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Storia della rivoluzione di Roma (vol. II)/Capitolo III

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Capitolo III

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Capitolo II Capitolo IV

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CAPITOLO III.

[Anno 1848]


Avvenimenti importantissimi del mese di febbraio 1848, e dei primi giorni di marzo fino a che si conobbe la rivoluzione di Francia. — Proclama clandestino dell’8 febbraio. — Dimostrazione pel Corso. — Il principe Corsini si reca dal Santo Padre. — Atto famoso del medesimo ove sono le espressioni: benedite, gran Dio, l’Italia, e conservatele sempre questo dono di tutti preziosissimo la fede, del giorno 10.— Dimostrazione del giorno 11 al Quirinale. — Discorso del Santo Padre ai capi dei corpi militari. — Parole concitate del Santo Padre dalla loggia del Quirinale: non posso, non debbo, non voglio. — Nuovo ministero il 12. — Creata una commissione per proporre quei sistemi governativi, che fossero compatibili con l’autorità del pontefice e coi bisogni del giorno. — Banchetto in Napoli in onore della civica romana. — Feste in Oriente pel Santo Padre e per da rivoluzione italiana. — Parole del Santo Padre alla civica dalla loggia di Belvedere il giorno 20. Imprestito di, scudi dugento mila aperto dal municipio per fabbricare case per la povera gente. — L’opera dell’abate Vincenzi sugl’Israeliti arsa dalla scolaresca. — Il carnevale di Roma. — Racconto di quello del 1848. — La rivoluzione contraria al carnevale. — Indirizzi e poesie in senso rivoluzionario. — Opposizione dei rivoluzionari alla festa dei moccoletti l’ultima sera di carnevale. — Primi sentori della rivoluzione di Francia del 24 febbraio. — Primi effetti che produsse.


La rivoluzione era ornai già matura, prima per gli avvenimenti della Svizzera, e poi per quelli della Sicilia e di Napoli. Il Piemonte e la Toscana bollivano e facevan ressa sugli altri. Le genti lombarde sdegnose mordevano il freno, e le Camere francesi colla esibizione scenica e spettacolosa delle loro simpatie per le cose romane, non altro facevano che aggiungere maggiore esca al fuoco che già era per divampare.

Dicevasi da noi fino dal principio che si voleva esautorare il pontefice, che le lodi eran finzioni, e gli applausi [p. 37 modifica]tradimento in chi li promosse. Ciò venne posto in chiara luce il giorno 8 di febbraio, perchè si disse e si stampò apertamente: non vogliamo più preti.1

L’ingratitudine e l’inganno presero in quel giorno ostensibilmente l’impero della città santa, imperocchè se tanto si era inneggiato a Pio IX per il solo atto del perdono, se erasi, per così dire, votato il sacco dei superlativi per glorificarlo, se erasi assordato il mondo colle proteste di gratitudine e di attaccamento, quanto più sentimenti siffatti non avrebber dovuto porre salde radici quando al primo successero tanti altri atti dell’animo suo leale e benefico?

Chiaro appariva che quanto più si era ottenuto, tanto meno doveva richiedersi, e che incomportabili e sleali eran quelle grida di volere giù i ministri sacerdoti, nel momento appunto in cui il governo clericale erasi spogliato di non poca parte del potere per investirne il popolo.

Eppure così passaron le cose: quel che si voleva si dava alle stampe, e noi ad eliminare ogni dubbiezza nei nostri lettori sulla realtà di simili esorbitanze, trascriviamo qui per intiero il foglietto che circolò in detto giorno, e che fu il programma di quella rivoluzione la quale allora volea farsi, e che dopo fatta tanto iniquamente trionfò.

Esso diceva così:

Proclama del popolo.


«La situazione ognor più pericolosa ed imminente del nostro paese, e delle persone e degl’interessi più sacri, ha convocato il popolo questa mattina sulle piazze e sulle strade, essendo ormai chiaro ad evidenza che ad esso solo è oggimai affidato il pensiero della sua salute. — Trista verità è questa che rifulge per gli errori, per la ignoranza e mala fede dì certi uomini, cui Pio IX confidava con tutto il candore il governo del suo popolo, e che essi hanno malversato e corrompono indefessamente per [p. 38 modifica]suscitare quei danni sui quali sperano da ciechi di ri’ scattare il potere che perdono ad ogni istante per difetto di mente e di cuore. Non è la prima volta che dal popolo adunato uscì la voce del diritto e della giustizia, e Pio IX rispettò quella voce, e la benedisse; nè oggi verrà meno la bontà dell’indole sua, oggi che si vuole divelta completamente la mala radice de’ privilegi, degli arbitri, della stoltezza, e degli uomini incorreggibili. — Questa voce è una sola, ancora disarmata ma potente; ancora calma ma sterminata — Abbasso i ministri sacerdoti. — Il pontefice l’ascolterà.

» Se per caso egli titubasse sulla scelta degli uomini che noi stimiamo, e che ponno soli arrestare la rovina dei governo, ecco in questo foglio la raccolta di alcuni nomi dei più virtuosi, dei più liberali, dei più sinceramente attaccati alla causa dell’Italia, che è quella della indipendenza e della libertà. — Senno, virtù, disinteresse li distinguono; l’aura popolare gl’incorona. — Egli scelga, e il popolo sarà soddisfatto.


Ministro degli affari stranieri e Presidente del Consiglio.


principe Corsini, o figlio
Don Neri Corsini.
Ministro dell’Interno.
conte Pietro Ferretti o
Marco Minghetti.

Finanze.
principe Simonetti o
Zannolini di Bologna.

Istruzione.
Carlo Pepoli o
Terenzio Mamiani.

Commercio e Agricoltura.
deputato
principe
Recchi o
Doria.

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Lavori Pubblici.
conte
principe
Massei o
Aldobrandini.
Polizia (da abolirsi).
intanto marchese Costabili
Giustizia.
avvocati Sturbinetti o
Armellini
Piacentini.

Presidente del S. Collegio per gli affari ecclesiastici.
cardinali Antonelli o
Ciacchi2


Che uno scritto di simil fatta non fosse già una lettera morta ben se ne vider gli effetti, come appresso racconteremo.

Parve ai più assennati una sfrontatezza da pronosticarsene molto male, giacché non equivaleva ad altro che a questo: il popolo farà da sè, e si emanciperà da’ suoi presenti dominatori. A ciò tendere gl’iniziati assembramenti. Converrà forse che il legittimo potere intimorito ceda il campo? E non cedendolo, potrà evitarsi un qualche grave scompiglio? Queste le domande che si facevano, questi i timori che si presagivano.

Intanto sull’imbrunire del giorno s’incominciava a veder sul Corso un insolito brulicar d’uomini a faccie torve, che pareva si cercasser l’un l’altro taciturni e sospettosi. Vedevansi civici in armi frammisti ai borghesi, molti dei quali (estranei del tutto a Roma) erano armati di stili nei bastoni. Le coccarde tricolori scopertamente portavansi dai più. Richiedevasi da molti, ignari dello scopo della riunione, che cosa mai macchinasse quell’insolito assembramento di popolo. Ma poco o nulla era dato loro a conoscete.

[p. 40 modifica]Ben si seppe però che il principe Aldobrandini, pregato dai capi dei circoli, avea assunto l’incarico di scongiurare il pontefice a calmare il popolo e di aver richiesto a compagni i consultori conte Pasolini e avvocato Francesco Benedetti. Si disse ancora che il principe Corsini era stato pregato d’inframettersi ancor egli fra il sovrano ed il popolo. Quando si sentiron delle voci sulla piazza del Popolo che dicevano: eccolo, eccolo; ed era il principe Corsini che in un piccolo cocchio ritornava dal Santo Padre.

Fattasi allora la più completa calma, espose il senatore o chi parlò per esso, che molti dissero essere il poeta Masi, che il Santo Padre, adesivamente alle domande del popolo, le avrebbe prese in considerazione, pregando intanto tutti a ritirarsi. Assicurò pure che il Santo Padre avrebbe deliberato di porre in atto la secolarizzazione del ministero, e che in quanto all’avere dei bravi officiali superiori, ne aveva già avanzata domanda al governo piemontese. Furonvi allora delle grida per avere armi. Gridossi pure: viva il ministero secolare, viva Corsini. Poi altre grida s’intesero pel Corso, ed allora una folla di popolo di circa un due o tre mila persone invase quella via, per recarsi al palazzo Corsini e ringraziare il principe. Giunti avanti il palazzo di Venezia, fu un silenzio profondo e significativo. All’appressarsi poi del palazzo Farnese, il conte Ludolf fece subito porre i lumi alle finestre. Finalmente ingrossato l’attruppamento, cammin facendo, giunse sotto al palazzo Corsini. Allora il principe mostratosi al balcone con Ciceruacchio al fianco, ricevette i saluti e gli evviva di quella immensa turba plaudente , la quale dopo di ciò si disciolse. Le coccarde tricolori da quel giorno in poi furono indossate quasi generalmente.

La Gazzetta di Roma parlò di detta dimostrazione.3 Ne parlò pure il giornale l’Italico.4

In seguito di ciò il ministero presentò la sua rinunzia [p. 41 modifica]in massa, ch’era quel che volevasi dai rivoluzionari, ed il Santo Padre emise il seguente importantissimo motu-proprio il quale, quantunque sia stato riportato per intiero dal Farini e dal Ranalli, lo trascriviamo ancor noi completamente stante la sua gravità. Esso diceva così:


PIUS P. P. IX.


«Romani!

» Ai desideri vostri, ai vostri timori, non è sordo il pontefice che in ormai due anni ha da voi ricevuto tanti segni di amore e di fede. Noi non ci restiamo dal continuo meditare come possano più utilmente svolgersi e perfezionarsi, salvi i nostri doveri verso la Chiesa, quelle civili istituzioni che abbiam posto, non da alcuna necessità costretti, ma persuasi dal desiderio della felicità dei nostri popoli e dalla stima delle loro nobili qualità. Abbiamo volti altresì i nostri pensieri al riordinamento della milizia prima ancora che la voce pubblica lo richiedesse; e abbiamo cercato modo di avere di fuori ufficiali che venissero in aiuto a quelli che onoratamente servono il governo pontificio. Per meglio allargare la sfera di quelli che possono con l’ingegno e con la esperienza concorrere ai pubblici miglioramenti, avevamo pur provveduto ad accrescere nel nostro Consiglio del ministri la parte laicale. Se la concorde volontà dei principi da cui l’Italia riconosce le nuove riforme, è una sicurezza della conservazione di questi beni con tanto plauso e con tanta gratitudine accolti, noi la coltiviamo serbando e confermando con essi le più amichevoli relazioni. Nessuna cosa in somma che giovar possa alla tranquillità e alla dignità dello stato sarà mai negletta, o Romani e sudditi pontifici, dal vostro padre e sovrano, che della sua sollecitudine per voi vi ha date le prove più certe, ed è pronto a darvene ancora, se sarà fatto [p. 42 modifica]degno di ottenere da Dio che infonda nei cuori vostri e degl’Italiani tutti lo spirito pacifico della sua sapienza: ma è pronto altresì a resistere con la virtù delle già date istituzioni agl’impeti disordinati, come sarebbe pronto a resistere a domande non conformi ai doveri suoi e alla felicità vostra. Ascoltate adunque la voce paterna che vi assicura: e non vi commuova questo grido che esce da ignote bocche ad agitare i popoli d’Italia con lo spavento di una guerra straniera aiutata e preparata da interne congiure o da malevola inerzia de’ governanti. Questo si è inganno: spingervi col terrore a cercare la pubblica salvezza nel disordine: confondere col tumulto i consigli di chi vi governa: e con la confusione apparecchiare pretesti ad una guerra che con nessun altro motivo si potrebbe rompere contro di noi. Qual pericolo infatti può sovrastare all’Italia finché un vincolo di gratitudine e di fiducia, non corrotto da nessuna violenza, congiunga insieme la forza dei popoli con la sapienza dei principi, con la santità del diritto? ma noi massimamente, noi capo e pontefice supremo della santìssima cattolica religione, forsechè non avremmo a nostra difesa, quando fossimo ingiustamente assaliti, innumerevoli figliuoli che sosterrebbero come la casa del padre il centro della cattolica unità? Gran dono del cielo è questo fra tanti doni con cui ha prediletto l’Italia: che tre milioni appena di sudditi nostri abbiano dugento milioni di .fratelli d’ogni nazione e d’ogni lingua. Questa fu in ben altri tempi, e nello scompiglio di tutto il mondo romano, la salute di Roma. Per questo non fu mai intera la rovina dell’Italia. Questa sarà sempre la sua tutela finché nel suo centro starà quest’apostolica Sede. Oh, perciò, benedite gran Dio l’Italia, e conservatele sempre questo dono di tutti preziosissimo, la fede! Beneditela con la benedizione che umilmente vi domanda, posta la fronte per terra, il vostro vicario. Beneditela con la benedizione che per lei vi domandano i Santi a cui diede [p. 43 modifica]la vita, la Regina dei Santi che la protegge, gli Apostoli di cui serba le gloriose reliquie, il vostro Figlio Umanato che in questa Roma mandò a risiedere il suo rappresentante sopra la terra.

» Datum Romæ apud sanctam Mariam Majorem die X februarii anni MDCCCXLVIII pontificatus nostri anno secundo

Pius PP. IX.5


Questo fu l’atto famoso che per calmare i Romani (o chi ne prendeva il nome) emise il Santo Padre e che tanti clamori e commenti in ambi i sensi eccitò, e a tante speranze aperse il varco in Roma e in Italia. Eppure questi clamori, questi commenti e queste speranze nascevan soltanto da una mistificazione.

Molto e ingiustamente si disse in quella occasione dai retrivi contro il Santo Padre. Molto e più inesattamente si gridò e si scrisse in lode del medesimo dai libertini, non già per Pattò in genere, ma in ispecie per quelle parole, o meglio per quell’apostrofe: benedite, gran Dio, l’Italia.

Pretendevan questi ultimi che con quelle parole, che astutamente segregaron dal resto del motu-proprio, il Santo Padre avesse bandito la indipendenza e l’unità italiana. Quindi è che le innalzarono al cielo e le pubblicarono in tutte le stampe e a piena gola le ripeterono, ma si guardaron bene dal far motto delle susseguenti: e conservatele sempre questo dono di tutti preziosissimo la fede.

Il Santo Padre intese, e questo è chiaro come la luce del giorno, di indirizzare all’Ente Supremo presso a poco questa preghiera: Signore, volgete uno sguardo benigno all’Italia, proteggetela, e conservatele il cattolicismo. Si ebbe però l’abilità di far credere che lo avesse pregato affinchè fosse riuscito ai rivoluzionari di renderla unita ed indipendente, o in altri termini una e indivisibile!

[p. 44 modifica]Lo vollero comprometter così agli occhi dei retrivi i quali da semplicioni credevan più alle altrui grida che ai propri occhi e al proprio senno, e videro, o sembrò lor di vedere in quelle parole, una imprudente e fatale manifestasiane di desiderî incoraggiante troppo il già iniziato movimento.

Il Santo Padre fidavasi nei buoni, ma a che se non eran buoni a nulla, neppure a leggere e commentare e difendere un atto che, fra tutti quelli emanati dalla sua mente, porta forse per rettitudine e saviezza il primato? Ci rincresce il dirlo, ma mentre gli avversari mostravansi abilissimi nell’attaccare, erano i così detti buoni assai meno abili dei primi nel difendere e sostenere il governo, Convien credere che in loro e occhi e voce e mente fosser notevolmente indeboliti.

Imperocchè chiunque ben legga e consideri da cima a fondo l’atto summenzionato, null’altro vi rinverrà se non una esortazione agl’Italiani di badare ai casi loro, non temere per esso e per la integrità dei domini pontifici, desistere da ogni idea di armamenti e di guerra, confidare nella Provvidenza, è restar saldi nella fede alla cattolica religione.

E se infine implorò dalla Divinità la benedizione sull’Italia, lo fece, e opportunissimamente, perchè già la vedeva in preda a fallaci lusinghe, e già sconvolta dalla vertigine delle idee di rivolture e di guerre. Lo fece per richiamare sulla misera Italia le benedizioni dell’ordine e della pace, ma in aperta opposizione al significato che da entrambi i partiti dar si voleva a quelle memorabili parole. E fuvvi al certo molta perfidia falsando lo spirito di quell’atto, e rappresentandolo siccome eccitante e provocante e bellicoso, mentre null’altro spirava che pace, mansuetudine, ordine, e confidenza nella protezione del cielo, più assai dei mezzi umani efficace e potente.

E fece ben vedere la rivoluzione che teneva in conto di bamboli i Romani, facendo ristampare il dì seguente quell’atto, nello stesso formato in foglio, e col ritratto del [p. 45 modifica]Santo Padre contornato da bandiere, cannoni, armi e trofei, quasi che fosse stato quello di un Federico II, o di un Napoleone I....!6

Il cattivo tempo del giorno 10 impedì la dimostrazione che avevasi in animo di fare al Santo Padre in ringraziamento di questo motu-proprio; sicché essa ebbe luogo il giorno 11 circa alle 4 ½ pomeridiane.

Una mezz’ora prima però il Santo Padre avendo fatto chiamare a sè tutti i colonnelli della guardia civica e gli ufficiali maggiori degli altri corpi militari, diresse loro il seguente discorso:

«La circostanza è tanto imperiosa, le cose s’incalzano tanto, che mi piace appellarmi alla lealtà della mia guardia civica. A questo corpo affido la mia persona, le mie sostanze, il sacro collegio, le vite e le sostanze di tutti i cittadini, il mantenimento dell’ordine e della tranquillità pubblica; non credo meglio fidare che in questo corpo, il quale tante prove mi ha dato in sì breve tempo.

» Ho incaricato una commissione a riunire tutte le disposizioni già da me date, onde poter vedere quale estensione maggiore possa darsi alle riforme onde siano in armonia coi bisogni e. coi desideri attuali. Aumenterò il numero dei componenti la Consulta di stato, e darò una estensione maggiore alle sue facoltà. Quel che ho promesso voglio assolutamente mantenere, ed a quest’ora si sarebbe già effettuato, se quelli ai quali ho offerto il relativo portafoglio, non si fossero espressi di volerlo accettare con condizioni, ed io condizioni non le riceverò giammai. Non sarà mai che acconsenta, a dose contrarie alla Chiesa ed ai principi della religione; e se mi si volesse forzare, se mi vedessi abbandonato, mai cederei, ma mi metterei in braccio alla Provvidenza. I [p. 46 modifica]cittadini siano in guardia dei male intenzionati che sotto vani pretesti desiderano sconvolgere l’ordine pubblico, per potersi più facilmente appropriare le altrui sostanze.

» La costituzione non è un nome nuovo nel nostro stato e quegli stati che attualmente l’hanno la copiarono da noi. Noi avemmo la Camera dei deputati nel Collegio degli avvocati concistoriali, e la Camera dei pari nel sacro Collegio dei cardinali fino dall’epoca di Sisto V.»

Questo discorso quanto insolito, altrettanto importante, che il Santo Padre pronunziò a tutti i capi de’ corpi militari, non venne stampato. Venne ricopiato solamente, e moltiplicatesene le copie circolò, eccitando nei più sorpresa e timore.

Il vedere che quel papa, il quale un anno prima portavasi in trionfo toccando l’apice dell’umana gloria, si trovasse poi costretto a raccomandare la sua sacra persona alla guardia cittadina, non poteva non eccitare, come eccitò quasi in tutti, grandissima meraviglia e trepidazione. Il linguaggio del Santo Padre era tale da indicare che il caso era grave assai, e che le cose eran giunte a mal partito. Si osava non pertanto parlare da taluno di libertà del sovrano e di spontaneità de’ suoi atti. Si rilegga ciò che precede, si considerino i fatti del giorno 8, e poi ci si dica se il papa fosse libero. No non lo era. Siamo sinceri. Il papa era sotto l’impero della violenza e della minaccia, e i fatti parlano troppo chiaro per poterne dubitare.

Il discorso di cui testè facemmo menzione, venne accennato imperfettamente dalla Pallade,7 ma dal Ranalli fu riportato quasi per intiero.8

In proseguimento di ciò che accadde il giorno 11 febbraio rammenteremo che alle 4 ½, circa pomeridiane giunse [p. 47 modifica]sulla piazza del Quirinale un’agglomerazione di popolo, formata da un quattro o cinque mila individui fra i quali però molti curiosi. Era composta di soli uomini, e benchè ascendesse alla cifra di sopra indicata, era pur non ostante assai minore dimostrazione di quelle fatte dianzi. Schieratisi tutti di fronte al palazzo del Quirinale, s’intese un qualche grido (da alcuni attribuito al noto Giovanni De Andreis, da altri ad un Trucchi piemontese) che accennava a volere una costituzione o qualche cosa di simile, e ciò mentre il Santo Padre era già sulla loggia.

Allora il medesimo dopo un movimento di sorpresa soffermossi alquanto, e riguardato d’onde venisse il grido, disse ad alta voce queste parole:

«Prima che la benedizione di Dio discenda su di voi, su tutto lo stato, e lo ripeterò ancora, su tutta l’Italia, io vi raccomando che i cuori siano concordi, e le domande non siano contrarie alla santità di questo stato della Chiesa; e perciò certe grida e certe domande, io non posso, non devo, non voglio ammetterle. Con queste premesse d’esser fedeli al pontefice ed alla Chiesa, a queste condizioni io vi benedico, e vi benedico con tutta l’espansione dell’anima mia. Ricordatevi delle promesse fatte, e siate fedeli al pontefice ed alla Chiesa.»

È da avvertirsi però, che le parole non posso, non devo, non voglio, furon pronunciate con tale veemenza e tale concitamento di sdegno, da lasciarne tutti attoniti e sbalorditi.

La Gazzetta di Roma del giorno 129 dette un cenno slavato, e, più che slavato, infedele del detto discorso e delle circostanze che lo precedettero e l’accompagnarono, il quale venne anche pubblicato la mattina seguente al caffè delle Belle Arti. In altri luoghi, e con altre varianti venne fetta la stampa del detto discorso, e così [p. 48 modifica]circolarono per la città vari foglietti, che noi conservammo.10In tutti però si tacque la inflessione di voce colla quale furon pronunziate quelle parole memorande, e in questa infedeltà cadde lo stesso giornale la Bilancia che ne parlò a lungo.11 Nè è a credersi che ciò fosse per caso, ma si fece ad arte onde non si trapelasse nè qui da noi nè in esteri paesi che il Santo Padre manifestavasi apertamente contrario a certe innovazioni o riforme che pur da taluno volevansi ad ogni costo.

E questo fu uno dei tanti inganni di cui seppe giovarsi la rivoluzione. Noi ci trovammo sul Quirinale, e se non fossimo stati disingannati già da prima, sarebber bastate quelle memorande parole: non posso, non devo, non voglio, e quella sdegnosa energia colla quale vennero profferite, per disingannarci completamente. E se la Gazzetta di Roma, dalla quale potevamo aspettarci qualche lume, non riportò fedelmente questo episodio importantissimo delle nostre storie, egli è da inferirsi che anche la Gazzetta di Roma era caduta sotto gl’influssi della rivoluzione.

Ci siamo dilungati alquanto sulla dimostrazione ostile dell’8, febbraio, sul motu-proprio del Santo Padre del 10, sulla susseguente dimostrazione dell’11, e sulle memorabili parole, che furon le prime cui dall’alto della loggia del Quirinale diresse il Santo Padre al popolo romano, perchè questi fatti storici sono fra loro intimamente collegati, e costituiscono una delle parti più importanti, e nel tempo stesso meno dilucidate dagli altri scrittori.

Intanto però le costituzioni piovevano da tutte le parti, ed ogni staffetta recava l’annunzio di una costituzione accordata o sul punto di accordarsi.

In prova di che fin dal giorno 8 un decreto di Carlo Alberto prometteva la costituzione;12 il giorno 10 veniva [p. 49 modifica]firmata dal re di Napoli, e pubblicata il giorno seguente quella pel regno delle Due Sicilie; ed il giorno 11 con un motu-proprio ad hoc, anche il granduca di Toscana prometteva di darla ai suoi stati.13

Ed in Roma per serbare viva la memoria di questo triplice avvenimento, si andava pubblicando uno stampato avente per titolo: Tre Costituzioni in Italia.14

In seguito poi della dimostrazione del giorno 8 decisamente ostile al governo, il Santo Padre aveva invitato fin dal giorno 9 i principi Corsini e Aldobrandini, non che il principe di Teano ed il duca di Rignano a prender parte nel Consiglio dei ministri; e nella riunione che si tenne il detto giorno, vuolsi che il principe Corsini parlasse fortemente sulla necessità del dover cambiare ministero.15

Ed il ministero fu cambiato il 12 febbraio coll’aver conferito al conte Pasolini il ministero del commercio, delle belle arti, dell’industria e agricoltura; all’avvocato Francesco Sturbinetti quello dei lavori pubblici; a don Michele Caetani principe di Teano quello della polizia. Il primo di questi ministri in sostituzione del cardinale Riario Sforza camerlengo, il secondo di monsignor Rusconi, il terzo di monsignor Savelli; e così venne secolarizzato il ministero.16

Venne inoltre creato dal Santo Padre nel medesimo giorno un comitato per l’esame dei consuntivi composto di

Sforza cardinal Riario presidente,
Savelli monsignor Domenico,
Rusconi monsignor Giovanni,
Orsini principe don Domenico,
Solari marchese Filippo.17

[p. 50 modifica]Lo stesso giorno 12 il Santo Padre ricevette le congratulazioni del congresso dei cittadini di Nuova-York negli Stati Uniti di America per mezzo del maggiore Smith.18

Il giorno 14, accettata la rinuncia di monsignor Amici ministro dell’interno, il Santo Padre sostituì al medesimo monsignor Francesco Pentini.19

Monsignor Carlo Belgrado venne nominato internunzio delegato apostolico presso il re dei Paesi Bassi.20

Una dimostrazione di Piemontesi e Romani fu fatta la sera del 14 al marchese Pareto ministro di Sardegna.21

Il Santo Padre nell’intendimento sempre di vedere fin dove si potessero estendere le riforme che si aveano a concedere, nominò una commissione con voto, per isviluppare e meglio coordinare le istituzioni già date, e proporre quei sistemi governativi che fossero compatibili con l’autorità del pontefice e con i bisogni del giorno.

Detta commissione era composta degli

Eminenti.mi Ostini, Emin.mo Bofondi, e dei
» Castracane, Monsig.ri Corboli Bussi,
» Orioli, » Barnabò Alessandro, e
» Altieri, » Mertel Teodolfo segr.22
» Antonelli,


Il giorno 15 aggiunse alla medesima commissione l’eminentissimo Vizzardelli23, e creò un consiglio addetto al ministero dell’interno, il quale venne composto da

Monsignor Giulio Della Porta,
Cavaliere Don Vincenzo Colonna, e
Principe Cosimo Conti.24

[p. 51 modifica]Un ordine del giorno del 13 emanato dal duca di Rignano disponeva che dal 15 in poi la guardia civica dovesse prestare il servizio in anticamera di Sua. Santità.25

Rammenteremo un fatto accaduto, e forse dimenticato del tutto dai nostri contemporanei, ed è che il detto giorno 15 in vari quartieri civici, ma specialmente in quello del terzo battaglione, venne aperta una sottoscrizione colla quale uno si obbligava con giuramento a mantenersi fedele non pure a Pio IX come sovrano, ma a tutte le istituzioni da esso già date, anche a costo della propria vita.

Questa sottoscrizione però non essendo stata approvata dal circolo romano, rimase senza effetto. Aprire una sottoscrizione di genere essenzialmente politico, senza il previo consenso del circolo romano fu una vera improntitudine, imperocchè quella politica riunione teneva tuttora il primato e regolava l’indirizzo della cosa pubblica. La Pallade ne fece menzione nelle sue colonne.26

Prima di procedere oltre crediamo utilissimo, per meglio conoscere lo spirito di quei tempi, il far menzione del banchetto che si dette in Napoli a quattro individui partiti da Roma (due dei quali non romani), appartenenti tutti e quattro alla nostra guardia civica.

Il giorno 9 di febbraio ebbe luogo il banchetto all’Hotel des Empereurs e venne dato dalla guardia nazionale di Napoli ai quattro civici venuti da Roma cioè Tittoni, Marignoli, Torre, e Spini; riconoscendo ed onorando in essi tutta la civica romana. Ne trascriviamo la descrizione dall’Italico:27

«Il convito fu splendido e festivo quanto mai possa dirsi. Sotto un cielo ridente, tra le più calde fantasie italiane commosse da avvenimenti i più grandi ed inaspettati, non eravi cosa alcuna che non tendesse ad [p. 52 modifica]eccitar gli animi sopra l’umano sentimento. 11 duca di Proto, uno di quei che hanno testé ricevuto amnistia, indirizzò gentili espressioni ai civici romani, ed a quello il signor Federico Torre, uno dei valenti compilatori del Contemporaneo, diè parole di risposta quali noi riportiamo nel seguito. Seguirono brindisi e discorsi parte letti e parte improvvisati, fra’ quali furono improvvisi e bellissimi quei del barone Bellelli, e del canonico Pellicano già condannato a morte, ed ora per l’amnistia tornato all’amore del popolo, alle lettere ed alla gloria. Il conte Alessandro Poerio declamò due odi piene di pensieri e di affetti caldi e potenti. In mezzo ad essi sorse il signor Leopoldo Spini uno dei direttori del nostro giornale, e disse parole quali si convenivano alla grande ed avventurosa circostanza, che vengon da noi qui appiedi trascritte. Ogni pensiero che egli manifestava era seguito da un plauso generale. Le poesie, i discorsi, e singolarmente quelli pronunziati dai signori Torre e Spini, furono accolti col massimo universale entusiasmo tanto dai Napoletani quanto dai Siciliani ivi prepresenti. Alla fine di essi, dopo plausi i più strepitosi, corsero tutti ad abbracciarli, stringerli, baciarli, e dimostrare loro tanti affetti, cui manca il nome a designare. V’erano il celebre Stefano Romeo, Casimiro de Lieto, cavalier Federico Genovese principe di Torella, ed altri illustri amnistiati; v’erano il principe di Lequile Saluzzo, il marchese del Tito, il marchese di Sterlick, le guardie del corpo cavalier Filioli, cavalier Pallavicino di Proto, Don Camillo Caracciolo Torelli, il capitano del Balzo, il duca dell’Albaneto, il conte Bankoschi, il marchese Luigi Dragonetti, ed il noto D. Michele Viscusi (il Ciceruacchio di Napoli) il quale, a suo modo, parlò cose bellissime. I convitati erano oltre a sessanta. Alla fine del pranzo apparve la principessa cristina Belgioioso, disse alcune parole piene di caldo spirito italiano, ebbe molti applausi e partì.

[p. 53 modifica]» Infiniti furono dal primo fino all’ultimo momento del convito, gli evviva a Pio IX, alla costituzione italiana, a Carlo Alberto, ai principi riformatori, alle bandiere tricolori, ed a tutto quanto apparisce nell’opra dell’italiano risorgimento.» Seguono i discorsi che si omettono.

Quanto alla cortesia usata non abbiamo a dir nulla: chè anzi dobbiamo mostrarci gratissimi ai Napolitani di tutte le gentilezze onde ricolmarono questi quattro individui. Solo non abbiamo voluto passar sotto silenzio un tal banchetto eminentemente patriottico, e dato in tempi in cui i banchetti politici furono adottati come il mezzo più efficace ad operare e continuare lo svolgimento della rivoluzione. Ciò verrà meglio chiarito quando nel capitolo seguente parleremo dei banchetti patriottici che prelusero alla francese rivoluzione.

Non sarà discaro ai nostri lettori di passare dal ridente soggiorno ove giace la bella Partenope alle non meno ridenti rive del Bosforo.

In quei giorni fu motivo di soddisfazione pel pontefice il sentire con quali segni di onore fosse ricevuto in Costantinopoli il suo rappresentante monsignor Ferrieri presso la corte della Sublime Porta, e come le autorità civili ed ecclesiastiche onorassero sì splendidamente nel detto prelato il personaggio venerando ed augusto del pontefice che avealo colà inviato.

Certo non poteva non essere oggetto di grande conforto e di grande meraviglia insieme pel pontefice il sentire che in Oriente, sede e centro dell’Islamismo, si tributassero tanti onori a colui che rappresentava il capo della chiesa latina, mentre in Roma, sede e centro del cattolicismo, la sacra ed augusta persona del vicario stesso di Cristo, benché a parole fosse encomiata, era poco men che disconosciuta ed offesa. La narrazione delle onorificenze ricevute da monsignor Ferrieri somministrò argomento ad un articolo di fondo nella Gazzetta di Roma.28

[p. 54 modifica]Mentre però ci associamo ancor noi in riconoscere l’immenso bene che pei sudditi cattolici doveva provenire da siffatte benevole disposizioni del Gran Signore verso il sommo pontefice, non possiamo, a schiarimento di questa apparente contradizione, non osservare che tutto ciò era in buona parte una emanazione di quello spirito filosofico che, informando il cuore e la mente del primo ministro riformatore della Porta Ottomana, Reschid Pascià, lo portava a guardare con indifferentismo filosofico le discrepanze dei culti, e così, quantunque in contradizione coi precetti del suo supremo legislatore Maometto, tolleravali ed onoravali tutti indistintamente nel vasto impero del suo signore.

Nè è da credere che l’Oriente andasse immune dalle influenze di quello spirito di riforme e di progresso nel senso italiano, le quali venivano messe in giuoco dai rifugiati italiani colà residenti.

E fu appunto questo spirito riformatore e civilizzatore dell' Oriente, il quale riceveva gl’impulsi dal ministro inglese in Costantinopoli e dagl’Italiani colà nel sobborgo di Pera residenti qualche pinta coadiutrice, cui si debbe più che a tutt’altra causa la missione di Chekib Effendi a Roma, nel febbraio 1847.

Ed affinchè le nostre parole trovino appoggio nei fatti, narreremo come il giorno 20 di febbraio 1848 fra le dimostrazioni che fecersi a monsignor Ferrieri, vi fu una iscrizione che se gli fece trovare in una sala ove leggevasi:


a carlo alberto re di sardegna
padre dei suoi popoli
che tutela la causa dell’umanità
della religione e di pio ix
la grata riconoscenza dei suoi sudditi in costantinopoli
.29


Quattro giorni prima aveva avuto luogo un banchetto [p. 55 modifica]le cui particolarità si estraggono dal Corriere Livornese30 e sono le seguenti:

«Costantinopoli 17 febbraio.


» Ieri sera ebbe luogo nella gran locanda d’Inghilterra in Pera un banchetto popolare italiano di trecento coperte. Vennero invitati a rappresentare le rispettive colonie vari deputati Maltesi, Corsi, Svizzeri, come quelli che formano geograficamente parte della bella Penisola. La sala era addobbata di trofei, bandiere nazionali, vessilli tricolori. I nomi dei martiri della patria si leggevano intorno le pareti. Varie furono le epigrafi che per brevità di tempo non possiamo trascrivere. Da un lato della gran sala era una tribuna per coloro che chiedevano parlare o leggere; montarono su quella gli avvocati C. L. Loschi parmigiano, e A. Chiellini toscano, un Bianchi di Lucca, un Borioni romano, Adriano Lemmi, Gustavo Dewitt, e Roberto Servi toscani, un Malaspina corso, il marchese Ciccolini bolognese, e tutti dissero e lessero parole di vero e caldo amor patrio. Gli argomenti verranno più tardi pubblicati perchè meritevoli di stampa. L’ordine fu rispettato; la concordia fraterna italiana vieppiù consolidata. Venne dopo aperta una sottoscrizione per assistere la famiglia di un nostro patriotta morto in Roma, e quindi per formare un fondo onde stabilire un istituto italiano di educazione civile e religiosa. Furono raccolte sul momento somme vistose. Le bande musicali rallegravano gli spiriti ec.»

Queste cose che abbiamo narrato si riferiscono al febbraio 1848; ma i nostri lettori non avranno che a ripiegarsi di qualche mese indietro per ritrovare nel nostro capitolo XI del primo volume il racconto della messa solenne che si celebrò in Costantinopoli allorquando si volle festeggiare la incolumità del papa, scampato alla finta [p. 56 modifica]congiura del luglio 1847. Si raffrontino l’iscrizioni, si leggano attentamente le relazioni di queste feste, e si riconoscerà provenire tutte da un sorgente istessa, ed esser quindi giuste le nostre osservazioni.

Avendo parlato abbastanza delle cose di Oriente che con quelle di Roma compenetravansi per intimità di rapporti, ritorniamo ora a parlare della nostra Roma ove si era alla vigilia di grandi cambiamenti. Tutto era ivi confusione e incertezza, perchè la subita trasformazione degli stati Italiani in monarchie temperate, aprendo l’adito agli oratori di farsi sentire e agli scrittori di farsi leggere; e lo stato della Francia che già presentava le prime fiamme dell’incendio imminente, eran tali cose che mentre schiudevano il cuore degli uni alle seducenti speranze, tenevan gli animi degli altri agitati e sospesi.

Che le costituzioni di Napoli, di Piemonte e di Toscana fosser largite spontaneamente, o violentemente estorte poco monta pel caso nostro: ma è chiaro che circondati come eravamo dal costituzionalismo negli stati limitrofi, Roma ch’era stata l’iniziatrice del movimento italiano, non poteva esimersi dal dare la costituzione ancor essa. E ciò tanto più era probabile, quanto più gli animi eransi riscaldati; e molti credevano e dicevano apertamente che speravamo prossimamente di vedere annunziata la promulgazione di uno statuto in Roma. Queste speranze poi essere, dicevano, doppiamente fondate, dacchè il pontefice stesso aveva già eletto la commissione (da noi poc’anzi rammemorata) per istudiare il modo e le forme con che si dovea proporre.

E tanto se ne parlava dai così detti campioni del partito moderato il Farini, il d’Azeglio, l’Orioli, il Mamiani, e lo Armandi, che a poco a poco molti restii vi si venivano acconciando, non esclusi alcuni anche al clero appartenenti. Dagli uni poi sostenevasi la opportunità, dagli altri vedevasi in tutto ciò una necessità, ma una necessità forzata. Di ciò tratterremo più diffusamente fra poco i nostri [p. 57 modifica]lettori, dopo aver parlato della francese rivoluzione che andavasi maturando. Intanto verremo narrando le cose occorse fino al giorno in cui essa si conobbe positivamente in Roma.

Diremo dunque che il 19 di febbraio il Santo Padre sulla proposta della Consulta di stato, accordava un’ampliazione di ruoli per la riserva della guardia civica.31 E aderì pure al concentramento delle truppe sopra determinati punti, e che in vari luoghi venisse aperto un volontario arruolamento.

A sollevare poi la classe indigente manifatturiera consegnò una somma di danaro ai direttori di una colletta per tale oggetto, composta da tre principesse romane, da due nobili romani, e dal padre Ventura.32.

Il giorno 20 del detto mese il pontefice venuto già in cognizione della guerra pertinace che facevasi al papato, al quale altro sostegno non restava (così almeno credevaselo) che la guardia civica, fecela riunire tutta nel gran cortile del Belvedere, ove schieratasi in bell’ordine, il Santo Padre presentatosi colla sua corte al cospetto della medesima dalla sovrastante loggia, le diresse alcune parole le quali noi riportiamo qui sotto estraendole dal Giornale Ufficiale, e ponendovi a riscontro la versione che fece stampare e diffonder subito il partito rivoluzionario, affinchè se ne possan rilevare le discrepanze.


Parole del Santo Padre Parole del Santo Padre
secondo il giornale officiale secondo il foglietto stampato dal partito rivoluzionario
È dolce al mio cuore il vedervi riuniti intorno a me e farmi corona; e nel veder voi, veggo l’ordine, la pace; veggo in voi i Non posso dirvi quanto sia consolato il mio cuore nel vedermi intorno una corona, un’arma conservatrice della pace e dell’ordine.
[p. 58 modifica]
nemici dell’anarchia, gli amici della Santa Sede e del pontefice. Mio Dio! Benedite questo corpo, e si conservi fedele a Voi ed alla Chiesa; e chiuda le orecchie ai pochi nemici insidiatori del bene. Beneditelo ne’ suoi degni capi, onde proseguano a dirigerlo nelle vie dell’onore e della fedeltà, e fate che la benedizione discenda su loro non solo, ma ancora sulle loro famiglie, che pure sono una gran parte di Roma ...33 Io vedo in voi i nemici dell’anarchia, i conservatori della pace. Io benedico questo corpo fedele al pontefice ed alla Chiesa. Le poche voci sturbatrici della pace saranno in voi spente. Benedico voi, i vostri figli, le vostre famiglie.34


Confrontando entrambi i testi si rinvengono delle notevoli discrepanze.

Il Santo Padre, parlando al corpo civico, disse chiaro: che chiuda le orecchie ai pochi nemici insidiatori del bene, e il foglietto l’omise. Disse pure che: vedeva nei civici gli amici della Santa Sede, e nel foglietto non se ne fece affatto menzione. Non disse: benedico questo corpo fedele, come nel foglietto si asserisce, ma bensì: mio Dio, benedite questo corpo, e si conservi fedele a voi e alla Chiesa. Queste ed altre varianti ancora rendono la lezione del di-; scorso dei papa, secondo il foglietto, incontestabilmente inesatta e viziata.

Le parole però che furon subito stampate dal partito rivoluzionario si diffusero a migliaia il giorno seguente per tutta la città, e furon nelle mani di tutti, mentre quelle inserite due giorni dopo nella Gazzetta, pochissimi le lessero, e niuno si dette la pena di avvertirne le discrepanze. I cardinali, i prelati, parte del clero e del foro, avran letto la Gazzetta di Roma, ma i foglietti stampati subito li lesse tutta la popolazione: e così gli errori e gl’inganni [p. 59 modifica]perpetuavansi e la verità non trovava il modo di farsi sentire.

Dopo il discorso del pontefice furonvi grandissimi applausi, levando i civici alti gli elmi sulle punte delle baionette. Ma ingannevoli dimostrazioni son queste, perchè vedemmo noi, e con noi tutta Roma, in sul fine di aprile dell’anno seguente fare altrettanto la civica sulla piazza de’ santi Apostoli non in sostegno del papa, ma sibbene della repubblica romana.

La civica formava il giorno 20 febbraio 1848 un insieme imponente. Erano otto mila uomini divisi in sei legioni. E l’estensore della Gazzetta servendo alle idee del giorno tendenti a riconoscere nella civica romana una specie di armata romana antica riviviscente, se ne allietava, ed usciva in questa sentenza: «Roma dunque, dopo circa quattordici secoli, vide nuovamente sei legioni formate di propri militi. Questi erano, come gli antichi, ornati fronde super galeam: ma nel tempo stesso ognuno di essi poteva dirsi col Poeta felici comptus oliva.35»

La guardia civica allora era tuttavia, nella sua maggiorità, buona quanto allo spirito che la dominava, ma incapace da per se stessa di fare alcun che di buono perchè vi era chi la moveva e ne dirigeva i movimenti.

Ed invero questa civica su cui il Santo Padre faceva tanto assegnamento, ed alla quale indirizzava sì nobili e fiduciose parole al punto da considerarla perfino come una corona, diè a conoscere in progresso di tempo non essere atta a difenderlo; e ciò proveremo vittoriosamente quando parleremo dei fatti dei primi di maggio, del 18 di luglio, e del 16 novembre, epoche tutte di scoraggiante e infausta memoria.

Nè si creda che gli applausi del giorno 20 nel cortile di Belvedere fosser tutti sinceri, perchè, ad onta dell’innalzamento degli elmi che fecesi perchè se ne dette il [p. 60 modifica]segnale, non mancaron di molti che criticarono per questo fatto il pontefice dicendo che: la insolita chiamata, e l& imponenza del numero accorso, meritar dovevano qualche cosa di più serio, e di più importante di una semplice benedizione; e che per sì poco non valeva la pena di disagiare tanta gente. E quindi più male che bene, secondo essi, partorirono l’appello generoso, le parole benevole, e il fiducioso abbandono del pontefice in quel corpo armato, che per gli esempi della storia ben poco o nulla in difesa del trono e dell’ordine erasi chiarito fino allora, e si chiarì in appresso. Ma di ciò basti e proseguiamo nel raoconto delle cose accadute.

Il giorno 21 di febbraio il consiglio comunale decretò un prestito di scudi dugento mila per la erezione di piccole case ad uso della classe, indigente, includendovi altresì un monumento in onore del sommo pontefice.36 Formaronsi a tal effetto tante azioni fruttifere, s’incassò la prima rata, s’incominciaron dopo ad erigere varie case a san Crisogono in Trastevere: ma in seguito accaduti gli avvenimenti che tutto sconvolsero, sparito il municipio iniziatore del progetto e con lui le sollecitudini filantropiche, non si parlò più delle case e del monumento, e così svanì in breve il salutare progetto.

Il giorno 22 monsignor Domenico Giraud venne nominato delegato apostolico in Fermo.37

Affinchè possa conoscersi fino a qual punto giungesse il delirio dei giovani che la volevano far da maestri, e quanto si fosse lungi in Roma dalle idee di libertà (comechè si udisse sempre invocarla), diremo che la sera del 24 febbraio venne arso dalla scolaresca dell’università sulla piazza di sant’Andrea della Valle il libro dell’abate Vincenzi, professore dell’università romana, intitolato [p. 61 modifica]Pensieri sopra gli atti di beneficenza di Pio IX verso gli Ebrei di Roma, con appendice allo scritto di d’Azeglio sugl’Israeliti Roma 1848, in-8.38

Una scolaresca che insorge contro uno dei propri maestri, e che con apparato ridicolamente solenne si riunisce in piazza, sente leggere i considerando, e la condanna dell’opera del maestro, e quindi la gitta alle fiamme, e tripudia e gavazza per un atto, non saprem dire se più insensato o tirannico, somministrar deve una idea poco favorevole sul frutto degli studi che in allora faceva.

Noi ricordavamo il fatto, ma non potevamo rinvenire giornale veruno, fra quelli che in Roma pubblicavansi, ove se ne facesse menzione. Ci capitò nondimeno fra mano il giornale l’Italia, che pubblicavasi in Pisa dal professor Montanelli, il quale senza tanti misteri ci racconta il fatto, ed in seguito di ciò consegniamo alle pagine della storia questo vergognoso episodio delle cose nostre.

Accadde nello stesso giorno 24 febbraio la rivoluzione in Parigi. La sua importanza mondiale ci obbliga ad incominciare un capitolo espressamente per parlarne, che sarà il seguente, e lo incominceremo col 5 di marzo giorno in cui se n’ebbe in Roma il primo sentore. Ma intanto proseguiremo a narrar le cose occorse in Roma fino a quel giorno; e siccome eravamo nell’epoca dei divertimenti carnevaleschi, non sarà quindi discaro ai nostri lettori udire tutto ciò che al carnevale di quell’anno memorabile si riferisce, e che comprende dieci giorni dal 26 di febbraio al 7 di marzo.

Il carnevale di Roma è tale un divertimento che ha formato sempre la passione dei Romani, e a celebrare il quale hanno essi soli una tal grazia ed attitudine tutta loro particolare.

Il gusto innato dei Romani per lo scherzo e per la satira, il genio inventivo e la vivacità della immaginazione, [p. 62 modifica]propria dei popoli meridionali, appalesansi nei Romani superlativamente; cosicchè quantunque la passione politica e i rigori governativi ne avessero affievolito il brio, restavane sempre abbastanza per renderlo uno degli spettacoli più divertenti e sorprendenti al tempo stesso della moderna società.

Sorprendente poi non solo per la grazia, e la varietà degli abbligliamenti, ma per i lepori del volgo, e sopra tutto per quell’ordine che in tanta agglomerazione di corpi viventi, e in tanta ilarità di spiriti vi si mantiene, al punto che in Roma sola è possibile, per confessione di tutti gli stranieri, ciò che in qualsivoglia altra città riescirebbe del tutto impossibile. .

Lasciando alla Crusca, al Ducange, e al Muratori la definizione e la etimologia della parola carnevale o carnovale o carnasciale, sembra però fuor di questione essere esso una emanazione o residuo del paganesimo, ed aver tratto origine dagli antichi baccanali o saturnali, esclusa però la sfrenata licenza che nei medesimi, presso gli antichi Romani, manifestavasi.

Otto giorni dura il carnevale di Roma, cioè dal sabato che precede la domenica di sessagesima a tutto il martedì avanti il giorno delle ceneri. Un venerdì e due domeniche vi si trovano comprese, ma non ne fan parte. Nell’anno 1848 cadeva il primo giorno il sabato 26 febbraio e l’ultimo il martedì 7 marzo, come dicemmo più sopra.

Lo spirito della rivoluzione fu sempre contrario al carnevale, ed il carnevale fu scelto per lo scoppio della rivoluzione nell’anno 1831. Ciò che sarem per dire e i documenti che porremo in evidenza chiariranno questa nostra asserzione.

Intanto non sarà inopportuno il rammentare che pei divertimenti del carnevale del 1848 fin dall’11 di gennaio si emise dal ministro dell’interno una circolare.39 E [p. 63 modifica]che il cardinale Altieri, come presidente di Roma e sua Comarca, e supremo direttore dei divertimenti carnevaleschi pubblicò un editto il giorno 11 febbraio per lodare i Romani ed eccitarli a perseverare come sempre nel loro amore per l’ordine. Altro editto coi relativi regolamenti venne lo stesso giorno pubblicato dal municipio.40

Abbiam detto più sopra che la rivoluzione odiava il carnevale. Eccone subito le prove. La Pallade del 22 gennaio consacrò un articolo con questo titolo cannoni e non maschere, col quale sì eccitavano i cittadini a scegliere una commissione per ricevere le somme che sarebbonsi sciupate pei divertimenti baccanali, e consacrarle allo impianto dell’artiglieria. — Detto articolo terminava così: «l’Italia del 1848 non ha bisogno di maschere, ma di artiglieri colle miccie in mano.41»

Ad onta di ciò, continuandosi i preparamenti pel carnevale ed essendo gli animi a tale divertimento grandemente inclinati, si pensò per istornarneli di divulgare un foglio sul finire di febbraio che porta il titolo seguente:


Indirizzo per il carnevale di Roma.


Col medesimo si faceva sentire quanto fosse improprio il divertirsi mentre in Italia si versava il sangue dei nostri fratelli, e si terminava colle parole seguenti: «E se le nostre donne per una trascurata educazione non sanno per ora tradurre l’eroismo delle antiche Romane, ispiriamo loro nell’animo (obbligati ad assisterò ad un carnevale inventato e mantenuto dal fiero dispotismo) un forte contegno, degno di noi, degno della sapienza e fortezza italiana.42»

Questi due documenti dicono abbastanza se la rivoluzione fosse amica o nemica del carnevale.

[p. 64 modifica]Vedendo però che le melanconiche esortazioni liberalesche non distoglievan le donne romane dal prender parte agli esecrati baccanali, si pensò di usufruttuare il divertimento in pro della rivoluzione, accattivandosi la benevolenza del sesso gentile, sia col lasciarle divertire, sia col lodarle ed eccitarle ad indossare le sciarpe coi tre colori italiani. E così gittavansi nelle vetture che accoglievanle, lungo la via del Corso, alcuni versi nei mazzolini di fiori, fra i quali ne sceglieremo cinque soltanto, e sono i seguenti:

La donna che non porta il tre colore
Ha il mele in bocca, ed il veleno in core.

Sara la donna l’angel degli amori
Se avrà, la gonna messa a tre colori.

La donna che non porta la coccarda
Non è figlia d’Italia, ma bastarda.

Volete o donne comparir leggiadre?
Ornatevi di veste a tre colori,
Gridate contro alle nemiche squadre.43

E siccome niuna fra le donne romane avrebbe voluto che di lei si dicesse avere il mele in bocca ed il veleno in core, ed essere bastarda, e tutte avrebber voluto invece comparir leggiadre, conquistare i cuori, ed essere angioletti degli amori, così tutte indossarono, ma più per vezzo che per ispirito vero d’italianismo, i tre colori decantati. Ma vi è di più. Esse non gl’indossarono soltanto, ma istigaron gli altri affinchè volessero indossarli, attirandosi così lusinghieri sorrisi e lodi e applausi e dimostrazioni simpatiche.

E siccome in Roma tutto si volge in moda, in ispettacolo, in divertimento, così la occupazione favorita del [p. 65 modifica]sesso muliebre, divenne in un subito la fabbricazione di nastri, e nappe e sciarpe coi tre colori italiani.

Questa circostanza pertanto destò tale ilarità, che nello insieme il carnevale dell’anno 1848, ad onta che molti non vi prendesser parte, riuscì abbastanza brillante.

Se non che il partito che avversava il carnevale, perchè lo riguardava siccome cosa futile ed esprimente ilarità e contentezza, laddove volevansi eccitare sensi di sdegno, rancore ed avvilimento, mal tollerando lo scacco ricevuto, meditò di prenderne la rivincita nell’ultimo giorno, e vi riuscì perfettamente dome ora narreremo.

Ciò sentirà, ne siam certi, del favoloso pei nostri lettori perchè costituisce il trionfo più solenne che siasi mai visto dell’ardire e della forza dei pochi ma astuti, sopra i molti inesperti.

Venne, in pensiero a qualcuno (si disse comunemente al Meucci) di proibir la festa detta volgarmente dei moccoletti, che tanto piace ai Romani ed agli esteri nella ultima sera di carnevale, e ciò come un ecatombe espiatoria che i Romani immolavano ai lutti di Lombardia.

L’apparente spontaneità del fatto in una città sì pacifica e illustre come Roma, non avrebbe potuto a meno di non produrre una grandissima impressione nelle altre città, e perciò non possiamo non congratularci cogli autori del progetto i quali volendo rendere indipendente l’Italia, si appigliarono a tali mezzi, siccome atti a raggiungere il loro scopo. Roma astenutasi dalla festa dei moccoletti non poteva non impensierire chi presiedeva agli aulici consigli in Vienna, e non incoraggiare ad un tempo i Lombardi che ardevano senza più di venire alle mani. La cosa veduta da noi ebbe del comico, ma all’estero non poteva non apparire grave e compromettente.

Concepito il disegno, venne tosto comunicato in quei soliti luoghi d’onde prendeva le mosse il movimento, e diramaronsi gli ordini, o come dicevasi la parola d’ordine che di bocca in bocca passando sonava così: «non più [p. 66 modifica]moccoletti, in segno di mestizia per le trista sorti dei poveri fratelli Lombardi

Facevasi intanto divulgare un foglietto stampato in carta violacea, che diceva quanto segue:

«Romani!

» I gravi avvenimenti d’Italia, e più particolarmente quelli di Lombardia, muovono a sensi di sdegno e di compassione tutti i generosi petti italiani. Agl’immensi sagrifìci de’ nostri fratelli, aggiungiamone pur noi uno piccolissimo, cessiamo dal fare i moccoletti. Così l’esultanza di pochi non sarà ingiuria al male di molti, e il nostro pensiero tornerà grato ai fratelli Lombardi, aggiungendo loro forza a sostenere ancora per qualche giorno quegli orribili mali che per la sapienza di Pio, per la spada di Carlo Alberto, per l’unanime volere del popolo tutto italiano dovran presto finire. Viva Pio IX! viva l’indipendenza italiana!44»

Piacque il pensiero agli amici dei Lombardi, e tutti si davano opera per divulgarla Non più moccoletti, dicevasi ad alta voce, per questa sera. Dobbiam fare questo fioretto pei nostri poveri fratelli Lombardi. Fra i Romani alcuni acconsentivano, altri non volevano rassegnarsi alla volontà di pochi. I padri di famiglia più cauti raccomandavano prudenza dicendo: faremo quello che faranno gli altri. Ma è chiaro che tutti, attendendo l’esempio altrui per non essere i primi, sarebbesi finito, come si finì, col non far nulla.

Furon prese le opportune disposizioni dall’autorità affine di prevenire qualsivoglia conflitto fra quei del sì e quei del no. Si fece quindi guarnire il Corso da un quattro o cinque mila civici, onde proteggere la festa e mantenere l’ordine. Lo sparo dei mortari dar doveva il segnale pel momento della cessazione. [p. 67 modifica]Eseguita la corsa dei cavalli, le vetture tutte che dovevano rientrare nel Corso furon fatte retrocedere. I cocchieri come pecore voltando strada, riconducevano a casa i lor padroni. I venditori di moccoli eran respinti indietro negli sbocchi delle strade, e se recalcitravano, erano sorvegliati e sequestrati nei portoni delle vie adiacenti al Corso. Alcuni incominciavano ad accendere i moccoletti dai balconi: ma ai fischi ed alle minaccie dei sottostanti dovettero desistere.

Insomma chi ridendo, chi imprecando, e chi mordendosi le labbra per la patita violenza che si faceva, stavano tutti come in osservazione: ma i lumi intanto non si accendevano. I civici stessi erano attediati ed avviliti al vedere reso inutile l’oggetto pel quale trovavansi in fazione. Tutte queste cose formavano un contrasto di pensieri, di sentimenti, e di situazione del tutto singolare. Ma intanto l’ora in che dovevasi far cessare la festa era per giungere, la civica riceveva l’ordine di ritirarsi, e i mortari sparavansi affinchè spegnessero quei lumi, che mai non erano stati accesi.

Tutto ciò si tenne per una corbellatura data ai Romani, molti de’ quali privatamente se ne querelavano, ma a che pro, se al caffè delle Belle Arti e in altri ritrovi, unendo lo scherno all’insulto, gridavasi: Bravi Romani, che unione! che obbedienza! che patriottismo? E così finì la festa dei moccoletti.

Potrà sembrare a taluno di esserci noi intertenuti di soverchio sopra tale argomento: se bene si consideri però non è tale avvenimento da passarsene. Diremo anzi che fu un esempio tremendo di quanto possan pochi astuti sopra una popolazione intiera: e se la storia deve rivolgersi ad utilità ed ammaestramento de’ mortali, non sarà che studiando le cose occorse che ci convinceremo con, quanta facilità le moltitudini possono lasciarsi sorprendere ed ingannare e fare dir loro di sì, quando avrebber voluto dire di no; e così chi la leggerà ammaestrato [p. 68 modifica]dall’esperienza non sarà fatto vittima non solo, ma ludibrio e scherno dell’altrui malizia.

Riportandoci indietro di qualche giorno nell’esame delle disposizioni governative o delle stampe che pubblicavansi, noi rinveniamo che Quantunque il papa stesse sempre per la pace, e che questa inculcasse -ai sudditi negli scritti, questa ripetesse a voce, tuttavia le misure ch’emanavano da chi guidava il movimento, ed in ispecie dai capi del governo, non ispiravan che guerra.

Si narravano in tutti gli scritti e si esaltavan le prodezze dei generali Durando e Ferrari ceduti dal Piemonte al governo pontificio, ed eran trattati con gioviali banchetti. Annunziavasi con gioia, come se il governo pontificio dovesse battersi, l’arrivo in Civitavecchia di dodicimila fucili45; divulgavasi in sul finire di febbraio mediante un cartello affisso per le vie di Roma, che pel 4 marzo giunti sarebbero in detto porto i due cannoni inviati in Roma dalle signore genovesi;46 e come eccitamento per coloro cui fosse riuscito grave l’odore della polvere da cannone, si fece appello alla interposizione del bel sesso. Questo solo mancava a compiere l’anormalità di quei tempi. Si era cercato di far divenire bellicoso il papa, il quale è e dev’essere per eccellenza il principe amatore della pace e dell1 ordine a preferenza di ogni altro monarca. Non restava a vedere se non che le donne, le quali destinate dalla natura a mantenere la specie, son pure chiamate a lenire ed abbonacciare la umana ferocia, si convertissero in provocatrici di battaglie e di strage; e questo pure videsi nell’anno 1848, e fu il ritrovato della rivoluzione italiana.

Ed affinchè venga escluso il sospetto di esagerazione nelle nostre parole, ci troviamo costretti di accennare i documenti che li corroborano. E fra questi svolgendo le carte [p. 69 modifica]di quei tempi, numerosi ci si presentano e indirizzi e incitamenti alle donne romane, sia in verso, sia in prosa per metterle in giuoco, e quasi che la mitologia si volesse convertire in istoria, far rivivere in loro le Amazzoni dell’antica Grecia, Fra questi fogli stampati uno ne scegliamo intitolato «Alle donne di Roma.» Eccone un brano:

«Inclite donne romane, a cui largì natura pregi della più rara beltà, e fino a quando vagheggierete gli òzi delle molli piume? L’eroiche figlie dell’immortale Palermo combatterono testè da forti contro gli oppressori della libertà, e voi non siete concitate a tanto, e non vi movete in Roma vostra, mentre vi si vive appena in isperanza di pubblica sicurezza? Nelle vostre anti che mura bolle in vero fiera una calda gioventù, ma dove una romana donna che sorrida pure ed applauda a’ forti che impugnano le armi per andare contro del barbaro? Ah non si dica più per Dio che solo a danze valete, incapaci a tutto di concitare e benedire quei prodi che primi ferirono il comune nemico. Le sorelle e le madri liguri, i cui figli e fratelli già stanno ferocemente sdegnosi appetto degli aborriti Tedeschi comuni oppressori, manderanno fra giorni ai vostri mariti e fratelli due bei cannoni perchè li accendano nell’ora del riscatto contro del barbaro. E spetta a voi discendenti della forte Lucretia, e della libera Virginia, di andare incontro al terribile dono, accoglierlo come cosa santa, e consegnarla solennemente à quanti veri figli di Roma l’useran valorosamente.47»

Altro foglietto esiste col titolo La festa dei cannoni, col quale invitansi le donne romane a prender parte ad una festa straordinaria per solennizzarne l’arrivo.48

Un’altra stampa ancora circolava per Roma col titolo [p. 70 modifica]Incontro delle donne romane ai cannoni genovesi Togliamo dalla medesima le strofe seguenti:

«A Ripagrande, o donne

» Degne di Roma, andate;
» Là celeri volate,
» Piantatevi in ploton:

» Avanti o battaglion.

» Se avanzan gli stranier per farvi offesa,
» Avanti o battaglion, armi in difesa.

» Delle sorelle liguri

» Il dono oggi spedito
» A tutte sia gradito.
» Montate sui cannon,

» Avanti o battaglion.

» Se gli stranier pronti vedeste a guerra
» Ansanti o battaglion, ginocchio a terra.

» Dono sì bel spedito

» Da Genova baciate,
» E in Roma ritornate
» Sedute sui cannon:

» Avanti o battaglion.

» Vivan le genovesi e le romane
» Vivano tutte le donne italiane49»

Altro stampato col motto in cima «Viva Pio IX,*Viva l’Italia» e con in mezzo un’incisione rappresentante una figura femminile.

Il titolo diceva cosi:

«Le donne romane alle loro sorelle genovesi per il dono dei due cannoni, queste parole dirigono.50

Ma si fece anche di più. Si divulgò un piccolo proclama diretto alle cittadine di Roma per invitarle ad incontrare! cannoni genovesi, a provvederne due romani e ad aprire una sottoscrizione. Esso finiva così: «Per animare [p. 71 modifica]vie più i mariti, i fratelli,! figli ad averci compagni nella difesa di Pio IX e della indipendenza d Italia.» E sotto a questo proclama si leggeva il nome di una delle più belle e gentili fra le donne romane Anna Galletti.51

Dicemmo nelle pagine precedenti come fosser disconosciuti e negletti i desideri del pontefice per la pace colle nazioni e coi loro governi: ma questi desideri non eran meno contrariati per ciò che si attiene alla pace fra i sudditi de’suoi stati, di cui anche gli ordini religiosi formavano una parte integrale.

E se per ristabilire questa pace fra gli uomini precipuamente negli stati che per disposizione della Provvidenza venner sottomessi al papato, fu dal Santo Padre promulgato appunto Tatto del perdono; se per accattivarsene tempre più la benevolenza aveva introdotto tante istituzioni che tutte tendevano a tranquillare le popolazioni e migliorarne le sorti, con quanta amarezza dell’animo suo non doveva sentire il ribrezzo dei delitti che qua e là nei suoi stati si commettevano, e le violenze ch’esercitavansi a carico di alcune famiglie di religiosi?

Ciò somministrò argomento al Cardinal Bofondi segretario di stato per emanare il 28 di febbraio una circolare diretta ai presidi delle provincie, tendente a riprovare e prevenire il ritorno di cosiffatti abbominevoli sconcerti52.

Tocchiamo di volo soltanto questo punto, perchè fra poco daremo costretti di narrare come il Santo Padre non solo dovesse tollerare., ma dar di mano egli stesso per l’allontanamento da Roma di taluna di esse famiglie religiose. E così quello che poco stante riprovavasi nelle provincie, venne il momento di vederlo effettuato, a scanso di mali maggiori, nella stessa Roma. Egli è questo un documento lacrimevole eN memorando del rispetto che professavasi alla libertà individuale, nel tempo stesso che per derisione gridavasi instaurato il regno della libertà!

[p. 72 modifica] Il 3 di marzo, con editto di monsignor Morichini pro-tesoriere generale, venne portato a 93 baiocchi il valore della pezza da 5 franchi, ed a scudi 3 e baiocchi 72 il pezzo d’oro da 20 franchi chiamato Napoleone, quantunque portasse oltre quella di Napoleone I la effigie di Luigi XVIII, di Carlo X, di Luigi Filippo, di Carlo Alberto53 e via dicendo.

Nel passare in rassegna i fatti del settembre 1847 raccontammo come in seguito della dimostrazione del 7 venissero sottoposti a criminal processo gl’inquisiti principe di Canino, Bartolommeo Galletti e Matteo Macbean per avervi preso parte. Ora diremo che nel detto giorno 3 marzo vennero assoluti dal tribunale della Consulta54.

Si ebbe un primo sentore, ma vagò ed incerto il giorno 4 della rivoluzione accaduta in Parigi il 24 di febbraio. Bastò questo però perchè nella sera, dandosi nel teatro di Apollo il ballo intitolato Federico Barbarossa, l’accoglienza che ricevette il protagonista del ballo fosse qual doveva essere in un momento in cui le menti eran rivolte al discacciamento degli Austriaci dal suolo italiano. Il frastuono, le grida e i fischi assordarono l’aria, ed intanto in segno di unione e di fratellanza, vennero intrecciandosi i fazzoletti fra palco e palco, fra platea e palco scenico e la Pallade che ne parlò terminava la sua relazione coll’annunziare che l’oscurantismo era morto di apoplessia55.

Ma perchè gli eventi strepitosi di Parigi avevano incominciato a commovere sia per letizia, sia per dolorer gli animi, secondo i sentimenti individuali, consacreremo il capitolo seguente alla narrazione di ciò che in merito alle cause di un tanto avvenimento ed alle sue conseguenze si rende necessario di conoscere o di venire rammentando ai nostri lettori.



Note

  1. Vedi il num 30. A nel vol. IV, Documenti.
  2. Vedi il vol. IV, Documenti num. 30. A.
  3. Vedi la Gazzetta di Roma dell’11 febbraio 1848.
  4. Vedi l’Italico del 9 detto.
  5. Vedi il vol. I, Motu-proprî ec. num. 34.
  6. Vedilo ristampato nel vol. Atti ufficiali della nostra raccolta al num. 40.
  7. Vedi la Pallade del 12 febbrai© 1848. — Vedi, il n. 36 del vol. IV Documenti.
  8. Vedi Ranalli vol. II, pag. 179. — Vedi pure il sommario num. 14, ove riportasi per intiero la copia del detto discorso fatta sopra uno dei manoscritti che circolarono in quel tempo.
  9. Vedi la Gazzetta di Roma del 12 febbraio 1848.
  10. Vedili nel vol. IV, Documenti num. 37, 37 A, e 37 B.
  11. Vedi la Bilancia del 17 febbraio.
  12. Vedi il IV vol. Documenti num. 35.
  13. Vedi la Gazzetta di Roma del 15, pag. 87.
  14. Vedi il num. 33, vol. IV, Documenti.
  15. Vedi l’Italico dell’11 febbraio 1848.
  16. Vedi la Gazzetta di Roma del 12.
  17. Vedi la Gazzetta di Roma di detto giorno.
  18. Vedi la Gazzetta di Roma del 12 e 15 febbraio 1848.
  19. Vedi la Gazzetta di Roma del 15.
  20. Vedi la Gazzetta di Roma del 14 febbraio.
  21. Vedi la Pallade ed il Contemporaneo del 15.
  22. Vedi la Gazzetta di Roma del 14.
  23. Vedi la Gazzetta di Roma del 15 febbraio 1848.
  24. Vedi la detta Gazzetta pag. 85.
  25. Vedi la Gazzetta di Roma num. 23 del 17 febbraio.
  26. Vedi la Pallade dei 16 febbraio, num. 169 prima pagina.
  27. Vedi l’Italico num. 18 pag. 71.
  28. Vedi la Gazzetta di Roma del 18 febbraio 1848.
  29. Vedi Documenti vol. IV, num. 47. — Vedi la Gazzetta di Roma del 13 marzo pag. 163.
  30. Vedi il Corriere Livornese che passava pel giornale di Guerrazzi, del 3 marzo 18-18, quarta pagina.
  31. Vedi la Gazzetta di Roma del 19 febbraio 1848.
  32. Vedi la suddetta del 19 febbraio.
  33. Vedi la Gazzetta del 22 febbraio 1848.
  34. Vedi il vol. IV Documenti num. 39 e 40.
  35. Vedi la Gazzetta di Roma del 21 febbraio 1848 parte non officiale.
  36. Vedi la Gazzetta di Roma del 26 febbraio 1848. — Vedi il vol. IV, dei Documenti num. 40 A.
  37. Vedi la Gazzetta di Roma del 26 febbraio 1848.
  38. Vedi il giornale l’Italia del 2 marzo 1848, pag. 225.
  39. Vedi la Gazzetta di Roma del 18 gennaio 1848.
  40. Vedi entrambi nel vol. I, Atti Ufficiali numeri 41 e 42, e nella Gazzetta di Roma del 14 febbraio 1848
  41. Vedi la Pallade del 22 gennaio 1848 num. 149.
  42. Vedi il vol. IV dei Documenti, num. 50.
  43. Vedili tutti stampati in un foglio in carta color rosa fra i Documenti del vol. IV num. 47 A.
  44. Vedi il IV vol. Documenti num. 50.
  45. Vedi la Gazzetta di Roma del 28 febbraio 1S18.
  46. Vedi la Pallade del 29, num. 180 quarta pagina.
  47. Vedi Documenti IV volume, num. 52.
  48. Vedi Documenti IV volume, num. 53.
  49. Vedi Documenti IV vol., num. 54.
  50. Vedi Documenti IV vol., num. 55.
  51. Vedi il supplemento alla Pallade del 5 marzo 1818.
  52. Vedi la Gazzetta di Roma del 28 febbraio 1818.
  53. Vedi la Gazzetta di Roma del 3 marzo 1848.
  54. Vedi la Speranza del 4 marzo seconda pagina.
  55. Vedi il supplemento alla Pallade del 6 marzo.