderna. Ritirando la critica dalle quistioni accessorie, nelle quali s’era impicciolita, l’ha sollevata alla contemplazione dell’arte nella sua sostanza e ne ha fatta una scienza. Ha proclamata la veritá e l’indipendenza dell’arte e la libertá delle forme. [p. 89 modifica]In nome della veritá ha proscritto tutto ciò che di letterario e di fattizio s’era insinuato nell’arte. In nome dell’indipendenza ha cacciato via tutti quei fini religiosi, politici, morali, dietro ai quali si svia la critica volgare. In nome della libertá delle forme ha saputo comprendere e dare il debito luogo ad ogni vera grandezza, cosí ad Omero come a Dante, cosí a Shakespeare come a Racine.

Ma questa critica non è pura del difetto che abbiamo notato nella scuola antica. Anch’ella giudica spesso «a priori»; si pone innanzi certe regole generali e tutto misura a quella stregua. Abbiamo giá una metafisica del bello sotto nome di estetica, dalla quale si sono cavate e messe in giro una ventina di formole, che, separate dal loro centro e ripetute ad ogni proposito, vanno perdendo ogni serietá di significato, incomprese per chi le dice e noiose per chi le sente. E non puoi parlare di un lavoro, che non ti giunga all’orecchio, qui dignitá, ordine, decoro, eleganza, puritá, e lá finito ed infinito, reale ed ideale, letteratura sociale, storica, filosofica, poeta, pittore, scultore, musico, e l’idea e il vero, il buono, il bello.

Le regole generali sono mere astrazioni, quando me le segregate dalla materia, in cui solo hanno la loro veritá. Esistono nell’arte, come esistono nel mondo, comuni a tutti gli esseri, ma in ciascuno con certe condizioni e determinazioni che lo fanno esser quello e non un altro. Il sostanziale dunque di un argomento è, non in quello che ha di comune con tutti gli altri, ma in quello che ha di proprio ed incomunicabile. L’argomento non è «tabula rasa», una cosa su cui possiate imprimere quel suggello che vi piace. È una materia condizionata e determinata, contenente giá in sé virtualmente la sua poetica, cioè le sue leggi organiche, il suo concetto, le sue parti, la sua forma, il suo stile. È un piccolo mondo che nasconde nel suo seno grandi tesori, visibili solo all’occhio poetico. L’ingegno mediocre o non ci vede nulla, o vede frammenti, e ci aggiunge del suo, guastandolo e violandolo. Ma chi è poeta si lascia attirare amorosamente dal suo argomento, rimane rapito, e come sepolto in lui, si fa la sua anima ed obblia tutto quell’altro di sé che non [p. 90 modifica]vi si accorda. Bisogna innamorarsene, vivere in lui, diventare lui; ed allora lo vedrete, quasi animato dal vostro sguardo, muoversi, spiegarsi a poco a poco secondo la sua natura e rivelare tutte le sue ricchezze.

Noi dunque vogliamo, con animo libero di ogni preoccupazione, contemplare il mondo dantesco, interrogarlo pazientemente, dargli, quanto è in noi, la seconda vita. Perché l’ufficio positivo del critico è di rifare quello che ha fatto il poeta, rifarlo a suo modo e con altri mezzi.

A quel tempo erano in voga, fuori d’Italia, racconti epici, raggruppantisi intorno ad alcuni personaggi tradizionali, un re, un eroe, de’ paladini. Gl’italiani non vi misero mano che piú tardi e per prendersene spasso, immortalandoli con una perfezione di forma, a cui non seppero aggiungere le altre nazioni.

Mancò all’Italia un Cid, un Arturo, un Carlomagno, le mancarono tradizioni cavalleresche e feudali. Di che alcuni, come il Wegele, si sono affrettati a conchiudere che le mancarono tradizioni nazionali. Dalle premesse alla conclusione ci è una bella differenza.

Le tradizioni cavalleresche si riferiscono all’antica storia di quelli, che gl’italiani allora chiamavano «barbari». La storia d’Italia, durante una parte del Medio evo, fu la storia di questi suoi conquistatori. Venne poi il tempo della libertá e della coltura. Si fe’ guerra ai castelli, le cittá si ordinarono a popolo, non si piegò il capo nemmeno all’imperatore. Or questa gente che si vendicava in libertá era, non il Goto, non il Saracino, non il Normanno e non il Longobardo, era la gente conquistata, il popolo italiano che avea serbata coscienza di sé attraverso a tante invasioni. Fatto notabile! I Galli diventarono Franchi; i Brettoni, Anglosassoni; gli Spagnuoli furono profondamente trasformati dagli Arabi; gl’italiani rimasero Italiani. E quando dopo lunga e silenziosa servitú acquistarono la signoria di sé stessi, quando, sparsasi una certa coltura nel paese, poterono dare una forma a’ loro sentimenti, non cercarono le loro tradizioni in tempi, ne’ quali trovavano le orme degli stranieri in casa loro, ma valicarono rapidamente l’etá di mezzo, che essi [p. 91 modifica]consideravanovano come etá di oppressione, di tenebre e di barbarie, e corsero diritto alla storia romana, come a loro propria storia.

I Reali di Francia, per esempio, letti e sparsi in Italia, non produssero alcuna letteratura. Noi ci svegliammo e ci trovammo ancora romani. Tanto intervallo di tempo, tanta gravita di avvenimenti non furono potenti a dividerci da quel passato, dal nostro passato. Eravamo trasformati e non ce ne accorgevamo. Ci credevamo sempre lo stesso popolo romano, signore del mondo. Con orgoglio romano continuammo a chiamar «barbari» gli stranieri. Non s’indirizza la parola all’imperadore che non gli si parli della grandezza e della gloria di Roma. Cola da Rienzo arringa come un tribuno antico. Lo storico non comincia il racconto senza indugiarsi un po’ su quei prischi tempi. Il fiorentino mena vanto della sua origine romana. E fino la vecchierella favoleggia, non di Carlomagno o di Arturo, ma

                              

De’ troiani e di Fiesole e di Roma.

                              

Queste tradizioni a’ tempi di Dante aveano una importanza politica. Il partito ghibellino era fondato su di esse, e Dante se ne vale nella Monarchia a sostegno del suo sistema. Voleva continuare la storia dell’aquila, suscitare e continuare il nostro passato.

II fondamento di queste tradizioni era l’Eneide di Virgilio, dove trovi ad un tempo le origini di Roma e la glorificazione dell’impero. Vi si aggiungeva la storia romana mescolata con gli errori, i costumi e le opinioni di quel tempo.

Ma se fu possibile ai poeti di altre nazioni formare de’ racconti epici sulle loro tradizioni, che non discordavano sostanzialmente da’ loro tempi, la differenza della religione e della vita moderna separava dalle nostre il poeta. Perché la tradizione non consiste nel puro fatto. La religione, i costumi, le istituzioni, le dottrine costituiscono la sua vita interiore. Ora, tutto questo era morto in gran parte, e nessun poeta potea risuscitarlo. Ond’è che queste tradizioni non poterono fondare niente di sostanziale nella letteratura: ben vi entrarono come accessorio, spesso in grottesco contrasto col presente. [p. 92 modifica]

Accanto a queste memorie c’era la vita moderna, e, centro d’essa, l’idea religiosa. La quale presso gli altri popoli poté immedesimarsi con le loro tradizioni, calare in terra, mescolarsi con le passioni e gl’interessi; presso di noi rimase e dovea rimanere fuori del nostro passato. Onde non avemmo un genere di poesia, come il poema cavalleresco, nel quale tradizione e religione formassero un tutto poetico. Avemmo due generi puramente religiosi, la visione e la leggenda. Nel primo è rappresentato il maraviglioso dell’altro mondo; nel secondo il maraviglioso de’ fatti umani. Spesso si confondono: la visione penetra nella leggenda ed accresce la maraviglia. Le Vite del Cavalca, i racconti del Passavanti, i Fioretti di s. Francesco ce ne porgono molti esempii, oltre la lunga lista di visioni che ci hanno data il Labitte, l’Ozanam ed il Kopisch.

Il sentimento che dominava in queste visioni era in generale il terrore, come si richiedea a far effetto sulle rozze fantasie. Il diavolo ci avea il primo luogo; si gareggiava di ferocia nella invenzione delle pene, sí dell’inferno, come del purgatorio.

Ben presto dal pulpito e da’ libri passarono nelle piazze. Si tradussero in drammi, se ne fecero pubbliche rappresentazioni. Il demonio, i dannati, le anime purganti dovettero sugli spettatori produrre gli stessi effetti che le terribili Eumenidi degli antichi. Ci era in tutto ciò un concetto tragico, la perdizione dell’anima, manifestato in azioni particolari, parte raccontate, parte rappresentate, come negli inizii del dramma greco. Ora, Dante s’impadroní di questo argomento, che avea mostrato solo qualche frammento di sé a questo e a quello; se ne impadroní, lo abbracciò in tutta la sua ampiezza e vi pose a fondamento la redenzione dell’anima. Cosí la tragedia fu trasformata in una commedia, che i posteri chiamarono «divina».

Questo argomento è l’ultima pagina della storia umana, e, per dirla poeticamente, lo scioglimento del dramma terrestre. Il sipario è calato; la porta del futuro è chiusa; l’azione è finita al movimento della libertá è succeduta l’immutabile necessitá, un presente eterno. Che cosa ci è in fondo? La morte della libertá, l’annullamento della storia. [p. 93 modifica]

È un mondo perfetto, l’ultima parola di Dio, la creazione finale a sua immagine, dove la materia è affatto doma dallo spinto. Non ci hai accidente, né mistero, né opposizione, né contraddizione. Tutto è determinato, tutto è misurato secondo una logica prestabilita e visibile, secondo T idea morale. Non ci è più reale ed ideale, i due termini diventano identici. Onde nasce che l’arte non può sottoporsi perfettamente questo mondo figlio del pensiero puro e consapevole della sua origine. Al di sopra della forma persiste il pensiero, e tutti gli sforzi del poeta non bastano a sradicare questo fondo prosaico. La poesia, figlia del cielo, dee calare in terra e prender corpo. Qui lascia la terra, si mette al di sopra dell’umano, al di sopra della storia, si scorpora, si spiritualizza, si fa immobile come una cifra, si fa scienza.

Il poeta non coglie il mondo nel suo immediato, ma dee costruirlo egli stesso secondo i concetti teologici e filosofici, secondo Aristotile e san Tommaso. Prima di essere il poeta, dee essere il filosofo e l’architetto del suo mondo.

La natura non è qui l’opera misteriosa di Dio, Iside velata. Non hai piú il fenomeno fuggevole, che col poco che ti mostra ti fa intravedere un ignoto di lá, non raggiunto e non raggiungibile mai: in che è il massimo incanto della poesia. Qui apparenza e sostanza è tutt’uno; sei nel regno del vero. Il velo è trasparente; i pudibondi secreti della natura, le mezze tinte, i chiaroscuri, le false e le mezze apparenze, i contrasti, l’accidente, tutto questo è distrutto. La natura in terra soprastá indifferente al vario gioco delle umane passioni: disaccordo che l’arte cerca talora di vincere chiamandola con appassionata illusione a parte delle nostre gioie e de’ nostri dolori, e che talora accetta come espressione di una disarmonia piú alta, dell’indifferenza del Fato alle umane miserie.

                                    .  .  .  .  .  Roma antica ruina
Tu si placida sei?
                              

Qui il disaccordo è cessato, la natura diviene il teatro, che il poeta accomoda alla rappresentazione, una immagine perfetta [p. 94 modifica]dell’idea, una cifra del pensiero. L’enigma se ne va e con esso gran parte di poesia.

Come nella natura è distrutto l’accidente, cosí nell’uomo il libero arbitrio. Nel mondo dell’immutabile non ci può essere azione: sarebbe un controsenso. Collisioni, intrighi, vicissitudini, catastrofi, tutto ciò che è consueta materia di poesia, non ha piú scopo. Non ci può esser dunque un’azione che gradatamente si snodi di mezzo a’ contrasti, e desti attrattivo e sospensione come nell’Iliade, nell’Orlando e in altrettali poemi e romanzi, che perciò si leggono cosí avidamente e quasi di un fiato. In quella vece hai quadri sciolti, ciascuno compiuto per sé; e come un personaggio ti desta interesse, ed eccotelo sparire davanti per dar luogo ad un altro. Né solo ogni azione è cessata, ma ogni vincolo che lega gli uomini in terra è sciolto. Patria, famiglia, ricchezze, dignitá, titoli, costumi, mode, quanto nella societá è di artifiziato e convenzionale, che pure è tanta parte di poesia, non ha piú luogo; l’uomo vi è nudo, Filippo il Bello spogliato della sua porpora e Nicolò III della sua tiara. Cosa dunque resta all’uomo? Un sentimento generale di gioia e di dolore, senza successione, senza gradazione, senza contrasto, senza eco, quasi una interiezione. Hai una eterna ripetizione. È l’uomo che si perde nella natura e la natura che si perde nella scienza.

Tale è l’argomento. L’epopea è impossibile, perché manca l’azione. Il dramma è distrutto nella sua radice, perché manca la liberta. L’anima è come presa di parafisi, e rimane eternamente in quello stato, in cui la malattia l’ha colta. Non cozzo di caratteri e di passioni; l’uomo vi è morto, l’uomo come essere libero, volente, possente, operante. La lirica è ridotta ad una corda unica, che ripete solitaria il suo suono, piuttosto simile al vago della musica, che alla chiarezza della parola. Rimane l’esistenza nella sua immobile estrinsechezza, semplice materia di descrizione: l’uomo stesso ci è descritto. Rimane un poema descrittivo-didascalico.

Abbiamo dunque due soggetti, l’uno puramente religioso che gitta la poesia fuori dell’umanitá, l’altro storico-politico, [p. 95 modifica]fondato su tradizioni essenzialmente discordi dalla vita moderna: due poesie incompiute. L’una volge le spalle alla vita, l’altra la mescola di elementi discordi.

È inutile discutere quale di questi due soggetti si presentò prima a Dante: se le sue opinioni e le sue passioni politiche gli fecero trovar l’altro mondo come materia acconcissima a manifestarle, secondo che stimano alcuni; o se l’altro mondo, come mi par piú probabile, fu concepito dapprima in sé stesso e seriamente.

Come si sia, Dante fuse questi due soggetti, facendo di sé medesimo lo spettatore, anzi il protagonista del suo mondo. Uomo vivo, penetra nel regno delle ombre, e ci porta seco tutte le sue passioni d’uomo e di cittadino, e fa risonare di terreni fremiti fino le tranquille volte del cielo: cosí ritorna il dramma, e nell’eterno ricomparisce il tempo. Egli è come un ponte gittate tra il cielo e la terra. Alla vista e alle parole d’un uomo vivente le anime rinascono per un istante, risentono antiche passioni, riveggono la patria, gli amici. In seno dell’infinito ripullula il finito; ricomparisce la storia, ricompariscono caratteri e passioni. In mezzo all’immobilitá dell’avvenire vive e si agita l’Italia, anzi l’Europa del decimoquarto secolo, col suo papa e imperatore, coi suoi re e popoli, co’ suoi costumi, i suoi errori, le sue passioni. È il dramma di quel secolo rappresentato nell’altro mondo e scritto da un poeta che è egli stesso uno degli attori.

Con questa felice concezione la poesia abbraccia tutta la vita, cielo e terra, tempo ed eternitá, umano e divino; ciò che di piú astratto ha l’intelligenza, e ciò che di piú concreto ha la realtá!

L’indirizzo dottrinale e mistico dell’altro mondo viene in parte rintuzzato; ed una poesia fondata sul soprannaturale diviene profondamente umana e terrena, con la propria impronta dell’uomo e del tempo.

In grembo del soprannaturale riapparisce la natura terrestre come opposizione, paragone o rimembranza; rivediamo le nostre valli e i fiumi e i monti e le cittá ed i campi. Trasportata la [p. 96 modifica]terra nell’altro mondo, mentre gli comunica qualche cosa d’immediato e di palpabile, tal che ci par quasi di trovarci in casa nostra, ne riceve alcun che di solenne e d’ideale.

Vi riapparisce l’accidente ed il tempo, la storia e la societá, in tutta la sua vita esterna ed interiore, religiosa, morale, politica, intellettuale; onde in seno all’altro mondo germoglia l’epopea, il poema eroico e nazionale. È il poema dell’umanitá ed insieme il poema d’Italia. Può Dante rappresentarci le tradizioni italiane senza essere costretto, come gli altri poeti, o a violare l’antichitá o a violare la vita moderna. Nell’altro mondo ogni differenza sociale o nazionale è sparita; uno stesso destino uguaglia tutti. Ci è somiglianza d’anima, non di veste o di titolo o di patria; Alessandro può stare accanto ad Ezzelino, e Bruto insieme con Giuda.

Può su questo fondo tradizionale pompeggiare la storia contemporanea. Il papa, l’imperatore, il re di Napoli, i Cerchi e i Donati, le ire, le ambizioni, le discordie, i costumi di quel tempo, ecco il quadro, a cui può servire di magnifica cornice la tradizione virgiliana.

L’uomo esce dalla sua immobilitá e si riveste di carne; si dá pensiero della sua memoria in terra, si affligge e si rallegra delle notizie che riceve, minaccia, si sdegna, si vendica, predice, ammonisce, fa satire o elogi. Rinasce ogni varietá di passioni, di caratteri, d’interessi terrestri.

Il poeta può rappresentarci sé stesso in ciò che ha di più intimo e personale, i suoi amori, i suoi odii, la sua storia privata. Può congiungere col fine generale de’ fini particolari, senza che sia alterata l’unitá del suo mondo. Diviene il centro della sua creazione, l’accento lirico, l’eco appassionata di quella.

Cosi, in un soggetto di sua natura esclusivo e monotono spunta una infinita varietá. Tutto ciò che la vita ha di piú fuggevole ci può trovar luogo.

Quest’ardita concezione, non potuta intendere dalla maggior parte degl’interpreti, è stata chiamata una mescolanza, e qualificata di strana e di barbara. Non potendo cogliere il legame che congiunge i due mondi, per difendere l’unitá della [p. 97 modifica]poesia, si è fatto dell’un mondo il principale, e dell’altro l’accessorio. Il Vellutello, il Landino, lo Schlegel, il Quinet, l’Ozanam, ed anche in parte Hegel e Schelling considerano in questo argomento principalmente il lato mistico e soprannaturale. Per altri al contrario l’altro mondo è un mezzo, un’occasione e quasi un’arma, di cui siesi valuto il poeta per conculcare i suoi avversarii, e rinchiudono l’immensitá ed il poetico della concezione nell’angustia e nella prosa d’uno scopo politico, portando l’esagerazione sino a fare dell’altro mondo un velo allegorico di questo. Per i primi il terreno è un elemento intruso dalle passioni del poeta, sí che la poesia riesce, come dice uno di loro, strano mescolamento di sacro e di profano; Schlegel s’indegna del ghibellinismo del poeta; Edgardo Quinet rimane «choqué», veggendo che le passioni terrene nel cantore turbano perfino la calma del paradiso; e Lamartine, non abbiamo inteso Lamartine chiamare questa poesia una «gazzetta fiorentina ’? Per gli altri, che guardano principalmente al lato storico e politico, come il Marchetti, il Troya, il Foscolo, il Rossetti, l’Aroux, è grave impaccio la serietá, con cui il poeta rappresentaci l’altro mondo, troppo in veritá per un’allegoria. Cosí le due scuole sacrificano l’un mondo in servigio dell’altro. Dante ci ha voluto mettere cielo e terra; loro, chi ci vede il cielo e chi la terra.

Che cosa è questa poesia? È la vita umana guardata dall’altro mondo.

La vita è di una inesauribile ricchezza, e, secondo che tu la guardi da un lato o dall’altro, ti scopre sensazioni, sentimenti, aspetti nuovi. Mutato l’orizzonte, si muta lo spettacolo; le stesse cose ti appariscono con un’altra faccia; ti par quasi di avere acquistato un sesto senso che ti rivela un nuovo mondo e te lo fa lucere innanzi con la giovinezza e la maraviglia delle prime impressioni.

Dante ha aggiunto questo nuovo senso alla poesia, cambiando il punto di prospettiva. La poesia ordinaria ha la sua sede in terra; i Celesti scendono quaggiú, si mescolano cogli uomini, si fanno attori. Dante ha trasportato la terra nel cielo, ha capovolta la base. L’altro mondo rende i corpi ombre, ombre [p. 98 modifica]gli affetti e le grandezze e le pompe terrene, spiritualizza, trasfigura la storia. I personaggi piú volgari, le cose piú indifferenti acquistano un significato, diventano poesia, guardate nell’altro mondo. Ciacco e Taide, perché portano il suggello dell’eternitá sulla fronte, acquistano proporzioni ideali, e ti destano sentimenti che certo non proveresti, se l’incontrassi in terra. La storia contemporanea resiste alla poesia, perché ti mostra una realtá senza ombre, con contorni fissi, ribelle alla immaginazione. Ma, collocata nell’altro mondo, la realtá ti trema innanzi, ti si trasfigura, i personaggi piú noti acquistano un’altra faccia, perché ti appariscono sul piedistallo dell’infinito. Farinata lo vedi a duemila anni di distanza, ti sembra contemporaneo di Capaneo. Il maraviglioso ti si affaccia di per sé, senza bisogno che tu lo cerchi, solo in virtú della situazione. Hai nuove attitudini, nuove sensazioni, nuove maniere di esprimerle.

Che cosa è questa poesia? È la terra guardata dall’altro mondo. Aggiungete ora: è l’altro mondo guardato dalla terra.

Invano direte al poeta: — Voi entrate in un tempio; spogliatevi delle vostre passioni, purificatevi, volgete le spalle agli interessi mondani — . Ve lo dice, ve lo ripete, ma non ne fa nulla; la terra lo insegue fin dentro nel santuario; si, fino al cospetto di Dio il suo labbro si atteggia al sarcasmo, lanciando un’ultima imprecazione a Firenze:

                                    .  .  .  era al divino dall’umano,
Ed all’eterno dal tempo venuto,
E di Fiorenza in popol giusto e sano.
                              

«Umano» e «divino», «tempo» ed «eterno»! Non gli credete, sono astrazioni della sua mente. L’«umano» persiste accanto al «divino», il «tempo» persiste accanto all’«eterno».

Come un viaggiatore che osserva remote contrade con la memoria ancor fresca della sua patria, sicché tutto in che s’incontra vede a traverso del suo paese, Dante vede l’altro mondo a traverso della terra, a traverso delle sue passioni. Cosi la vita s’integra, l’altro mondo esce dalla sua astrazione, cielo e terra [p. 99 modifica]si mescolano, ed una poesia concepita nelle altezze della piú astrusa mistica discende nel piú intimo e vivace della realta! E qui è la grandezza e la veritá della concezione, in questa onnipresenza de’ due mondi in reciprocanza d’azione, che si spiegano e si temperano l’un l’altro. I due mondi si succedono, si avvicendano, s’incrociano, si penetrano. Tutto è pieno di questa unita. Il poeta spezza la terra in frammenti e ne fabbrica i suoi mondi; talché il lettore, guardando il tutto, può ben dire: — Mi sta innanzi un mondo nuovo — ; ma, guardando qui e qua, non può a meno di pensare a Firenze o a Roma. Ti trovi in un luogo muto dí luce e tempestoso, ed eccoti spuntare innanzi la marina dove il Po discende

                              

Per aver pace co’ seguaci suoi.

                              
Francesca, rapita nelle memorie del «tempo felice», spazia con la mente nel diletto giardino, quando, giugnendo al bacio, le lampeggia attraverso l’inferno, e quel bacio si fa immobile e si prolunga nella eternitá:
                              

Questi, che mai da me non fia diviso.
La bocca mi baciò tutto tremante.

                              
Quanto strazio in quell’incidente, che par li gittato quasi per caso! I due mondi s’incontrano nel momento della colpa, e si fondono l’uno nell’altro. Farinata, alla notizia della caduta del suo partito, rimane assorto; la sua anima è tutta in Firenze, quando, ad esprimere l’infinito del suo dolore, gli si affaccia dinanzi il suo letto di foco:
                              

Ciò mi tormenta piú che questo letto.

                              
In seno del passato ritorna il presente, come termine di paragone, e qual paragone! niente è pari alla grandezza di Farinata, a cui il poeta, senza sforzo, per virtú naturale della situazione, può mettere sotto i piedi l’inferno. Sogliono i poeti, [p. 100 modifica]quando ci vogliono rappresentare la bellezza e la forza in terra, tôrre ad imprestito colori dalle cose celesti, dove pongono la sede di ogni ideale: qui la metafora è realta, la figura è lettera; l’un mondo è il paragone, l’immagine, il lume dell’altro.

      Se questo argomento non rimane nella sua generalitá dottrinale, nel suo spiritualismo astratto, gli è perché il veggente è Dante. Gli altri, che ci hanno lasciate visioni, o le hanno raccontate omericamente tenendosi fuori di esse, o vi sono intervenuti per intrometterci delle considerazioni morali, come fa il Passavanti, sono per lo piú chierici, uomini ascetici, separati dal mondo, inesperti della vita, stranieri alle passioni e agli interessi mondani. Dante vi ha gittato dentro sé stesso; e Dante significa tutta l’esistenza di quel tempo nelle sue varie forme compendiata in un’anima poetica. Diventando un elemento essenziale dell’argomento, lo ha modificato profondamente con vantaggio della poesia.

     Per compiere l’esame dell’argomento, dobbiamo dunque studiare Dante, parte inseparabile di quello; Dante non solo come l’Omero, ma come l’Achille del suo mondo, non solo come poeta, ma come uomo.

[Nella «Rivista contemporanea», a. V, i857, vol. XI, pp. 3i9-29.]