Signorine povere/Prima parte/VII

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VII

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VII.

Il treno correva rapidamente; e il pensiero di Maria andava a ritroso del treno, tornando nella casa che aveva appena lasciata; fermandosi a riflettere sili vari avvenimenti della giornata e sulle persone che aveva imparato a conoscere. Quel Paolo Venturi le sembrava un uomo singolare; molto istruito, gentile e generoso: un vero uomo superiore. Antonietta diceva di lui: „È di quelli che non deludono; un’anima retta, un carattere sicuro. E forse non c’è una fanciulla che pensi a lui. Noi ci lasciamo incantare dai ciarlatani e trascuriamo gli uomini onesti.“

Parole dure, che le ritornavano al pensiero amareggiandola. Comprendeva che Antonietta le aveva profferite alludendo a se stessa e al capitano che l’attirava col suo fascino, mentre Paolo, l’uomo sicuro, la lasciava indifferente.

— E io? — si chiedeva Maria. — Io, cosa farei?

Scrollò la testa mortificata di sentirsi così profondamente femmina. Una figura era sorta nel suo pensiero, un’immagine di bellezza, al [p. 121 modifica]cui confronto la figura tozza di Paolo Venturi pareva quasi una caricatura.

..... Se Faustino Belli l’avesse amata, se lo avesse veduto ai suoi piedi come Antonietta aveva veduto il capitano, cosa avrebbe fatto lei?... Fremeva riconoscendo la propria debolezza. No, ella non avrebbe mai la forza di respingere quell’uomo; pure dubitando di lui e avendo il presentimento della propria rovina. Antonietta le pareva assai forte, quasi eroica. Sentire le parole d’amore, vedere la disperazione di un giovine come Isidoro, amarlo, e avere la forza di respingerlo, di trattarlo male?!...

„Oh! io non ne sarei capace! Io respingerei Paolo Venturi, poveretto, pur deplorando la mia crudeltà; non mai Faustino Belli.“

Questa confessione della propria debolezza le pareva il colmo della viltà, la negazione d’ogni virtù e d’ogni saggezza; ma era sincera. Cosa si può fare contro la verità?... Anche a negarla, rimane. Si può combatterla, ma ci è forza riconoscerla. Ricordava il male che l’Antonietta aveva detto del cavaliere il giorno dei funerali della „nonnina“; e rivedeva la scena del cimitero e le pareva di riudire le parole commoventi che Faustino aveva pronunciate. Tutta retorica secondo l’opinione di Antonietta, di Riccardo e del dottor Monti. Ma cosa ne sapevano loro? Possedevano forse la facoltà di leggere in quell’anima? Troppo grande era il male [p. 122 modifica]che ne dicevano. Se esageravano, potevano anche inventare. A buon conto ella non credeva nulla di nulla, e continuava a sperare che Faustino Belli fosse buono e leale quanto era bello e di alto intelletto. Una cosa tuttavia le pareva sicura: Faustino non l’amava. Dunque? Doveva fuggirlo finchè era in tempo... prima che quella simpatia diventasse un vero amore; doveva combattere contro se stessa, non abbandonarsi ad un impulso. Anche se il Belli possedeva realmente tutte le qualità ch’ella gli attribuiva, non doveva amarlo prima di conoscerlo profondamente e di sapersi amata da lui.

— Non ci penserò più — disse dentro di sè risolutamente. — Io voglio essere forte. Se un uomo onesto, e tale ch’io possa amarlo, si rivolgerà a me, se mi amerà, egli deve trovare il mio cuore libero d’altre immagini. E se nessuno mi amerà, almeno non mi sarò logorata inutilmente con vani sogni.

Pensò alla sua prozia, alla defunta Olimpia Valmeroni, che era stata così forte e serena in mezzo a tante vicende dolorose. Voleva somigliare a colei che l’aveva raccolta e amata, lei orfana, lei derelitta. Quanto più si scrutava, tanto più cresceva il biasimo che le pareva di doversi infliggere.

— Sono stata troppo egoista — diceva ella dolorosamente a se medesima. — Non ho pensato che a me, alla mia scuola, al mio avvenire, [p. 123 modifica]a una felicità della quale forse non sono degna, appunto perchè la desidero troppo. Devo far punto e a capo nella mia vita.

Pensò ai suoi parenti, a quella famiglia male avviata, composta di gente buona, ma in gran parte debole. Ella non doveva dimenticare il vincolo di gratitudine, più forte della parentela, che la legava alla famiglia Valmeroni. Era la sua famiglia, poichè non ne aveva altra. Abbandonata dal padre, perduta la mamma, che sarebbe avvenuto di lei se quella generosa donna non l’avesse raccolta, educata, fatta studiare, per darle una posizione indipendente, intendendo con fine accorgimento che lei più di un’altra, doveva potersi mantenere da se? E Leonardo e l’Elisa e i loro figliuoli, non l’avevano trattata sempre come figlia e sorella? E lei aveva accettati tanti benefici, senza far nulla per essi. Dare una parte del suo stipendio, tanto per non essere a carico della famiglia, che spesso lottava con dolorose necessità, era un semplice dovere, non già un ricambio. Essi, tutti d’animo nobile, e anche un po’ spensierati, non avrebbero voluto neppure ch’ella desse quel poco. Leonardo e Riccardo specialmente vi si erano opposti, ma la signora Olimpia li aveva messi a tacere. „Maria ha ragione — ella aveva detto ai nipoti. — Lasciatela fare: lavora; può bastare a se stessa: è troppo giusto in lei l’orgoglio di non pesare su gli altri. [p. 124 modifica]Non vi mancherà di rispetto per ciò, nè si sentirà meno legata a noi, io la conosco.“

„Com’era sensata, come intendeva le nuove idee, la mia buona vecchietta! — concludeva la fanciulla intenerita da quei ricordi. — Ora che ella è sparita, è venuto per me il tempo di mostrarmi completamente degna della sua fiducia. Il suo posto è ancora vuoto nella casa: non vi è nessuno che aspiri ad occuparlo: io devo essere quella. Finora non sono stata che una fanciulla, la testa piena di sogni. Da oggi mi sento matura alla vita e al dovere. Oh! nonnina cara, sei tu che m’ispiri? È la tua anima che viene verso di me?“

Commossa e sentendosi bruciar la fronte, ella si affacciò al finestrino del vagone per respirare l’aria fresca della sera. Alzò gli occhi al cielo, e rimase alcuni istanti a contemplare le stelle che vivamente brillavano. Si ricordò di un tempo della sua adolescenza, durante il quale l’ammirazione del cielo si era impadronita di lei al punto che nessuna altra cosa la interessava.

Le pareva allora che se avesse potuto studiare astronomia, quella scienza sarebbe bastata a empire la sua anima e non avrebbe chiesto altra felicità alla terra.

Aveva dovuto invece contentarsi di contemplarlo il cielo, così da ignorante; e dare la sua attività ai piccoli studi che le promettevano un posto sicuro, un rifugio contro la miseria. Non [p. 125 modifica]se ne lagnava peraltro. Era il suo primo dovere e lo compiva con gioia.

Il treno si avvicinava rapidamente alla grande città. Se ne sentivano i rumori, se ne vedevano i segni. Fasci di luce salivano nella notte.

Al finestrino dello scompartimento vicino a quello di Maria si affacciò un fanciullo, e battendo le mani gridò giocondamente:

— Milano! Milano!

La tenera e gioconda voce echeggiò nell’anima della maestrina. Ella guardò il fanciullo e gli sorrise. Poi si alzò in piedi e si preparò a discendere. Il treno entrava rumorosamente sotto l’immensa tettoia.

Nella sala d’arrivo, Maria trovò Riccardo e Giorgetto.

— Non mi hai portato niente? — domandò il fanciullo.

— Ho capito, mi sei venuto incontro per interesse.

Giorgetto protestò. Le voleva tanto bene.

Andarono verso un tram. Quando furono collocati, Riccardo raccontò alla cugina gli avvenimenti della giornata. Era arrivato il cavalier Belli col negoziante di quadri ed avevano visitata la raccolta.

— Ebbene?

— Pare che l’affare si farà, se non per tutti, almeno per un certo numero di quadri... i migliori; c’è un Ferramola che interessa il cavalier Belli. [p. 126 modifica]

— Ma tuo padre non vuole vendere così.

— Si dovrà adattare. Nel nostro caso, bisogna rassegnarsi ad esser sfruttati. E guai a noi se questo negoziante non trovasse il suo interesse a sfruttarci.

— Non si potrebbe trovare il mezzo di trattare con un galantuomo?... Fare un’asta?... Il cavalier Belli, che è tanto influente a Roma, non potrebbe far acquistare le opere più importanti dal Governo?

Riccardo scrollò le spalle.

— Sono anni e anni che ci si culla con speranze simili. E non bisogna dimenticare che mio nonno è stato un maniaco e che mio padre è un illuso.

— Oh Riccardo, due cuori d’oro! Non tu devi condannarli.

Riccardo non rispose.

Il tram si era fermato; alcune persone scendevano; altre salivano. Giorgetto voleva guardare i cavalli.

— Io non li condanno — disse finalmente Riccardo quand’ebbe accomodato il suo fratellino presso ai vetri. — Constato i fatti.

Giorgetto mugolava ancora. Era stufo di stare in piedi.

— Se non taci ti dò uno schiaffo.

Maria prese Giorgetto sui ginocchi. Ma appena seduto, egli si alzò per guardare nella strada. [p. 127 modifica]

— Uff! che ragazzo insopportabile e mal educato tu sei....

Maria lo lasciò sfogare, poi, ripigliando il discorso:

— Sicchè, dunque, compra o non compra questo Klein?

— Pare di sì. Oggi intanto lo abbiamo a pranzo col cavalier Belli, naturalmente, e degli altri. Un gran pranzo, vedrai. Hanno speso parecchio senza quello che avranno preso a credito, come il solito. Hanno fregato e lustrato tutto il giorno!

— Stamani non ne sapevano niente...

— No. La gran notizia è venuta dopo.

— Ma che bisogno c’era di dare un pranzo con tanta furia?

— Nessun bisogno; usano così in casa nostra: sai bene, quando si montano!

— In ogni modo, sarebbe bastato invitare il tedesco.

— Ti pare?... Il cavalier Belli è l’amico, il consigliere del compratore e il protettore nostro; senza di lui non si fa nulla.

Maria sentì in fondo al cuore quell’amara ironia, che ritornava sempre sulle labbra di Riccardo quando parlava di quell’uomo. Avrebbe voluto interrogarlo, indurlo a formulare chiaramente le sue accuse contro l’amico della famiglia; ma non osò; non era quello il momento.

Giunti in capo alla via Monte Napoleone, [p. 128 modifica]percorsa allora dal tram a cavalli, sul punto di sboccare in Corso, fecero fermare il carrozzone e discesero. Il breve tratto fino a San Babila fu fatto in silenzio, affrettando il passo. Giorgetto chiacchierottava da sè sui preparativi del pranzo: un pesce grosso così, una torta, un gran piatto d’uva avevano colpito la sua immaginazione.

In via Monforte, Maria chiese a Riccardo:

— E chi altri c’è a pranzo?

— I soliti: Flora Ermondi e suo fratello; Luciano Monti e suo padre. Tu penserai: „C’è del denaro in casa che si fa baldoria?“ Sì, il colono ha portato il denaro del fieno, e, naturalmente, si sciala.

— Non parlare così! — mormorò Maria appoggiandosi leggermente al braccio del giovine e accennando a Giorgetto.

— Non si può sempre frenarsi.

Erano giunti alla casa.

Salite le scale, trovarono la porta dell’appartamento spalancata e l’Erminia sulla soglia.

— Presto, presto, si va a tavola, non si aspetta che voi.

E cambiando voce:

— Cosa mi hai portato? Cosa ti ha dato per me la zia Ersilia?

— Nulla.

— Neppure per Giorgetto?

— Neppure per Giorgetto. [p. 129 modifica]

— Bene!

Scoppiò lina delle solite liti; ma nessuno vi badò.

La tavola era apparecchiata. Maria osservò subito che avevano comperata la terraglia nuova; i bicchieri sbreccati, i piatti ingialliti e pieni di screpolature erano finalmente banditi; ma le posate rimanevano quelle solite, logore, consumate; non avevano potuto prendere l’argenteria dal Monte di pietà, dove dormiva da tanto tempo.

— Ben arrivata, signorina. Si è divertita? Ha fatto buon viaggio?

Con queste parole e col sorriso sul labbro, Faustino Belli le andava incontro e le stringeva la mano.

La sala da pranzo con la sua solita lampada sospesa e due altre lucerne a piedestallo (una di Maria, l’altra della Bergamini) con la vecchia mobilia ben spazzolata (le sedie inservibili messe in ombra nei cantoni) aveva quella sera un aspetto quasi festoso.

„Se ci fosse il gas sarebbe meglio“ pensava in cuor suo la padrona di casa, ricordando il tempo in cui ne aveva fatto tanto spreco finchè l’Union des Gaz, non riuscendo mai a farsi pagare completamente, aveva strappato via ogni cosa. Se ne consolava per altro la signora dicendo a tutti che il gas le era antipatico e che presto farebbe mettere la luce elettrica sulle scale e nell’appartamento. [p. 130 modifica]

„Per intanto è già una bella cosa se non manca il petrolio“ pensava Riccardo ascoltando quelle vanterie.

In ogni modo, quella sera, tutto appariva discretamente elegante; e la tavola apparecchiata con insolita cura, la terraglia e la cristalleria, se non finissime, almeno nuove e lucenti, facevano bel vedere sotto al paralume color di rosa. Perfino le vecchie posate, che la Giuditta aveva aiutato a lustrare, sembravano meno logore, specialmente quelle destinate agli invitati, scelte fra le migliori.

I signori invitati poi essendo di buon umore trovavano tutto bello; e di buon umore erano naturalmente, o parevano, anche i padroni di casa.

La signora Elisa, vestita in velluto cremisi — velluto tramè — portava i suoi magnifici brillanti: orecchini, spillone, braccialetti e anelli in quantità: tutta roba autentica e proprietà dei Valmeroni, che la signora Olimpia le aveva regalato il giorno delle nozze, con la raccomandazione di conservarla intatta. Così ben messa, ella troneggiava al suo posto di padrona di casa, tra Faustino Belli e il dottor Melchiorre Monti. I suoi capelli biondi, leggermente incipriati, le formavano una graziosa nube di vaporosi riccioli intorno alla fronte bianca; e il finissimo belletto, applicato con sapienza, dava uno splendore giovanile ai suoi grandi occhi azzurri. La [p. 131 modifica]prodigiosa leggerezza del suo carattere si manifestava in ogni suo atto. Quei magnifici brillanti, che ella pareva risoluta a portare con sè nella tomba, erano la sua gloria e forse il suo più grande amore sulla terra. Mai, in nessuna ristrettezza, aveva consentito ad impegnarli. Piuttosto patir la fame che presentarsi al mondo senza i suoi brillanti. Poco male se stonavano maledettamente con tutto il resto. La sua leggerezza così bene accoppiata con la morbosa esaltazione del Valmeroni si diffondeva intorno a lei come un’essenza letale addormentatrice delle coscienze.

Lo stesso Leonardo la subiva pure illudendosi di resistervi. Per lei, per compiacerla per non rattristarla in un giorno di festa, egli si studiava di mostrarsi ilare e respingeva, lungi da sè, i dolorosi pensieri che l’assalivano. Non senza pena egli vedeva le vesti sfarzose, dai colori vivi, di sua moglie e delle due ragazze: Eugenia in bianco e celeste, Angelica in bianco e rosa — mentre durava il lutto per la recente morte della „nonnina“. Ma come opporsi ai loro desideri? Se le avesse obbligate a vestirsi di nero o almeno di scuro, l’avrebbero forse obbedito; ma chissà con quanti lamenti e con quali facce aggrondate!... Egli non poteva sopportare le bizze e i malumori; epperò cedeva: e cercava di stordirsi. Per di più quel giorno aveva riscosso un po’ di denaro e aveva accanto il suo [p. 132 modifica]Faustino, il suo idolo, che lo occupava e lo distraeva amabilmente. Il pranzo era ben servito.

I vini squisiti, le pietanze preparate da un abile cuoco, i fiori, i profumi davano al pranzo di famiglia un’aria di signorilità. Fungeva da cameriere il figlio della Caterina, un giovinolo che aveva servito alla famosa trattoria dell’Orologio e si trovava, per il momento, senza posto. Augusto Klein, l’eroe della festa, mangiava a quattro palmenti, sorridendo sotto ai baffi grigi della pazzia dei suoi anfitrioni, e tuttavia lusingato e felice dell’onore che gli facevano. Allorchè il suo eccellente appetito cominciò ad essere soddisfatto, egli si mise a discorrer d’arte con Faustino Belli e col padrone di casa. I suoi occhietti intanto si fermavano con compiacenza sul volto fresco e sulle forme scultorie di Eugenia, che gli sedeva accanto.

La bella ragazza stava molto bene nel suo abito bianco e celeste. Una modesta scollatura metteva a nudo il suo magnifico collo, la nuca voluttuosa e il principio delle spalle: le sue maggiori bellezze. Di tratto in tratto l’ospite le rivolgeva qualche parola lusinghiera e le riempiva il bicchiere dicendole:

— Beva, signorina; beva: nel vino è la gioia.

Luciano Monti guardava quella scena e rideva pensando ironicamente:

„Sta a vedere che il tedesco si porterà via anche l’Eugenia. Sarebbe un bel fatto per i [p. 133 modifica]Valmeroni vendere la galleria e maritare la figlia maggiore».

Sentendosi guardata da lui la ragazza lo sbirciava di sottecchi cercando invano su quel volto enigmatico un principio di gelosia.

Dall’altra parte della tavola erano gli occhi di Faustino Belli e di Riccardo Valmeroni che s’incontravano di straforo, dopo che l’uno e l’altro avevano contemplato il viso di Maria. Ella era la più semplice di tutte nel suo vestitino cenere di mezzo lutto, indossato fin dal mattino; ma la sua delicata bellezza aveva una grazia originale.

Alle frutta, dopo una lunga conversazione sull’arte antica e moderna, Faustino Belli pronunciò il nome del pittore bresciano Fioravante Ferramola.

— Quando fui a Brescia l’anno scorso, vidi il suo San Girolamo nella chiesa delle Grazie. E’ un buon pittore, sapete?

Il tedesco lo guardò negli occhi, poscia rispose:

— Certo. Fu il predecessore del Moretto e, secondo il Ticozzi, maestro del Muziano.

— Ah! sì! — esclamò Faustino Belli ridendo. — Il vostro Ticozzi! Dice che Ferramola fu maestro al Muziano, dimenticando di aver poco prima assegnata la nascita del Muziano al 1528, l’anno preciso della morte di Fioravante Fcrramola. [p. 134 modifica]

— Davvero!.. Già, gli italiani non guardano troppo all’esattezza storica: basta leggere le castronerie del Vasari.

— Credete?... E i tedeschi e i francesi vi sembrano più esatti?

— I francesi, non so; certamente i tedeschi.

— Volete qualche citazione?...

— No, no, per carità, signor Belli!... Ci risparmi le citazioni e le relative dispute internazionali. Il caffè ci aspetta in sala. Mi dia il suo braccio e andiamo.

Così parlò la signora Elisa, non volendo assolutamente che il tedesco fosse mortificato. Comprava i quadri e poteva... chissà... sposare l’Eugenia... Un matrimonio d’oro! Bisognava accarezzarlo, inebbriarlo, non offenderlo. Così pensava la signora Elisa nella sua piccola diplomazia familiare.

Tutti si alzarono e Klein offrì il suo braccio corto e solido all’Eugenia, che vi si appoggiò sorridendo. Egli le arrivava poco oltre la spalla e la guardava di sotto in su con una ammirazione quasi commossa.

— Che bella figura avete, signorina! L’uomo che avrà la fortuna di sposarvi vi porterà in trionfo come una dea.

— Non sarà facile che io mi sposi, signor Klein. Molti mi fanno la corte, ma nessuno chiede la mia mano...

— O perchè? — domandò il tedesco allarmato. [p. 135 modifica]

— Ella sa benissimo il perchè: non ho dote.

— Oh! questo non vuol dire. Cioè vuol dir molto per gli uomini senza denari e di poco cuore. Ma un uomo di cuore, ricco, mettiamo anche solo agiato... — egli calcò sulla parola guardando l’Eugenia negli occhi — potrebbe essere felice di sposare, senza dote, una bella ragazza come lei.

Eugenia non rispose. Una fiamma le era salita alla fronte. Quelle parole: agiato, ricco... le danzavano nella mente quasi inebbriandola.. Che schiaffo per Luciano se ella avesse sposato un ricco: che vendetta! E i suoi occhi si scontrarono appunto con gli sguardi di Luciano, ritto sulla soglia del salotto, dove si stava servendo il caffè. Quanta ironia in quello sguardo! Egli la canzonava: si faceva beffe di lei e del suo corteggiatore. Un marito di cinquantanni e con quella statura, lei, una Giunone, come la dicevano?... Un brivido le corse per le vene; le parve che il cuore le si gelasse nel petto.

Augusto Klein, a sua volta, confuso del proprio ardimento pensando di essersi già impegnato, e non sapendo come interpretare il silenzio della fanciulla, era molto imbarazzato. Faustino Belli venne a trarlo d’impiccio.

— Ascoltate un momento, Klein. — E lo trasse in disparte.

— Guardate che il Ferramola lo compero io.

— Come! non ho io il diritto di prima scelta? [p. 136 modifica]

— Sì, sì... naturale! Ma voi mi fate la gentilezza di lasciarmi il Ferramola.

— Sentite. Se un altro mi facesse questa proposta, penserei: è un capriccio, e forse acconsentirei: trattandosi di voi, vuol dire che avete pronto un compratore che ve lo pagherà il doppio, chissà, forse il triplo... I quadri di codesto pittore sono rari. Dunque fuori il baco. Se l’affare è buono reclamo la mia parte.

— Che diavolo d’uomo siete!... Vi dirò tutto. Spero di rivendere il Ferramola.

— Ne siete sicuro! Cosa sperate di guadagnare, pagando il quadro circa due mila lire?

— Raddoppierei.

— Vale a dire che siete sicuro di triplicare.

— Come correte!... Vi ho detto la verità, e aggiungo che mi trovo in un momento di crisi. Parlo all’amico.

Il tedesco riflettè un momento e il suo volto mutò espressione.

— Va bene. Cedo Ferramola per due mila lire, e fatene il comodo vostro. Ma c’è una condizione, senza la quale compro soltanto il Ferramola... e lo tengo per me!...

— Ditemi la condizione.

— Aiutatemi ad ottenere la mano di Eugenia.

Il Belli non seppe reprimere una sonora risata.

— Come pigliate fuoco voialtri tedeschi!

La confusione ed il rumore che regnavano in [p. 137 modifica]quel momento nel salotto, impedirono: che quella risata fosse udita. Erano arrivati i soliti amici: la Bergamini, la Tadini — l’odiosa Tadini che si ficcava dappertutto, mentre nessuno avrebbe voluto vederla — Cecilio Testi, Camillo Bressani, e qualche altro. Non essendovi più caffè, si distribuivano i liquori. Eugenia sola fu colpita dalla risata di Faustino e n’ebbe un sussulto. Ridevano di lei?... La canzonava forse anche il signor Klein? Un marito di cinquant’anni, piccolo, grosso, ma ricco, forse molto ricco... le sfuggiva anche quello? Era un miraggio, un sogno?... Troppa fortuna? Aveva sperato che egli chiedesse la sua mano... per rifiutarlo, naturalmente!... Quella soddisfazione d’amor proprio le pareva indispensabile in quel momento, per dire a Luciano: „Vedi? un ricco signore mi ama, è pronto a sposarmi, ed io lo rifiuto per te!“ Invece, se anche il vecchio la canzonava, se la richiesta di matrimonio non aveva luogo, Luciano, che certo le leggeva in cuore, la tratterebbe peggio di prima.

— A che pensi con quella faccia arcigna? — le domandò Luciano accostandosele. — Non sei contenta d’avere innamorato il signor Klein?

— Non mi seccare.

— Facciamo una scommessa?

— Non faccio scommesse.

— Io scommetto che prima di tre mesi tu sei la signora Klein! [p. 138 modifica]

Ella gli saettò un’occhiata così piena di disprezzo che il giovanotto impallidì.

— Ti farebbe comodo, vero?...

Si alzò e si allontanò da lui.

In quell’istante Faustino Belli e Augusto Klein si separarono stringendosi la mano. Erano d’accordo.

Inoltrandosi la serata, i giovani provarono il desiderio di fare quattro salti. Era la prima domenica di quaresima ed il fuoco del carnevale serpeggiava ancora in tutto il loro essere, dai piedi al cervello. Il salotto era vasto, di forma rettangolare allungata, e aveva un bel pavimento di noce, un po’ screpolato e logoro, ma abbastanza lucido. Tirando da una parte il tavolino che stava di solito davanti al divano, rimaneva abbastanza spazio da poter ballare.

L’illuminazione era fatta dalle due lampade a piedestallo, portate dalla sala da pranzo e collocate sulla caminiera, e da varie candele comprese quelle del pianoforte. Maria stava suonando un valtzer. Le coppie si slanciavano, non più di tre alla volta, però.

Luciano, per far dispetto all’Eugenia, che l’aveva offeso, ballava colla nipote della Tadini, una biondona piuttosto insulsa; Eugenia, col fotografo, che ballava bene, ma così serio e rigido da somigliare ad una marionetta; Cecilio Festi con Angelica.

Leonardo finiva la sua partita a scopa con la [p. 139 modifica]Bergamini e il dottor Monti; mentre l’Elisa faceva di tutto per trattenere Faustino presso di sè, non già per amore, ma per il gusto di far vedere alla Tadini che Faustino la corteggiava ancora. Egli per altro ne aveva abbastanza di quel flirt senza conclusione che durava da tanti anni, e non lusingava più il suo amor proprio di conquistatore. Le belle ragazze, apparse nel frattempo sulla scena del mondo, non c’erano per nulla? La elegante signora, per quanto ben conservata fosse, doveva pur convincersi che il primo posto non le apparteneva più. Appena il cavaliere vide Leonardo libero, si alzò, e chiedendo scusa alla sua antica fiamma, si allontanò da lei per avvicinarsi all’amico.

Traversando il salotto, schivando le coppie danzanti e l’Erminia e Giorgetto che volendo ballare erano ruzzolati sul pavimento, Faustino Belli vide l’amico Klein, ben saturo di vino e di liquori, ritto nel vano di una finestra e tutto assorto nella contemplazione di Eugenia. Lo schivò pensando maliziosamente:

„Quella carne fresca gli ha dato al cervello; spera certo di riconquistare uno scampolo di giovinezza vicino a lei! Bene, bene!“ Afferrato Leonardo, gli disse:

— Andiamo un po’ di là, qui si soffoca e non si può discorrere.

Traversarono il corridoio ed entrarono nello studio di Leonardo. [p. 140 modifica]Sulla, scrivania, una piccola lampada di vecchio stile dal paralume verde, spandeva una luce crepuscolare.

— Qui si respira — disse Faustino accendendo la sigaretta che l’amico gli aveva offerto; poi subito:

— Devo darti una gran notizia: una fortuna per te e per tua figlia Eugenia...

— Oh! Di che si tratta?

— Purchè tua figlia sappia approfittarne...

— Parla...

— Klein m’ha incaricato di chiedertela in moglie...

— Klein?... l’Eugenia?... Tu scherzi!...

— Tutt’altro! non hai visto come la guardava durante il pranzo? E’ cotto, ti dico.

— Oh, una ubbriacatura...

— Sia pure. Ma intanto egli s’impegna; una volta impegnato manterrà la sua parola: te lo garantisco.

— E’ impossibile. Eugenia ama Luciano, io lo so; e si sposerebbero se quell’avaraccio di Melchiorre...

— T’inganni. Luciano è degno figlio di suo padre. Non sposerebbe mai una ragazza senza dote; e tua figlia sa questo.

— Quand’anche, io non posso permettere che ella sposi un uomo di cinquantanni, con quel fisico poi!

— Neppure se lei accettasse? [p. 141 modifica]

— Non può accettare, ma, neppure se accettasse!

— E allora, trova un altro compratore per i tuoi quadri.

— Cosa c’entra?

— C’entra tanto che se gli rifiuti l’Eugenia, Klein parte domattina e non compra niente.

— Oh! povero me! Era questa la bella notizia che mi dovevi dare?

Accasciato, quasi piangente, Leonardo si buttò su una sedia. Faustino Belli lo lasciò sfogare; sapeva bene che spinto dalla necessità, dalla logica dei fatti, e passato quell’impeto di generosità e di orgoglio, il povero uomo sarebbe disceso a sentimenti meno elevati, meno sdegnosi: più pratici.