Trattato della pittura di Leonardo da Vinci/Vita/Vita

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Vita di Leonardo da Vinci

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Vita Vita - Albero della famiglia Da Vinci

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LIONARDO DA VINCI

pittore e scultore fiorentino.1


Grandissimi doni si veggono piovere dagl’influssi celesti ne’ corpi umani, molte volte naturalmente, e soprannaturali talvolta; strabocchevolmente accozzarsi in un corpo solo, bellezza, grazia e virtù in una maniera, che dovunque si volge quel tale, ciascuna sua azione è tanto divina, che lasciandosi dietro tutti gli altri uomini, manifestamente si fa conoscere per cosa, com’ella è, largita da Dio e non acquistata per arte umana. Questo lo videro gli uomini in Lionardo da Vinci, nel quale oltra la bellezza del corpo non lodata mai a bastanza, era la grazia più che infinita in qualunque sua azione; e tanta e sì fatta poi la virtù, che dovunque l’animo volse nelle cose difficili, con facilità le rendeva assolute. La forza in lui fu molta, e congiunta con la destrezza; l’animo e ’l valore, sempre regio e magnanimo; e la fama del suo nome tanto s’allargò, che non solo nel suo tempo fu tenuto in pregio, ma pervenne ancora molto più ne’ posteri dopo la morte sua.2

Veramente mirabile e celeste fu Lionardo figliuolo di ser Piero da [p. iv modifica]Vinci;3 e nella erudizione e principj delle lettere arebbe fatto profitto grande, se egli non fusse stato tanto vario ed instabile. Perciocchè egli si mise a imparare molte cose; e incominciate, poi l’abbandonava. Ecco, nell’abbaco, egli in pochi mesi ch’e’ v’attese, fece tanto acquisto, che movendo di continuo dubbj e difficultà al maestro che gl’insegnava, bene spesso lo confondeva. Dette alquanto d’opera alla musica; ma tosto si risolvè a imparare a suonare la lira, come quello che dalla natura aveva spirito elevatissimo e pieno di leggiadria, onde sopra quella cantò divinamente all’improvviso.4 Nondimeno, benchè egli a sì varie cose attendesse, non lasciò mai il disegnare ed il fare di rilievo, come cose che gli andavano a fantasia più d’alcun’altra. Veduto questo, ser Piero, e considerato la elevazione di quello ingegno, preso un giorno alcuni de’ suoi disegni, gli portò ad Andrea del Verrocchio ch’era molto amico suo, e lo pregò strettamente che gli dovesse dire, se Lionardo attendendo al disegno farebbe alcun profitto. Stupì Andrea nel veder il grandissimo principio di Lionardo, e confortò ser Piero che lo facesse attendere; onde egli ordinò con Lionardo ch’e’ dovesse andare a bottega di Andrea: il che Lionardo fece volentieri oltre a modo: e non solo esercitò una professione, ma tutte quelle, ove il disegno s’interveniva; ed avendo uno intelletto tanto divino e maraviglioso, che essendo bonissimo geometra, non solo operò nella scultura, facendo nella sua giovanezza di terra alcune teste di femine che ridono, che vanno formate per l’arte [p. v modifica]di gesso, e parimente teste di putti che parevano usciti di mano d’un maestro;5 ma nell’architettura ancora fe’ molti disegni così di piante come di altri edifizj, e fu il primo ancora, che giovanetto discorresse sopra il fiume d’Arno per metterlo in canale da Pisa a Fiorenza.6 Fece disegni di mulini, gualchiere, ed ordigni che potessino andare per forza d’acqua: e perchè la professione sua volle che fusse la pittura, studiò assai in ritrar di naturale, e qualche volta in far modegli7 di figure di terra; e adosso a quelle metteva cenci molli interrati, e poi con pazienza si metteva a ritrargli sopra a certe tele sottilissime di rensa o di panni lini adoperati, e gli lavorava di nero e bianco con la punta del pennello, che era cosa miracolosa;8 come ancora ne fa fede alcuni che ne ho di sua mano in sul nostro Libro de’ disegni: oltre che disegnò in carta con tanta diligenza e sì bene, che in quelle finezze non è chi vi abbia aggiunto mai; che n’ho io una testa di stile e chiaro scuro, che è divina: ed era in quell’ingegno infuso tanta grazia da Dio ed una demostrazione sì terribile, accordata con l’intelletto e memoria che lo serviva, e col disegno delle mani sapeva sì bene esprimere il suo concetto, che con i ragionamenti vinceva e con le ragioni confondeva ogni gagliardo ingegno. Ed ogni giorno faceva modegli e disegni da potere scaricare con facilità monti e forargli per passare da un piano a un altro, e per via di lieve e di argani e di vite mostrava potersi alzare e tirare pesi grandi: e modi da votar porti, e trombe da cavare de’ luoghi bassi acque, che quel cervello mai restava di ghiribizzare; de’ quali pensieri e fatiche se ne vede sparsi per l’arte nostra molti disegni, ed io n’ho visti assai.9 Oltrechè perse tempo fino a disegnare gruppi di corde fatti con ordine, e che da un capo seguissi tutto il resto fino all’altro, tanto che s’empiessi un tondo; che se ne vede in istampa uno difficilissimo e molto bello, e nel mezzo vi sono queste parole: Leonardus Vinci Accademia.10 E fra questi modegli e disegni ve n’era uno, col quale più volte a molti cittadini ingegnosi che allora governavano Fiorenza mostrava volere [p. vi modifica]alzare il tempio di San Giovanni di Fiorenza, e sottomettervi le scalee senza ruinarlo; e con sì forti ragioni lo persuadeva, che pareva possibile, quantunque ciascuno, poi che e’ si era partito, conoscesse per sè medesimo l’impossibilità di cotanta impresa.

Era tanto piacevole nella conversazione, che tirava a sè gli animi delle genti; e non avendo egli, si può dir, nulla, e poco lavorando, del continuo tenne servitori e cavalli, de’ quali si dilettò molto, e particularmente di tutti gli altri animali, i quali con grandissimo amore e pacienza governava: e mostrollo, chè spesso passando dai luoghi dove si vendevano uccelli, di sua mano cavandoli di gabbia e pagatogli a chi li vendeva il prezzo che n’era chiesto, li lasciava in aria a volo, restituendoli la perduta libertà. Laonde volle la natura tanto favorirlo, che dovunque e’ rivolse il pensiero, il cervello e l’animo, mostrò tanta divinità nelle cose sue, che nel dare la perfezione di prontezza, vivacità, bontade, vaghezza e grazia, nessuno altro mai gli fu pari. Vedesi bene che Lionardo per l’intelligenza dell’arte cominciò molte cose, e nessuna mai ne finì, parendoli che la mano aggiugnere non potesse alla perfezione dell’arte nelle cose che egli s’imaginava: conciossiachè si formava nell’idea alcune difficultà sottili e tanto maravigliose, che con le mani, ancora ch’elle fussero eccellentissime, non si sarebbono espresse mai. E tanti furono i suoi capricci, che filosofando delle cose naturali attese a intendere la propietà delle erbe, continuando ed osservando il moto del cielo, il corso della luna e gli andamenti del sole.11

Acconciossi dunque, come è detto, per via di ser Piero, nella sua fanciullezza all’arte con Andrea del Verrocchio, il quale facendo una tavola, dove San Giovanni battezzava Cristo, Lionardo lavorò un angelo che teneva alcune vesti; e benchè fosse giovanetto, lo condusse di tal maniera, che molto meglio delle figure d’Andrea stava l’angelo di Lionardo; il che fu cagione ch’Andrea mai più non volle toccar colori, sdegnatosi che un fanciullo ne sapesse più di lui.12 Li fu allogato per una [p. vii modifica]portiera, che si aveva a fare in Fiandra d’oro e di seta tessuta per mandare al re di Portogallo, un cartone d’Adamo e d’Eva, quando nel paradiso terrestre peccano: dove col pennello fece Lionardo di chiaro e scuro lumeggiato di biacca un prato di erbe infinite con alcuni animali, che in vero può dirsi che in diligenza e naturalità al mondo divino ingegno far non la possa sì simile. Quivi è il fico, oltra lo scortar delle foglie e le vedute de’ rami, condotto con tanto amore, che l’ingegno si smarrisce solo a pensare come un uomo possa avere tanta pacienza. Evvi ancora un palmizio che ha la rotondità delle ruote della palma lavorate con sì grande arte e maravigliosa, che altro che la pazienza e l’ingegno di Lionardo non lo poteva fare; la quale opera altrimenti non si fece, onde il cartone è oggi in Fiorenza nella felice casa del magnifico Ottaviano de’ Medici, donatogli non ha molto dal zio di Lionardo.13 Dicesi che ser Piero da Vinci, essendo alla villa, fu ricercato domesticamente da un suo contadino, il quale d’un fico da lui tagliato in sul podere aveva di sua mano fatto una rotella, che a Fiorenza gnene facesse dipignere: il che egli contentissimo fece, sendo molto pratico il villano nel pigliare uccelli e nelle pescagioni, e servendosi grandemente di lui ser Piero a questi esercizj. Laonde fattala condurre a Fiorenza, senza altrimenti dire a Lionardo di chi ella si fosse, lo ricercò che egli vi dipignesse suso qualche cosa. Lionardo arrecatosi un giorno tra le mani questa rotella, veggendola torta, mal lavorata e goffa, la dirizzò col fuoco; e datala a un tornitore, di rozza e goffa che ella era, la fece ridurre delicata e pari; ed appresso ingessatala ed acconciatala a modo suo, cominciò a pensare quello che vi si potesse dipignere su, che avesse a spaventare chi le venisse contra, rappresentando lo effetto stesso che la testa già di Medusa. Portò dunque Lionardo per questo effetto ad una sua stanza, dove non entrava se non egli solo, lucertole, ramarri, grilli, serpe, farfalle, locuste, nottole ed altre strane spezie di simili animali; dalla moltitudine de’ quali variamente adattata insieme cavò un animalaccio molto orribile e spaventoso, il quale avvelenava con l’alito e faceva l’aria di fuoco; e quello fece uscire d’una pietra scura e spezzata, buffando veleno dalla gola aperta, fuoco dagli occhi, e fumo dal naso sì stranamente, che pareva monstruosa ed orribile cosa affatto: e penò tanto a farla, che in quella stanza era il morbo degli animali morti troppo crudele, ma non sentito da Lionardo per il grande amore che portava all’arte. Finita questa opera, che più non era ricerca nè dal villano nè dal padre, Lionardo gli disse che ad ogni sua comodità mandasse per la rotella, che quanto a lui era finita. Andato dunque ser Piero una mattina alla stanza per la rotella, e picchiato alla porta, Lionardo gli aperse dicendo che aspettasse un poco; e ritornatosi nella stanza, acconciò la rotella al lume in sul leggio, ed assettò la finestra che facesse lume abbacinato; poi lo fece passar dentro a vederla. Ser Piero nel primo aspetto, non pensando alla cosa, subitamente si scosse, non credendo che quella fosse rotella, [p. viii modifica]nè manco dipinto quel figurato che e’ vi vedeva; e tornando col passo a dietro, Lionardo lo tenne, dicendo: Questa opera serve per quel che ella è fatta; pigliatela dunque, e portatela, chè questo è il fine che dell’opere s’aspetta. Parse questa cosa più che miracolosa a ser Piero, e lodò grandissimamente il capriccioso discorso di Lionardo; poi comperata tacitamente da un merciaio un’altra rotella dipinta d’un cuore trapassato da uno strale, la donò al villano, che ne li restò obbligato sempre mentre che e’ visse. Appresso vendè ser Piero quella di Lionardo secretamente in Fiorenza a certi mercatanti cento ducati, ed in breve ella pervenne alle mani del duca di Milano, vendutagli trecento ducati da’ detti mercatanti.14

Fece poi Lionardo una Nostra Donna in un quadro che era appresso papa Clemente VII, molto eccellente; e fra l’altre cose che v’erano fatte, contraffece una caraffa piena d’acqua con alcuni fiori dentro, dove, oltra la maraviglia della vivezza, aveva imitato la rugiada dell’acqua sopra, sì che ella pareva più viva che la vivezza.15 Ad Antonio Segni, suo amicissimo, fece in su un foglio un Nettuno, condotto così di disegno con tanta diligenzia, che e’ pareva del tutto vivo. Vedevasi il mare turbato ed il carro suo tirato da’ cavalli marini con le fantasime, l’orche ed i noti, ed alcune teste di dèi marini bellissime; il quale disegno fu donato da Fabio suo figliuolo a messer Giovanni Gaddi, con questo epigramma:

Pinxit Virgilius Neptunum, pinxit Homerus;
     Dum maris undisoni per vada flectit equos.
Mente quidem vates illum conspexit uterque,
     Vincius ast oculis; jureque vincit eos.16

Vennegli fantasia di dipingere in un quadro a olio una testa d’una Medusa, con una acconciatura in capo con uno aggruppamento di serpe, la più strana e stravagante invenzione che si possa imaginare mai; ma come opera che portava tempo, e come quasi interviene in tutte le cose sue, rimase imperfetta. Questa è fra le cose eccellenti nel palazzo del duca Cosimo,17 insieme con una testa d’uno angelo, che alza un braccio in aria, che scorta dalla spalla al gomito venendo innanzi, e l’altro ne va al petto con una mano.18 È cosa mirabile che quello ingegno, che avendo desiderio di dar sommo rilievo alle cose che egli faceva, andava tanto con l’ombre scure a trovare i fondi de’ più scuri che cercava neri che ombrassino e fussino più scuri degli altri neri, per fare che ’l chiaro, mediante quegli, fussi più lucido; ed [p. ix modifica]infine riusciva questo modo tanto tinto, che non vi rimanendo chiaro, avevon più forma di cose fatte per contraffare una notte, che una finezza del lume del dì: ma tutto era per cercare di dare maggior rilievo, di trovar il fine e la perfezione dell’arte. Piacevagli tanto quando egli vedeva certe teste bizzarre, o con barbe o con capegli degli uomini naturali, che arebbe seguitato uno che gli fussi piaciuto, un giorno intero; e se lo metteva talmente nella idea, che poi arrivato a casa lo disegnava come se l’avesse avuto presente. Di questa sorte se ne vede molte teste e di femine e di maschi, e n’ho io disegnate parecchie di sua mano con la penna nel nostro Libro de’ disegni tante volte citato;19 come fu quella di Amerigo Vespucci, ch’è una testa di vecchio bellissima, disegnata di carbone, e parimenti quella di Scaramuccia capitano de’ Zingani, che poi ebbe20 messer Donato Valdambrini di Arezzo, canonico di San Lorenzo, lassatagli dal Giambullari.21 Cominciò una tavola della Adorazione de’ Magi, che v’è su molte cose belle, massime di teste; la quale era in casa d’Amerigo Benci dirimpetto alla loggia de’ Peruzzi, la quale anche ella rimase imperfetta come l’altre cose sua.22

Avvenne che morto Giovan Galeazzo duca di Milano, e creato Lodovico Sforza nel grado medesimo l’anno 1494, fu condotto a Milano con gran riputazione [p. x modifica]Lionardo al duca, il quale molto si dilettava del suono della lira, perchè sonasse;23 e Lionardo portò quello strumento ch’egli aveva di sua mano fabbricato d’argento gran parte, in forma d’un teschio di cavallo, cosa bizzarra e nuova, acciocchè l’armonia fosse con maggior tuba e più sonora di voce;24 laonde superò tutti i musici che quivi erano concorsi a sonare. Oltra ciò, fu il migliore dicitore di rime all’improvviso del tempo suo. Sentendo il duca i ragionamenti tanto mirabili di Lionardo, talmente s’innamorò delle sue virtù, che era cosa incredibile. E pregatolo, gli fece fare in pittura una tavola d’altare dentrovi una Natività, che fu mandata dal duca all’imperatore.25 Fece ancora in Milano ne’ frati di San Domenico a Santa Maria delle Grazie un Cenacolo, cosa bellissima e maravigliosa;26 ed alle teste degli apostoli diede tanta maestà e bellezza, che quella del Cristo lasciò imperfetta, non pensando poterle dare quella divinità celeste, che all’imagine di Cristo si richiede.27 La quale [p. xi modifica]opera rimanendo così per finita, è stata dai Milanesi tenuta del continuo in grandissima venerazione, e dagli altri forestieri ancora; atteso che Lionardo s’imaginò e riuscigli di esprimere quel sospetto che era entrato negli apostoli, di voler sapere chi tradiva il loro maestro. Per il che si vede nel viso di tutti loro l’amore, la paura e lo sdegno, ovvero il dolore di non potere intendere lo animo di Cristo: la qual cosa non arreca minor maraviglia, che il conoscersi allo incontro l’ostinazione, l’odio e ’l tradimento in Giuda; senza che ogni minima parte dell’opera mostra una incredibile diligenzia; avvengachè insino nella tovaglia è contraffatto l’opera del tessuto d’una maniera, che la rensa stessa non mostra il vero meglio.

Dicesi che il priore di quel luogo sollecitava molto importunamente Lionardo che finissi l’opera, parendogli strano veder talora Lionardo starsi un mezzo giorno per volta astratto in considerazione; ed arebbe voluto, come faceva dell’opere che zappavano nell’orto, che egli non avesse mai fermo il pennello; e non gli bastando questo, se ne dolse col duca, e tanto lo rinfocolò, che fu costretto a mandar per Lionardo, e destramente sollecitarli l’opera; mostrando con buon modo, che tutto faceva per l’importunità del priore. Lionardo, conoscendo l’ingegno di quel principe esser acuto e discreto, volse (quel che non avea mai fatto con quel priore) discorrere col duca largamente sopra di questo: gli ragionò assai dell’arte, e lo fece capace che gl’ingegni elevati talor che manco lavorano, più adoperano; cercando con la mente l’invenzioni, e formandosi quelle perfette idee, che poi esprimono e ritraggono le mani da quelle già concepute nell’intelletto. E gli soggiunse che ancor gli mancava due teste da fare: quella di Cristo, della quale non voleva cercare in terra e non poteva tanto pensare, che nella imaginazione gli paresse poter concepire quella bellezza e celeste grazia, che dovette essere quella della divinità incarnata. Gli mancava poi quella di Giuda, che anco gli metteva pensiero, non credendo potersi imaginare una forma da esprimere il volto di colui, che dopo tanti benefizj ricevuti avessi avuto l’animo sì fiero, che si fussi risoluto di tradire il suo signore e creator del mondo; pur, che di questa seconda ne cercherebbe, ma che alla fine, non trovando meglio, non gli mancherebbe quella di quel priore tanto

[p. xii modifica]importuno e indiscreto.28 La qual cosa mosse il duca maravigliosamente a riso, e disse che egli avea mille ragioni. E così il povero priore, confuso, attese a sollecitar l’opera dell’orto, e lasciò star Lionardo; il quale finì bene la testa del Giuda, che pare il vero ritratto del tradimento ed inumanità.29 Quella di Cristo rimase, come si è detto, imperfetta. La nobiltà di questa pittura, sì per il componimento, sì per essere finita con una incomparabile diligenza, fece venir voglia al re di Francia30 di condurla nel regno; onde tentò per ogni via se ci fussi stato architetti, che con travate di legnami e di ferri l’avessino potuta armar di maniera, che ella si fusse condotta salva, senza considerare a spesa che vi si fusse potuta fare; tanto la desiderava. Ma l’esser fatta nel muro fece che Sua Maestà se ne portò la voglia,31 ed ella si rimase a’ Milanesi.32 Nel medesimo refettorio, mentre che lavorava il Cenacolo, nella testa, dove è una [p. xiii modifica]Passione di maniera vecchia,33 ritrasse il detto Lodovico con Massimiliano suo primogenito, e dall’altra parte la duchessa Beatrice con Francesco altro suo figliuolo, che poi furono amendue duchi di Milano; che sono ritratti divinamente.34

Mentre che egli attendeva a questa opera, propose al duca fare un cavallo di bronzo di maravigliosa grandezza,35 per mettervi in memoria l’imagine del duca;36 e tanto grande lo cominciò e riuscì, che condur37 non si potè mai. Ecci chi ha avuto opinione (come son varj, e molte volte per invidia maligni i giudizj umani), che Lionardo, come dell’altre sue cose, lo cominciasse perchè non si finisse; perchè essendo di tanta grandezza, in volerlo gettar d’un pezzo vi si vedeva difficultà incredibile; e si potrebbe anco credere che dall’effetto molti abbin fatto questo giudizio, poichè delle cose sue ne son molte rimase imperfette. Ma, per il vero, si può credere che l’animo suo grandissimo ed eccellentissimo, per esser troppo volontaroso, fusse impedito, e che il voler cercare sempre eccellenza sopra eccellenza e perfezione sopra perfezione, ne fusse cagione; talchè l’opra fusse ritardata dal desio, come disse il nostro Petrarca.38 E nel vero quelli che veddono il modello [p. xiv modifica]che Lionardo fece di terra, grande, giudicano non aver mai visto più bella cosa nè più superba; il quale durò fino che i Francesi vennono a Milano con Lodovico re di Francia, che lo spezzarono tutto. Ènne anche smarrito un modello piccolo di cera, ch’era tenuto perfetto, insieme con un libro di notomia di cavagli fatto da lui per suo studio. Attese dipoi, ma con maggior cura, alla notomia degli uomini, aiutato e scambievolmente aiutando in questo messer Marcantonio della Torre, eccellente filosofo, che allora leggeva in Pavia, e scriveva di questa maniera: e fu de’ primi (come odo dire) che cominciò a illustrare con la dottrina di Galeno le cose di medicina, e a dar vera luce alla notomia, fino a quel tempo involta in molte e grandissime tenebre d’ignoranza;39 ed in questo si servì maravigliosamente dell’ingegno, opera e mano di Lionardo, che ne fece un libro disegnato di matita rossa e tratteggiato di penna,40 che egli di sua mano scorticò e ritrasse con grandissima diligenza; dove egli fece tutte le ossature, ed a quelle congiunse poi con ordine tutti i nervi e coperse di muscoli; i primi appiccati all’osso, ed i secondi che tengono il fermo, ed i terzi che muovono; ed in quegli a parte per parte di brutti caratteri scrisse lettere, che sono fatte con la mano mancina a rovescio; e chi non ha pratica a leggere, non l’intende, perchè non si leggono se non con lo specchio. Di queste carte della notomia degli uomini n’è gran parte nelle mani di messer Francesco da Melzo gentiluomo milanese, che nel tempo di Lionardo era bellissimo fanciullo41 e molto amato da lui, così come oggi è bello e gentile vecchio, [p. xv modifica]che le ha care e tiene come per reliquie tal carte, insieme con il ritratto della felice memoria di Lionardo:42 e chi legge quegli scritti, par impossibile che quel divino spirito abbi così ben ragionato dell’arte e de’ muscoli e nervi e vene, e con tanta diligenza d’ogni cosa. Come anche sono nelle mani di......, pittor milanese,43 alcuni scritti di Lionardo, pur di caratteri scritti con la mancina a rovescio, che trattano della pittura e de’ modi del disegno e colorire. Costui non è molto che venne a Fiorenza a vedermi, desiderando stampar questa opera, e la condusse a Roma per dargli esito; nè so poi che di ciò sia seguìto.44

E per tornare alle opere di Lionardo, venne al suo tempo in Milano il re di Francia;45 onde pregato Lionardo di far qualche cosa bizzarra, fece un lione, che camminò parecchi passi, poi s’aperse il petto e mostrò tutto pien di gigli. Prese in Milano Salai milanese per suo creato,46 il qual era vaghissimo di grazia e di [p. xvi modifica]bellezza, avendo begli capelli ricci ed inanellati, de’ quali Lionardo si dilettò molto; ed a lui insegnò molte cose dell’arte; e certi lavori, che in Milano si dicono essere di Salai, furono ritocchi da Lionardo.

Ritornò a Fiorenza,47 dove trovò che i frati de’ Servi avevano allogato a Filippino l’opere della tavola dell’altar maggiore della Nunziata: per il che fu detto da Lionardo che volentieri avrebbe fatta una simil cosa. Onde Filippino inteso ciò, come gentil persona ch’egli era, se ne tolse giù: ed i frati, perchè Lionardo la dipignesse, se lo tolsero in casa, facendo le spese a lui ed a tutta la sua famiglia: e così li tenne in pratica lungo tempo, nè mai cominciò nulla. Finalmente fece un cartone dentrovi una Nostra Donna ed una Sant’Anna con un Cristo, la quale non pure fece maravigliare tutti gli artefici, ma finita ch’ella fu, nella stanza durarono due giorni d’andare a vederla gli uomini e le donne, i giovani ed i vecchi, come si va alle feste solenni; per veder le maraviglie di Lionardo, che fecero stupire tutto quel popolo; perchè si vedeva nel viso di quella Nostra Donna tutto quello che di semplice e di bello può con semplicità e bellezza dare grazia a una madre di Cristo, volendo mostrare quella modestia e quella umiltà, ch’è in una vergine, contentissima d’allegrezza nel vedere la bellezza del suo figliuolo che con tenerezza sosteneva in grembo, e mentre che ella con onestissima guardatura a basso scorgeva un San Giovanni piccol fanciullo, che si andava trastullando con un pecorino, non senza un ghigno d’una Sant’Anna, che colma di letizia vedeva la sua progenie terrena esser divenuta celeste: considerazioni veramente dallo intelletto ed ingegno di Lionardo. Questo cartone, come di sotto si dirà, andò poi in Francia.48 Ritrasse la Ginevra d’Amerigo Benci, cosa bellissima:49 ed abbandonò il lavoro a’ frati, i quali [p. xvii modifica]lo ritornarono a Filippino, il quale, sopravvenuto egli ancora dalla morte, non lo potè finire.50 Prese Lionardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di mona Lisa sua moglie;51 e quattro anni penatovi, lo lasciò imperfetto; la quale opera oggi è appresso il re Francesco di Francia in Fontanableo: nella qual testa chi voleva vedere quanto l’arte potesse imitar la natura, agevolmente si poteva comprendere; perchè quivi erano contraffatte tutte le minuzie che si possono con sottigliezza dipingere. Avvengachè gli occhi avevano que’ lustri e quelle acquitrine che di continuo si veggono nel vivo, ed intorno a essi erano tutti que’ rossigni lividi e i peli, che non senza grandissima sottigliezza si possono fare. Le ciglia, per avervi fatto il modo del nascere i peli nella carne, dove più folti, e dove più radi, e girare secondo i pori della carne, non potevano essere più naturali. Il naso, con tutte quelle belle aperture rossette e tenere, si vedeva essere vivo. La bocca, con quella sua sfenditura, con le sue fini unite dal rosso della bocca, con l’incarnazione del viso, che non colori, ma carne pareva veramente. Nella fontanella della gola chi intentissimamente la guardava, vedeva battere i polsi; e nel vero si può dire che questa fussi dipinta d’una maniera da far tremare e temere ogni gagliardo artefice, e sia qual si vuole. Usovvi ancora questa arte: che essendo madonna Lisa bellissima, teneva, mentre che la ritraeva, chi sonasse o cantasse, e di continuo buffoni che la facessino stare allegra, per levar via quel malinconico che suol dar spesso la pittura a’ ritratti che si fanno: ed in questo di Lionardo vi era un ghigno tanto piacevole, che era cosa più divina che umana a vederlo, ed era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti.52

Per la eccellenzia dunque delle opere di questo divinissimo artefice era tanto cresciuta la fama sua, che tutte le persone che si dilettavano dell’arte, anzi la stessa città intera desiderava ch’egli le lasciasse qualche memoria: e ragionavasi per tutto di fargli fare qualche opera notabile e grande, donde il pubblico fusse ornato ed onorato di tanto ingegno, grazia e giudizio, quanto nelle cose di Lionardo si conosceva. E tra i gonfalonieri e i cittadini grandi si praticò, che essendosi fatta di nuovo la gran sala del Consiglio, l’architettura della quale fu ordinata col giudizio e consiglio suo, di Giuliano San Gallo, e di Simone Poliaiuoli, detto Cronaca, e [p. xviii modifica]di Michelagnolo Buonarroti e Baccio d’Agnolo (come a’ suoi luoghi più distintamente si ragionerà); la quale finita con grande prestezza, fu per decreto pubblico ordinato che a Lionardo fussi dato a dipignere qualche opera bella; e così da Piero Soderini, gonfaloniere allora di giustizia, gli fu allogata la detta sala. Per il che, volendola condurre, Lionardo cominciò un cartone alla sala del papa, luogo in Santa Maria Novella, dentrovi la storia di Niccolò Piccinino capitano del duca Filippo di Milano, nel quale disegnò un groppo di cavalli che combattevano una bandiera: cosa che eccellentissima e di gran magisterio fu tenuta, per le mirabilissime considerazioni che egli ebbe nel far quella fuga; perciocchè in essa non si conosce meno la rabbia, lo sdegno e la vendetta negli uomini, che ne’ cavalli; tra’ quali due intrecciatisi con le gambe dinanzi, non fanno men guerra coi denti, che si faccia chi gli cavalca nel combattere detta bandiera; dove appiccato le mani un soldato, con la forza delle spalle, mentre mette il cavallo in fuga, rivolto egli con la persona, aggrappato l’aste dello stendardo per sgusciarlo per forza delle mani di quattro; che due lo difendono con una mano per uno, e l’altra in aria con le spade tentano di tagliar l’aste, mentre che un soldato vecchio, con un berretton rosso, gridando tiene una mano nell’asta, e con l’altra inalberato una storta, mena con stizza un colpo per tagliar tutte a due le mani a coloro, che con forza digrignando i denti tentano con fierissima attitudine di difendere la loro bandiera. Oltra che in terra, fra le gambe de’ cavagli, v’è dua figure in iscorto che combattendo insieme, mentre uno in terra ha sopra uno soldato, che alzato il braccio quanto può, con quella forza maggiore gli mette alla gola il pugnale per finirgli la vita, e quello altro, con le gambe e con le braccia sbattuto, fa ciò che egli può per non volere la morte. Nè si può esprimere il disegno che Lionardo fece negli abiti dei soldati, variamente variati da lui; simile i cimieri e gli altri ornamenti, senza la maestria incredibile che egli mostrò nelle forme e lineamenti de’ cavagli, i quali Lionardo meglio ch’altro maestro fece di bravura di muscoli e di garbata bellezza.53 [p. xix modifica]Dicesi che per disegnare il detto cartone fece uno edifizio artificiosissimo, che stringendolo s’alzava, ed allargandolo s’abbassava. Ed imaginandosi di volere a olio colorire in muro, fece una composizione d’una mistura sì grossa per lo incollato del muro, che continuando a dipignere in detta sala, cominciò a colare di maniera, che in breve tempo abbandonò quella, vedendola guastare.54

Aveva Lionardo grandissimo animo, ed in ogni sua azione era generosissimo. [p. xx modifica]Dicesi che andando al banco per la provisione ch’ogni mese da Piero Soderini soleva pigliare, il cassiere gli volse dare certi cartocci di quattrini; ed egli non li volse pigliare, rispondendogli: Io non sono dipintore da quattrini. Essendo incolpato d’aver giuntato, da Piero Soderini fu mormorato contra di lui: per che Lionardo fece tanto con gli amici suoi, che ragunò i danari e portolli per ristituire: ma Piero non li volle accettare.

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Andò a Roma col duca Giuliano de’ Medici nella creazione di papa Leone,55 che attendeva molto a cose filosofiche, e massimamente alla alchimia; dove formando una pasta di una cera, mentre che camminava, faceva animali sottilissimi pieni di vento, nei quali soffiando, gli faceva volare per l’aria; ma cessando il vento, cadevano in terra. Fermò in un ramarro, trovato dal vignaruolo di Belvedere, il quale era bizzarrissimo, di scaglie di altri ramarri scorticate, ali addosso con mistura d’argenti vivi, che nel muoversi quando camminava tremavano; e fattoli gli occhi, corna e barba, domesticatolo e tenendolo in una scatola, tutti gli amici ai quali lo mostrava, per paura faceva fuggire. Usava spesso far minutamente digrassare e purgare le budella d’un castrato e talmente venir sottili, che si sarebbono tenute in palma di mano; e aveva messo in un’altra stanza un paio di mantici da fabbro, ai quali metteva un capo delle dette budella, e gonfiandole ne riempiva la stanza, la quale era grandissima; dove bisognava che si recasse in un canto chi v’era, mostrando quelle trasparenti e piene di vento dal tenere poco luogo in principio, esser venute a occuparne molto, agguagliandole alla virtù. Fece infinite di queste pazzie, ed attese alli specchi, e tentò modi stranissimi nel cercare olii per dipignere, e vernice per mantenere l’opere fatte. Fece in questo tempo per messer Baldassarri Turini da Pescia, che era datario di Leone, un quadretto di una Nostra Donna col figliuolo in braccio, con infinita diligenzia ed arte. Ma, o sia per colpa di chi lo ingessò, o pur per quelle sue tante e capricciose misture delle mestiche e de’ colori, è oggi molto guasto. E in un altro quadretto ritrasse un fanciulletto, che è bello e grazioso a maraviglia: che oggi sono tutti e due in Pescia appresso a messer Giulio Turini.56 Dicesi che essendogli allogato una opera dal papa, subito cominciò a stillare olii ed erbe per far la vernice; per che fu detto da papa Leone: Oimè! costui non è per far nulla, da che comincia a pensare alla fine innanzi il principio dell’opera.57 Era sdegno grandissimo fra Michelagnolo Buonarroti e lui: per il che partì di Fiorenza Michelagnolo per la concorrenza, con la scusa del duca Giuliano, essendo chiamato dal papa per la facciata di San Lorenzo. Lionardo intendendo ciò, partì ed andò in Francia,58 dove il re, avendo [p. xxii modifica]avuto opere sue, gli era molto affezionato, e desiderava che colorisse il cartone della Sant’Anna; ma egli, secondo il suo costume, lo tenne gran tempo in parole. Finalmente venuto vecchio, stette molti mesi ammalato; e vedendosi vicino alla morte, si volse diligentemente informare delle cose catoliche59 e della nostra buona e santa religione cristiana, e poi con molti pianti confesso e contrito,60 sebbene e’ non poteva reggersi in piedi, sostenendosi nelle braccia di suoi amici e servi, volse divotamente pigliare il santissimo Sacramento fuor del letto. Sopraggiunseli il re, che spesso ed amorevolmente lo soleva visitare; per il che egli per riverenza rizzatosi a sedere sul letto, contando il mal suo e gli accidenti di quello, mostrava tuttavia quanto avea offeso Dio e gli uomini del mondo, non avendo operato nell’arte come si conveniva. Onde gli venne un parosismo messaggiero della morte; per la qual cosa rizzatosi il re e presoli la testa per aiutarlo e porgerli favore, acciocchè il male lo alleggerisse; lo spirito suo, che divinissimo era, conoscendo non potere avere maggiore onore, spirò in braccio a quel re, nella età sua d’anni settantacinque.61 [p. xxiii modifica]

Dolse la perdita di Lionardo fuor di modo a tutti quegli che l’avevano conosciuto, perchè mai non fu persona che tanto facesse onore alla pittura. Egli con lo splendor dell’aria sua, che bellissima era, rasserenava ogni animo mesto, e con le parole volgeva al sì e al no ogni indurata intenzione. Egli con le forze sue riteneva ogni violenta furia, e con la destra torceva un ferro d’una campanella di muraglia ed un ferro di cavallo, come se fusse piombo. Con la liberalità sua raccoglieva e pasceva ogni amico povero e ricco, pur che egli avesse ingegno e virtù. Ornava ed onorava con ogni azione qualsivoglia disonorata e spogliata stanza: per il che ebbe veramente Fiorenza grandissimo dono nel nascere di Lionardo, e perdita più che infinita nella sua morte. Nell’arte della pittura aggiunse costui alla maniera del colorire ad olio una certa oscurità, donde hanno dato i moderni gran forza e rilievo alle loro figure.62 E nella statuaria fece prove nelle tre figure di bronzo che sono sopra la porta di San Giovanni dalla parte di tramontana, fatte da Giovan Francesco Rustici, ma ordinate col consiglio di Lionardo; le quali sono il più bel getto e di disegno e di perfezione che modernamente si sia ancor visto.63 Da Lionardo abbiamo la notomia de’ cavalli, e quella degli uomini assai più perfetta: laonde per tante parti sue sì divine, ancora che molto più operasse con le parole che co’ fatti, il nome e la fama sua non si spegneranno giammai.64 [p. xxiv modifica]

Per il che fu detto in lode sua da messer Giovan Batista Strozzi così:

Vince costui pur solo
     Tutti altri, e vince Fidia e vince Apelle,
     E tutto il lor vittorioso stuolo.

65

Fu discepolo di Lionardo Giovanantonio Boltraffio milanese,66 persona molto pratica ed intendente, che l’anno 1500 dipinse in nella chiesa della Misericordia fuor di Bologna in una tavola a olio, con gran diligenza, la Nostra Donna col figliuolo in braccio, San Giovanni Batista, e San Bastiano ignudo, e il padrone che la fe’ fare, ritratto di naturale ginocchioni;67 opera veramente bella; ed in quella scrisse il nome suo e l’esser discepolo di Lionardo. Costui ha fatto altre opere ed a Milano ed altrove: ma basti aver qui nominata questa che è la migliore.68 E così Marco Uggioni,69 che in Santa Maria della Pace fece il Transito di Nostra Donna e le nozze di Cana Galilea.70 [p. xxv modifica]

  1. Nel riprodurre questa Vita dalle Opere di Giorgio Vasari (Firenze, Sansoni, 1878-85) avvertiamo che, seguendo l’edizione stessa, le note non distinte da alcun segno son tratte dall’edizione Passigli (Firenze, 1832-38); quelle precedute da * sono dell’edizione Le Monnier (Firenze, 1845); e le contrassegnate con † sono aggiunte dal prof. Gaetano Milanesi nella citata edizione Sansoni.
  2. * L’opera migliore intorno a Leonardo da Vinci è tuttavia quella di Carlo Amoretti, Memorie storiche sulla vita, gli studi e le opere di Lionardo da Vinci, Milano, 1804. Essa contiene le più minute indagini; ma non è scevra d’errori, che in parte son dovuti alle informazioni del consiglier De Pagave. Il conte Gailenberg rifece questo libro in tedesco, e l’accrebbe di alcune notizie tolte al Gerli, al Fiorillo e ad altri (Vita ed opere di Leonardo da Vinci, Lipsia, 1834, in-8o), ma senza originali osservazioni e senza critica. Già molto imperfetto era riuscito il saggio di G. C. Brun, Vita ed arte di Leonardo da Vinci. † Di Leonardo molti altri hanno scritto in quest’ultimi anni, massimamente fuori d’Italia. Noi ci contentiamo di registrare, tra gl’Italiani: J. B. Venturi, Essai sur les ouvrages physico-mathèmatiques de L. de Vinci, Paris, 1797; Libri, Histoire des sciences mathèmatiques en Italie; Girolamo Luigi Calvi, nella parte III delle Notizie de’ principali professori di belle arti che fiorirono in Milano, ecc., Milano, Borroni, 1869; Gustavo Uzielli, Ricerche intorno a Lionardo da Vinci, Firenze, Pellas, 1872; e i professori Giuseppe Mongeri, Gilberto Govi e Cammillo Boito, ne’ loro scritti pubblicati nel Saggio delle Opere di Lionardo da Vinci, con ventiquattro tavole fotolitografiche di scritture e disegni, tratti dal codice Atlantico, Milano, Tito di Giovanni Ricordi, 1872, in-fol. max.; il marchese Girolamo Salvaterra D’Adda, nel suo articolo Léonard de Vinci, la gravure milanaise et Passavant, nella Gazette de Beaux Arts, 1869, e nell’altro Leonardo da Vinci e la sua libreria, Milano, 1873, in-8°; e tra gli stranieri: Delécluze, Ch. Clément, Ch. Blanc e Rio; dai quali tutti si hanno più o meno nuovi particolari intorno alla vita ed alle opere così artistiche come scientifiche di Leonardo.
  3. Fu figliuolo naturale di ser Piero d’Antonio di ser Piero di ser Guido da Vinci, natogli da una certa Caterina, donna di Cattabriga o Accattabriga, di Piero di Luca del luogo stesso. Dalle denunzie pubblicate dal Gaye (I, 223, 224) si viene a sapere con certezza che il nostro Leonardo nacque nel 1452. Vinci è castello nel compartimento fiorentino, presso Empoli.
  4. Delle poesie di lui non ci resta che il seguente sonetto, conservatoci dal Lomazzo e ristampato più volte:

    Chi non può quel che vuol, quel che può voglia;
         Che quel che non si può, folle è volere.
         Adunque saggio l’uomo è da tenere,
         Che da quel che non può suo voler toglia.
    Però che ogni diletto nostro e doglia
         Sta in sì e no saper, voler, potere.
         Adunque quel sol può, che col dovere
         Ne trae la ragion fuor di sua soglia.
    Nè sempre è da voler quel che l’uomo potè;
         Spesso par dolce quel che torna amaro.
         Piansi già quel ch’io volsi, poi ch’io l’ebbi.
    Adunque tu, lettor di queste note,
         S’a te vuoi esser buono e agli altri caro,
         Vogli sempre poter quel che tu debbi.

    † Intorno a questo sonetto vedasi nel giornale romano Il Buonarroti, fascicoli di giugno e d’agosto 1875, un articolo di Gustavo Uzielli intitolato Sopra un sonetto attribuito a Lionardo da Vinci. Esso non è di Leonardo, ma di Antonio di Matteo di Meglio, araldo della Signoria di Firenze dal 1418 al 1446, in cui morì, al quale è assegnato dalla maggior parte de’ codici del secolo xv delle biblioteche fiorentine.

  5. * «Anch’io mi trovo una testicciuola di terra di un Cristo, mentre che era fanciullo, di propria mano di Leonardo Vinci; nella quale si vede la semplicità e purità del fanciullo, accompagnata da un certo che, che dimostra sapienza, intelletto e maestà, e l’aria che pure è di fanciullo tenero, e par aver del vecchio savio; cosa veramente eccellente». (Lomazzo, Trattato dell’Arte della pittura, ecc., Roma, 1844, in-8o, vol. I, pag. 213). Lo stesso Lomazzo (ivi, pag. 301) ricorda «un cavallo di rilievo di plastica, fatto di sua mano (di Leonardo), che ha il cav. Leone aretino statuario».
  6. * Di questa come di altre opere idrauliche si tien discorso nella parte terza del Commentario che segue; dove similmente si dà conto di altre cose che si riferiscono ai lavori scientifici di Leonardo.
  7. † Nell’edizione del 1568, certamente per errore di stampa, dice medaglie, che noi abbiamo mutato in modegli, parendoci che così dovesse dire; il che è confermato da quel che più sotto scrive il Vasari medesimo.
  8. * Vedi nella parte seconda del Commentario, tra’ disegni, gli studi delle pieghe.
  9. Carlo Giuseppe Gerli ne pubblicò una quantità in Milano nel 1794 pel Galeazzi. Nel 1830 furono ivi riprodotti con note illustrative da Giuseppe Vallardi. Una raccolta dei disegni vinciani esistenti nell’Ambrosiana pubblicò pure in Milano nel 1785 Girolamo Mantelli di Canobbio.
  10. * Quest’ingegnoso intrecciamento di corde, dentrovi non Leonardus Vinci Accademia, ma Leonardi Vinci Academia, è riportato dall’Amoretti in fronte alle Memorie sopra citate. Il marchese G. D’Adda (Léonard de Vinci, la gravure milanaise et Passavant) dice che di questi intrecciamenti di corde nella raccolta ambrosiana se ne conservano fino a sei. Se ne conosce un’antica stampa in legno, intagliata da Alberto Durero. Delle incisioni attribuite a Leonardo, il D’Adda non riconosce per opera di lui che quella del ritratto in profilo di una giovane, conservata nel museo Britannico, e l’altra posseduta dal signor Angiolini di Milano, dove sono intagliati cavalli in varie attitudini; nega che sieno intagliati da Leonardo i disegni nell’opera De divina proportione del Paciolo e gli altri nel Trattato di musica del Gafurio.
  11. Nella prima edizione leggonsi inoltre le seguenti parole: «Per il che fece nell’animo un concetto sì eretico, che e’ non si accostava a qualsivoglia religione, stimando per avventura assai più lo esser filosofo, che cristiano». Nella seconda edizione omise il Vasari un tal periodo, e fece bene, conoscendo probabilmente d’essere stato ingannato da qualche mal fondata tradizione rimasta nel volgo; imperocchè è noto che in quei tempi, nei quali lo studio delle cose naturali e speculative non era sì comune, coloro che vi si applicavano venivano dagli ignoranti facilmente presi per eretici o miscredenti, e non di rado eziandio per fattucchieri e per maghi. (Vedi più sotto, a pag. xxii, le note 1 e 2).
  12. † Vedi la Vita del Verrocchio nelle Opere di Giorgio Vasari (Firenze, Sansoni, 1878-85). Noi abbiamo documenti, i quali provano che nel 1476 Leonardo stava tuttavia nella bottega del Verrocchio. E ci pare che quando egli dipinse l’angelo nella tavola del Battesimo, non dovesse essere più fanciullo, ma facilmente giovane di più di 20 anni. Questa nostra congettura potrebbe diventare certezza, se ci fosse dato di assegnare il tempo preciso di quel dipinto. Ma il racconto del Vasari ci richiama ad altre considerazioni; cioè, in primo luogo se sia da credere così facilmente che il Verrocchio facesse così grandi maraviglie vedendo l’angelo dipinto da Leonardo nella tavola del Battesimo, quando di quel che il Da Vinci valesse nell’arte sua egli non doveva aver fatto esperienza allora per la prima volta; ed in secondo luogo se sia verosimile che il Verrocchio vedendosi vinto dal discepolo pigliasse tanto sdegno da non voler più innanzi toccare pennelli; essendo certissimi che egli tenesse aperta tuttavia la sua bottega di pittore anche nel 1476, cioè qualche anno dopo di quello, nel quale si può congetturare che fosse dipinta la detta tavola.
  13. Questo cartone è smarrito.
  14. Da gran tempo non se ne ha più notizia.
  15. Credesi esser quella posseduta dal principe Borghese a Roma. (Amoretti, pag. 168).
  16. La galleria Gaddi fu venduta, e non sappiamo qual destino avesse il disegno ora descritto.
  17. Sussiste benissimo conservata nella galleria di Firenze, nella sala ove sono i quadri di piccola mole, appartenenti alla scuola toscana. La stampa a contorni vedesi nel t. III della prima serie della Galleria di Firenze illustrata, tav. cxxviii.
  18. Quest’angelo, creduto per lungo tempo smarrito, fu trovato da un negoziante e ristauratore di quadri presso un rigattiere, ma in istato così mal concio che vari professori e intendenti, cui per l’avanti era caduto sott’occhio, non avevano neppur sospettato che fosse opera di Leonardo: nondimeno il nominato ristauratore colle industrie dell’arte sua giunse a dargli un aspetto plausibile e tale da pretenderne buona somma. Fu acquistato dipoi da un signore russo.
  19. Vedi nella parte seconda del Commentario la descrizione dei disegni del Vinci che sono nella raccolta della galleria di Firenze.
  20. * Questo ebbe, voluto dal senso, manca nella seconda edizione, per difetto di stampa.
  21. Non si sa dove oggi si trovino questi disegni. Nel museo Britannico ve ne ha parecchi di consimili. Una testa virile di profilo, bianca e nera su carta turchina, e la stessa veduta di faccia, eseguita con matita e biacca su carta del medesimo colore. Due fogli di caricature tratteggiate di penna, ecc. (Vedi Passavant, Viaggio artistico, pag. 225). Un buon numero delle sue caricature è stato inciso nelle Variae figurae et probe artem picturae incipiendae juventuti utiles, a Wenceslao Hollar Boh., aq. f. aere inc. anno 1745, xiv fol. c. tit. (dai disegni posseduti dal conte d’Arundel); Variae figurae monstruosae a Leon. da Vinci delineatae, aere inc. a Jacobo Sandrart, Ratisbonae, 1654, in-4o; Recueil des Tètes de caractère et de charge, dessinèes par Léonard de Vinci fiorentin, et gravées par le C.[omte] de C.[aylus], 1730, in-4o. Queste ultime furono incise di bel nuovo da G. A. P. in Augusta, in-fol. Se ne trovano anche nelle collezioni del Gerli e del Chamberlain. I nomi delle persone, scritti in dialetto milanese, dimostrano che Leonardo disegnò queste caricature dal vivo, e propriamente in Milano. Narra il Lomazzo, Trattato della pittura, lib. II, cap. 1, che volendo una volta Leonardo «fare un quadro di alcuni contadini che avessero a ridere (tutto che non lo facesse poi, ma solamente lo disegnasse), scelse certi uomini quali giudicò a suo proposito, ed avendoglisi fatti familiari, col mezzo di alcuni suoi amici gli fece un convito; ed egli sedendogli appresso, si pose a raccontare le più pazze e ridicole cose del mondo, che gli fece, quantunque non sapessero di che, ridere alla smascellata. Donde egli osservando diligentissimamente tutti i loro gesti con quei detti ridicoli che facevano, impresse nella mente; e poi, dopo che furono partiti, si ritirò in camera, ed ivi perfettamente li disegnò, in tal modo che non movevano meno essi a riso i riguardanti, che si avessero mosso loro le novelle di Leonardo nel convito».
  22. Si conserva adesso nella Tribuna della R. galleria di Firenze. Il disegno inciso trovasi nell’opera sopra citata (nota 13) serie I, t. II, tav. lxxxviii. † Noi crediamo che questa tavola dell’Adorazione dei Magi sia quella commessa a Leonardo nel marzo del 1481 dai monaci di San Donato a Scopeto fuori di Firenze per l’altare maggiore della loro chiesa, al prezzo di 300 fiorini d’oro. Ed in questa opinione ci conferma il vedere che il medesimo soggetto dipinse Filippino Lippi nella tavola che per quello stesso altare gli fu allogata sedici anni dopo: e che oggi è nella galleria predetta. Ebbe Leonardo ancora a dipingere dai Signori e Collegi con deliberazione del 1o di gennaio 1478 la tavola della cappella di San Bernardo nel palazzo pubblico, la quale otto giorni innanzi essi avevano allogata a Pietro del Pollaiolo, e poi toltagli, senza che se ne sappia la cagione. Ma Leonardo, sebbene da un pagamento di 25 fiorini fattogli per questo conto si mostrerebbe che avessela cominciata, non la fece poi altrimenti, restandone solamente il cartone, secondo il quale Filippino dipinse nel 1485 la tavola con Nostra Donna, e varî santi, che si vede presentemente nella suddetta galleria. Vedi Documenti inediti risguardanti Leonardo da Vinci, pubblicati da G. Milanesi, Firenze, 1872.
  23. * È ormai provato, che Leonardo era a Milano sino dal 1483. Vedi Amoretti, Mem. cit., pag. 27-32; e vedi anche nella terza parte del Commentario che segue a questa Vita.
  24. * Che Leonardo si occupasse in siffatte invenzioni, appare anche da una nota del codice Atlantico dell’Ambrosiana, segnato Q. R., pag. 28; e in un codice Trivulziano in pergamena, contenente un trattato di musica di Prete Florentio, dove si vede ritratto Leonardo con una chitarra in mano, tra gli ornati del frontespizio. (Amoretti, Mem. cit., pag. 32). † Questo codice in ottavo di foglio ha nell’occhietto una cartella quadrilunga col fondo azzurro, sul quale è scritto a lettere d’oro: Florentii musici sacerdotisque ad illustrissimum ac amplissimum dominum et dominimi Ascanium Mariani Sf. Vicecomitatem ac Sancti Viti diaconum cardinalem dignissimum, Liber musices incipit. La cartella è contornata da un fregio a girali di fiori di più colori tramezzato da tondi con mezze figure, putti ed imprese sforzesche. In basso è lo stemma degli Sforza Visconti sormontato dal cappello cardinalizio. Nella carta che segue è il principio del libro. Dentro una cartella di fondo azzurro è il titolo a lettere d’oro: Florentius musicus et sacerdos ill.mo ac amplissimo Ascanio card.li domino suo. Nella iniziale è il prete Fiorenzo col libro in mano. Nel fregio sono i soliti ornamenti a fiorellini e girali di foglie e medaglioni con mezze figure e imprese. Da basso l’arme suddetta. Queste miniature, che si dicono senza nessuna ragione di Leonardo, hanno tutte le qualità che furono proprie di Attavante miniatore fiorentino, al quale non dubitiamo di assegnarle. Intorno a questo codice vedi Girolamo D’Adda, Leonardo da Vinci e la sua libreria, Milano, 1873, in-8o. Nella stessa casa Trivulzio è un altro codicetto, chiamato La Grammatica del conte di Pavia, o di Massimiliano Sforza figliuolo di Lodovico il Moro. Ha dieci miniature assai belle, che si vogliono di Leonardo, ma a noi pare di vedervi invece la mano di Fra Antonio da Monza, miniatore eccellente, sebbene poco noto.
  25. * Questo quadro non esiste più nella galleria imperiale di Vienna, e sembra essere andato smarrito.
  26. * Questo maraviglioso dipinto, che dal Lanzi vien detto, e a buon diritto, essere il compendio di tutti gli studi e di tutti gli scritti di Leonardo, fu inciso, come è ben noto, nel 1800 da Raffaello Morghen, in-folio grande; ed è stimato il capolavoro di questo incisore: fu in seguito ripetuto da molti. Più tardi, per ordine del vicerè d’Italia fu copiato in musaico, e a tal uopo il cav. Bossi disegnò un cartone, che ora si conserva nella galleria Leuchtenberg di Monaco, ed eseguì in appresso il dipinto, che ora si trova in Brera a Milano. I disegni di studio che il Bossi ne fece, sopra varie copie antiche (per le quali vedi Amoretti e F. Villot, Notice des tableaux italiens exposés dans les galeries du musée national du Louvre, Paris, 1849), si trovano nella collezione ducale di belle arti in Weimar. Frutto delle osservazioni ch’egli fece su questo lavoro di Leonardo è l’eccellente libro da lui mandato alla luce nel 1810, col titolo: Del Cenacolo di Leonardo da Vinci, libri quattro, in-fol.; opera che dette materia ad una severa critica del conte Carlo Verri, stampata nel 1812. L’Amoretti (pag. 65) prova per mezzo di un documento, che Leonardo era occupato in questo lavoro fin dal 1497; e che per conseguente doveva averlo incominciato vari anni innanzi; ed il Bossi crede persino che egli vi lavorasse per ben sedici anni, cioè dal 1461 al 1497. † Gli storici moderni tengono che questa pittura fosse lavorata da Leonardo nello spazio di tre anni, cioè dal 1495 al 1498.
  27. Secondo l’Armenini ed altri, il volto del Salvatore era finitissimo. Può darsi che per l’esecuzione fosse condotto allo stesso grado delle altre teste, e che nondimeno al pittore non paresse finito, perchè mancante di quelle perfezioni che egli concepiva colla mente, ma che alla mano non era dato l’aggiungere. — * E Leonardo, dice il Lomazzo, non potè penetrare tanto oltre coll’intelletto, da conseguire questa deità nel Cristo del Cenacolo. È falso che i disegni delle tredici teste degli apostoli fossero un tempo nell’Ambrosiana. Il Pino dice che dal conte Arconati passarono al marchese Gasnedi. Poi li ebbe la famiglia Sagredo di Venezia, dalla quale li comprò il console inglese Uduny. Sembra che questi li legasse a due pittori inglesi, onde si divisero in due parti: l’una di dieci, di tre l’altra, che andò in mano di una dama inglese. Gli altri li comperò sir Tommaso Lawrence; e alla morte sua furono acquistati dal mercante di cose d’arte Woodburn. In fine, passarono nella raccolta del re d’Olanda all’Aia; e nella vendita che di quella quadreria fu fatta all’asta pubblica nell’agosto del 1850, furono rilasciati per 17,200 franchi. Questi cartoni sono fatti a pastello; il che riscontra con ciò che ne scrive il Lomazzo nel cap. v del lib. III del suo Trattato della pittura, dove dice: «.....fu molto usato (il colorire a pastello) da Leonardo Vinci, il quale fece le teste di Cristo e degli apostoli a questo modo eccellenti e miracolose, in carta». Gli apostoli sono: 1o sant’Andrea, 2o san Matteo, 3o san Giacomo, 4o san Filippo e san Taddeo, 5o san Pietro e Giuda, 6o san Giovanni Evangelista, 7o san Bartolommeo e san Tommaso, 8o Giuda Iscariote. II disegno originale di tutto il dipinto si vede nella raccolta del museo di Parigi. I primi e leggieri schizzi li possiede l’Accademia di Venezia.
  28. Alcuni credono che la testa di Giuda sia veramente il ritratto di quel priore: il che è falso; sapendosi poi che il P. Bandelli, il quale teneva allora tal carica, erat facie magna et venusta, capite magno, et procedente aetate calvo, capillisque canis consperso. Le parole di Leonardo debbono adunque riguardarsi come uno scherzo pungente proferito per mortificare l’indiscretezza del frate, e far ridere il duca alle spalle del medesimo. (V. Storia genuina del Cenacolo, ecc., del P. Dom. Pino, Milano, 1796).
  29. Rispetto a questa testa di Giuda racconta Giraldo Cinzio, ossia Gio. Batt. Giraldi, nel suo Discorso sopra i romanzi, che a Leonardo «venne per ventura veduto uno che aveva viso al suo desiderio conforme; ed egli subito, preso lo stile, grossamente lo disegnò, e con quello e con altre parti ch’egli in tutto quell’anno aveva diligentemente raccolte in varie facce di vili e malvage persone, andato ai frati, compì Giuda con viso tale, che pare ch’egli abbia il tradimento scolpito nella fronte».
  30. * Cioè Francesco I, che entrò vincitore in Milano il 16 ottobre del 1515.
  31. Vedendo quel re l’impossibilità di trasportar la muraglia, ne fece fare una copia, la quale fu collocata a San Germano l’Auxerrois. (De Pagave).
  32. Oggi si può tenere perduta anche pei Milanesi; tanto è deteriorata. Lo stesso Vasari nella Vita di Girolamo da Carpi, parlando della bella copia fattane da Fra Girolamo Monsignori, dice che nel 1566 vide in Milano l’originale di Leonardo tanto mal condotto, che non si scorgeva più se non una macchia abbagliata. Il Bottari racconta che nel 1726 fu ripulito da un tal Michel Angelo Bellotti; ma non dice di quali mezzi si servisse per ravvivarne i colori; ond’è a temere che, unitamente alle altre conosciute cause di distruzione, quali furono l’umidità, la licenza militare, ecc., quelli pure abbian contribuito a ridurlo nel deplorabile stato presente. — * Anche qui usiamo, con libertà, delle note poste nella edizione tedesca del Vasari, togliendone volentieri le seguenti bellissime considerazioni sul Cenacolo del Vinci. Nessun altro dipinto può meglio di questo dare una norma per misurare l’altezza a cui s’era levata l’arte in quei tempi, e per stabilire una comparazione cogli antecedenti periodi della pittura. Se si confronti la creazione di Leonardo col Cenacolo eseguito da Giotto, o da alcuno dei suoi discepoli, nel refettorio di Santa Croce di Firenze, o con quello di Domenico del Ghirlandaio nel piccolo refettorio di San Marco (e, aggiungeremo noi, con l’altro del pittore medesimo, nel refettorio d’Ognissanti), si vede chiaramente come la pittura delle mere rappresentazioni simboliche progredisse alle più espressive e caratteristiche, e dalla difettosa alla più perfetta bellezza. In Giotto, gli apostoli appaiono nella loro dignità di predicatori della parola divina; siedono l’un presso l’altro quasi senza alcuna espressione appassionata, e non sembrali commossi dalle parole del Redentore, se non quel tanto che loro è concesso dalla coscienza della propria missione; sono caratteri tipici disposti simmetricamente l’uno accanto all’altro. Presso il Ghirlandaio, gli apostoli appariscono ormai come uomini nobilissimi e di profondo affetto, la cui dignità non è già riposta nel sentimento della coscienza, ma nella stessa loro natura: tuttavia, benchè le invenzioni del Ghirlandaio abbiano comuni con quella di Leonardo alcuni tratti di espressione, pure quelle figure sembrano separate, manca loro la bella unità e la delicata comunicazione degli affetti, e il leggiadro aggrupparsi e il movimento; vi traspare ancora la gretta e rettilinea simmetria di Giotto. Leonardo solo seppe giungere alla più perfetta e viva bellezza sì nell’esprimere gli affetti, come nelle movenze dei corpi; seppe manifestare tutti i sentimenti del cuore umano; seppe disegnare i più vaghi gruppi e le più vaghe forme; e mentre i suoi antecessori disponevano le figure con simmetria, egli ordinò i gruppi con euritmia, vale a dire col movimento più libero, congiunto all’ordine più regolare. Qui non apparisce più la servilità del tipo o del ritratto, ma invece è creata una realità ideale tanto vera e viva, quanto nobile e spiritualissima. Qui la pittura è giunta all’apice della perfezione; ed è a dolere che la versatilità dei successivi sforzi nell’arte abbia impedito che le figure degli apostoli di Leonardo fossero riguardate come tipiche.
  33. È una Crocifissione di Gio. Donato Montorfano, che vi ha scritto il suo nome e l’anno 1495. † Sotto la Crocifissione del Montorfano dipinse Leonardo i ritratti di Lodovico il Moro, di Beatrice d’Este sua moglie e de’ figliuoli. Questi ritratti sono ora tanto guasti, che si possono riguardare come perduti.
  34. Dice il P. Gattico, citato dal P. Pino nella Storia genuina, ecc., che il Vinci aveva lavorato quei ritratti di mala voglia, e «che si sono infraciditi per essere dipinti a olio, perchè l’olio non si conserva in pitture fatte sopra muri e pietre». — * Nell’Ambrosiana si vedono i ritratti di Lodovico il Moro e di Beatrice d’Este sua moglie, dipinti a olio da Leonardo. Lodovico è d’età ancor verde, un poco magro, ma modellato egregiamente. I biondi capelli sono dipinti con estrema minuzia, ma disposti in belle masse. Ha un berretto rosso in capo, e indosso una nera veste guernita di pelle. Ritratto in busto grande quasi quanto il vivo. Beatrice è ritratta di profilo, e modellata assai finamente. I contorni un po’ duri; gli ornamenti d’oro eseguiti di colore arancio; i nastri, le perle, ecc., secondo il gusto del Van-Eyck; un po’ scure le ombre, ma distinte.
  35. Non mentre ch’egli attendeva a quest’opera, ma gran tempo innanzi fece Leonardo tal proposizione, e vi pose mano quasi subito arrivato a Milano. Per riprova, leggesi tra’ suoi ricordi che nel 1490 aveva ricominciato da capo il cavallo. (Amoretti, Memorie storiche cit., pag. 29).
  36. Del duca Francesco I Sforza, padre di Lodovico, morto nel 1466.
  37. Cioè compiere, terminare. Questa spiegazione l’abbiamo creduta non inutile affatto, poichè M. d’Argenville intese il verbo condurre nel significato di trasportare. Il modello restò compito; e Leonardo aveva calcolato che per gettarlo vi sarebbero bisognate 100,000 libbre di bronzo. Quando dovevasi fare questa operazione, sopravvennero al Moro le note disgrazie; indi nel 1499 sì bell’opera fu fatta bersaglio ai balestrieri guasconi, e in tal modo distrutta. Non fu dunque colpa di Leonardo se condur non si potè mai. — * Il Gerli (Disegni di Leonardo, ecc., pag. 5) fra alcuni schizzi riprodusse di questa statua equestre anche un’antica stampa, ch’egli crede intagliata da Leonardo stesso. Giuseppe Vallardi di Milano possiede ora questo vecchio intaglio di quattro schizzi di cavalli, senza piedistallo, ognuno con cavaliere in arcione, che tiene in mano il bastone del comando, e sembra in procinto di combattere. Due de’ cavalli hanno per punto di sostegno un guerriero che stramazzato al suolo cerca di salvarsi. Il foglio è composto di tre pezzi. † Questo vecchio intaglio è riprodotto dal marchese D’Adda nel suo articolo Léonard de Vinci, la gravure milanaise et Passavant, già ricordato. Alcuni, come il Waagen e lo stesso D’Adda, credono che un esempio della forma e dell’attitudine del cavallo e del cavaliere modellato da Leonardo si possa avere nella miniatura, facilmente di Fra Antonio da Monza, posta nel libro ms. di Bartolommeo Gambalonga cremonese, contenente la vita di Sforza Attendolo padre di Francesco duca di Milano. In essa miniatura è rappresentata la statua equestre del detto Sforza sotto un arco. Altri vorrebbero riconoscerlo in un disegno che è all’Ambrosiana sotto cristallo, ed altri in uno schizzo di cavallo che si vede nel codice Atlantico.
  38.      ..........Tu sai l’esser mio,
         E l’amor di saper, che m’ha sì acceso,
         Che l’opra è ritardata dal desio.
                   (Trionfo d’Amore, cap. iii).

  39. Marc’Antonio della Torre veronese, celebre anatomico, morì di trent’anni. Il Giovio ne fece l’elogio. Di lui e di altri uomini illustri della famiglia Della Torre si trovano notizie nella Verona illustrata del Maffei, p. II, lib. 4o.
  40. † Qui manca evidentemente qualche parola, come di corpi umani, altrimenti il costrutto non corre.
  41. Credesi che quella testa di giovinetto coi capelli inanellati incisa nella tav. iv della raccolta pubblicata dal Gerli sia il ritratto di Francesco Melzi. — * Il Melzi non solo fu amato da Leonardo, ma fu anche suo discepolo; nacque nel 1492, come ci scopre un ricordo di Leonardo stesso. (Amoretti, op. cit., pag. 53 in nota). Lavorò poco, perchè era ricco, ma i suoi quadri sovente confondonsi con quelli del maestro. A Vaprio, nel palazzo della famiglia Melzi, rimane ancora il frammento di una Madonna col putto, dipinto in fresco in proporzione colossale, che con buone ragioni vuolsi attribuire a Francesco Melzi. Se ne ha una incisione nella citata Raccolta del Fumagalli. Il Mariette, in una lettera al conte di Caylus, che è la lxxxiv del secondo volume delle Pittoriche, parla di un quadro rappresentante una Flora, posseduto dal duca di Saint-Simon a Parigi, che tanto tiene della maniera di Leonardo, da giudicarla di lui, se il Melzi non vi avesse scritto il proprio nome. Di questo quadro non sappiamo dare altre notizie. La pinacoteca di Berlino, secondo il Catalogo del Waagen, ha del Melzi una Pomona seduta sotto un olmo intrecciato a una vite, con un canestro di frutti nelle mani, che ascolta le parole del dio Vertunno. Il volume dei disegni anatomici di Leonardo oggi è in possesso dell’Inghilterra. Contiene 235 fogli di carta turchina, o colorita, in-folio grande, su’ quali sono appiccati i disegni. (Vedi Gallenberg, op. cit., pag. 172). Due di queste tavole con molta scrittura, come pure il ritratto di Leonardo, del quale si parla più sotto, furono incise nelle Imitations of Original-Designs by Lionardo da Vinci, dello Chamberlain, London, 1796, in-fol. Come dalla eredità Melzi passasse per diverse mani al re d’Inghilterra è detto nella prefazione dell’opera, pag. 10 e segg. Leonardo usava di scrivere da destra a sinistra a rovescio; così sono tutti i suoi autografi. Il dott. Guglielmo Hunter, nella Introduzione al suo Corso d’anatomia (Londra, 1784), loda i disegni anatomici di Leonardo per la straordinaria esattezza con la quale sono rappresentate le parti più minute dei muscoli, ecc. † Nella Raccolta del castello di Windsor è lo spaccato di due corpi congiunti, che Leonardo immaginò per ispiegare il modo della fecondazione, che fu dato inciso dallo Chamberlain nel 1812 e poi riprodotto litograficamente a Brunswick nel 1830 col titolo: Tabula anatomica Leonardi Vincii summi quondam pictoris e bibliotheca augustissimi magnae Britanniae Hannoveraeque regis deprompta, venerem obversam e legibus naturae hominibus solam convenire intendens (Vedi G. Govi, nel Saggio dell’opere di Lionardo da Vinci, pag. 7).
  42. * Rimangono tuttavia due ritratti di Leonardo disegnati di sua mano. Il primo è nella collezione della Regina d’Inghilterra; è di profilo, fatto di matita rossa: fu pubblicato dallo Chamberlain, op. citata. Avvene una copia nell’Ambrosiana, edita dal Gerli. Sembra che un’altra ne possegga la collezione nazionale parigina. Questo ritratto mostra grande acutezza e vivacità. Il secondo ne presenta quasi tutta la faccia, disegnato anch’esso di matita rossa; ed appartiene alla collezione dell’Accademia di Venezia. Un facsimile con un passo del Lomazzo precede al Cenacolo del Bossi. In questo secondo ritratto il suo aspetto è molto più energico; è una testa bellissima. Quello che, secondo il De Pagave, era dipinto a Vaprio, non esiste più. Nella galleria di Firenze trovasi il ritratto di Leonardo dipinto da sè stesso; mezza figura, di tre quarti in profilo, inciso dal Morghen. Il signor Giovanni Gagliardi, mercante e restauratore di quadri in Firenze, possiede un altro bel ritratto in tavola, vòlto di profilo a sinistra, il quale, se è dubbio che sia dipinto da Leonardo medesimo, è certo per altro che è la stessa testa posta dal Vasari in fronte alla Vita di questo pittore. † Il ritratto già posseduto dal pittore Gagliardi, e proveniente dalla galleria Guiducci di Firenze, passò l’anno 1855 nelle mani del signor Orazio Buggiani, negoziante fiorentino in Londra. Un altro ritratto di Leonardo, da un disegno in matita rossa conservato nella biblioteca privata del Re a Torino, fu riprodotto in fotolitografia nel già ricordato libro in-folio stampato dal Ricordi in Milano nel 1872 col titolo: Saggio delle opere di Lionardo da Vinci, ecc.
  43. † Questo pittor milanese si potrebbe congetturare che fosse Aurelio Luini.
  44. È questo il famoso Trattato della pittura, stampato per la prima volta a Parigi col titolo: Trattato della pittura di Lionardo da Vinci, nuovamente dato in luce, colla vita dell’Autore, scritta da Raffaello Du Fresne, ecc. (Parigi, 1651, in-fol. fig.). Le vicende e le varie edizioni di questo libro sono accennate dal Gallenberg, a pag. 159 e segg. Le edizioni più recenti sono quelle del Fontani (Firenze, 1792), il quale si giovò di una copia a penna assai corretta di Stefanino della Bella, che si conserva tra i codici della Riccardiana n. 2275; quelle di Parigi del 1796 e 1803; la milanese del 1804, fatta per cura dell’Amoretti; e finalmente la romana del 1817, procurata da Guglielmo Manzi sopra un codice Vaticano già appartenuto alla biblioteca d’Urbino, e probabilmente esemplato sull’autografo dal Melzi o dal Salai: e questa debbesi tenere per la più compiuta e ordinata edizione.
  45. * Secondo il Lomazzo, fu questi Francesco I, ed allora ne conseguirebbe che Leonardo era in Milano nel 1515, anno della venuta di detto re in questa città. (Vedi Trattato della pittura, lib. II, cap. 1).
  46. Salai, o Salaino, fu scolaro e servitore di Leonardo; anzi nel testamento di questo è indicato soltanto colla seconda qualità. — * Egli era piaciuto a Leonardo al pari del Melzi, perchè giovane di bellissimo aspetto e di maniere graziose; e servivasene di modello per dipingere angeli o altre figure leggiadre. Oltre il quadro della Sant’Anna dipinto sul cartone del maestro, indicato più sotto, la pinacoteca di Brera tiene per opera del Salai tre tavole di Nostra Donna; una delle quali, rappresentante il Riposo in Egitto, vedesi incisa nella citata Raccolta del Fumagalli. Nella stessa pinacoteca, trasportatovi dalla chiesa di San Pietro di Murano fin dal 1811, è il quadro colla Madonna, il Putto, san Giuseppe, san Girolamo e due cherubini, sottoscritto: andreas mediolanensis 1495 f. Anche il museo Nazionale di Parigi possiede un’altra tavola colla Crocifissione segnata parimente andreas mediolanensis • fa. 1503: ma l’Andrea di questi due quadri è Andrea Solario, e non il Salai. Altro quadro firmato (si dice) del Salai, rappresentante la Fuga in Egitto, troviamo descritto in un catalogo tedesco di una raccolta di quadri originali a olio, posti in vendita a Lipsia nel 1845.
  47. * Cioè nell’anno 1499, dopo che il Moro perdette la signoria di Milano. Leonardo ritornò a Firenze col matematico Fra Luca Paciolo, e fece i disegni del suo trattato De divina proportione. Fra Luca aveva dimorato con Leonardo in Milano negli ultimi tre anni; poi, anche a Firenze. (Vedi Gaye, nel Kunstblatt, anno 1836, pag. 287).
  48. * L’original cartone, narra il Lomazzo, di Francia tornò in Italia, e fu posseduto da Aurelio Luino, figliuolo di Bernardino stato scolare del Vinci. Al presente esso si conserva nella R. Accademia delle belle arti di Londra. Fu intagliato (non bene) da Antonio Smith nel 1798 in-folio grande.
  49. * È la stessa Ginevra de’ Benci ritratta di profilo dal Ghirlandaio nel coro di Santa Maria Novella. Dove oggi si trovi questo ritratto dipinto da Leonardo, è quistione. Gli annotatori del Vasari tradotto in tedesco vorrebbero riconoscerlo in quello d’ignota donna, veduta quasi di faccia (detta la monaca di Leonardo), che sotto Ferdinando III dalla casa Niccolini passò per compera nella R. galleria de’ Pitti; e del quale si vede un intaglio nel vol. II della detta Galleria illustrata. (Il coperchio o tirella di questo ritratto, dipinto con ornamenti a chiaroscuro ed una maschera a colore, piena di verità, con sopra una cartella, scrittovi dentro di lettere romane nere: sua quique persona, oggi è posseduto dal barone Ettore de Garriod, in Firenze). Ma se il bellissimo dipinto de’ Pitti non cade dubbio che sia di Leonardo, non sapremmo per altro così facilmente persuaderci che e’ sia la Ginevra. Il Delécluze (Saggio intorno a Leonardo da Vinci, edizione italiana da noi citata altre volte) vuole sia quello che nel museo del Louvre a Parigi è conosciuto sotto il nome della bella Fèronnière; ma ciò non è neppure accennato nel Catalogo ragionato del Villot (Paris, 1849), nè dal Mündler nella sua Analisi critica di detto catalogo (Paris, 1850). Il prof. Rosini a pag. 294 del t. III della sua Storia pone un intaglio della Ginevra del Ghirlandaio a riscontro di un altro ritratto egualmente di profilo, da lui posseduto, e che per la somiglianza della fisonomia e dell’abbigliamento mostra esser la stessa donna de’ Benci. Coll’additarne poi la provenienza dalla casa Niccolini, donde uscì la monaca, e dove nel 1472 entrò maritata la Ginevra, e col notare la purità e maestria del dipinto, studiasi il Rosini di far persuasi i lettori che egli è il fortunato possessore del quistionato ritratto.
  50. Fu terminato dal Perugino.
  51. * Francesco di Bartolommeo di Zanobi del Giocondo nacque nel 1460. Fu de’ XII Buonomini nel 1499, e de’ Priori nel 1512. Approvato nello squittinio del 1524. Morì di pestilenza nel 1528. Ebbe tre mogli, cioè Camilla di Mariotto Rucellai, sposata nel 1491; Tommasa di Mariotto Villani, nel 1493; e Lisa di Anton Maria di Noldo Gherardini, nel 1495; e questa è la Bella Gioconda ritratta da Leonardo.
  52. * Oggi questo ritratto si conserva nel museo del Louvre, ma sfiorato grandemente da un cattivo restauro. È una giovane donna in mezza figura, veduta di faccia, con capelli sciolti, un velo in testa, e col seno alquanto scoperto. Siede sur una seggiola a braccioli, in uno dei quali posa il braccio e la mano destra, e ad essa sovrappone la sinistra. Dietro a lei è una spalliera di muro, dalla quale si vede una campagna spogliata e montuosa. Francesco I pagò questa tavola 4000 scudi d’oro, che equivalgono a 45,000 franchi. Di questo ritratto si conoscono molte copie; ed alcune eccellenti: come in Firenze in casa Mozzi; nel museo di Madrid; nella villa Sommariva sul lago di Como; presso il Torlonia a Roma; a Londra presso Abramo Hume, e presso Woodburn; e nell’Hermitage di Pietroburgo, venutovi da Houghtonhall; e finalmente havvene un’altra copia nella pinacoteca di Monaco, della quale si vede una litografia nel vol. II dell’opera: La galleria di Monaco illustrata, 1817-21 (in tedesco).
  53. * Il cartone del Vinci, fatto a concorrenza col Buonarroti per la sala del Consiglio, dopo aver servito di studio ai più grandi artefici di quell’età, andò disperso, e solo ne fu serbata la memoria da qualche incisione. Il gruppo, quale è descritto dal Vasari, lascia in dubbio se il cartone di Leonardo rappresentasse la battaglia combattuta nel 1440 presso Anghiari tra i Fiorentini e Niccolò Piccinino, condottiere delle genti di Filippo Maria Visconti duca di Milano, della quale Leonardo lasciò scritto in una nota tutta la composizione (Amoretti, Memorie cit., pag. 95); o sivvero un episodio di quella, cioè a dire il combattimento di cavalieri intorno a una bandiera. È probabile che, siccome il Vasari non ricorda nessun altro gruppo, ed anche Benvenuto Cellini fa particolar menzione di questo solo nella sua Vita, Leonardo rappresentasse unicamente un episodio di quella battaglia. Le copie di questo gruppo, che oggi si conoscono, sono le seguenti: 1o Una, non finita, dipinta in tavola, è registrata nell’inventario della galleria di Firenze fatto nel 1635 e nei successivi come opera di Leonardo stesso; ma noi, che abbiamo trovato questa tavola nei depositi della R. guardaroba in palazzo Vecchio, siam persuasi che non sia di sua mano. 2o Una incisione in foglio trasversale che sembra fatta su questa tavola, colla scritta: ex tabella propria Leonardi Vincii manu picta opus sumptum a Laurentio Zacchia Lucensi ab eodemque nunc excussum 1538. 3o Un altro intaglio dell’Edelink, che si vuol fatto secondo un disegno molto libero del Rubens; che è il più bello, e più rispondente alla descrizione del Vasari. 4o Un debole intaglio nella tav. xxix della Etruria pittrice, cavato da un antico disegno esistente in casa Rucellai, che si dice copia dell’originale cartone; e questo corrispondente alla tavola non finita, che abbiamo rammentato di sopra. 5o Una litografia pubblicata dal pittore francese Bergeret sopra un disegno posseduto da lui stesso. La descrizione del Vasari non concorda pienamente con queste composizioni. Egli dice assalitore quel cavaliere che tiene la bandiera colle due mani e sopra le spalle, e possessori e difensori della bandiera medesima i due avversari; mentre i disegni mostrano il contrario. Egli parla anche di quattro cavalieri, cui resisterebbe quel primo, mentre tutto il gruppo non si compone che di quattro. Di questa poca precisione del Vasari non è da far meraviglia, nè sono rarissimi gli esempi: quindi non può essere argomento per tener falsi i ricordi che giunsero fino a noi. Nel disegno ch’è presso il Bergeret vedesi anche il capitano Piccinino precipitato da cavallo e il destriero fuggente. Sebbene alcuni abbian difeso l’autenticità di questo gruppo, riconoscendolo per uno studio fatto da qualche discepolo di Leonardo, pure si tiene, e con assai più ragione, per una contraffazione; poco rileva se di mano antica o moderna. † Una bella incisione di questo gruppo di cavalieri fu fatta non sono molti anni dal signor Henry Haussoullier, pittore francese.
  54. I documenti pubblicati dal Gaye (Carteggio, ecc., II, 88-89), curiosi ed importanti per le particolarità minute intorno alle spese de’ colori, d’olii, d’ordigni, ponti, ecc., fatte per questo lavoro, provano chiaramente che Leonardo vi attese quasi interi i due anni 1504 e 1505, e che, oltre alla esecuzione del cartone, egli condusse molto innanzi anche il dipinto: tanto che a’ 30 d’aprile 1513 si trova il ricordo seguente: «A Francesco di Chappello, «legnaiuolo lire 8.12, per braccia 43 d’asse, ecc., per armare intorno le figure dipinte nella sala grande della guardia, di mano di Lionardo da Vinci, per difenderle che le non sieno guaste». A questo s’aggiunge la testimonianza del Memoriale dell’Albertini, impresso nel 1510, dove, tra le cose della sala grande nuova del Consiglio major, si nominano li cavalli di Leonardo Vinci, et li disegni di Michelangelo. Se poi quest’affresco perisse per la cattiva composizione dell’intonaco e dei colori, come dice il Vasari, ovvero per i mutamenti fatti in quel luogo, non sappiamo risolvere: forse per l’una e per l’altra cagione insieme. Il che viene confermato anche dal Gaye, vol. II, pag. 88. Per questo lavoro aveva 15 fiorini larghi d’oro in oro al mese. Ebbe compagni ed aiuti Raffaello d’Antonio di Biagio e Ferrando Spagnolo. † Non si conosce fino ad ora il preciso tempo in cui fu allogata a Leonardo questa pittura. Si può nondimeno congetturare che cada verso l’ottobre del 1503. Infatti sotto il dì 24 di quel mese i Signori e Collegi comandano al Massaio della Camera dell’arme di consegnare a Leonardo la chiave della sala del Papa e delle altre stanze attigue. (Protocollo delle deliberazioni de’ Signori e Collegi dal 1501 al 1504). Il primo ricordo di questo lavoro si ha da un ordine della Signoria agli Operai di Santa Maria del Fiore del 16 di quel mese ed anno, perchè prestino tutto il legname occorrente a riattare il tetto del tinello della sala del Papa in Santa Maria Novella, e da un altro dell’8 gennaio seguente, nel quale si commette ai detti Operai di prestare diverse sorti di legname che bisognava per fare nella detta sala certum quid circa picturam fiendam per Leonardum de Vincio pro palatio dictorum Dominorum. (Deliberazioni degli Operai di Santa Maria del Fiore dall’anno 1496 al 1507, carte 73 verso e 75). Intorno a questo lavoro noi abbiamo una deliberazione de’ Signori e Collegi di Firenze del 4 di maggio del detto anno 1504 (pubblicata nel Giornale storico degli archivi toscani, vol. II, pag. 137), nella quale fu stabilito che Leonardo dovesse aver finito il cartone dentro il mese di febbraio 1505; che per questo lavoro gli si desse a buon conto 15 fiorini d’oro ciascun mese, intendendosi cominciare il primo mese a’ 20 del prossimo passato aprile del detto anno; e che qualora egli non avesse compito il cartone dentro il predetto tempo, i Signori potessero costringerlo alla restituzione de’ denari avuti per quel conto, ed a rilasciare libero il detto cartone; e finalmente che venendo bene a Leonardo di dipingere sul muro quella parte del cartone che avesse disegnato e finito, i detti Signori si sarebbero contentati di dargli ciascun mese quel salario che per tale pittura fosse giudicato conveniente; prolungando in questo caso il tempo assegnatogli per finire il cartone, e promettendo di non allogare la pittura sul muro ad altri senza espresso consenso di lui; il quale dovesse intanto confessare per contratto di aver ricevuto 35 fiorini d’oro in oro già pagatigli innanzi, e tutti gli altri denari che per tale cagione avesse dipoi avuto. Nei libri degli Ufficiali dell’Opera del Palazzo si hanno le partite delle spese fatte per quest’opera, in parte riferite dal Gaye (Carteggio, II, pag. 88). Esse cominciano dal 28 di febbraio 1503 (stesso carteggio 1504) e vanno al 30 d’ottobre 1505, rilevandosi che Leonardo lavorò intorno al cartone fine al febbraio del 1504, e che da questo tempo innanzi attese alla pittura nella sala del Consiglio. Da queste partite è assai curioso il ricavare che per fare il cartone fu adoperata una risma e 29 quaderni di fogli reali, per impastarlo 88 libbre di farina, e per orlarlo un lenzuolo di tre teli. Per la pittura poi furono consumate 663 libbre di gesso, 89 di pece greca, 223 d’olio di lin seme, 48 di biacca alessandrina, 36 di bianchetta soda, 11 sole once d’olio di noce, ed alcuni fogli d’oro. Ma mentre Leonardo lavorava alla detta pittura, pare che nel maggio del 1506 fosse richiesto d’andare a Milano da Carlo d’Amboyse signore di Chaumont, governatore di quella città per Lodovico XII re di Francia. E la Signoria per concederglielo volle che Leonardo promettesse con contratto del 30 di quel mese, rogato da ser Niccolò Nelli notaio fiorentino, che dopo tre mesi si sarebbe presentato personalmente in Firenze innanzi alla Signoria, sotto pena, non osservando, di 150 fiorini d’oro in oro larghi, entrandogli mallevadore per questa somma messer Leonardo Bonafè spedalingo di Santa Maria Nuova. Erano per finire que’ tre mesi, quando lo Chaumont avendo tuttavia bisogno di Leonardo per finire certa sua opera commessagli, scrisse ai 18 d’agosto alla Signoria di Firenze, pregandola che non ostante la promessa fatta, volesse prolungare a Leonardo il tempo della sua assenza almeno per tutto il mese di settembre, come più largamente è detto in altra lettera indirizzata alla Signoria il 19 del medesimo mese dal vicecancelliere Jafredo Caroli (e non Kardi, come è stampato nel Gaye). A queste due lettere rispondeva la Signoria con una del 28, che doveva esser comune ad ambedue; la quale, per essere inedita, ci par bene di pubblicare. Essa dice così: «Domino de Ciamonte et Domino Jafredo Caroli vicecancellario, Mediolani, eiusdem exempli, die 28 augusti 1506. — Ill.me Domine etc. Hieri riceuemo una di V. Excellentia, et uisto el desiderio suo, hauendo in animo compiacerla sempre in quello che ci sarà possibile, siamo contenti che mo Lionardo possa soprastare tutto il mese di septembre proximo con buona gratia nostra, ad ciò V. S. se ne possa valere in quello li occorre: et volendo anchora stare di costà più tempo, ogni volta ci renda indrieto li denari presi per l’opera, quale non c’altro non ha incominciato, saremo contenti lo facci: et di questo ce ne rimediamo a lui». (Archivio di Stato in Firenze, Registri del Carteggio della Signoria dal 1504 al 1507, n. 54, carte 161). Nella chiusa di questa lettera la Signoria usa con qualche ragione parole piuttosto risentite contro Leonardo, ma dice cosa contraria al vero quando afferma che egli non aveva neppur cominciata l’opera, perchè dalle partite de’ citati libri degli Ufficiali dell’Opera del Palazzo apparisce chiaramente che Leonardo aveva già condotto a fine il cartone, e messo mano fin dal febbraio del 1504, cioè da 17 mesi, alla pittura della sala. Dalla lettera di Pier Soderini del 9 ottobre del medesimo anno al detto Jafredo Caroli in risposta ad una del Ciamonte del 18 d’agosto, il quale era allora fuori di Milano, parrebbe che Leonardo non fosse a quel tempo ritornato a Firenze. In essa le parole del gonfaloniere perpetuo rispetto a Leonardo sono ancora più risentite di quelle che si leggono nella lettera riferita innanzi. Solamente quando il re Lodovico, e per mezzo di Francesco Pandolfini ambasciatore della Repubblica in Francia e con sua lettera del 18 gennaio 1507, richiese alla Signoria di contentarsi che Leonardo non si partisse da Milano fino alla sua venuta in Italia, intendendo di valersi di lui per una certa sua opera, che sappiamo essere stata la pittura d’una tavola, la risposta della Signoria del 22 di gennaio al Pandolfini predetto e la lettera a Leonardo del giorno stesso furono in altri termini e di molta benevolenza verso l’artista. Così in quella al primo gli commette che faccia intendere a quella Maestà che la Signoria non poteva avere maggior piacere che farle cosa grata, e che non solo Leonardo, ma ogni altro suo uomo avrebbe voluto che la servisse ne’ desideri e bisogni suoi. E nell’altra a Leonardo dice esserle sempre gratissimo che egli serva quella Maestà, stimando che avesse a riuscire a lui di comodo e di onore. Dopo questo tempo nè di Leonardo, nè della pittura della sala non si trova altro ricordo ne’ pubblici libri, salvo quello già citato del 1o marzo 1513, che registra la spesa di armatura di legname a la pictura fecie Lionardo da Vinci, perchè la non si guastassi. Nondimeno si guastò, e da più secoli così la pittura come il cartone sono miseramente perduti: toccando all’opera di Leonardo sorte eguale a quella che incontrò l’altra di Michelangelo fatta contemporaneamente per lo stesso luogo. Le suddette due lettere di Luigi XII re di Francia alla Signoria di Firenze, l’una da Blois del 18 di gennaio, l’altra da Milano del 26 di luglio 1507, furono tratte dai loro originali conservati nell’Archivio di Stato in Firenze, e pubblicate in fine della traduzione fatta da Carlo Milanesi e Carlo Pini, stampata in Siena nel 1844 per Onorato Porri, dell’operetta francese del signor E. Delécluze, Essai sur Lionard da Vinci. Nella seconda di esse raccomanda che sia data la più presta spedizione alla lite che Leonardo aveva co’ fratelli per cagione della eredità di Francesco suo zio. I più de’ passati scrittori vorrebbero questa lite fosse stata ancora sull’eredità paterna, ma noi siamo certi che si trattava solamente dell’eredità dello zio, il quale con suo testamento del 12 agosto 1504 rogato da Girolamo Cecchi (i cui protocolli mancano nell’Archivio de’ Contratti di Firenze) aveva fatto erede Leonardo di alcuni suoi poderi posti nel comune di Vinci: onde dopo la morte di Francesco, accaduta verso il 1507, nacque la detta lite tra Leonardo e i suoi fratelli. A noi non è riuscito fino ad ora di ritrovarne gli atti, e di saperne perciò l’esito: ma da altri documenti possiamo congetturare che de’ beni lasciati da Francesco da Vinci i fratelli di Leonardo disposero, dopo la morte di lui, a favore di madonna Lucrezia, ultima moglie di ser Pietro, per rifacimento della sua dote.
  55. * Qui è una lacuna di ben sette anni nelle notizie di Leonardo, che tanti ne corrono dall’opera per la sala del Consiglio, al 1513, anno della incoronazione di papa Leone. Suppliremo a questa mancanza nel Commentario posto in fine.
  56. Di questi due quadri, l’uno credesi perito, l’altro si dice essere nella galleria di Düsseldorf.
  57. Intorno a una Santa Famiglia, che credesi fatta per papa Leone, vedi il Commentario.
  58. Il Vasari accenna in questo luogo molto oscuramente a certa rivalità nata tra Michelangelo e Leonardo, negli ultimi tempi che questi visse in Firenze.
  59. «Sebbene (dice l’Amoretti, pag. 119) da tutto l’insieme della vita di Leonardo non consti ch’egli fosse un uomo divoto, non appar nemmeno che incredulo fosse o libertino; onde dobbiamo interpretare l’espressione del Vasari d’una specie d’abdicazione a tutte le cose mondane, e d’una determinazione di occuparsi unicamente del grande affare della morte e dell’avvenire».
  60. Nella prima edizione questo passo era stato scritto dal Vasari nei seguenti termini, analoghi all’altro periodo riferito sopra alla nota 1, pag. vi: «Finalmente venuto vecchio, stette molti mesi ammalato; e vedendosi vicino alla morte, disputando delle cose catoliche, ritornando nella via buona, si ridusse alla fede cristiana con molti pianti». Contraddice a questa narrazione il testamento di lui fatto in Cloux un anno prima della sua morte, cioè a’ 18 d’aprile 1518. (Si legge nel libro dell’Amoretti a pag. 121 e seg.). In esso «raccomanda l’anima sua ad nostro Signore messer Domine Dio, alla gloriosa Virgine Maria, a monsignore Sancto Michele, e a tutti li Beati, Angeli, Sancti e Sancte del Paradiso». Ordina di essere seppellito nella chiesa di San Florentino d’Amboise, indi «vole siano celebrate ne la dicta chiesa di Sancto Fiorentino tre grande messe con diacono et sottodiacono, et il dì che si diranno dicte tre grande messe, che si dicano ancora trenta messe basse de Sancto Gregorio». Gli stessi suffragi vuole che si ripetano nella chiesa di San Dionisio e in quella dei frati Minori d’Amboise. Tali disposizioni sono da buon credente; però è ragionevole il supporre che, occupato per tutta la vita dell’arte sua, senza essere irreligioso, avesse negletto le pratiche di religione; ma che vicino a morte ne provasse rincrescimento e cercasse di ripararvi colle pie conferenze, colle lacrime, coi sagramenti.
  61. Questo fatto è da molti posto in dubbio; primieramente perchè è provato che Leonardo morì a Cloux presso Amboise, mentre che la Corte era a Saint-Germain en Laye; e da un giornale di Francesco I, conservato nella biblioteca Nazionale di Parigi, non apparisce che il re facesse in quel tempo veruna gita. In secondo luogo, perchè Francesco Melzi nella lettera, colla quale dà ragguaglio della morte di Leonardo ai fratelli di lui, non parla di questa circostanza, che sarebbe stata sì onorevole; e finalmente perchè il Lomazzo, che tante notizie raccolse intorno a questo grand’uomo, non solamente non conferma quanto racconta il Vasari, Michelangelo era allora incaricato da Leon X di costruire la facciata di San Lorenzo. Sembra che Leonardo entrasse in concorrenza con lui, e che ciò forse inducesse Michelangelo a recarsi a Serravezza per cavare del marmo. Però il Vasari nella Vita di lui non ricorda alcuna circostanza che possa accennare a questo sdegno tra i due grandi maestri, la cui rivalità doveva essersi precipuamente palesata nel 1503, quando essi attendevano all’opera de’ cartoni per la sala del Consiglio. Fra i disegni di Leonardo, che erano nella raccolta di Tommaso Lawrence, trovasi un concetto per un monumento sepolcrale (eseguito con colore scuro e a penna, 13 pollici e 3/4 sopra 11), che si crede fatto in concorrenza con Michelangelo per il monumento di Giulio II. (Woodburn, The Lawrence Gallery, 5th exhib., n. 72). Questa concorrenza va sicuramente riportata sotto l’anno 1513, quando, dopo la morte di Giulio II, si pensò a rifare il concetto del suo monumento; e forse Leonardo, che dal 1513 al 1515 dimorò in Roma, fu invitato a presentare anche egli un concetto. A ciò potrebbe alludere questo passo del Vasari. † Di questa mala disposizione d’animo di Michelangelo verso Leonardo abbiamo un altro esempio a proposito d’un aneddoto riferito dall’autore anonimo della Vita del Vinci pubblicata ne’ citati Documenti inediti.
  62. * Il merito di Leonardo nella pittura a olio non fu peranche bastevolmente apprezzato. Dal suo Trattato della pittura si conosce quanto minute osservazioni egli facesse sulla gradazione delle ombre e dei toni, sulla prospettiva aerea, sulla fluidità dei contorni. I suoi dipinti furono i primi a mostrare quello sfumato, quel molle e rotondeggiante, che diventò poi una legge nel colorire a olio. Il suo modo di colorire fu scuola al Correggio, che seppe esprimere tutto l’incanto di cui è capace questo genere di pittura. Leonardo usava sbozzare con ombre scure o bigie, e di condurre a velatura i toni delle carni. Non si può peraltro disconoscere come fosse colpa appunto del suo modo di colorire, se i suoi quadri diventarono così oscuri, principalmente nelle ombre.
  63. Sono sempre sulla stessa porta.
  64. * Il Vasari ricorda appena l’eccellenza di Leonardo nell’architettura, e come egli si occupasse per tutta la vita negli studi di matematiche e di meccanica. Vedremo nel Commentario che Leonardo offrì da prima i suoi servigi a Lodovico il Moro come ingegnere e che Cesare Borgia lo creò architetto e ingegnere generale delle sue fortezze. Quel vasto e profondo ingegno voleva ma dice anzi che il re ne seppe la morte dal Melzi. Egli morì a’ due di maggio del 1519, e in conseguenza visse 67 anni e non già 75. † Per rintracciare memorie e documenti della dimora di Leonardo, e per ritrovare la sua tomba, furono fatte alcune ricerche nel 1863, di commissione del Governo francese, dal signor Arsenio Houssaye, il quale, nel suo Rapporto al ministro delle belle arti, e nella Histoire de Léonard de Vinci, Paris, 1869, racconta, che dopo la congiura d’Amboise nel 1560 era tradizione che le tombe nella chiesa di Saint-Florentin, dov’era sepolto Leonardo, furono spezzate, e le ossa de’ sepolti disperse; che demolita la detta chiesa nel 1808 per ordine di Roger Ducos, le pietre funerarie furono vendute e le casse di piombo delle sepolture furono fuse. Le altre memorie di Leonardo a poco a poco andarono perdendosi, e le poche che ancora restano si veggono solamente nel castello di Cloux, oggi chiamato Clos-Lucè. Nella piccola cappella unita al detto castello sono pitture attribuite a Leonardo, e l’Houssaye crede di vedere in un quadro di Madonna, assai ritoccata, la testa d’un angelo di mano del Melzi, o almeno di stile milanese. Secondo le testimonianze che sono pervenute fino a noi circa alla tomba di Leonardo, pare che essa fosse nel coro della chiesa suddetta di Saint-Florentin d’Amboise. L’Houssaye, dietro le indicazioni raccolte, cominciò nel giugno del 1863 a fare gli scavi nel luogo ove si diceva essere stata inalzata la suddetta chiesa. Da questi scavi, sotto un mucchio di pietre appartenente alla chiesa demolita, fu scoperto uno scheletro con vari oggetti: e ad una certa distanza da esso scheletro due pezzi di pietra, in uno de’ quali era scolpito leo e nell’altro inc, e dopo maggiori ricerche un terzo frammento in cui era scritto eo dus vinc, lettere che costituiscono gli elementi in parte per formare il nome di Leonardo da Vinci. Ma tutte queste ricerche e scoperte non sappiamo poi che fine abbiano avuto. (Vedi G. Uzielli, op. cit., pag. 44 e segg.) mente signoreggiare e sulle forze dello spirito, onde la fantasia crea nuova vita ed informa il pensiero, e sulle forze materiali, per cui l’uomo governa la natura a suo senno. S’egli nel primo aspetto va onorato siccome colui che all’età sua giunse alla maggior perfezione, nel secondo va riguardato come il precursore alla scienza dei nostri ultimi tempi. Vedi la parte terza del Commentario che segue.
  65. Nella prima edizione, dopo questo epitaffio, leggesi quanto segue:

    «leonardvs vincivs
    qvid plvra? divinvm ingenivm
    divina manvs
    emori in sinv regio mervere.
    virtvs et fortvna hoc monvmentvm
    contingere graviss. impensis
    cvravervnt.

    E un altro ancora, per veramente onorarlo, disse:

    Et gentem et patriam noscis: tibi gloria et ingens
         Nota est; hac tegitur nam Leonardus humo.
    Perspicuas picturae umbras, oleoque colores
         Illius ante alios docta manus posuit.
    Imprimere ille hominum, divum quoque corpora in aere,
         Et pictis animam fingere novit equis
    ».

  66. * Ovvero Beltraffio; nato nel 1467, morto nel 15 di giugno 1516.
  67. * Questa tavola, posta da prima nella cappella Casio nella chiesa nominata, passò quindi nella pinacoteca di Brera a Milano, († Fecela fare Girolamo Casio, poeta). In ultimo fu acquistata dal museo Francese, insieme con altri quattro quadri di scuola veneta e lombarda, fattone cambio con altrettanti quadri di scuola fiamminga. Siede nel mezzo la Madonna col Putto, ed ai lati stanno san Giovanni Batista e san Sebastiano in piè; nelle estremità del quadro sono in ginocchioni il poeta laureato Girolamo da Casio e il padre suo, i quali fecero fare questa tavola. Se ne vede un intaglio nell’opera intitolata: Scuola di Leonardo da Vinci in Lombardia; o sia Raccolta di varie opere eseguite dagli allievi e imitatori di quel gran maestro, disegnate, incise e descritte da Ignazio Fumagalli, Milano, Stamp. Reale, 1811, in-fol. La iscrizione però più non vi si vede, nè si legge nelle vecchie guide di Bologna.
  68. * Si dànno per opere di Beltraffio: un San Giovan Batista nella pinacoteca di Brera; una Nostra Donna col Bambino e una Santa Barbara in quella di Berlino; e similmente una Madonna col Bambino e i santi Giovan Batista e Sebastiano, con una figura in ginocchioni rappresentante Oldrado da Ponte, era in Lodi e passò quindi in possesso di Giuseppe Sanquirico milanese, della quale il Fumagalli nella citata Raccolta dà un intaglio.
  69. Detto da alcuni Uglon, Oglono e Uggiono; ma più comunemente da Oggiono.
  70. * Dopochè il convento de’ frati Minori di Santa Maria della Pace fu soppresso e ridotto ad usi profani, non sappiamo se queste due pitture esistano più. Parlano di Marco da Oggiono il Baldinucci e il Lanzi brevemente, e poco favorevolmente il Bossi nel Cenacolo, ecc., indicando altre opere di lui; fra le quali la copia del Cenacolo di Leonardo nel refettorio della Certosa di Pavia, e quella tavola, tolta dalla chiesa di Santa Maria di Milano nel 1808, con san Michele in mezzo a due angeli, che caccia Lucifero negli abissi, ora nella pinacoteca di Brera, dove è segnato il nome di marcus, che il Rosini ha dato intagliata a pag. 212 del t. IV della sua Storia. La pinacoteca di Brera suddetta, se crediamo al suo Catalogo, oltre la descritta tavola, possiede altre cinque pitture di lui; una delle quali rappresentante Nostra Donna col Putto, san Giuseppe, santa Elisabetta, il piccolo san Giovanni e san Zaccaria, fu incisa e illustrata dal Fumagalli nella citata Raccolta. Secondo il Necrologio citato dal Lanzi, Marco da Oggiono morì nel 1530. † Ne’ detti Documenti inediti risguardanti Lionardo da Vinci si legge una Vita di lui scritta verso la metà del 1500 da un anonimo fiorentino. In essa tra i discepoli di Leonardo sono ricordati, oltre il Salaì milanese e Ferrando spagnuolo che lavorò con lui nella sala del Palazzo de’ Signori, anche un Zoroastro da Peretola, ed il Riccio fiorentino dalla Porta alla Croce. Chi fosse quest’ultimo non ci riuscì di trovare: forse Raffaello di Biagio pittore che aiutò Leonardo nella suddetta sala, oppure Lorenzo del Faina che gli macinava i colori, il quale non abbiamo dubbio che non sia quel medesimo Lorenzo nominato da Leonardo insieme col Salaì, col Melzi e col Fanfoia in un ricordo del 1514, che altri hanno creduto erroneamente il Lotto pittore bergamasco. Quanto a Zoroastro, che per proprio nome si chiamava Tommaso di Giovanni Masini ortolano di Peretola, ma egli diceva essere figliuolo di Bernardo Rucellai cognato del Magnifico Lorenzo, l’Ammirato ne parla nel t. II, pag. 242 de’ suoi Opuscoli, e dice che si mise con Leonardo, il quale gli fece una veste di gallozzole; onde fu per gran tempo nominato il Gallozzola. Fu condotto poi da Leonardo a Milano, dove fu chiamato l’Indovino, facendo professione d’arte magica. Poi andò a Roma, e si acconciò con Giovanni Rucellai, l’autore delle Api, quindi col Viseo ambasciatore di Portogallo, che fu poi cardinale, ed in ultimo col Ridolfi, acquistandosi il soprannome di Zoroastro. Fu uomo assai strano. Si adirava colla gente di villa, perchè storpiava il suo nome di Zoroastro in Chialabastro ed in Alabastro; non avrebbe ammazzato una pulce per gran cosa; nè volle mai vestir di lana per non portare addosso cosa morticcia. Quando Leonardo dipingeva nella sala del Consiglio, Zoroastro fu suo garzone e macinatore di colori. Alcuni anni dopo lo troviamo a lavorare d’orificeria e a conciare pietre dure. Di Zoroastro parla ancora il Lasca nelle novelle quarta e sesta della seconda Cena, raccontando alcune burle fatte da costui, dal Pilucca, dallo Scheggia e dal Monaco suoi compagni. Morì finalmente in Roma, e fu sepolto in Sant’Agata tra il Trissino e Giovanni Lascari. Un altro suo discepolo fu Atalante, il quale sappiamo che nacque nel 1466, figliuolo illegittimo di Manetto Migliorotti, e che sotto la disciplina di Leonardo riuscì eccellentissimo sonatore di lira, che di circa sedici anni fu da lui condotto a Milano, allorchè andò a’ servigi di Lodovico il Moro, e che fu chiamato a Mantova nel 1490, perchè nella recita dell’Orfeo del Poliziano facesse la parte del protagonista. Dopo questo tempo lo perdiamo di vista fino al 1507, nel qual anno era a Roma, ed intendeva di muover lite al comune di Castelnuovo in Val di Cecina per cagione di certi confini. Nel 1513 era soprastante alle fabbriche di papa Leone, e così per tre anni dopo. L’ultima memoria che conosciamo di lui, nella quale si chiama architettore, è del 1535.