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Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XVII. Torquato Tasso/II.

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XVII. Torquato Tasso - II.

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XVII. Torquato Tasso - I. XVIII. Marino

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Tra queste preoccupazioni e miserie venne in luce la Gerusalemme liberata.

L’Italia avea il suo poema eroico, non so che «simile» all’Iliade e all’Eneide, e i critici dovevano essere soddisfatti. [p. 149 modifica]Il giovane Pellegrino annunziò la buona novella a suon di tromba, con l’entusiasmo dell’etá.

La Gerusalemme intoppava in un mondo non piú poetico, ma critico. Il sentimento dell’arte era esausto, l’ispirazione e la spontaneitá nel comporre e nel giudicare era guasta da ragionamenti fondati sopra concetti critici, generalmente ammessi e tenuti come vangelo. L’Ariosto si pose a scrivere come gli era dettato dentro, e non guardava altro. Il suo argomento divenne innanzi al suo genio un vero mondo, con la sua propria maniera di essere e con le sue regole. Il Tasso, come Dante, era giá critico prima di esser poeta: aveva giá innanzi a sé tutta una scuola poetica. Ciò che sta avanti a lui non è il suo argomento, ma certi fini, certe preoccupazioni, certi modelli, e Orazio e Aristotele, e Omero e Virgilio. A diciotto anni è giá una maraviglia di dotto, e conosce Platone e Aristotele, e sviluppa a maraviglia tesi di filosofia, di rettorica e di etica. Scrive il Rinaldo, e, come aveva imparato il «simplex et unum», studia all’unitá dell’azione e alla semplicitá della composizione, e ne chiede scusa al pubblico. Ma il pubblico, avvezzo alle larghe e magnifiche proporzioni dell’Orlando e del l’Amadigi, trova il pasto un po’ magro e ne torce la bocca. Lasciò allora da parte il poema cavalleresco, o come dicevano, il «romanzo», e pensò di dare all’Italia quel poema eroico che tutti cercavano. Esitò sulla scelta dell’argomento: avea pronti quattro o cinque temi, e rimise l’elezione, dicesi, al duca Alfonso, suo mecenate. Lnsomma cominciò la Gerusalemme. Volle fare un poema «regolare», come dicevano, secondo le regole. L’argomento rispondeva a’ tempi pel suo carattere religioso e cosmopolitico, e vi poteva senza sforzo introdurre un eroe estense, e, come l’Ariosto, far la sua corte al duca. Si die’ una cura infinita delle proporzioni e delle distanze, per conservare l’unitá e la semplicitá della composizione. Guardò al verisimile, per dare al suo mondo un aspetto di naturale e di credibile. Introdusse un’azione seria, intorno a cui tutto convergesse, e fece del pio Goffredo un protagonista effettivo, un vero capo e re a uso moderno. Soppresse i cavalieri erranti, e cavò l’intreccio non dallo spirito [p. 150 modifica]di avventura, ma dall’azione celeste e infernale, come in Omero. Umanizzò il soprannaturale, rendendolo spiegabile e quasi allegorico e come una semplice esterioritá degl’istinti e delle passioni. Nobilitò i caratteri, sopprimendo il volgare, il grottesco e il comico, e sonò la tromba dal primo all’ultimo verso. Tolse molta parte al caso e alla forza brutale, e molta ne die’ all’ingegno, alla forza morale, alle scienze, come ne’ suoi duelli e battaglie. Mirò a dare al suo racconto un’apparenza di storia e di realtá. Si consigliava spesso con i critici, e dava loro a leggere il poema canto per canto, e mutava e correggeva, docilissimo. Tra questi critici consultati era Speron Speroni.

Il Tasso voleva fare un poema seriamente eroico, animato da spirito religioso, possibilmente storico e prossimo al vero o verisimile, di un maraviglioso naturalmente spiegabile e di un congegno cosí coerente e semplice, che fosse vicino ad una logica perfezione. Questo era il suo ideale classico, che cercò di realizzare e che spiegò ne’ suoi scritti sul poema eroico e sulla poesia, ne’ quali mostrò che ne sapeva piu de’ suoi avversari.

Il poema fu accolto con quello spirito che fu composto. Letto prima a bocconi, quando usci tutto intero, scorretto e senza saputa dell’autore, si destò un vespaio. I critici lo combatterono con le sue armi. — Se volevate fare un poema religioso — diceva l’Antoniano, — dovevate darci un poema che potesse andar nelle mani anche delle monache. — Gli uomini pii, che allora davano il tuono, mostravano scandalo di quegli amori rappresentati con tanta voluttá, malgrado che il povero Tasso ne chiedesse perdono alla Musa «coronata di stelle fra’ beati cori». E per farli tacere, costruí un’allegoria postuma e particolareggiata, che fosse di passaporto a quei diletti profani. Come arte, il poema fu esaminato nella composizione, nella elocuzione, nella lingua e fino nella grammatica, che era la materia critica di quel tempo. Trovavano la composizione difettosa, soprattutto per l’episodio di Olindo e Sofronia, lasciati lí e dimenticati nel rimanente dell’azione. Parea loro che la vera e seria azione comprendesse pochi canti, e il resto fosse [p. 151 modifica]un tessuto di episodi e avventure legate non necessariamente con quella. L’elocuzione giudicavano artificiata e pretensiosa, la lingua impura e impropria, e non abbastanza osservata la grammatica. Facevano continui confronti con l’Eneide e con l’Iliade, e disputavano sottilmente e futilmente sul genere eroico e sulle sue regole. Sorsero confronti stranissimi tra l’Orlando e la Gerusalemme, e chi facea primo l’Ariosto e chi il Tasso. La contesa, occupò per qualche tempo l’oziosa Italia, e oscurò ancora piu il senso poetico, e non fe’ dare un passo alla critica. Si rimase come in un pantano. Fra tanti opuscoli merita attenzione quello di un giovane chiamato a grandi destini: Galileo Galilei, che ne scrisse con un gran buon senso, con molto gusto e con un retto sentimento dell’arte.

L’accademia della Crusca ebbe molta parte in questa contesa. E si comprende. Mancava alla lingua del Tasso il sapore toscano, quel non so che schietto e natio, con una vivezza e una grazia che è un amore. Ma il Salviati rese pedantesca l’accusa, facendo il pedagogo e notando i punti e le virgole. L’esagerazione dell’accusa suscitò l’entusiasmo della difesa, e il libro fu piú noto e desiderato. Oggi, in tanto silenzio e indifferenza pubblica, un autore si terrebbe fortunato di svegliare tanta attenzione. Ma il Tasso ne venne malato del dispiacere, e, quasi fossero assalti personali, trattò i suoi critici come nemici. In veritá, il principal suo nemico era lui stesso. Si difendeva, ma con cattiva coscienza, perché, professando i medesimi principi critici, sentiva in fondo di aver torto. E venne nell’infelice idea di rifare il suo poema e dare soddisfazione alla critica. Cosí usci la Gerusalemme conquistata. Purgò la lingua, ubbidí alla grammatica. Le «armi» cessarono di essere «pietose» e non divennero «pie» ; il «capitano» divenne il «cavalier sovrano»; il «gran sepolcro» sparve del tutto; e il sublime «io ti perdòn» fu trasformato nel prosaico «perdòn io». Le correzioni sono quasi tutte infelici, di seconda mano, fatte a freddo. Non ci è piú il poeta, ci è il grammatico e il linguista, co’ suoi terribili critici dirimpetto. Corresse anche l’elocuzione, rifiutò i lenocini, cercò una forma piú grave e solenne, che ti riesce fredda e insipida. [p. 152 modifica]Peggior guasto nella composizione. Soppresse Olindo e Sofronia, e vi sostituí una fastidiosa rassegna militare. Cacciò via Rinaldo, come reminiscenza cavalleresca, e vi ficcò un Riccardo, nome storico delle crociate, divenuto un Achille, a cui die’ un Patroclo in Ruperto. Trasformò Argante in Ettore, figliuolo del re, di Aladino divenuto Ducalto. Fe’ di Solimano un Mezenzio, e lo regalò di un figliuolo, per imitare in sulla fine la leggenda virgiliana. Troncò le storie finali di Armida e di Erminia mutata in Nicea. Anticipò la venuta degli egizi, e moltiplicò le azioni militari, per occupare il posto lasciato vuoto dagli episodi abbreviati o soppressi. E gli parve cosí di aver rafforzata l’unitá e la semplicitá dell’azione, resa piú coerente e logica la composizione, e dato al poema un colorito piú storico e reale. Ma non parve al pubblico, che non potè risolversi a dimenticare Armida, Rinaldo, Erminia, Sofronia, le sue piú care creazioni e piú popolari. E dimenticò piuttosto la Gerusalemme conquistata, che oggi nessuno piú legge.

La poetica del Tasso è, nelle sue basi essenziali, conforme a quella di Dante. Lo scopo della poesia è per lui il «vero condito in molli versi», come era per Dante il «vero sotto favoloso e ornato parlare ascoso». Il concetto religioso è anche il medesimo: la lotta della passione con la ragione. Passione e ragione sono in Dante inferno e paradiso; e nel Tasso Dio e Lucifero, e i loro istrumenti in terra Armida e la celeste guida di Ubaldo e Carlo. L’intreccio è tutto fondato su questo antagonismo, divenuto il luogo comune de’ poeti italiani. L’Armi da del Tasso è l’Angelica del Boiardo e dell’Ariosto, salvo che il Boiardo affoga il concetto nella immensitá della sua tela, e l’Ariosto se ne ride saporitamente, dove il Tasso ne fa il centro del suo racconto. Questo, che i critici chiamavano un «episodio», era il concetto sostanziale del poema. Omero canta l’ira di Achille, cioè canta non la ragione, ma la passione, nella quale si manifesta la vita energicamente. Le sue divinitá sono esseri appassionati : Giove stesso non è la ragione, ma la necessitá delle cose, il fato. Virgilio s’accosta al concetto cristiano, togliendo il pio Enea agli abbracciamenti di Didone. [p. 153 modifica]Pure, poeticamente, ciò che desta il maggiore interesse non è il pio Enea, ma l’abbandonata Didone. Nella leggenda cristiana il paradiso perduto e il peccato di Adamo sono argomenti epici, ne’ quali erompe la vita nella violenza de’ suoi istinti e delle sue forze. Nella passione e morte di Cristo l’interesse poetico giunge al suo piú alto effetto tragico, perché è il martirio della veritá. In Dante questo concetto, preso nella sua logica perfezione, produce l’astrazione del paradiso e l’intrusione dell’allegoria; come nel Tasso produce l’astrazione del Goffredo. Si confondeva il vero poetico, che è nella rappresentazione della vita, col vero teologico o filosofico, che è un’astrazione mentale o intellettuale della vita. L’Ariosto se la cava benissimo, perché canta la follia di Orlando; e, quando viene la volta della ragione, volge il fatto a una soluzione comica e piccante, mandando Astolfo a pescarla nel regno della luna. Il Tasso vuol restaurare il concetto nella sua serietá, e, mirando a quella perfezione mentale, gli esce l’infelice costruzione del Goffredo e la fredda allegoria della «donna celeste».

Non è meno errato il suo concetto della vita epica. Ciò che lo preoccupa è la veritá storica, il verisimile o il nesso logico, e una certa dignitá uguale e sostenuta. E non vede che questo è l’esterno tessuto della vita o il meccanismo, il semplice materiale con appena la sua ossatura e il suo ordine logico. Il suo occhio critico non va al di lá, e, quando il poeta morí e sopravvisse il critico, esagerando questi concetti astratti e superficiali, guastò miserabilmente il suo lavoro, e ci die’, nella Gerusalemme conquistata, di quella ricca vita il solo scheletro, il quale, perché meglio congegnato e meccanizzato, gli parve cosa piú perfetta.

Ma il Tasso, come Dante, era poeta ed aveva una vera ispirazione. E la spontaneitá del poeta supplí in gran parte agli artifici del critico.

Torquato Tasso, educato in Napoli da’ gesuiti, vivuto nella sua prima gioventú a Roma, dove spiravano giá le aure del concilio di Trento, era un sincero credente, ed era insieme fantastico, cavalleresco, sentimentale, penetrato ed imbevuto di tutti [p. 154 modifica]gli elementi della coltura italiana. Pugnavano in lui due uomini: il pagano e il cattolico, l’Ariosto e il concilio di Trento. Mortagli la madre che era ancor giovinetto, lontano il padre, insidiato da’ parenti, confiscati i beni, tra’ piú acuti bisogni della vita, non dimentica mai di essere un gentiluomo. Serve in corte, e si sente libero; vive tra’ vizi e le bassezze, e rimane onesto; domanda pietá con la testa alta e con aria d’uomo superiore e in nome de’ principi piú elevati della dignitá umana.

Ha una certa somiglianza col Petrarca. Tutti e due furono i poeti della transizione, gl’illustri malati che sentivano nel loro petto lo strazio di due mondi che non poterono conciliare. La musa della transizione è la malinconia. Ma la malinconia del Petrarca era superficiale: rimaneva nella immaginazione non penetrò nella vita. Era una malinconia non priva di dolcezza, che si effondeva e si calmava negli studi, e lo tenne contemplativo e tranquillo fino alla piú tarda etá. La malinconia del Tasso è piú profonda: lo strazio non è solo nella sua immaginazione, ma nel suo cuore, e penetra in tutta la vita. Sensitivo, impressionabile, tenero, lacrimoso. Prende sul serio tutte le sue idee, religiose, filosofiche, morali, poetiche, e vi conforma il suo essere. Entusiasta sino all’allucinazione perde la misura del reale e spazia nel mondo della sua intelligenza, dove lo tiene alto sull’umanitá l’elevatezza e l’onestá dell’animo. Gli manca quel fiuto degli uomini e quel senso pratico della vita, che abbonda a’ mediocri. La sua immaginazione è in continuo travaglio, e gli corona e trasforma la vita non solo come poeta, ma come uomo. Immaginatevelo nell’Italia del Cinquecento e in una di quelle corti, e presentirete la tragedia. All’abbandono, alla confidenza, all’espansione della prima giovinezza succede tutto il corteggio del disinganno, la diffidenza, il concentramento, la malinconia, l’umor nero e l’allucinazione: stato fluttuante tra la sanitá e la pazzia, e che potè far credere, non che ad altri, ma a lui stesso di non avere intero il senno. In luogo di medici e di medicine gli era bisogno un ritiro tranquillo, co’ suoi libri, e vicina una madre o una sorella o amici resi intelligenti dall’affetto. Invece ebbe il carcere e la sterile compassione [p. 155 modifica]degli uomini, lui supplicante invano a tutt’ i principi d’Italia. Libero, trovò una sorella ed un amico, che, se valsero a raddolcire, non poterono sanare un’ immaginazione da tanto tempo disordinata. E, quando ebbe un primo riso della fortuna, il giorno della sua incoronazione fu il giorno della sua morte.

Guardate in viso il Petrarca e il Tasso. Tutti e due hanno la faccia assorta e distratta, gli occhi gittati nello spazio e senza sguardo, perché mirano al di dentro. Ma il Petrarca ha la faccia idillica e riposata di uomo che ha giá pensato ed è soddisfatto del suo pensiero; il Tasso ha la faccia elegiaca e torbida di uomo che cerca e non trova. E nell’uno e nell’altro non vedi i lineamenti accentuati ed energici della faccia dantesca.

Manca al Tasso, come al Petrarca, la forza, con la sua calma olimpica e con la sua risoluta volontá. È un carattere lirico: non è un carattere eroico. E, come il Petrarca, è natura subbiettiva, che crea di se stesso il suo universo.

Se fosse nato nel medio evo, sarebbe stato un santo. Nato fra quello scetticismo ipocrita e quella coltura contraddittoria, vive tra scrupoli e dubbi, e non sa diffinire egli medesimo se gli è un eretico o un cattolico, piu crudele inquisitore di sé che il tribunale dell’Inquisizione. Cominciò molto vicino all’Ariosto col suo Rinaldo. E gli parve che non se ne fosse discostato abbastanza con la sua Gerusalemme liberata. Scrupoli critici e religiosi lo condussero alla Gerusalemme conquistata, che egli chiamava la «vera Gerusalemme», la «Gerusalemme celeste». E, non parsogli ancora abbastanza, scrisse le Sette giornate della creazione.

Se in Italia ci fosse stato un serio movimento e rinnovamento religioso, la Gerusalemme sarebbe stato il poema di questo nuovo mondo, animato da quello stesso spirito che senti nella Messiade o nel Paradiso perduto. Ma il movimento era superficiale e formale, prodotto da interessi e sentimenti politici piú che da sincere convinzioni. E tale si rivela nella Gerusalemme liberata.

Il Tasso non era un pensatore originale, né gittò mai uno sguardo libero su’ formidabili problemi della vita. Fu un dotto e un erudito come pochi ce n’erano allora, non un pensatore. [p. 156 modifica]Il suo mondo religioso ha de’ lineamenti fissi e giá trovati, non prodotti dal suo cervello. La sua critica e la sua filosofia è cosa imparata, ben capita, ben esposta, discorsa con argomenti e forme proprie; ma non è cosa scrutata nelle sue fonti e nelle sue basi, dove logori una parte del suo cervello. Ignora Copernico e sembra estraneo a tutto quel gran movimento d’idee, che allora rinnovava la faccia di Europa e allettava in pericolose meditazioni i piú nobili intelletti d’Italia. Innanzi al suo spirito ci stanno certe colonne d’Ercole, che gli vietano andare innanzi; e, quando involontariamente spinge oltre lo sguardo, rimane atterrito e si confessa al padre inquisitore, come avesse gustato del frutto proibito. La sua religione è un fatto esteriore al suo spirito, un complesso di dottrine da credere e non da esaminare, e un complesso di forme da osservare. Nel suo spirito ci è una coltura letteraria e filosofica indipendente da ogni influenza religiosa, Aristotele e Platone, Omero e Virgilio, il Petrarca e l’Ariosto, e piú tardi anche Dante. Nel suo carattere ci è una lealtá e alterezza di gentiluomo, che ricorda tipi cavallereschi anziché evangelici. Nella sua vita ci è una poesia martire della realtá : vita ideale nell’amore, nella religione, nella scienza, nella condotta; riuscita a un lungo martirio, coronato da morte precoce. Fu una delle piú nobili incarnazioni dello spirito italiano: materia alta di poesia, che attende chi la sciolga dal marmo dove Goethe l’ha incastrata, e rifaccia uomo la statua.

Che cosa è dunque la religione nella Gerusalemme? È una religione alla italiana, dommatica, storica e formale: ci è la lettera, non ci è lo spirito. I suoi cristiani credono, si confessano, pregano, fanno processioni: questa è la vernice; quale è il fondo? È un mondo cavalleresco, fantastico, romanzesco e voluttuoso, che sente la messa e si fa la croce. La religione è l’accessorio di questa vita: non ne è lo spirito, come in Milton o in Klopstok. La vita è, nella sua base, quale si era andata formando dal Boccaccio in qua, col suo ideale tra il fantastico e l’idillico, aggiuntavi ora un’apparenza di serietá, di realtá e di religione. [p. 157 modifica]

Il tipo dell’eroe cristiano è Goffredo, carattere astratto, rigido, esterno e tutto di un pezzo. Ciò che è in lui di piú intimo è il suo sogno, che è pure imitazione pagana, reminiscenza del sogno di Scipione. Il concetto religioso è manifestato in Armida, la concupiscenza o il senso, e in Ubaldo, voce della «donna celeste» o della ragione. Ma «la ragione parla e il senso morde», come dice il Petrarca, e l’interesse poetico è tutto intorno ad Armida. La ragione usa una rettorica piú pagana che cristiana, e mostra aver pratica piú con Seneca e con Virgilio che con la Bibbia: il fonte della sua morale non è il paradiso, ma la gloria. La ragione parla, e Armida opera, circondata di artifici e di allettamenti. E l’autore qui si trova nel campo suo, e 3’ immerge in fantasie ariostesche, profane, idilliche, che crede trasformate in poesia religiosa perché in ultimo vi appicca la verga aurea immortale di Ubaldo e la sua rettorica. Rinaldo, il convertito, non ha una chiara personalitá, perché quello che è e quello che diviene non si sviluppa nella sua coscienza, e non par quasi opera sua, ma influsso di potenze malefiche e benefiche, le quali se lo contendono. Il dramma è tutto esterno e rimane d’assai inferiore alla confessione di Dante, penetrata da spirito religioso. Quanto al rimanente, Rinaldo è una reminiscenza del Rinaldo o Orlando ariostesco, in proporzioni ridotte; come Argante è una reminiscenza di Rodomonte, con faccia piú seria. Piú tardi Rinaldo, trasformato in Riccardo, divenne una reminiscenza di Achille; Sveno, mutato in Ruperto, fu reminiscenza di Patroclo; e Solimano divenne Mezenzio, e Argante Ettore. Reminiscenze cavalleresche, reminiscenze classiche: piú vivaci e fresche le prime, come piú vicine e ancora sonanti nello spirito italiano.

Il Tasso sentiva confusamente che il poema non gli era venuto cosí conforme al suo tipo religioso, com’egli aveva in mente. E nella Gerusalemme conquistata cercò supplirvi. Ma cosa fece? Accentuò qualche allegoria, diluí il sogno di Goffredo, appiccò al bel viaggio al di lá dell’oceano, sola ispirazione moderna e degna di Camoens, un viaggio sotterraneo assai stentato di concetto e di forma, e vi aggiunse una storia anteriore [p. 158 modifica]delle crociate, dipinta nella tenda di Goffredo. Rese il poema piú pesante, ma non piú religioso, perché la religione non è nel dogma, non nella storia e non nelle forme, ma nello spirito. E lo spirito religioso, come qualunque fenomeno della vita interiore, non è cosa che si possa mettere per forza di volontá.

Volea fare anche un poema serio. Ma la sua serietá è negativa e meccanica, perché da una parte consiste nel risecare dalla vita ariostesca ogni elemento plebeo e comico, e dall’altra in un ordito piú logico e piú semplice, secondo il modello classico. E sente pure di non esservi riuscito, e nella Gerusalemme rifatta usa colori ancora piú oscuri, e cerca un meccanismo piú perfetto. Gitta tutt’ i personaggi nello stesso stampo, e, per far seria la vita, la fa monotona e povera. Cerca una serietá della vita in tempi di transizione, oscillanti fra tendenze contraddittorie, senza scopo e senza dignitá. Cerca l’eroico, quando mancavano le due prime condizioni di ogni vera grandezza: la semplicitá e la spontaneitá. La sua serietá è come la sua religione, superficiale e letteraria.

E voleva soprattutto dare al suo poema un aspetto di credibilitá e di realtá. Sceglie i suoi elementi dalla storia, cerca esattezza di nomi e di luoghi, guarda ad una connessione verisimile d’intreccio, e, come uno scultore, ingrandisce i suoi personaggi con tale uguaglianza di proporzioni, che sembrano tolti dal vero. Chiude in limiti ragionevoli i miracoli della forza fisica; né la forza e il coraggio sono i soli fattori del suo mondo, ma anche l’esperienza, la saggezza, l’abilitá e la destrezza. Rifacendo la Gerusalemme, accentuò ancora questa sua intenzione, cercando maggiore esattezza storica e geografica. Nelle sue tendenze critiche e artistiche si vede giá un’anticipazione di quella scuola storica e realista che si sviluppò piú tardi. Ma sono tendenze intellettuali, cioè puramente critiche, in contraddizione con lo stato ancora fantastico dello spirito italiano e con la sua natura romanzesca e subbiettiva. Gli manca la forza di trasferirsi fuori di sé, non ha il divino obblio dell’Ariosto, non attinge la storia nel suo spirito e nella sua vita interiore: attinge appena il suo aspetto materiale e superficiale. Ciò che vive al [p. 159 modifica]di sotto è lui stesso: cerca l’epico, e trova il lirico; cerca, il vero o il reale, e genera il fantastico; cerca la storia, e s’incontra con la sua anima.

La Gerusalemme conquistata, di aspetto piú regolare e di un meccanismo piú severo, è un ultimo sforzo per effettuare un mondo poetico dal quale egli sentiva esser rimasto molto lontano nella prima Gerusalemme. La base di questo mondo dovea essere la serietá di una vita presa dal vero, còlta nella sua realtá storica e animata da spirito religioso. Rimase in lui un mondo puramente intenzionale, un presentimento di una nuova poesia, uno scheletro che, rimpolpato e colorito e animato da vita interiore, si chiamerá un giorno I promessi sposi.

Come in Dante, cosí nel Tasso questo mondo intenzionale penetrato in un fondo estraneo vi rimane appiccaticcio. Ci è qui come nel Petrarca un mondo non riconciliato di elementi vecchi e nuovi, gli uni che si trasformano, gli altri ancora in formazione. Il di fuori è assai ben congegnato e concorde; ma è una concordia meccanica e intellettuale, condotta a perfezione nella seconda Gerusalemme. Sotto a quel meccanismo senti il disorganismo, un principio di vita molto attivo nelle parti, che non giunge a formare una totalitá armonica. Il fenomeno è stato avvertito da’ critici, a’ quali è parso che l’interesse sia maggiore negli episodi che nell’insieme; e questi episodi, Olindo e Sofronia, Rinaldo e Armida, Clorinda ed Erminia sono i soli rimasti vivi nel popolo, giudice inappellabile di poesia. Ma ciò che si chiama «episodio» è al contrario il fondo stesso del racconto, la sua sostanza poetica; perché il poema, sotto una vernice religiosa e storica, è nella sua essenza un mondo romanzesco e fantastico, conforme alla natura dello scrittore e del tempo.

Il fantastico è per lungo tempo la condizione di un popolo che non ha l’intelligenza e la pratica della vita terrestre e non la prende sul serio. La vita di quelle plebi superstiziose e di quelle borghesie oziose e gaudenti era il romanzo, il maraviglioso delle avventure, prodotte da combinazioni straordinarie di casi o da forze soprannaturali. Il Tasso stesso era di un [p. 160 modifica]carattere romanzesco, insciente e aborrente delle necessitá della vita pratica. Il suo viaggio per gli Abruzzi in veste da contadino, e il suo presentarsi alla sorella non conosciuto, e la scena tenera che ne fu effetto, è tutto un romanzo. Aggiungi le impressioni letterarie che gli venivano dalla lettura dell’Ariosto e del l’Amadigi, e la gran voga de’ romanzi e il favore del pubblico; e ci spiegheremo come la prima cosa che usci dal suo cervello fu il Rinaldo, e come questo mondo romanzesco si conserva invitto attraverso le sue velleitá religiose, storiche e classiche.

L’intreccio fondamentale del poema è un romanzo fantastico a modo ariostesco: un’Angelica che fa perdere il senno a Orlando, e un Astolfo che fa un viaggio fantastico per ricuperarglielo. Hai Armida che innamora Rinaldo, e Ubaldo che attraversa l’Oceano per guarirlo con lo specchio della ragione. Angelica e Armida sono maghe tutt’e due, e istrumenti di potenze infernali; ma sono donne innanzi tutto, e la loro piú pericolosa magia sono i vezzi e le lusinghe. Come Angelica, cosí Armida si tira appresso i guerrieri cristiani e li tien lontani dal campo; né vi manca l’altro mezzo ariostesco, la Discordia, che produce la morte di Gernando, l’esilio volontario di Rinaldo e la cattivitá di Argillano. Da queste cause, le quali non sono altro che le passioni sciolte da ogni freno di ragione e svegliate da vane apparenze, escono le infinite avventure dell’Ariosto e le poche del Tasso, annodate intorno alla principale: Armida e Rinaldo. La selva incantata, che ricorda la selva dantesca, è la selva degli errori e delle passioni o delle vane apparenze, né i cristiani possono entrare in Gerusalemme se non disfacciano quegl’incanti, cioè a dire se non si purghino delle passioni. Questo è il concetto allegorico di Dante, divenuto tradizionale nella nostra poesia, smarrito alquanto nel pelago di avventure del Boiardo e dell’Ariosto, e ripescato dal Tasso con un’apparenza di serietá che non giunge a cancellare l’impronta ariostesca, cioè quel carattere romanzesco che gli avevano dato il Boiardo e l’Ariosto. Intorno a questo centro fantastico moltiplicano duelli e battaglie: materia tanto piú popolare, quanto meno in [p. 161 modifica]un popolo è sviluppato un serio senso militare. Il popolo italiano era il meno battagliero di Europa, e si pasceva di battaglie immaginarie. Vanamente cerchiamo in questo mondo fantastico un senso storico e reale, ancoraché il poeta vi si adoperi. Mancano i sentimenti piú cari della vita. Non ci è la donna, non la famiglia, non l’amico, non la patria, non il raccoglimento religioso, nessuna immagine di una vita seria e semplice. Gildippe e Odoardo riescono una freddura. La «pietá» di Goffredo e la «saviezza» di Raimondo sono epiteti. L’amicizia di Sveno e Rinaldo è nelle parole. Unica corda è l’amore, e spesso riesce artificiato e rettorico, com’ è ne’ lamenti di Tancredi e di Armida, ed anche in Erminia con quelle sue battaglie tra l’onore e l’amore. Nessuna cosa vale tanto a mostrare il fondo frivolo e scarso della vita italiana quanto questi sforzi impotenti del Tasso a raggiungere una serietá, alla quale pur mirava. Volere o non volere, rimane ariostesco, e di gran lunga inferiore a quell’esempio. Gli manca la naturalezza, la semplicitá, la vena, la facilitá e il brio dell’Ariosto: tutte le grandi qualitá della forza. Quella vita romanzesca, cosí ricca di situazioni e di gradazioni, cosí piena di movimenti e di armonie, con una obbiettivitá e una chiarezza che sforza il tuo buon senso e ti tira seco come sotto l’influsso di una malia, se ne è ita per sempre.

Su quel fondo romanzesco il Tasso edifica un nuovo mondo poetico; e qui è la sua creazione, qui sviluppa le sue grandi qualitá. È un mondo lirico, subbiettivo e musicale, riflesso della sua anima petrarchesca; e, per dirlo in una parola, è un mondo sentimentale.

È un sentimento idillico ed elegiaco, che trova nella natura e nell’uomo le note piú soavi e piú delicate. Giá questo sentimento si era sviluppato al primo apparire del Risorgimento nel Poliziano e nel Pontano; deviato e sperduto fra tanto incalzare di novelle, di commedie e di romanzi. L’idillio era il riposo di una societá stanca, la quale, mancata ogni serietá di vita pubblica e privata, si rifuggiva ne’ campi, come l’uomo stanco cercava pace nei conventi. Sopravvennero le agitazioni [p. 162 modifica]e i disordini dell’invasione straniera; e, quando fine della lotta fu un’Italia papale e spagnuola, perduta ogni libertá di pensiero e di azione, e mancato ogni alto scopo della vita, l’idillio ricomparve con piú forza e divenne l’espressione piú accentuata della decadenza italiana. Solo esso è forma vivente fra tante forme puramente letterarie.

L’idillio italiano non è imitazione, ma è creazione originale dello spirito. Giá si annunzia nel Petrarca quale si afferma nel Tasso: un dolce fantasticare tra’ mille suoni della natura. L’anima ritirata in sé è malinconica e disposta alla tenerezza, e senti la sua presenza e il suo accento in quel fantasticare. La natura diviene musicale, acquista una sensibilitá, manda fuori con le sue immagini mormorii e suoni, voci della vita interiore. Prevale nell’uomo la parte femminile: la grazia, la dolcezza, la pietá, la tenerezza, la sensibilitá, la voluttá e la lacrima; tutto quel complesso di amabili qualitá che dicesi il «sentimentale». I popoli, come gl’individui, nel pendio della loro decadenza diventano nervosi, vaporosi, sentimentali. Non è un sentimento che venga dalle cose, ciò che è proprio della sanitá; ma è un sentimento che viene dalla loro anima troppo sensitiva e lacrimosa. Manca la forza epica di attingere la realtá in se stessa, e questa vita femminile è un tessuto di tenere o dolci illusioni, nelle quali l’anima effonde la sua sensibilitá. Il sentimentale è perciò essenzialmente lirico e subbiettivo. Come il lavoro è tutto al di dentro, ci si sente l’opera dello spirito: non so che manifatturato; la cosa non còlta nella naturalezza e semplicitá della sua esistenza, ma divenuta un fantasma e un concetto dello spirito.

Il Tasso cerca l’eroico, il serio, il reale, lo storico, il religioso, il classico, e si logora in questi tentativi fino all’ultima etá. Sarebbe riuscito un Trissino; ma la natura lo aveva fatto un poeta, il poeta inconscio d’un mondo lirico e sentimentale, che succedeva al mondo ariostesco. A quest’ufficio ha tutte le qualitá di poeta e di uomo. L’uomo è fantastico, appassionato, malinconico, di una perfetta sinceritá e buona fede. Il poeta è tutto musica e spirito, concettoso insieme e sentimentale. La [p. 163 modifica]sua immaginazione non è chiusa in sé, come in un ultimo termine, a quel modo che dal Boccaccio all’Ariosto si rivela nella poesia; ma è penetrata di languori, di lamenti, di concetti e di sospiri, e va diritto al cuore. L’Ariosto dice:


                               In si dolci atti, in si dolci lamenti,
che parea ad ascoltar fermare i venti.
     


Il sentimento, appena annunziato, si scioglie in una immagine fantastica. Il Tasso dice:


                               In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave,
ch’ai cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gl’invoglia e sforza.
     


Nella forma ariostesca ci è una virtú espansiva, che rimane superiore all’emozione e cerca il suo riposo non nel particolare, ma nell’insieme: qualitá della forza. Nella forma del Tasso ci è l’impressionabilitá, che turba l’equilibrio e la serenitá della mente e la trattiene intorno alla sua emozione: l’immagine si liquefá e diviene un «non so che»; annunzio dell’immagine che cessa e dell’emozione che soverchia:


                               E un non so che confuso instilla al core
di pietá, di spavento e di dolore.
     


Anche tra’ furori delle battaglie la nota prevalente è l’elegiaca, come nella ottava:


                               Giace il cavallo al suo signore appresso.      


Ne’ casi di morte gli riesce meglio l’elegiaco che l’eroico. Aladino, che cadendo morde la terra ove regnò, è grottesco. Solimano, che


                                                   gemito non spande,
né atto fa se non altero e grande,
     


ti offre un’immagine indistinta. Argante muore come Capaneo; ma la forma è concettosa e insieme vaga, e quelle voci e que’ moti «superbi, formidabili, feroci» non ti dánno niente di percettibile avanti all’immaginazione. L’idea in queste forme rimane intellettuale: non diviene arte. Al contrario, precise, anzi [p. 164 modifica]pittoresche, sono le immagini di Dudone, di Lesbino, de’ figli di Latino, di Gildippe ed Odoardo, dove le note caratteristiche sono la grazia e la dolcezza. Cosí è pure nella morte di Clorinda: ispirazione petrarchesca con qualche reminiscenza di Dante. Clorinda è Beatrice nel punto che parea dire: — «Io sono in pace»; — ma è una Beatrice spogliata de’ terrori e degli splendori della sua divinitá. Il sole non si oscura, la terra non trema, e gli angioli non scendono come pioggia di manna. La religione del Tasso è timida: ci è innanzi a lui il ghigno del secolo, mal dissimulato sotto l’occhio dell’inquisitore. L’elemento religioso era ammesso come macchina poetica, a quel modo che la mitologia: tale è l’angiolo di Tortosa e Plutone, messi insieme. È una macchina insipida in tutt’ i nostri epici, perché convenzionale e non meditata nelle sue profonditá. Gli angioli del Tasso sono luoghi comuni, e il suo Plutone, se guadagna come scultura, è superficialissimo come spirito e parla come un maestro di rettorica. La parte attiva e interessante è affidata alla magia, ancora in voga a quel tempo, dalla quale il Tasso trae tutto il suo maraviglioso. La morte di Clorinda non è un trasfigurazione, come quella di Beatrice, e si accosta al carattere elegiaco e malinconico di quella di Laura, nel cui bel volto «morte bella parea». Qui tutto è preciso e percettibile; il plastico è fuso col sentimentale, il riposo idillico col patetico; e l’effetto è un raccoglimento muto e solenne di una pietá senz’accento, come suona in questa immagine, nel suo fantastico cosí umana e vera e semplice, perché rispondente alle reali impressioni e parvenze di un’anima addolorata:


                                                                  in lei converso
sembra per la pietate il cielo e il sole.
     


La stessa ispirazione petrarchesca è nelle ultime parole di Sofronia:


                               Mira il ciel com’ è bello, e mira il sole
che a sé par che n’ inviti e ne console.
     


Movimento lirico, che ricorda immagini simili di Dante e del Petrarca, accompagnate nel Tasso da un tono alquanto pedantesco, [p. 165 modifica]quando vuol darvi uno sviluppo puramente dottrinale e religioso, come nelle prime parole di Sofronia, che hanno aria di una riprensione amorevole fatta da un confessore a un condannato a morte, o nelle parole di Piero a Tancredi, che hanno aria di predica. La sua anima candida e nobile la senti piú nelle sue imitazioni petrarchesche e platoniche che in ciò che tira dal fondo dottrinale e tradizionale religioso. Sofronia, che fa una lezione a Olindo, ricorda Beatrice che ne fa una simile, e piú aspra, a Dante: ma Beatrice è nel suo carattere, è tutta l’epopea di quel secolo, ci è in lei la santa, la donna ed anche il dottore di teologia; Sofronia è rigida, tutta di un pezzo, costruzione artificiale e solitaria in un mondo dissonante, perciò appunto esagerata nelle sue tinte religiose, a cominciare da quella «vergine di giá matura verginitá» per finire in quel bruttissimo:


                                                             ... ella non schiva,
poi che seco non muor che seco viva.
     


In questa eroina, martire della fede, non ci è la santa con le sue estasi e i suoi ardori oltremondani, e non ci penetra il femminile con la sua grazia e amabilitá. È uscita dal cervello concetto cristiano con reminiscenze pagane e platoniche. Colui che l’ha concepita pensava a Eurialo e Niso, a Beatrice e a Laura. La creatura è rimasta nel suo intelletto, e non ha avuto la forza di penetrare nella sua coscienza e nella sua immaginazione cosí com’era, nel suo immediato. Il che avviene quando la coscienza e l’immaginazione sono giá preoccupate e non conservano nella loro verginitá le concezioni dell’intelletto. Se è vero che, concependo Sofronia, il Tasso pensasse a Eleonora, è una ragione di piú che ci spiega l’artificio e la durezza di questa costruzione. Perciò Sofronia è la meno viva e la meno interessante fra le donne del Tasso, e non è stata mai popolare. Ma Sofronia è umanizzata da Olindo, il femminile, in un episodio dove l’uomo è Sofronia: Olindo diviene eroe per amore, come altri diviene eroe per paura. Il suo carattere non è la forza: qualitá estranea al tempo ed al Tasso, e che senti cosí bene in quel sublime: «Me me, adsum qui feci, in me convertite ferrum», [p. 166 modifica]imitato qui a rovescio e rettoricamente. Il carattere di questo timido amante, «o mal visto, o mal noto, o mal gradito», presentato a’ lettori in una forma artificiosa e sottile, è l’eco del Tasso, un’anticipazione del Tancredi, la stampa di quel tempo e di quel poeta, un elegiaco spinto sino al gemebondo, un idillico spinto sino al voluttuoso. Il vero eroe del poema è Tancredi, che è il Tasso stesso miniato: personaggio lirico e subbiettivo, dove penetra il soffio di tempi piú moderni, come in Amleto. Tancredi è gentiluomo, cioè cavalleresco nel senso piú delicato e nobile, gagliardo e destro piú che gigantesco di corpo, malinconico, assorto, flebile, amabile, consacrato da un amore infelice. La sua Clorinda è una Camilla battezzata: tradizione virgiliana, che al momento della morte si rivela dantesca e petrarchesca. Carattere muto, diviene intelligibile e umano in morte, come Beatrice e Laura. La sua apparizione a Tancredi ricorda quella di Laura, ed è una delle piú felici imitazioni. La formazione poetica della donna non fa in Clorinda alcun passo: rimane reminiscenza petrarchesca. E se vuoi trovare l’ideale femminile compiutamente realizzato nella vita in quel suo complesso di amabili qualitá, dèi cercarlo non nella donna, ma nell’uomo: nel Petrarca e nel Tasso, caratteri femminili nel senso piú elevato, e in questa simpatica e immortale creatura del Tasso, il Tancredi. Si è detto che l’uomo nella sua decadenza tenda al femminile, diventi nervoso, impressionabile, malinconico. Il simile è de’ popoli. E lo spirito italiano fa la sua ultima apparizione poetica tra’ languori e i lamenti dell’idillio e dell’elegia, divenuto sensitivo e delicato e musicale. Il sentimento è il genio del Tasso, che gli fa rompere la superfície ariostesca e gli fa cavare di la dentro i primi suoni dell’anima. L’uomo non è piú al di fuori: si ripiega, si raccoglie. Lo stesso Argante è colpito da questo sublime raccoglimento innanzi alla caduta di Gerusalemme, come il poeta innanzi alle rovine di Cartagine, o quando nell’immensitá dell’oceano concepisce e comprende Colombo. Qui è l’originalitá e la creazione del gran poeta, che sorprende Solimano nelle sue lacrime e Tancredi nella sua vanagloria. Vita intima, della quale dopo Dante e il Petrarca si era perduta la memoria. [p. 167 modifica]

Con l’elegiaco si accompagna l’idillico. L’immagine sua piú pura e ideale è l’innamorata Erminia, che acqueta le cure e le smanie nel riposo della vita campestre. Quella scena è tra le piú interessanti della poesia italiana. Erminia è comica nel suo atteggiamento eroico, e fredda e accademica nelle sue discussioni tra l’onore e l’amore; ma, quando si abbandona all’amore, si rivelano in lei di bei movimenti lirici, come:


                               Oh belle agli occhi miei tende latine!      


Nella sua anima ci è l’impronta malinconica e pensosa del Tasso: una certa dolcezza e delicatezza di fibra, che la tien lontana dalla disperazione e la dispone alla pace e alla solitudine campestre, della quale un pastore gli fa un quadro tra’ piú finiti della nostra poesia. Erminia, errante pe’ campi con le sue pecorelle, tutta sola in compagnia del suo amore, pensosa e fantastica e lacrimosa, espande le sue pene con una dolcezza musicale, il cui segreto è meno nelle immagini che nel numero. Trovi reminiscenze petrarchesche e luoghi comuni in una musica nuova, piena di misteri o di «non so che» nella sua melodia. Un traduttore può rendere il senso, ma non la musica di quelle ottave. L’anima del poeta non è nelle cose, ma nel loro suono, a cui è sacrificata alcuna volta la proprietá, la precisione, la sobrietá, tutte le altre qualitá dello stile, che rendono ammirabile il Petrarca, suo ispiratore: pur non te ne avvedi sotto la malia di quell’onda musicale, che non è un artifizio esteriore e meccanico, ma è il «non so che» del sentimento, che viene dall’anima e va all’anima.

L’idillico non è in questa o quella scena, ma è la sostanza del poema, il suo significato. La base ideale del poema è il trionfo della virtú sul piacere o della ragione sulle passioni. Un lato di questa base rimane intellettuale e allegorico, e si risolve poeticamente in esortazioni paterne, come :


                                    Signor, non sotto l’ombra o in piaggia molle,
tra fonti e fior, tra ninfe e tra sirene,
ma in cima all’erto e faticoso colle
della virtú riposto è il nostro bene.
     
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Contrapposto alla virtú è il piacere, e qui si sviluppano tutte le facoltá idilliche del poeta. In Erminia l’idea idillica è la pace della vita campestre, farmaco del dolore vólto in dolce melanconia. Qui l’idea idillica è il piacere della bella natura spinto sino alla voluttá e alla mollezza, come ozio di anima e contrapposto alla virtú e alla gloria: ciò che il poeta chiude nel motto «quel che piace, ei lice», traduzione del dantesco «libito fe’ licito». Questa idea è sviluppata nel canto della ninfa e nel canto dell’uccello, che sono due veri inni al Piacere:


                               Solo chi segue ciò che piace è saggio.      


Il primo canto è di una esecuzione cosí perfetta per naturalezza e semplicitá che soggioga anche il severo Galilei e gli fa dire che qui il Tasso si accosta alla divinitá dell’Ariosto. L’altro canto è fondato su questo concetto maneggiato cosí spesso da Lorenzo e dal Poliziano: «Amiamo, ché la vita è breve». L’immagine è anche imitata dal Poliziano: è la descrizione della rosa, fatta pure dall’Ariosto; ma, dove nel Poliziano c’ è il puro sentimento della bellezza, qui si sviluppa un elemento sentimentale o elegiaco: l’impressione non è la bellezza della rosa, ma la sua breve vita, e ne nasce un canto immortale, penetrato di piacere e di dolore, il cui complesso è una voluttá resa piú intensa da immagini tenere, fatti la morte e il dolore istrumenti del piacere e deU’amore. Il protagonista di questo mondo idillico è Armida; anzi questo mondo è il suo prodotto, perché essa è la maga del piacere, che gli dá vita. Armida e Rinaldo ricordano Alcina e Ruggiero, e il concetto stesso del guerriero tenuto negli ozi lontano dalla guerra risale ad Achille in Sciro, come l’idea dell’amore sensuale che trasforma gli uomini in bestie è giá tutta intera nella maga Circe. Di questa lotta tra il piacere e la virtú si trovano vestigi poetici in tutte le nazioni. Il Tasso, con un senso di poesia profondo ha fatto di Armida una vittima della sua magia. La donna vince la maga; e, come Cupido finisce innamorato di Psiche, cioè a dire di divino si fa umano, Armida finisce donna, che obblia Idraotte e l’inferno e la sua missione, e pone la sua magia a’ servigi del suo amore. [p. 169 modifica]Questo rende Armida assai piú interessante di Alcina e le dá un nuovo significato. È l’ultima apparizione magica della poesia; apparizione entro la quale penetra e vince l’uomo e la natura. È il soprannaturale domato e sciolto dalle leggi piú forti della natura. È la donna uscita dal grembo delle idee platoniche e delle allegorie, che si rivela co’ suoi istinti nella pienezza della vita terrena. Giá in Angelica apparisce la donna; ma la storia di Angelica finisce appunto allora, e allora appunto comincia la storia di Armida. Angelica, terminando le sue avventure nella prosa idillica del suo matrimonio con un «povero fante», è salutata e accomiatata dal poeta con quel suo risolino ironico. Il concetto, ripigliato dal Tasso, diviene una interessante storia di donna, a cui l’arte magica dá il teatro e lo scenario. Cosí la maga Armida è l’ultima maga della poesia e la piú interessante, nella chiarezza e veritá della sua vita femminile. Vive anche oggi nel popolo piú che Alcina, Angelica, Olimpia e Didone, perché unisce tutti gli splendori della magia con tutta la realtá di un povero core di donna. La sua riabilitazione è in quell’ultimo motto tolto alla Madonna: — «Ecco l’ancilla tua»; — conclusione piena di senso: molto le è perdonato, perché ha molto amato. Ed è l’amore che uccide in lei la maga e la fa donna. Trasformazione assai piú poetica che non è lo scudo di Ubaldo e la «donna celeste»: ond’è che Rinaldo nella sua conversione t’interessa assai meno che Armida in questa sua trasfigurazione, perché quella conversione nasce da cause esterne e soprannaturali, e questa trasfigurazione è il logico effetto di movimenti interni e naturali.

In Erminia e in Armida si compie la donna, non quale usci dalla mente di Dante e del Petrarca, di cui si trovano le orme in Sofronia e in Clorinda; non il tipo divino, eroico e tragico della donna, ma un tipo piú umano, idillico ed elegiaco. La forza di Erminia è nella sua debolezza. Senza patria e senza famiglia, sola sulla terra, vive perché ama, e, perché ama, opera; ma le sue vere azioni sono discorsi interiori, visioni, estasi, illusioni, lamenti e lacrime, tutto un mondo lirico, che si effonde con una dolcezza melanconica tra onde musicali. Erminia pastorella è la madre di tutte le Filli e Amarilli che vennero poi, [p. 170 modifica]
lontanissime dal modello. Né tra le creature idilliche del Boccaccio, del Poliziano, del Molza, del Sannazaro c’è nessuna che le si avvicini. In Armida si sviluppa tutto il romanzo di un amore femminile, con le sue voluttá, con i suoi ardori sensuali, con le sue furie e le sue gelosie e i suoi odii. Nessuno aveva ancora còlta la donna con un’analisi cosí fina nell’ardenza e nella fragilitá de’ suoi propositi, nelle sue contraddizioni. La lingua dice: — Odio, — e il cuore risponde: — Amo; — la mano saetta, e il cuore maledice la mano:


                               e, mentre ella saetta, Amor lei piaga.      


Si dirá che tutto questo non è eroico e non tragico; e appunto per questo elle sono creature viventi, figlie non dell’intelletto, ma di tutta l’anima, con l’impronta sulla fisonomia del poeta e del secolo.

Il mondo idillico, figlio della mente d’Armida, è il palazzo e il giardino incantato, cioè la bella natura campestre resa artistica, trasformata dall’arte in istrumento di voluttá, si che pare che «imiti l’imitatrice sua». Nell’Odissea, nelle Georgiche, nelle Stanze, ne’ giardini ariosteschi la bella natura è sostanzialmente campestre o idillica, e il suo ideale umano è la vita pastorale: l’etá dell’oro attinge anche di lá le sue immagini. Il quadro abituale della poesia classica e italiana è il verde de’ campi, i fiori, gli alberi, il riso della primavera, le fresche ombre, gli antri, le onde, gli uccelli, le placide aurette: quadro decorato dall’arte con le sue statue e i suoi intagli. Questa vista della natura si allarga innanzi al secolo di Colombo e di Copernico, e ne senti l’impressione nell’immensitá dell’oceano, dove il Tasso trova alcune belle ispirazioni. Ma alla fine del viaggio, toccando le isole Fortunate, soggiorno di Armida, ricasca nel solito quadro e vi pone l’ultima mano. Qui vedi raccolto come in un bel mazzetto tutto ciò che di vezzoso e di leggiadro avea trovato l’immaginazione poetica da Omero all’Ariosto; ma è nell’ultima sua forma, raffinata o artificiosa. Come Dante crea una natura oltremondana, il Tasso crea una natura oltrenaturale, una natura incantata, il paradiso della voluttá. Non è la natura [p. 171 modifica]còlta nell’immediato della sua esistenza, ma natura artefatta, lavorata e trasformata da un artista che ha fini e mezzi suoi; e l’artista è Armida, maestra di vezzi e di artifici, che crea intorno a sé una natura meretricia e voluttuosa. Questa forma testamentaria della natura classica è portata a un alto grado di perfezione da un poeta che a un sentimento musicale sviluppatissimo aggiungeva tutte le finezze dello spirito.

Abbiamo anche una selva incantata, cioè una selva artefatta, accomodata ad uno scopo a lei estraneo. L’incanto ne’ romanzi cavallereschi è cosí arbitrario come la natura, e non è altro che combinazione straordinaria di apparenze, che dèstino curiositá e maraviglia. Qui, come è concepito dal Tasso, l’incanto è ragionevole, e perciò intelligibile: è la natura rimaneggiata dall’arte e indirizzata ad uno scopo. Come il giardino e il palazzo incantato, cosí la selva incantata è opera di artista che l’atteggia a suo modo e secondo i suoi fini. Il concetto non è nuovo: è la nota selva delle false apparenze, la selva degli errori e delle passioni; ma l’esecuzione è originalissima, e ti offre il microcosmo del Tasso, il suo mondo elegiaco-idillico condensato e accentuato. Ci è li fuso insieme Erminia e Armida, Tancredi e Rinaldo, tutta l’anima poetica del Tasso, ciò che di piú tenero ha l’elegia e ciò che di piú molle ha l’idillio, ne’ loro accenti piú musicali.

Questo è il vero mondo poetico della Gerusalemme, un mondo musicale, figlio del sentimento, che dalla piú intima malinconia va digradando fino al piú molle e voluttuoso di una natura meridionale. Ingegno napolitano, manca al Tasso la grazia e la vivezza toscana e la decisione e chiarezza lombarda cosí ammirabile nell’Ariosto; ma gli abbonda quel senso della musica e del canto, quel dolce fantasticare dell’anima tra le molli onde di una melodia malinconica insieme e voluttuosa, che trovi nelle popolazioni meridionali, sensibili e contemplative.

Questo mondo del sentimento è insieme il mondo dei «concetti». Come il Petrarca, cosí il Tasso è disposto meno a rinnovare un vecchio repertorio che ad abbigliarlo a nuovo. Dottissimo, la sua materia poetica è piena di reminiscenze, e non [p. 172 modifica]coglie il mondo nel suo immediato, ma a traverso i libri. Lavora sopra il lavoro, raffina, aguzza immagini e concetti: la qual forma nella sua esterioritá meccanica egli la chiama il «parlare disgiunto»; ed è un «lavoro di tarsie», come diceva il Galilei. Cercando l’effetto non nell’insieme ma nelle parti, e facendo di ogni membretto un mondo a sé, raffinato e accentuato, le giunture si scompongono, l’organismo del periodo si scioglie, e vien fuori una specie di parallelismo: concetti e immagini a due a due, posti di fronte in guisa che si dieno rilievo a vicenda. Il fondo di questo parallelismo è l’antitesi, presa in un senso molto largo, cioè una certa armonia che nasce da oggetti simili o dissimili posti dirimpetto, come:


                               Molto egli oprò col senno e con la mano,
molto soffri nel glorioso acquisto:
e invan l’inferno a lui s’oppose, e invano
s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.
     


Quel «molto» e quell’«invano» sono il ritornello di una cantilena chiusa in se stessa ed esaurita nell’espressione di un rapporto tra due oggetti. Naturalmente, cercando l’effetto in quel rapporto, l’intelletto vi prende parte piú che non si convenga a poeta, e riesce nel raffinato e nel concettoso, come:


                               Oh di par con la man luci spietate!
essa le piaghe fe’, voi le mirate.
     


Questo parallelismo, fondato sopra ritornelli di parole, ravvicinamenti di oggetti e straordinarietá di rapporti, non è un accidente: è il carattere di questa forma con gradazioni piú o meno spiccate. E non attinge solo i pensieri, ma anche le immagini, come:


                                                                  ... e par che porte
lo spavento negli occhi e in man la morte.
     


L’immaginazione nelle sue contemplazioni ha sempre ai fianchi un pedagogo, che analizza e distingue con logica precisione, come:


                               Sparsa è d’armi la terra, e l’armi sparte
di sangue, e il sangue col sudor si mesce.
     
[p. 173 modifica]Cerca troppo il poeta lo stacco e il rilievo, dare un significato anche all’insignificante, e cerca il significato nei rapporti intellettuali anche tra la maggiore evidenza della rappresentazione e la concitazione piú violenta dell’affetto, come:


                               O sasso amato ed onorato tanto,
che dentro hai le mie fiamme e fuori il pianto!
     


Con questi giuochi di parole e di pensieri si lagna Tancredi e infuria Armida, la quale anche nella disperazione del suicidio fa un discorsetto alle sue armi assai ingegnoso, e finisce:


                               Sani piaga di strai piaga d’amore,
e sia la morte medicina al core.
     


È ciò che fu detto «orpello del Tasso» o maniera, propria de’ poeti subbiettivi: una forma artificiosa di rappresentazione, dove l’interessante non è la cosa, ma il modo di guardarla. In questo caso la forma non è la cosa, ma lo spirito, con le sue attitudini facilmente classificabili nei loro caratteri esteriori, e divenute maniera o abitudine nella rappresentazione, com’ è il petrarchismo o il marinismo. Essendo il proprio di questa maniera una cantilena breve e chiusa, che ha il suo valore non solo nel rimanente della clausola ma in se stessa, vi si sviluppa l’elemento cantabile e musicale, una enfasi sonora, un suono di tromba perpetuo e monotono, con certe pause, con certi trilli, con certe ripigliate, con un certo sopratuono come di chi gridi e non parli, che non comporta la semplice recitazione, come si può in molti passi di Dante, del Petrarca e dell’Ariosto, ma ti costringe alla declamazione. Ci è un «Arma virumque cano» dal principio all’ultimo, un accento sollevato e teso, come di chi si trovi in uno stato cronico di esaltazione. Indi, scelta di parole sonanti, riempiture di epiteti e di avverbi, nobiltá convenzionale di espressione, povertá di parole, di frasi, di costruzioni e di gradazioni. Con questa forma declamatoria, si accompagna naturalmente la rettorica, che è quel tenersi su’ generali, e ravvivare luoghi comuni o concettosi con un calore tutto d’immaginazione, tra uno scoppiettio di apostrofi. [p. 174 modifica]epifonemi, ipotiposi, interrogazioni ed esclamazioni: il che gli avviene massime quando mira alla forza di concitate passioni, come sono i lamenti di Tancredi e i furori di Armida. Questa è la «maniera» del Tasso, per entro alla quale penetra il potente soffio di un sentimento vero, che spesso gli strappa accenti, nella loro energia, pieni di semplicitá. Nelle ultime parole di Clorinda ci è un si e un no in battaglia, «al corpo no, all’alma si»; ma, salvo questo, che affetto e quanta semplicitá in quell’affetto! Togliete quel fiato al Petrarca e al Tasso, cosa rimane? La maniera, il petrarchismo e il marinismo, il cadavere de’ due poeti.

La Gerusalemme non è un mondo esteriore, sviluppato ne’ suoi elementi organici e tradizionali, come è il mondo di Dante o dell’Ariosto. Sotto le pretensiose apparenze di poema eroico è un mondo interiore o lirico o subbiettivo, nelle sue parti sostanziali elegiaco-idillico, eco de’ languori, delle estasi e de’ lamenti di un’anima nobile, contemplativa e musicale. Il mondo esteriore ci era allora, ed era il mondo della natura, il mondo di Copernico e di Colombo, la scienza e la realtá. Anche il Tasso ne ha un bagliore, e visibili sono qui le sue intenzioni storiche, reali e scientifiche, rimaste come presentimenti di un mondo letterario futuro. L’Italia non era degna di avere un mondo esteriore, e non l’aveva. Perduto il suo posto nel mondo, mancato ogni scopo nazionale della sua attivitá, e costretta alla ripetizione prosaica di una vita di cui non aveva piú l’intelligenza e la coscienza, la sua letteratura diviene sempre piú una forma convenzionale separata dalla vita, un gioco dello spirito senza serietá, perciò essenzialmente frivolo e rettorico, anche sotto le apparenze piú eroiche e piú serie. Di questa tragedia Torquato Tasso è il martire inconscio, il poeta appunto di questa transizione; mezzo tra reminiscenze e presentimenti, fra mondo cavalleresco e mondo storico; romanzesco, fantastico; tra le regole della sua poetica, la severitá della sua logica, le sue intenzioni realiste e i suoi modelli classici; agitantesi in un mondo contraddittorio senza trovare un centro armonico e conciliante; cosí scisso e inquieto e pieno di pentimenti nel [p. 175 modifica]suo mondo poetico, come nella vita pratica. Miserabile trastullo del suo cuore e della sua immaginazione, fu la il suo martirio e la sua gloria. Cercando un mondo esteriore ed epico in un repertorio giá esaurito, vi gittò dentro se stesso, la sua idealitá, la sua sinceritá, il suo spirito malinconico e cavalleresco, e lá trovò la sua immortalitá. Ivi si sente la tragedia di questa decadenza italiana. Ivi la poesia, prima di morire, cantava il suo lamento funebre e creava Tancredi, presentimento di una nuova poesia, quando l’Italia sará degna di averla.