Il pastor fido (Laterza, 1914)/Atto secondo

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Atto secondo

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Atto primo Atto terzo

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ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Ergasto, Mirtillo.

Ergasto. Oh quanti passi ho fatti! al fiume, al poggio,

al prato, al fonte, a la palestra, al corso
t’ ho lungamente ricercato: alfine
qui pur ti trovo, e ne ringrazio il cielo.
Mirtillo. Ond’hai tu nuova, Ergasto,
degna di tanta fretta? hai vita o morte?
Ergasto. Questa non ti darei, ben ch’io l’avessi;
e quella spero dar, ben ch’io non l’abbia.
Ma tu non ti lasciar si fieramente
vincer al tuo dolor: vinci te stesso,
se vuoi vincer altrui; vivi, e respira
talvolta. Ma, per dirti la cagione
del mio venir a te si ratto, ascolta.
Conosci tu (ma chi non la conosce?)
la sorella d’Ormino? è di persona
anzi grande che no; di vista allegra,
di bionda chioma, e colorita alquanto.
Mirtillo. Com’ha nome?
Ergasto. Corisca.
Mirtillo. l’la conosco
troppo bene, e con lei alcuna volta
ho favellato ancora.
Ergasto. Or sappi ch’ella
da un tempo in qua, vedi ventura! è fatta,

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non so giá come o con che privilegio,

de la bella Amarillide compagna,
onde a lei tutto ho l’amor tuo scoperto
segretamente e quel che da lei brami,
holle mostrato, ed ella prontamente
m’ha la sua fede in ciò promessa e l’opra.
Mirtillo. Oh mille volte e mille,
se questo è vero, e piú d’ogn’altro amante
fortunato Mirtillo ! Ma del modo
t’ha ella detto nulla?
Ergasto. Appunto nulla,
e ti dirò perché. Dice Corisca
che non può ben deliberar del modo,
prima ch’alcuna cosa ella non sappia
de l’amor tuo piú certa, ond’ella possa
meglio spiare e piú sicuramente
l’animo de la ninfa, e sappia come
reggersi, o con preghiere o con inganni,
quel che tentar, quel che lasciar sia buono.
Per questo solo i’ ti venia cercando
si ratto. E’ sará ben che tu da capo
tutta la storia del tuo amor mi narri.
Mirtillo. Cosi a punto farò; ma sappi, Ergasto,
che questa rimembranza
(ah, troppo acerba a chi si vive amando
fuori d’ogni speranza)
è quasi un agitar fiaccola al vento,
per cui, quanto l’incendio
sempre s’avanza, tanto
a l’agitata fiamma ella si strugge,
o scuoter pungentissima saetta
altamente confitta,
che, se tenti di svellerla, maggiore
fai la piaga e ’l dolore.
Ben cosa ti dirò, che chiaramente
fará veder coni’è fallace e vana

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la speme degli amanti e come amore

la radice ha soave, il frutto amaro.
Ne la bella stagion che ’l di s’avanza
sovra la notte, or compie l’anno a punto,
questa leggiadra pellegrina, questo
novo sol di beltade,
venne a far di sua vista,
quasi d’un’altra primavera, adorno
il mio solo per lei leggiadro allora
e fortunato nido, Elide e Pisa,
condotta da la madre
in que’ solenni di che del gran Giove
i sacrifici e i giochi
si soglion celebrar, famosi tanto,
per farne a’ suoi begli occhi
spettacolo beato;
ma furon que’ begli occhi
spettacolo d’Amore
d’ogn’altro assai maggiore.
Ond’io, che fin allor fiamma amorosa
non avea piú sentita,
oimè! non cosi tosto
mirato ebbi quel volto,
che di subito n’arsi,
e, senza far difesa al primo sguardo
che mi drizzò negli occhi,
sentii correr nel seno
una bellezza imperiosa e dirmi :
— Dammi il tuo cor, Mirtillo. —
Ergasto. Oh quanto può ne’petti nostri Amore!
né ben il può saper se non chi ’l prova.
Mirtillo. Mira ciò che sa fare anco ne’ petti
piú semplici e piú molli Amore industre.
Io fo del mio pensiero una mia cara
sorella consapevole, compagna
de la mia cruda ninfa
G. B. Guarini. 4

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que’ pochi di Ch’Elide l’ebbe e Pisa.

Da questa sola, come Amor m’insegna,
fedel consiglio ed amoroso aiuto
nel mio bisogno i’ prendo.
Ella de le sue gonne femminili
vagamente m’adorna
e d’innestato crin cinge le tempie;
poi le ’ntreccia e le ’nfiora,
e l’arco e la faretra
al fianco mi sospende;
e m’insegna a mentir parole e sguardi,
e sembianti nel volto, in cui non era
di lanugine ancora
pur un vestigio solo.
E, quando ora ne fue,
seco lá mi condusse, ove solea
la bella ninfa diportarsi, e dove
trovammo alcune nobili e leggiadre
vergini di Megara,
e di sangue e d’amor, siccome intesi,
a la mia dea congiunte.
Tra queste ella si stava
si come suol tra violette umili
nobilissima rosa;
e, poi che ’n quella guisa
state furono alquanto,
senz’altro far di piú diletto o cura,
levossi una donzella
di quelle di Megara, e cosi disse:
— Dunque in tempo di giochi
e di palme si chiare e si famose,
starem noi neghittose?
Dunque non abbiam noi
armi da far tra noi finte contese
cosi ben come gli uomini? Sorelle,
se ’l mio consiglio di seguir v’aggrada,

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proviam oggi tra noi cosi da scherzo

noi le nostr’armi, come
contra gli uomini, allor che ne fie tempo,
l’userem da dovero.
Bacianne, e si contenda
tra noi di baci; e quella, che d’ogni altra
baciatrice piú scaltra,
li saprá dar piú saporiti e cari,
n’avrá per sua vittoria
questa bella ghirlanda. —
Risero tutte a la proposta e tutte
subito s’accordáro;
e si sfidavan molte, e molte ancora,
senza che dato lor fosse alcun segno,
facean guerra confusa.
11 che veggendo allor la megarese,
ordinò prima la tenzone e poi
disse: — De’ nostri baci
meritamente sia giudice quella
che la bocca ha piú bella. —
Tutte concordemente
elesser la bellissima Amarilli;
ed ella, i suoi begli occhi
dolcemente chinando,
di modesto rossor tutta si tinse,
e mostrò ben che non men bella è dentro,
di quel che sia di fuori;
o fosse che ’l bel volto
avesse invidia a l’onorata bocca
e s’adornasse anch’egli
de la purpurea sua pomposa vesta,
quasi volesse dir: — Son bello anch’io. —
Ergasto. Oh come a tempo ti cangiasti in ninfa,
avventuroso e quasi
de le dolcezze tue presago amante!
Mirtillo. Giá si sedeva a l’amoroso ufficio

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la bellissima giudice, e, secondo

l’ordine e l’uso di Megara, andava
ciascheduna per sorte
a far de la sua bocca e de’ suoi baci
prova con quel bellissimo e divino
paragon di dolcezza,
quella bocca beata,
quella bocca gentil che può ben dirsi
conca d’indo odorata
di perle orientali e pellegrine;
e la parte che chiude
ed apre il bel tesoro,
con dolcissimo mèl purpura mista.
Cosi potess’io dirti, Ergasto mio,
l’ineffabil dolcezza
eh’i’sentii nel baciarla!
Ma tu da questo prendine argomento,
che non la può ridir la bocca stessa
che l’ha provata. Accogli pur insieme
quant’hanno in sé di dolce
o le canne di Cipro o i favi d’Ibla;
tutto è nulla, rispetto
a la soavitá ch’indi gustai.
Ergasto. Oh furto avventuroso, oh dolci baci !
Mirtillo. Dolci si, ma non grati,
perché mancava lor la miglior parte
de l’intero diletto:
davagli Amor, non gli rendeva Amore.
Ergasto. Ma dimmi: e come ti sentisti allora
che di baciar a te cadde la sorte?
Mirtillo. Su queste labbra, Ergasto,
tutta sen venne allor l’anima mia;
e la mia vita, chiusa
in cosi breve spazio,
non era altro che un bacio,
onde restar le membra,

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quasi senza vigor, tremanti e fioche.

E quando io fui vicino
al folgorante sguardo,
come quel che sapea
che pur inganno era quell’atto e furto,
temei la maestá di quel bel viso.
Ma, da un sereno suo vago sorriso
assicurato poi,
pur oltre mi sospinsi.
Amor si stava, Ergasto,
com’ape suol, ne le due fresche rose
di quelle labbra ascoso.
E mentre ella si stette
con la baciata bocca,
al baciar de la mia,
immobile e ristretta,
la dolcezza del mèl sola gustai.
Ma, poi che mi s’ofTerse anch’ella e porse
l’una e l’altra dolcissima sua rosa,
(fosse o sua gentilezza o mia ventura,
so ben che non fu Amore),
e sonar quelle labbra
e s’incontráro i nostri baci (oh caro
e prezioso mio dolce tesoro,
t’ho perduto, e non moro?),
allor sentii de l’amorosa pecchia
la spina pungentissima soave
passarmi il cor, che forse
mi fu renduto allora
per poterlo ferire.
Io, poi ch’a morte mi sentii ferito,
come suol disperato,
poco mancò che l’omicide labbra
non mordessi e segnassi ;
ma mi ritenne, oimè! l’aura adorata
che, quasi spirto d’anima divina,

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risvegliò la modestia

e quel furore estinse.
Ergasto. O modestia, molestia
degli amanti importuna !
Mirtillo. Giá fornito il su’arringo avea ciascuna
e con sospension d’animo grande
la sentenza attendea,
quando la leggiadrissima Amarilli,
giudicando i miei baci
piú di quelli d’ogn’altra saporiti,
di propria man con quella
ghirlandetta gentil, che fu serbata
premio a la vincitrice, il crin mi cinse.
Ma, lasso! aprica piaggia
cosi non arse mai sotto la rabbia
del can celeste allor che latra e morde,
come ardeva il cor mio
tutto allor di dolcezza e di desio,
e piú che mai ne la vittoria vinto.
Pur mi riscossi tanto,
che la ghirlanda trattami di capo
a lei porsi, dicendo:
— Questa a te si convien, questa a te tocca,
che festi i baci miei
dolci ne la tua bocca. —
Ed ella, umanamente
presala, al suo bel crin ne feo corona;
e d’un’altra, che prima
cingea le tempie a lei, cinse le mie.
Ed è questa ch’io porto,
e porterò fin al sepolcro sempre,
arida come vedi,
per la dolce memoria di quel giorno,
ma molto piú per segno
de la perduta mia morta speranza.
Ergasto. Degno se’ di pietá piú che d’invidia,

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Mirtillo, anzi pur Tantalo novello,

ché nel gioco d’Aruor chi fa da scherzo,
tormenta da dovero. Troppo care
ti costar le tue gioie; e del tuo furto
e il piacer e ’1 gastigo insieme avesti.
Ma s’accorse ella mai di questo inganno?
Mirtillo. Ciò non so dirti, Ergasto.
So ben ch’ella, in que’ giorni
Ch’Elide fu de la sua vista degno,
mi fu sempre cortese
di quel soave ed amoroso sguardo.
Ma il mio crudo destino
la ’nvolò si repente,
che me ne avvidi appena; ond’io, lasciando
quanto giá di piú caro aver solea,
tratto da la virtú di quel bel guardo,
qui, dove il padre mio
dopo tant’anni ancor, come t’è noto,
serba l’antico suo povero albergo,
men venni, e vidi, ah misero! giá corso
a sempiterno occaso
quell’amoroso mio giorno sereno,
che cominciò da si beata aurora.
Al mio primo apparir, súbito sdegno
lampeggiò nel bel viso;
poi chinò gli occhi e girò il piede altrove.
— Misero ! — allor i’ dissi —
questi son ben de la mia morte i segni. —
Avea sentita acerbamente intanto
la non prevista e súbita partita
il mio tenero padre,
e, dal dolore oppresso,
ne cadde infermo, assai vicino a morte;
ond’io costretto fui
di ritornar a le paterne case.
Fu il mio ritorno, ahi lasso!

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salute al padre, infermitate al figlio,

ché, d’amorosa febbre
ardendo, in pochi di languido venni.
E, da l’uscir che fe’ di Tauro il sole
fin a l’entrar di Capricorno, sempre
in cotal guisa stetti ;
e sarei certo ancora,
se non avesse il mio pietoso padre
opportuno consiglio
a l’oracolo chiesto, il qual rispose
che sol potea sanarmi il ciel d’Arcadia.
Cosi tornaimi, Ergasto,
a riveder colei
che mi sanò del corpo,
(oh voce degli oracoli fallace!)
per farmi l’alma eternamente inferma.
Ergasto. Strano caso nel vero
tu mi narri, Mirtillo, e non può dirsi
che di molta pietá non ne sii degno.
Ma solo una salute
al disperato è ’l disperar salute.
E tempo è giá ch’io vada a far di quanto
m’hai detto consapevole Corisca.
Tu vanne al fonte e lá m’attendi, dove
teco sarò quanto piú tosto anch’io.
Mirtillo. Vanne felicemente! Il ciel ti dia
di cotesta pietá quella mercede
che dar non ti poss’io, cortese Ergasto.

SCENA SECONDA

Dorinda, Lupino, Silvio.

Dorinda. O del mio bello e dispietato Silvio

cura e diletto, avventuroso e fido,
foss’io si cara al tuo signor crudele,

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come se’tu, Melampo! Egli, con quella

candida man ch’a me distringe il core,
te, dolcemente lusingando, nutre,
e teco il di, teco la notte alberga:
mentr’io, che l’amo tanto, invan sospiro,
e ’nvano il prego; e, quel che piú mi duole,
ti dá si cari e si soavi baci,
ch’un sol che n’avess’io, n’andrei beata.
E, per piú non poter, ti bacio anch’io,
fortunato Melampo. Or, se benigna
stella, forse, d’Amore a me t’invia
perché Torme di lui mi scorga, andiamo
dove Amor me, te sol Natura inchina.
Ma non sent’io tra queste selve un corno
sonar vicino?
Silvio. Te’, Melampo, te’!
Dorinda Se ’l desio non m’inganna, quella è voce
del bellissimo Silvio, che ’l suo cane
chiama tra queste selve.
Silvio. Te’, Melampo,
te’ te’ !
Dorinda. Senz’alcun fallo è la sua voce.
Oh felice Dorinda ! il ciel ti manda
quel ben che vai cercando. È meglio ch’io
serbi il cane in disparte : io farò forse
de l’amor suo con questo mezzo acquisto.
Lupino!
Lupino. Eccomi.
Dorinda. Va’ con questo cane,
e ti nascondi in quella fratta. Intendi?
Lupino. Intendo.
Dorinda. E non uscir, s’io non ti chiamo.
Lupino. Tanto farò.
Dorinda. Va’ tosto.
Lupino. E tu fa’ tosto,
ché, se venisse fame a questa bestia,
in un boccone non mi manicasse.

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Dorinda. Oh come se’da poco! Su, va’ via!

Silvio. Dove, misero me! dove debb’io
volger piú il piede a seguitarti, o caro,
o mio fido Melampo? Ho monte e piano
cercato indarno, e son giá molle e stanco.
Maladetta la fèra che seguisti!
Ma ecco ninfa, che di lui novella
mi dará forse. Oh come male inciampo!
Questa è colei che mi dá sempre noia.
Pur soffrir mi bisogna. O bella ninfa,
dimmi: vedesti il mio fedel Melampo,
che testé dietro ad una damma sciolsi?
Dorinda. Io bella, Silvio? io bella?
Perché cosi mi chiami,
crude!, se bella agli occhi tuoi non sono?
Silvio. O bella o brutta, hai tu il mio can veduto?
A questo mi rispondi, o ch’io mi parto.
Dorinda. Tu se’pur aspro a chi t’adora, Silvio!
Chi crederia che ’n si soave aspetto
fosse si crudo affetto?
Tu segui per le selve
e per gli alpestri monti
una fèra fugace, e dietro Torme
d’un veltro, oimè! t’affanni e ti consumi;
e me, che t’amo si, fuggi e disprezzi.
Deh! non seguir damma fugace; segui,
segui amorosa e mansueta damma,
che, senza esser cacciata,
è giá presa e legata.
Silvio. Ninfa, qui venni a ricercar Melampo,
non a perder il tempo. Addio.
Dorinda. Deh ! Silvio
crudel, non mi fuggire,
ch’i’ ti darò del tuo Melampo nova.
Silvio. Tu mi beffi, Dorinda?
Dorinda. Silvio mio,

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per quello amor che mi t’ha fatta ancella,

io so dove è il tuo cane.
Noi lasciasti testé dietro a una damma?
Silvio. Lasciailo e ne perdei tosto la traccia.
Dorinda. Or il cane e la damma è in poter mio.
Silvio. In tuo poter?
Dorinda. In mio poter. Ti duole
d’esser tenuto a chi t’adora, ingrato?
Silvio. Cara Dorinda mia, dáglimi tosto.
Dorinda. Ve’, mobile fanciullo, a che son giunta!
ch’una fèra ed un can mi ti fa cara.
Ma vedi, core mio, tu non gli avrai
senza mercede.
Silvio. È ben ragion: darotti.
(Vo’ schernirla, costei).
Dorinda. Che mi darai?
Silvio. Due belle poma d’oro, che l’altr’ieri
la bellissima mia madre mi diede.
Dorinda. A me poma non mancano; potrei
a te darne di quelle che son forse
piú saporite e belle, se i miei doni
tu non avessi a schivo.
Silvio. E che vorresti?
un capro od una agnella ? Ma il mio padre
non mi concede ancor tanta licenza.
Dorinda. Né di capro ho vaghezza né d’agnella:
te solo, Silvio, e l’amor tuo vorrei.
Silvio. Né altro vuoi che l’amor mio?
Dorinda. Non altro.
Silvio. Si si, tutto tei dono. Or dammi dunque,
cara ninfa, il mio cane e la mia damma.
Dorinda. Oh, se sapessi quanto
vale il tesor di che si largo sembri,
e rispondesse a la tua lingua il core !
Silvio. Ascolta, bella ninfa. Tu mi vai
sempre di certo amor parlando, ch’io

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non so quel ch’e’si sia. Tu vuoi ch’i’t’ami,

e t’amo quanto posso e quanto intendo.
Tu di’eh’io son crudele, e non conosco
quel che sia crudeltá, né so che farti.
Dorinda. O misera Dorinda! ov’hai tu poste
le tue speranze? onde soccorso attendi?
In beltá che non sente ancor favilla
di quel foco d’Amor, ch’arde ogn’amante.
Amoroso fanciullo,
tu se’pur a me foco, e tu non ardi;
e tu, che spiri amore, amor non senti.
Te, sotto umana forma
di bellissima madre,
partorí l’alma dea che Cipro onora;
tu hai gli strali e ’l foco:
ben sallo il petto mio ferito ed arso.
Giugni agli òmeri l’ali:
sarai novo Cupido,
se non c’hai ghiaccio il core,
né ti manca d’Amore altro che amore.
Silvio. Che cosa è questo amore?
Dorinda. S’i’ miro il tuo bel viso,
amore è un paradiso;
ma, s’i’ miro il mio core,
è un infernal ardore.
Silvio. Ninfa, non piú parole:
dammi il mio cane ornai!
Dorinda. Dammi tu prima il pattuito amore.
Silvio. Dato non te l’ho dunque? (Oimè, che pena
è il contentar costei!) Prendilo, fanne
ciò che ti piace. Chi tei nega o vieta?
Che vuoi tu piú? che badi?
Dorinda. (Tu perdi ne l’arena i semi e l’opra,
sfortunata Dorinda!)
Silvio. Che fai? che pensi? ancor mi tieni a bada?
Dorinda. Non cosi tosto avrai quel che tu brami,
che poi mi fuggirai, perfido Silvio.

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Silvio. No certo, bella ninfa.

Dorinda. Dammi un pegno.
Silvio. Che pegno vuoi?
Dorinda. Ah, che non oso a dirlo !
Silvio. Perché?
Dorinda. Pere’ ho vergogna.
Silvio. E pur il chiedi!
Dorinda. Vorrei senza parlar esser intesa.
Silvio. Ti vergogni di dirlo e non avresti
vergogna di riceverlo?
Dorinda. Se darlo
tu mi prometti, i’ tei dirò.
Silvio. Prometto,
ma vo’ che tu me ’l dica.
Dorinda. Ah, non m’intendi,
Silvio, mio ben! T’intenderei pur io,
s’a me ’l dicessi tu.
Silvio. Piú scaltra certo
se’ tu di me.
Dorinda. Piú calda, Silvio, e meno
di te crudele io sono.
Silvio. A dirti il vero,
io non son indovin: parla, se vuoi
esser intesa.
Dorinda. Oh misera! Un di quelli
che ti dá la tua madre.
Silvio. Una guanciata?
Dorinda. Una guanciata a chi t’adora, Silvio?
Silvio. Ma careggiar con queste ella sovente
mi suole.
Dorinda. Ah! so ben io che non è vero.
E talor non ti bacia?
Silvio. Né mi bacia,
né vuol ch’altri mi baci.
Forse vorresti tu per pegno un bacio?
Tu non rispondi. Il tuo rossor t’accusa.

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Certo mi son apposto. I’ son contento;

ma dammi con la preda il can tu prima.
DO R INDA. Mei prometti tu, Silvio?
Silvio. I* tei prometto.
Do R INDA. E me l’attenderai?
Silvio. Si, ti dich’io.
Non mi dar piú tormento.
Dorinda. Esci, Lupino!
Lupino! ancor non odi?
Lupino. Oh, se’noioso!
Chi chiama? Oh, vengo, vengo! Io non dormiv
no certo. Il can dormiva.
Dorinda. Ecco il tuo cane,
Silvio, che piú di te cortese, in queste...
Silvio. Oh, come son contento!
Dorinda. ... in queste braccia,
che tanto sprezzi tu, venne a posarsi...
Silvio. Oh dolcissimo mio fido Melampo!
Dorinda. ... cari avendo i miei baci e i miei sospiri.
Silvio. Baciar ti voglio mille volte e mille.
Ti se’ fatto alcun mal, forse, correndo?
Dorinda. Avventuroso can! perché non posso
cangiar teco mia sorte? A che son giunta,
che fin d’un can la gelosia m’accora?
Ma tu, Lupin, t’invia verso la caccia;
ché fra poco i’ ti seguo.
Lupino. Io vo, padrona.

SCENA TERZA

Silvio, Dorinda.

Silvio. Tu non hai alcun male. Al rimanente:

ov’è la damma che promessa m’hai?
Dorinda. La vuoi tu viva o morta?
Silvio. Io non t’intendo.
Com’esser viva può, se ’l can l’uccise?

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Dorinda. Ma se ’l can non l’uccise?

Silvio. È dunque viva?
Dorinda. Viva.
Silvio. Tanto piú cara e piú gradita
mi fia cotesta preda. E fu si destro
Melampo mio, che non l’ha guasta o tócca?
Dorinda. Sol è nel cor d’una ferita punta.
Silvio. Mi beffi tu, Dorinda, o pur vaneggi?
Com’esser viva può, nel cor ferita?
Dorinda. Quella damma son io,
crudelissimo Silvio,
che, senza esser attesa,
son da te vinta e presa,
viva, se tu m’accogli;
morta, se mi ti togli.
Silvio. E questa è quella damma e quella preda
che testé mi dicevi?
Dorinda. Questa e non altra. Oimè! perché ti turbi?
Non t’è piú caro aver ninfa che fèra?
Silvio. Né t’ho cara né t’amo, anzi t’ho in odio,
brutta, vile, bugiarda ed importuna!
Dorinda. È questo il guiderdon, Silvio crudele?
è questa la mercé che tu mi dai,
garzon ingrato? Abbi Melampo in dono,
e me con lui, ché tutto,
pur ch’a me torni, i’ ti rimetto, e solo
de’ tuoi begli occhi il sol non mi si nieghi.
Ti seguirò, compagna
del tuo fido Melampo assai piú fida;
e, quando sarai stanco,
t’asciugherò la fronte,
e sovra questo fianco,
che per te mai non posa, avrai riposo.
Porterò l’armi, porterò la preda;
e, se ti mancherá mai fèra al bosco,
saetterai Dorinda. In questo petto

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l’arco tu sempre esercitar potrai:

ché, sol come vorrai,
il porterò, tua serva,
il proverò, tua preda,
e sarò del tuo strai faretra e segno.
Ma con chi parlo? ahi, lassa!
teco, che non m’ascolti e via ten fuggi.
Ma fuggi pur: ti seguirá Dorinda
nel crudo inferno ancor, s’alcun inferno
piú crudo aver poss’io
de la fierezza tua, del dolor mio.

SCENA QUARTA

Corisca.

Oh, come favorisce i miei disegni

Fortuna molto piú ch’io non sperai!
Non ha ragion di favorir colei
che, sonnacchiosa, il suo favor non chiede.
Ha ben ella gran forza, e non la chiama
«possente dea» senza ragione il mondo;
ma bisogna incontrarla e farle vezzi,
spianandole il sentiero. I neghittosi
saran di rado fortunati o mai.
Se non m’avesse la mia industria fatta
compagna di colei, che potrebbe ora
giovarmi una si comoda e sicura
occasion di ben condurre a fine
il mio pensiero? Avria qualch’altra sciocca
la sua rivai fuggita; e, segni aperti
de la sua gelosia portando in fronte,
di mal occhio guatata anco l’avrebbe,
e mal avrebbe fatto, ch’assai meglio
da l’aperto nemico altri si guarda,

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che non fa da l’occulto. Il cieco scoglio

è quel ch’inganna i marinari ancora
piú saggi. Chi non sa finger l’amico,
non è fiero nemico. Oggi vedrassi
quel che sa far Corisca. Ma si sciocca
non son io giá, che lei non creda amante.
A qualcun altro il fará creder forse,
che poco sappia; a me non giá, che sono
maestra di quest’arte. Una fanciulla
tenera e semplicetta, che pur ora
spunta fuor de la buccia, in cui pur dianzi
stillò le prime sue dolcezze Amore,
lungamente seguita e vagheggiata
da si leggiadro amante, e, quel eh’è peggio,
baciata e ribaciata, e stará salda?
Pazzo è ben chi sei crede; io giá noi credo.
Ma vedi il mio destin come m’aita.
Ecco a punto Amarilli. Ah, i’ vo’ far vista
di non vederla e ritirarmi alquanto.

SCENA QUINTA

Amarilli, Corisca.

Amarilli. Care selve beate,

e voi solinghi e taciturni orrori,
di riposo e di pace alberghi veri ;
oh, quanto volentieri
a rivedervi i’torno! E se le stelle
m’avesser dato in sorte
di viver a me stessa e di far vita
conforme a le mie voglie,
i’ giá co’ Campi elisi,
fortunato giardin de’ semidèi,
la vostr’ombra gentil non cangerei.
G. B. Guarissi. 5

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Ché, se ben dritto miro,

questi beni mortali
altro non son che mali.
Meno ha chi piú n’abonda,
e posseduto è piú che non possedè:
ricchezze no, ma lacci
de l’altrui libertate.
Che vai ne’ piú verdi anni
titolo di bellezza
o fama d’onestate,
e ’n mortai sangue nobiltá celeste;
tante grazie del cielo e de la terra:
qui larghi e lieti campi,
e lá felici piagge,
fecondi paschi e piú fecondo armento,
se ’n tanti beni il cor non è contento?
Felice pastorella,
cui cinge a pena il fianco
povera si, ma schietta
e candida gonnella,
ricca sol di se stessa
e de le grazie di natura adorna;
che ’n dolce povertade
né povertá conosce né i disagi
de le ricchezze sente;
ma tutto quel possedè,
per cui desio d’aver non la tormenta,
nuda si, ma contenta!
Co’ doni di natura
i doni di natura anco nudrica;
col latte il latte avviva;
e col dolce de Tapi
condisce il mèl de le natie dolcezze.
Quel fonte ond’ella beve,
quel solo anco la bagna e la consiglia;
paga lei, pago il mondo.

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Per lei di nembi il ciel s’oscura indarno

e di grandine s’arma,
ché la sua povertá nulla paventa:
nuda si, ma contenta.
Sola una dolce e d’ogn’affanno sgombra
cura le sta nel core:
pasce le verdi erbette
la greggia a lei commessa, ed ella pasce
de’ suo’ begli occhi il pastorello amante,
non qual le destináro
o gli uomini o le stelle,
ma qual le diede Amore.
E tra l’ombrose piante
d’un favorito lor mirteto adorno,
vagheggiata, il vagheggia; né per lui
sente foco d’amor che non gli scopra;
ned ella scopre ardor ch’egli non senta:
nuda si, ma contenta.
Oh vera vita, che non sa che sia
morire innanzi morte !
Potess’io pur cangiar teco mia sorte!
Ma vedi lá Corisca. Il ciel ti guardi,
dolcissima Corisca.
Corisca. Chi mi chiama?
Oh, piú degli occhi miei, piú de la vita
a me cara Amarilli, e dove vai
cosi soletta?
Amarilli. In nessun altro loco,
se non dove mi trovi e dove meglio
capitar non potea, poi che te trovo.
Corisca. Tu trovi chi da te non parte mai,
Amarilli mia dolce, e di te stava
pur or pensando e fra mio cor dicea:
— S’io son l’anima sua, come può ella
star senza me si lungamente? — e, ’n questo,
tu mi se’ sopraggiunta, anima mia.
Ma tu non ami piú la tua Corisca.

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Amarilli. E perché ciò?

Corisca. Come perché? tu ’l chiedi?
Oggi tu sposa...
Amarilli. Io sposa?
Corisca. Si, tu sposa
ed a me noi palesi?
Amarilli. E come posso
palesar quel che non m’è noto?
Corisca. Ancora
tu t’infingi e mel neghi?
Amarilli. Ancor mi beffi?
Corisca. Anzi tu beffi me.
Amarilli. Dunque m’affermi
ciò tu per vero?
Corisca. Anzi tei giuro; e certo
non ne sai nulla tu?
Amarilli. So che promessa
giá fui; ma non so giá che si vicine
sien le mie nozze. E tu da chi ’l sapesti?
Corisca. Da mio fratello Ormino. Esso l’ha inteso,
dice, da molti; e non si parla d’altro.
Par che tu te ne turbi. È forse questa
novella da turbarsi?
Amarilli. Gli è un gran passo,
Corisca; e giá la madre mia mi disse
che quel di si rinasce.
Corisca. A miglior vita
si rinasce per certo; e tu per questo
viver lieta dovresti. A che sospiri?
Lascia pur sospirar a quel meschino.
Amarilli. Qual meschino?
Corisca. Mirtillo, che trovossi
presente a ciò che ’l mio fratei mi disse,
e poco men che di dolor noi vidi
morire. E certo e’ si moriva, s’io
non l’avessi soccorso, promettendo

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di sturbar queste nozze; e, ben che questo

dicessi sol per suo conforto, io pure
sarei donna per farlo.
Amarilli. E ti darebbe
l’animo di sturbarle?
Corisca. E di che sorte!
Amarilli. E come ciò faresti?
Corisca. Agevolmente,
pur che tu ti disponga e ci consenta.
Amarilli. Se ciò sperassi e la tua fé mi dessi
di non l’appalesar, ti scovrirei
un pensier che nel cor gran tempo ascondo.
Corisca. Io palesarti mai? aprasi prima
la terra e per miracolo m’inghiotta.
Amarilli. Sappi, Corisca mia, che, quand’io penso
ch’i’ debbo ad un fanciullo esser soggetta,
die m’ha in odio e mi fugge e ch’altra cura
non ha che i boschi, e eh’una fèra e un cane
stima piú che l’amor di mille ninfe,
malcontenta ne vivo e poco meno
che disperata; ma non oso a dirlo,
si perché l’onestá non mel comporta,
si perché al padre mio n’ho di giá data
e, quel ch’è peggio, a la gran dea, la fede.
Che se per opra tua, ma però sempre
salva la fede mia, salva la vita
e la religion e l’onestate,
troncar di questo a me si grave nodo
si potesser le fila, oggi saresti
tu ben la mia salute e la mia vita.
Corisca. Se per questo sospiri, hai gran ragione,
Amarilli. Deh! quante volte il dissi:
— Una cosa si bella a chi la sprezza?
Si ricca gioia a chi non la conosce? —
Ma tu se’ troppo savia, a dirti il vero,
anzi pur troppo sciocca. E che non parli?
che non ti lasci intendere?

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Amárilli. Ho vergogna.

Corisca. Hai un gran mal, sorella. I* vorrei prima
aver la febbre, il fistolo, la rabbia.
Ma, credi a me, la perderai tu ancora,
sorella mia, si ben; basta una sola
volta che tu la superi e rinieghi.
Amárilli, Vergogna, che ’n altrui stampò natura,
non si può rinegar, ché, se tu tenti
di cacciarla dal cor, fugge nel volto.
Corisca. O Amárilli mia, chi, troppo savia,
tace il suo male, alfin, da pazza, il grida.
Se questo tuo pensiero avessi prima
scoperto a me, saresti fuor d’impaccio.
Oggi vedrai quel che sa far Corisca.
Ne le piú sagge man, ne le piú fide
tu non potevi capitar. Ma, quando
sarai per opra mia giá liberata
d’un cattivo marito, non vorrai tu
d’un buon amante provvederti?
Amárilli. A questo
penseremo a bell’agio.
Corisca. Veramente
non puoi mancare al tuo fedel Mirtillo.
E tu sai pur s’oggi è pastor di lui,
né per valor, né per sincera fede,
né per beltá, de l’amor tuo piú degno.
E tu’l lasci morire (ah troppo cruda!),
senza che dir ti possa, almeno: — Io moro?
Ascoltalo una volta.
Amárilli. Oh quanto meglio
farebbe a darsi pace, e la radice
sveller di quel desio eh’è senza speme!
Corisca. Dágli questo conforto anzi che moia.
Amárilli. Sará piuttosto un raddoppiargli affanno.
Corisca. Lascia di questo tu la cura a lui.
Amárilli. E di me che sarebbe, se mai questo
si risapesse?

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CORISCA. Oh quanto hai poco core!

Amarilli E poco sia, purch’a bontá mi vaglia.
CORISCA. Amarilli, se lecito ti fai
di mancarmi tu in questo, anch’io ben posso
giustamente mancarti. Addio.
Amarilli. Corisca,
non ti partir; ascolta.
CORISCA. Una parola
sola non udirei, se non prometti...
Amarilli. Ti prometto d’udirlo, ma con questo,
ch’ad altro non m’astringa...
CORISCA. Altro non chiede.
Amarilli. ... e tu gli facci credere che nulla
saputo i’ n’abbia...
Corisca. Mostrerò che tutto
abbia portato il caso.
Amarilli. ... e ch’indi possa
partirmi a mio piacer, né mi contrasti...
Corisca. Quando ti piacerá, pur che l’ascolti.
Amarilli. ...e brevemente si spedisca.
Corisca. E questo
ancora si fará.
Amarilli. ...né mi s’accosti
quanto è lungo il mío dardo.
Corisca. Oimè, che pena
m’è oggi il riformar cotesta tua
semplicitá! Fuor che la lingua, ogn’altro
membro gli legherò, si che sicura
star ne potrai : vuoi altro ?
Amarilli. Altro non voglio.
Corisca. E quando il farai tu?
Amarilli. Quando a te piace,
pur che tanto di tempo or mi conceda
ch’i’ torni a casa, ove di queste nozze
mi vo’ meglio informar.
Corisca. Vanne, ma guarda

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di farlo accortamente. Or odi quello

ch’io vo pensando: ch’oggi sul meriggio
qui, sola, fra quest’ombre e senz’alcuna
de le tue ninfe tu ten venghi, dove
mi troverò per questo effetto anch’io.
Meco saran Nerine, Aglauro, Elisa,
e Fillide e Licori, tutte mie
non meno accorte e sagge che fedeli
e segrete compagne, ove, con loro
facendo tu, come sovente suoli,
il giuoco «de la cieca», agevolmente
Mirtillo crederá che non per lui,
ma per diporto tuo ci sii venuta.
Amarii.li. Questo mi piace assai; ma non vorrei
che quelle ninfe fossero presenti
a le parole di Mirtillo, sai?
Corisca. T’intendo, e ben avvisi; e fie mia cura
che tu di questo alcun timor non aggia,
ch’io le farò sparir quando fia tempo.
Vattene pur, e ti ricorda intanto
d’amar la tua fidissima Corisca.
Amarii.li. Se posto ho il cor ne le sue mani, a lei
stará di farsi amar quanto le piace.
Corisca. Parti ch’ella stia salda? A questa ròcca
maggior forza bisogna. S’a l’assalto
de le parole mie può far difesa,
a quelle di Mirtillo certamente
resister non potrá. So ben anch’ io
quel che nel cor di tenera fanciulla
possano i preghi di gradito amante.
Se ridur ci si lascia, a tal partito
la stringerò ben io con questo giuoco,
che non l’avrá da giuoco. Ed io non solo
da le parole sue, voglia o non voglia,
potrò spiar, ma penetrar ancora
fin ne l’interne viscere il suo core.

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Come questo abbia in mano e giá padrona

sia del segreto suo, farò di lei
ciò che vorrò senza fatica alcuna,
e condurrolla a quel che bramo, in guisa
ch’ella stessa, non ch’altri, agevolmente
creder potrá che l’abbia a ciò condotta
il suo sfrenato amor, non l’arte mia.

SCENA SESTA

Corisca, Satiro.

CoRISCA. Oimè, son morta!

Satiro. Ed io son vivo.
Corisca. Torna,
torna, Amarilli mia, ché presa sono.
Satiro. Amarilli non t’ode. Ah! questa volta
ti converrá star salda.
Corisca. Oimè, le chiome!
Satiro. T’ho pur si lungamente attesa al varco,
che ne la rete se’ caduta. E sai,
questo non è il mantello; è ’l crin, sorella.
Corisca. A me, Satiro?
Satiro. A te. Non se’ tu quella
Corisca si famosa ed eccellente
maestra di menzogne, che mentite
parolette e speranze e finti sguardi
vendi a si caro prezzo? che tradito
m’ha’in tanti modi e dileggiato sempre,
ingannatrice e pessima Corisca?
Corisca. Corisca son ben io; ma non giá quella,
Satiro mio gentil, ch’agli occhi tuoi
un tempo fu si cara.
Satiro. Or son gentile,

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si, scelerata; ma gentil non fui,

quando per Coridon tu mi lasciasti.
CORISCA. Te per altrui?
Satiro. Or odi meraviglia
e cosa nuova a l’animo sincero !
E quando l’arco a Lilla e ’1 velo a Clori,
la veste a Dafne ed i coturni a Silvia
m’inducesti a rubar, perché’l mio furto
fosse di quell’amor poscia mercede,
ch’a me promesso, fu donato altrui:
e quando la bellissima ghirlanda,
che donata i’ t’avea, donasti a Niso;
e quando, a la caverna, al bosco, al fonte
facendomi vegghiar le fredde notti,
m’hai schernito e beffato, allor ti parvi
gentile, ah, scelerata? Or pagherai,
credimi, or pagherai di tutto il fio.
CORISCA. Tu mi strascini, oimè! come s’i’ lussi
una giovenca.
Satiro. Tu ’l dicesti a punto.
Scòtiti pur, se sai; giá non tem’io
che quinci or tu mi fugga: a questa presa
non ti varranno inganni. Un’altra volta
ten fuggisti, malvagia; ma se’l capo
qui non mi lasci, indarno t’affatichi
d’uscirmi oggi di man.
CORISCA. Deh ! non negarmi
tanto di tempo almen, che teco i’ possa
dir mia ragion comodamente.
Satiro. Parla.
CORISCA. Come vuoi tu ch’io parli, essendo presa?
Lasciami.
Satiro. Ch’i’ti lasci?
CORISCA. I’ ti prometto
la fede mia di non fuggir.
Satiro. Qual fede

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perfidissima femmina? ancor osi

parlar meco di fede? I’ vo’ condurti
ne la piú spaventevole caverna
di questo monte, ove non giunga mai
raggio di sol, non che vestigio umano.
Del resto non ti parlo; il sentirai.
Farò con mio diletto e con tuo scorno
quello strazio di te, che meritasti.
Corisca. Puoi tu dunque, crudele, a questa chioma
che ti legò giá il core, a questo volto
che fu giá il tuo diletto, a questa un tempo
piú de la vita tua cara Corisca,
per cui giuravi che ti fora stato
anco dolce il morire, a questa puoi
soffrir di far oltraggio? Oh cielo! oh sorte!
In cui pos’io speranza? a cui debb’io
creder mai piú, meschina?
Satiro. Ah, scelerata!
pensi ancor d’ingannarmi? ancor mi tenti
con le lusinghe tue, con le tue frodi?
Corisca. Deh, Satiro gentil, non far piú strazio
di chi t’adora. Oimè! non se’giá fèra,
non hai giá il cor di marmo o di macigno.
Eccomi a’ piedi tuoi. Se mai t’offesi,
idolo del mio cor, perdon ti cheggio.
Per queste nerborute e sovraumane
tue ginocchia ch’abbraccio, a cui m’inchino;
per quello amor che mi portasti un tempo;
per quella soavissima dolcezza
che trar solevi giá dagli occhi miei,
che tue stelle chiamavi, or son duo fonti;
per queste amare lagrime, ti prego,
abbi pietá di me, lasciami ornai.
Satiro. (La perfida m’ha mosso; e, s’io credessi
solo a l’affetto, a fé che sarei vinto!)
Ma insomma io non ti credo. Tu se’ troppo

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malvagia e ’nganni piú chi piú si fida.

Sotto quell’umiltá, sotto que’ preghi
si nasconde Corista : tu non puoi
esser da te diversa. Ancor contendi?
CORISCA. Oimè il mio capo! Ah crudo! ancor un poco
ferma, ti prego; ed una sola grazia
non mi negar, almen.
Satiro. Che grazia è questa?
CORISCA Che tu m’ascolti ancor un poco.
Satiro. Forse
ti pensi tu con parolette finte
e mendicate lagrime piegarmi?
Co RISC a. Deh ! Satiro cortese, e pur tu vuoi
far di me strazio?
Satiro. Il proverai. Vien’ pure.
CORISCA. Senza avermi pietá?
Satiro. Senza pietate.
CORISCA. E ’n ciò se’ tu ben fermo?
Satiro. In ciò ben fermo.
Hai tu finito ancor questo incantesimo?
CORISCA. O villano indiscreto ed importuno,
mezz’uomo e mezzo capra, e tutto bestia,
carogna fracidissima e difetto
di natura nefando, se tu credi
che Corisca non t’ami, il vero credi.
Che vuoi tu ch’ami in te? quel tuo bel ceffo?
quella sucida barba? quell’orecchie
caprigne? e quella putrida e bavosa
isdentata caverna?
Satiro. O scelerata!
a me questo?
CORISCA. A te questo.
Satiro. A me, ribalda?
CORISCA. A te, caprone!
Satiro. Ed io con queste mani
non ti trarrò cotesta tua canina
ed importuna lingua?

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CORISCA. Se t’accosti

e fossi tanto ardito...
Satiro. In tale stato
una vii femminuzza, in queste mani,
e non teme? e m’oltraggia? e mi dispregia?
Io ti farò...
Corisca. Che mi farai, villano?
Satiro. I’ ti mangerò viva.
Corisca. E con qua’ denti,
se tu non gli hai?
Satiro. O ciel, come il comporti?
Ma s’io non te ne pago... Vien’ pur via.
Corisca. Non vo’ venir.
Satiro. Non ci verrai, malvagia?
Corisca. No, mal tuo grado; no.
Satiro. Tu ci verrai,
se mi credessi di lasciarci queste
braccia.
Corisca. Non ci verrò, se questo capo
di lasciarci credessi.
Satiro. Orsú! veggiamo
chi di noi ha piú forte e piú tenace,
tu il collo, od io le braccia. Tu ci metti
le mani, né con questo anco potrai
difenderti, perversa.
Corisca. Or il vedremo.
Satiro. Si certo.
Corisca. Tira ben. Satiro, addio;
fiaccati il collo.
Satiro. Oimè dolente ! ahi lasso !
oimè il capo! oimè il fianco! oimè la schiena
oh che fiera caduta! A pena i’ posso
movermi e rilevarmene. E pur vero
è ch’ella fugga e qui rimanga il teschio?
Oh maraviglia inusitata! O ninfe,
o pastori, accorrete e rimirate

[p. 78 modifica]
il magico stupor di chi sen fugge

e vive senza capo. Oh come è lieve!
quanto ha poco cervello e come il sangue
fuor non ne spiccia! Ma che miro? o sciocco!
o mentecatto! Senza capo lei?
Senza capo se’ tu. Chi vide mai
uom di te piú schernito? Or mira s’ella
ha saputo fuggir, quando tu meglio
la pensavi tener. Perfida maga!
Non ti bastava aver mentito il core
e ’l volto e le parole e ’l riso e ’l guardo,
s’anco il crin non mentivi? Ecco! poeti,
questo è l’oro nativo e l’ambra pura
che pazzamente voi lodate. Ornai
arrossite, insensati, e, ricantando,
vostro soggetto in quella vece sia
l’arte d’una impurissima e malvagia
incantatrice, che i sepolcri spoglia
e, dai fracidi teschi il crin furando,
al suo l’intesse e cosi ben l’asconde,
che v’ha fatto lodar quel che aborrire
dovevate assai piú che di Megera
le viperine e mostruose chiome.
Amanti, or non son questi i vostri nodi?
Mirate e vergognatevi, meschini.
E se, come voi dite, i vostri còri
son pur qui ritenuti, ornai ciascuno
potrá senza sospiri e senza pianto
ricoverar il suo. Ma che piú tardo
a publicar le sue vergogne? Certo
non fu mai si famosa né si chiara
la chioma eh’è lá sú con tante stelle
ornamento del ciel, come fie questa
per la mia lingua, e molto piú colei
che la portava, eternamente infame.

[p. 79 modifica]
CORO

Ah, ben fu di colei grave l’errore,
cagion del nostro male,
che le leggi santissime d’Amore,
di fé mancando, offese;
poscia ch’indi s’accese
degli immortali dèi l’ira mortale,
che, per lagrime e sangue
di tante alme innocenti, ancor non langue.
Cosi la Fé, d’ogni virtú radice,
e d’ogn’alma ben nata unico fregio,
lá su si tiene in pregio!
Cosi di farci amanti, onde felice
si fa nostra natura,
l’eterno Amante ha cura!
Ciechi mortali, voi che tanta sete
di possedere avete,
l’urna amata guardando
d’un cadavero d’òr, quasi nud’ombra
che vada intorno al suo sepolcro errando;
qual amore o vaghezza
d’una morta bellezza il cor v’ingombra?
Le ricchezze e i tesori
son insensati amori. Il vero e vivo
amor de l’alma, è l’alma: ogn’altro oggetto,
perché d’amare è privo,
degno non è de l’amoroso affetto.
L’anima, perché sola è riamante,
sola è degna d’amor, degna d’amante.
Ben è soave cosa
quel bacio che si prende
da una vermiglia e delicata rosa
di bella guancia. E pur chi ’l vero intende,

[p. 80 modifica]
com’intendete vui,

avventurosi amanti che ’l provate,
dirá che quello è morto bacio, a cui
la baciata beltá bacio non rende.
Ma i colpi di due labbra innamorate,
quando a ferir si va bocca con bocca
e che in un punto scocca
Amor con soavissima vendetta
l’una e l’altra saetta,
son veri baci, ove con giuste voglie
tanto si dona altrui, quanto si toglie.
Baci pur bocca curiosa e scaltra
o seno o fronte o mano: unqua non fia
che parte alcuna in bella donna baci
che baciatrice sia,
se non la bocca, ove l’un’alma e l’altra
corre e si bacia anch’ella, e con vivaci
spiriti pellegrini
dá vita al bel tesoro
de’ bacianti rubini,
si che parlan tra loro
gran cose in picciol suono,
e segreti dolcissimi che sono
a lor solo palesi, altrui celati.
Tal gioia amando prova, anzi tal vita,
alma con alma unita,
e son come d’amor baci baciati
gli incontri di duo còri amanti amati.