Il podere (Tansillo)/I

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II
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I.


     Io non so, se da scherzo, o da dovero
Voi diceste l’altr’ier su quella torre,
Che per testa vi va novo pensiero;
     E che ’l giardin, che desiaste torre
Qui in riva al mar, più non v’aggrada, accorto
Dell’errore, e del danno, ove s’incorre:
     Ma in cambio di giardin (nel che v’esorto)
Voi vorreste incontrar villa o podere,
Che a pro vi fosse insieme, ed a diporto.
     Voi pensate da saggio al mio parere;
Ch’egli è follia, che apporta penitenza,
Il comprar ne’ terren solo il piacere.
     Io so, che a voi non manca provvidenza
In questo, e in altro da far scelta buona,
E per ingegno, e per esperienza:

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     Che siete uom raro, e da gradir persona,
Non pur che ’l cerchio cinga il capo suo;
Ma che porti il Camauro o la corona.
     Ma perchè si suol dir nel caso tuo
Proprio prendi avvocato, e suolsi dire:
Che veggon più quattro occhi che non duo;
     E parmi d’ora in ora vederv’ire
Col venditore, e col notaio al fianco;
Io vi vuo’ col consiglio prevenire.
     Nè vi debbo in questo atto venir manco,
Se ben l’usanza il consigliar mi vieta
Uom, che nol chiede oltra c’ha il pelo bianco.
     Se comparir da amico e con moneta
Non posso, il che voi forse avreste a scorno,
Verrò con penna in mano, e da poeta.
     E vi voglio insegnar tutto in un giorno
Quel poco, che in molti anni m’ha insegnato
Il leggere, l’udire, e ’l gire attorno.
     Perchè in ogni atto, che non sia sforzato,
L’elezion ben fatta è quel che importa:
Lasciamo andar quando da su vien dato.
     Se va l’elezïon senza la scorta
Del buon conoscimento, ella andrà male:
È un gir al buio là ve ’l piè ne porta.
     Ch’esser puote il podere in parte, e tale,
Ch’io nol torrei se mi si desse in dono,
Non pur a molto men di quel che vale.

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     Ond’io vi mostrerò quante, e quai sono
(Pria che ’l danaio fuor di banco v’esca)
Le parti, che richiede un poder buono.
     E perchè ’l prezzo oltre il dover non cresca,
Io vi darò due documenti radi,
Che mai di compra fatta non v’incresca.
     E vi dirò degli uomini e de’ gradi,
Col cui mezzo, e da cui l’aver fia leve
Cosa, che men vi costi, e più v’aggradi.
     Della memoria mai non vi si leve,
Che nè poder, nè altro che si cole,
Comprar cupidamente unqua si deve.
     Membratevi quest’altre due parole,
Quando al vedere, e al patteggiar voi siete
Che ciò, che mal si compra sempre duole.
     Se ’l piè dall’orme mie non torcerete,
Fia ’l cammin buono; e non vi farà mai
Acqua torbida ber soverchia sete.
     Voi mi potreste dir: se tu non hai
Nè poder, ch’io mi sappia, nè giardino,
Come trattarne, ed insegnar saprai?
     Stimate ch’io sia un pover Fiorentino,
Che regga scuola d’abaco; e del mio
Non aggia da contar soldo o quattrino.
     Quel che pria s’ha da fare, è il pregar Dio,
V’indirizzi al meglio; come in tutti affari
Tor dee principio ogni uom prudente e pio.

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     Indi parlate a’ pubblici sensari,
A’ più ricchi e più noti contadini,
A’ dottori, a’ mercanti, ed a’ notari,
     Ch’han gli amici, e i clientoli, e i vicini:
Sapran s’uom vender voglia, e quanto chieda;
E quai sian le contrade, e quali i fini.
     Quando saprete, ove il poder si sieda,
Itelo a riveder non una o due
Volte, ma dieci, e con voi altri il veda.
     Sappiate di cui sia, e di cui fue
Guardatel tutto intorno, entro e di fuora,
E nelle più riposte parti sue.
     Giova il vederlo più, e più talora;
Che s’è buono il terren, s’è vago il sito,
Quanto vedete più, più v’innamora.
     Com’uom ch’egli abbia a procacciar marito
A figlia bella, e sola, e d’alta dote;
Con la lingua, e col piè siate scaltrito.
     Sia presso alla città, quanto si puote,
Il poder che cercate; e larghi e piani
Siano i sentier, che andar vi possan rote.
     Comprar poderi, e che ne sian lontani,
È far dono a tre stati di persone,
A servitori, a schiavi, ed a villani.
     Però quel Moro saggio, il buon Magone
Dicea chi ’l poder compra, immantinente
Venda nella città la sua magione;

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     Per mostrar, che ’l signor non pur sovente,
(Il che non potrà far, s’è lunga strada)
Ma a qualunque ora esser vi dee presente.
     S’è presso al mar sì, ch’uom per mar vi vada,
E del carro si vaglia, e delle barche,
Qual più gli è in destro, tanto più m’aggrada.
     Ma sia che bisogni ir, poich’uom si sbarche,
Duo tratti d’arco; e sia ch’entrin le porte
E treggie, e carra, non che bestie carche.
     Quanta utiltà pensate voi, che apporte
Poder, ch’abbia sì comodi i viaggi,
Oltre al piacere, a cui gliel dà la sorte?
     S’è lontan da città, sia tra villaggi;
Che chi vuol voi, per boschi non vi cerchi;
Nè il guardian tema di ladri oltraggi;
     E possa ancor più agevolmente aver chi
Poti e vendemmi, e zappi ed ari, e falce;
Nè lungi, e caro altrui fatiche merchi.
     E se la zappa, e ’l vomero, o la falce
Si rintuzzan, sia presso chi gli acconcie.
E s’abbian ferro e legni e pietre e calce
     Da far nuove opre, e da sarcir le sconcie:
E, se si paga il far de’ tetti o palchi
Altrove a dramme, qui non monti ad oncie.
     E fisici e chirurgi e mariscalchi
Uom possa aver, quando il bisogno accade;
Nè lunga via per lor vada o cavalchi:

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     Che ’l villan vostro rade volte, e rade
Per uom che gli sia d’uopo o roba od opra,
Lasci la villa, ed usi alla cittade.
     Pigra palude, che di nebbia il copra,
Non abbia intorno, o verde umor, che stagna,
E nociva aura ognor gli affiati sopra.
     Sieda alle falde, o al piè della montagna,
Che si possa goder vista più bella,
E l’acqua accor, che le pendici bagna.
     Ma non che tema a tempo di procella
Torrente, ch’ogni cosa affatto strugga,
Porti le biade via, gli arbori svella.
     Nè penda sì, che l’acqua se ne fugga,
Che d’aria vien; nè ve ne mora goccia;
Ma che la terra il più n’assorba, e rugga.
     Nè gli stia su qualche scoscesa roccia,
Che per tempesta, che la smova o crolli,
Col rotar giù de’ sassi talor noccia.
     E s’egli è in pian, sien campi asciutti e molli;
(Che ancor sul piano esser può buono e bello;
Nè sempre aver si posson monti e colli.)
     Attendete, ch’egli abbia o questo o quello,
O il terren tutto ad una banda inclini,
O sia per tutto egual, non a livello;
     Che ed erto e pian ne’ fossi, e ne’ pendini,
Non si faccia quel limo e quella borra,
Che uligine suol dirsi dai Latini.

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     Se umor non ha, nè ’l puote aver, che corra,
Abbial che giaccia: ma sian vene eterne;
Non sì profonde, che ’l villan le aborra.
     Non m’appagan pescine, nè cisterne,
Or calde, or secche; ma vo’ fonte o pozzo,
Freddo d’estate, e caldo quando verne.
     O se la Parca non avesse mozzo
Il filo della vita del gran Pietro,
Ch’ebbe sì in odio il viver rude e sozzo;
     Chiare onde e fredde più che ghiaccio e vetro
Avrian forse e Pausilipo e sant’Ermo,
Non pur la quercia, e ’l salce, e i campi addietro.
     Ameno e colto ogni aspro colle ed ermo
Fora qui intorno; ed acque avrian gli agrumi,
Per far dal caldo, e dal gelame schermo.
     E chi non sa, che le fontane, e i fiumi
Son l’alme delle terre, e i fregi veri,
Come del ciel le stelle, e i maggior lumi?
     E se avesse sortito il buon Lettieri
Un secolo del nostro men cattivo,
Quando in opra poneansi i bei pensieri;
     Avria la vostra casa oggi il suo rivo;
Ed ei, come a que’ tempi era in costume,
Fora in pietre e ’n metalli sempre vivo.
     Poich’egli ebbe d’ingegno tanto lume,
Che scoperse le vie maravigliose,
Che da Serino a Napoli fea ’l fiume;

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     Le vie mille anni, e mille, e più nascose
Sotterra, in mezzo ’l sasso, dentro i monti;
Che pur sono a pensar mirabil cose.
     Che fora il veder Napoli coi fonti
Così nel sommo suo, come nel basso?
Altro saria, che aver marchesi e conti.
     Non perchè sia ’l terren fertile e grasso,
L’aria abbia infetta, che i cultor funeste:
Nè sia magro sabbione, o steril sasso,
     Perchè l’aria abbia pura: che son queste
Due vie sorelle, e ne dee far paura
Così la steriltà, come la peste.
     Non è sì scarsa, o povera natura,
Che ambedue grazie un loco aver non possa:
E far, ch’ove egli ha ’l petto, volga il tergo.
     Che ancor che non vi sia vapor terrestre,
Che l’aria ammorbi, son talora i venti,
Che fan le cose or prospere or sinestre.
     Non sempre appare ai visi delle genti,
Se ’l cielo è buono o reo; che spesso usate
Vivon sane ne’ luoghi pestilenti.
     Nè titol di salubre unqua gli date,
Se non è buon per le stagioni tutte;
E via più che di verno, anche di state.
     Pessimo è quel terren, benchè assai frutte,
Col qual bisogna che si metta a gioco
La vita del padrone, e seco lutte.

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     Dissi dell’acqua: dico ancor del foco.
Abbia il poder comodità di legna;
Che ambedue fan bisogno in ogni loco.
     Abbiala sì, ch’arda alla villa, e vegna
Alla città col carro il rustic’uomo,
E ’l carbon sempre acceso vi sostegna.
     Voi d’altrui siete e vostro maggiordomo;
Sapete se le legne oggi son care;
Più che ’l guaiaco d’India, e ’l cinnamomo;
     E se qui senza bragia si può stare,
Quando ci soffia il vento di rovaio;
Oltre al bisogni, in che si suole oprare.
     Venga la prima sera di gennaio
Coi ceppi, e lauri suoi lo stuol selvaggio,
A chiedervi cantando alcun danaio,
     E coi fiori la prima alba di maggio
A suon d’alta sampogna; e porti in collo,
Per piantarlo in su l’uscio, integro un faggio.
     E con le legne or v’arrechi uova, or pollo;
Or questi doni, or quei: conformi al tempo,
O meni alto il suo carro, o basso Apollo.
     Susine e fichi, ed uve al caldo tempo
Nespole e sorbe al freddo, e pere e poma,
Frutta da fargli onor più lungo tempo.
     E stridano or sul carro or su la soma,
Leprotto, cavriol, porchetti, ed agni,
Quando il verno ha più bianca e barba e chioma.

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     Benchè non entri al libro de’ guadagni,
È dolce ad uom, qual voi, largo e gentile,
Dare e dire a’ signori, ed a’ compagni:
     Questo è del mio podere, o del mio ovile
O ch’egli stesso a mensa sen ricordi;
E ’l suo gli aggradi, e tenga ogni altro a vile.
     La state beccafichi, il verno tordi,
Che visco o rete ne’ vostri arbor prenda,
Da far di loro i più svogliati ingordi.
     Importa assai, benchè nessun v’intenda,
Per comprar con men costo e men periglio,
Saper chi sia ’l padrone, e perchè venda.
     E vi vo’ dare un saggio, alto consiglio,
Che mai scrittore antico altrui nol diede:
Cercate di comprar sempre da figlio,
     Figlio che sia di morto padre erede;
Se aver bramate un venditor cortese,
Che si toglia assai men di quel che chiede.
     Schivate di comprar d’uom, che v’intese,
E ’n farlo, abbia oro e diligenza posta;
Che allor val troppo ogni aspro, e vil paese.
     Però Nisida bella assai men costa
Al vostro, e mio signore, a cui fortuna
Dovria far d’oro i sassi de la costa;
     O donar tutto a lui raccolto in una,
Quanto tesoro in queste parti, e ’n quelle
Per le molte arche altrui sparge e raduna.

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     So che le donne valorose e belle,
E le persone dotte e virtuose
Non si dorrian sì spesso delle stelle.
     E Nisida, ch’or è delle vezzose,
Che cinga il mar da Gadi a Negroponte;
Saria delle più ricche e più famose:
     La qual se in quei primi anni ebbe occhi e fronte
Dolci, come or, non paia strano a vui,
Che ardesse del suo amore il vicin monte.
     Ma se a comprar s’avesse da colui,
Che prima la spogliò d’incolte vesti,
Per tre cotanti non saria d’altrui.
     Soglion dir quei sagaci uomini agresti,
Che amor di figlio e d’arbore è sembiante
Qualora uom di sua mano il pianti, o innesti.
     Se vi vien qualche giovane davante,
Cui siano appena i primi peli schiusi
Che faccia il cavalier, faccia l’amante;
     Non è bisogno allor, che da voi s’usi
Cotanta providenza; ma potreste
Comprar, come si dice, ad occhi chiusi:
     E tanto più, se si fan giostre o feste;
E ’l giovanetto a fregi, a pompe avezzo,
Vuol cavalli, e staffieri, ed arme e vesti.
     Comprate allor, se vi vendesse un pezzo
Di quei monti d’Aierola, o di Scala;
Che s’è aspro il terreno, è dolce il prezzo.

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     Benchè la compra non fa buona, o mala,
In quanto al mio parer, s’uom se n’appaga,
Il meglio, o ’l più che ’l costo sale o cala:
     Purchè si pigli cosa buona e vaga,
Ancor che sian talor cari i partiti,
Con quel si compra, che di più si paga.
     Trovo uno errore, e d’uomini infiniti,
Che non s’emenderian del creder loro,
Se fosser come eretici puniti.
     Che si debban comprar voglion costoro,
Possession deserte, e d’uom mendico,
E pigro, acciò s’avanzin col lavoro.
     E di qui nacque quel proverbio antico,
Ch’è tra noi: magion fatta e terra sfatta.
Ed io tutto il contrario oggi vi dico.
     Il buon censor, ed altri che ne tratta,
Conchiudon, che cercar terra ben colta
Non men si debba, che magion ben fatta.
     E che faccenda più dannosa e stolta
Non si può fare, e dove uom più s’inganni,
Che possession comprar caduta e incolta.
     Non è meglio (lasciamo ir gli altri danni)
Goder dal primo giorno il ben già fatto,
Che quel, che s’ha da fare, attender gli anni?
     Da terra ben nudrita se n’ha ratto
L’usura in mano, e l’utiltà vien certa;
L’altra è dubbia, e dannosa al primo tratto.

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     Chi vuol pigliar possession deserta,
Piglila ch’ei non abbia ancor la gota
Della prima lanugine coperta.
     Ma chi con quattro croci il dì si nota
Del suo natale, o se ne stia digiuno,
O la cerchi ben lieta, e su la rota.
     Più vi vo’ dir: sappiate ad uno ad uno
Quai frutti v’ha, da chi gli ha colti o visti,
Nè vi caglia il parer troppo importuno.
     Perchè se tutti son cattivi o misti,
Bisognan doppie spese, affanni doppi,
A porvi i buoni, ed a sbandirne i tristi:
     Ch’or nobil ramo a tronco vil s’accoppi;
Or questo arbor si taglie, or quel si sterpe;
E si accasin di novo or gli olmi or gli oppi.
     Che veder vite, che per arbor serpe,
Non puon gli occhi soffrir de’ buon padroni,
S’ella non è di generosa sterpe.
     Ma che le viti, e gli arbori sian buoni,
Se con misura et arte non fur posti,
Ancor che sian ben colti, e ’n lor stagioni,
     Rende poco il poder, benchè assai costi;
Che l’una pianta a l’altra si fa guerra,
Se più, che non dovria, s’appressi, o scosti
     L’una all’altra. Qualor nell’ordin s’erra,
L’aria, e l’aura, e la luna, e ’l sol si toglie;
Nè forze a tutte egual può dar la terra.

[p. 25 modifica]

     Il che noce di lor fin alle foglie,
Oltra che non dan mai quanto han promesso,
E quel poco men buon, ch’indi si coglie.
     Pria che ’l poder sia nostro, non solo esso
Noi dobbiamo e mirare, e squadrar bene,
Ma ancor le terre, che gli stan da presso.
     Perchè se quelle splendon, ne dan spene,
Anzi certezza, che sia buono il clima.
Sappiasi ancor l’uom che vicin si tiene.
     E quai siano i vicini inquirer prima
Che gli alberghi o i poderi abbiam noi tolti,
È di momento assai più ch’uom non stima.
     E vi potrei contar popoli molti,
Che per fuggir vicini ladri, infidi,
Si son da più contrade insieme accolti;
     E dalle patrie lor, dai dolci nidi
In volontario esilio si son messi,
Nuove terre cercando, e nuovi lidi.
     Nel principio del mondo fur concessi
Agli animai da Dio quei privilegi,
E quei doni, che chiesero egli stessi.
     Come nuovi vassalli a nuovi regi,
Gran popolo di loro ivi convenne;
Quali ai comodi intenti, e quali ai fregi.
     Tra gli altri la testuggine vi venne,
E chiese il poter sempre, o vada o seggia,
Trar seco la sua casa; e ’l dono ottenne.

[p. 26 modifica]

     Dimandata da Dio perchè li cheggia
Mercè, che a lei più grave ognor si faccia:
Non è, diss’ella, ch’io ’l mio mal non veggia;
     Ma vuo’ piuttosto adosso, e su le braccia
Tor sì gran peso tutti gli anni miei,
Che non poter schifar quando mi piaccia,
     Un mal vicin. Che dunque dir potrei
De’ tempi nostri, se da quei d’Adamo
Già s’ebbe tema de’ vicini rei?
     Ma acciò che quel poder, che noi cerchiamo
Innanzi che si trovi, non ne stanchi,
Riposiamoci un poco, e poi torniamo,
Che avrem più forza ai piè, più lena ai fianchi.