Il podere (Tansillo)/II

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I III
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II.


     Se per cercar talor piccola lepre
Uom va più miglia al freddo, all’acqua, al vento,
E guata e scuote ogni solchetto, e vepre:
     Per trovar il miglior d’un elemento,
Non vi gravi il seguirmi per via lunga;
E un dì sudar per riposar poi cento.
     Benchè vi paia spron, che poco giunga,
Il doversi spiar come sian fatti
Quei, che limite o siepe a noi congiunga:
     E benchè esaminar degli altrui fatti
Impaccio sia, che rado utile apporti,
S’uom di servigio, o matrimon non tratti;
     Nessun potria pensar quel che gli importi
L’aver, se prima non ne viene a prova,
Buoni vicini o rei, debili, o forti.
     Il reo vicin mi nuoce, il buon mi giova;
Col povero ho speranza d’allargarme,
E ’l ricco fa, ch’uom passo non si mova.
     Se ’l poder compro per talor quetarme,
Se ho mal vicino, a capo, al letto, al fianco
La notte, e ’l dì convienmi tener l’arme.
     Sia fertil quanto uom vuol; se a destro o manco
Qualche Autolico stammi, o qualche Cacco,
Ne vale il mio poder la metà manco.

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     Ruba a Pomona, a Cerere, ed a Bacco;
Non teme di minaccie, nè d’accusa,
Pur ch’empia in terra altrui la corba, o il sacco.
     Non giova villa d’ogn’intorno chiusa,
Nè diligenza d’uomini, e di cani,
Contro le insidie, che ’l vicin vostro usa.
     Gallina, che dall’uscio s’allontani,
Più non vi riede, e chiami pur, e pianga
La villanella, e battasi le mani.
     Aratro o giogo o rastro o marra o vanga,
Qual sia di ferramenti o di legnami,
Non fidate che fuori si rimanga.
     Or svelle viti, or pali, or tronca rami,
Or arbore per foco, o per altri usi;
Nè lascia intatti i prati, nè gli strami.
     Fura i legumi ancor ne’ gusci chiusi
Nè de’ frutti primier, nè de’ sezzai
Sostien, che ’l padron doni, o per sè gli usi.
     Nel suo terren non mette piè giammai,
Che danno non incontri; e guardia, e cura
N’abbia a sua posta, e d’ogni tempo, assai.
     Chi per sua colpa, o per sua rea ventura
S’accosta a’ rei vicini, o si raffronta,
Sempre ha l’oste alle siepi, ed alle mura.
     D’un signor Greco e saggio si racconta,
Che facendo una sua possessione
Por sotto l’asta al prezzo, che più monta

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     Comandò, che gridasse anco il precone,
Ch’ella avea buon vicin: quasi ciò stimi
Non men, che le altre qualità sue buone.
     Se ho reo vicin, quai mura sì sublimi
Faran, che sin nel letto non m’assalte?
Qual legno, o ferro è, che non apra o limi?
     Abbia il poder le siepi e folte, ed alte,
Gli argini, o i fossi, o gli steccati, o i muri;
Sì che bestia non v’entri, uom non vi salte.
     I termini più saldi e più sicuri
De le possession son gli arbor stessi:
Che non ho tema che uom gli smova o furi.
     Però chi vi pon pini, e chi cipressi,
Che sono arbori rari ed immortali,
Nè giudice bisogna ove son essi.
     L’uve, e le biade son le principali
Ricchezze ne’ poder, che denno aversi,
Come il ber, e ’l mangiare han gli animali.
     Benchè abbia intorno a ciò parer diversi:
Chi vuol che sian le prata; e le difese;
Chi le vigne, e chi gli orti d’acqua aspersi.
     Io che tratto di questi del paese
Tra Liri e Sarno. e le montagne, e l’onde,
Lascio le altrui dispute, e le contese;
     I quai son ricchi d’arbori e di fronde,
Più che di piante, e d’erbe quasi tutti;
Le prime parti al vino, e le seconde

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     Do al grano. D’ogni spezie poi di frutti
Abbian, che aver si possa e più e meno,
Come più di quel clima son produtti.
     Non produce ogni cosa ogni terreno;
Convien che sua natura ogni terra abbia;
E pari a l’esser suo se l’empia il seno.
     Che s’uom volesse non lontan da Stabbia
Arar e sementar, e metter grano,
Ch’è tutto or ghiara or pietra arsiccia or sabbia,
     O in quel d’Aversa, e Capova, e Giuliano
Piantar granata, amandole ed olive,
Ch’è sì fecondo: fora un pensier vano.
     La vite è quella, che più rende e vive
Su queste nostre terre a Bacco sacre,
Sian campi o monti o poggi o valli o rive:
     Se non se alquante paludose o macre,
Poco abili ed all’uve, ed alle biade,
Che l’une e l’altre fan deboli e macre.
     Vorreste voi saper, delle contrade,
C’ha qui d’intorno qual miglior mi paia;
E intender la cagion perchè m’aggrade?
     Ove adombra Vesevo, e là ver Baia,
Oh i dolci colli, oh le campagne erbose
E per le tine fertili, e per l’aia!
     Le comparazion sono odiose,
E con quei maggiormente c’han del grosso,
O che aman troppo le lor proprie cose.

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     S’io cerco l’altrui grazia il più che posso,
Non vo’ con far de’ luoghi differenzia,
L’ira recarmi de’ padroni adosso.
     Una cosa dirò, che coscienza
Mi sforza a non tacerla, e con perdono
Di lor, cui tocca, e spiace la sentenza.
     Perdoni il Sangro, il Manso, il Macedono,
E gli altri tutti, o sian gentili o rudi,
Se in quel, ch’io dico, offesi da me sono.
     Ogni uom tre luoghi di fuggir si studi,
Che son dannosi, e disagiati, ed egri;
L’Acerra, e Fuoragrotta, e le Paludi.
     Per quella polve, e quegli orror sì negri,
S’io avessi ver Cuma il mio podere,
Io starei a non irvi gli anni integri.
     Oltre ai danni, ch’egli han delle galere,
I cui spirti dannati a suon di ferro
A sradicar le selve vanno a schiere;
     Svellon gli arbusti, non che l’orno, e ’l cerro.
Sto talor nel balcon, sento le torme;
Per non vedergli, o mi fo indietro, o ’l serro.
     È pur gran fatto; e Napoli si dorme;
Nè si vede uom destar, che cerchi mezzo
Da moderar licenza così enorme.
     Ho corso quasi tutto il mar di mezzo,
Tutte l’isole ho visto, e tutti i lidi,
Ch’egli ha dai lati, e che gli stanno in mezzo:

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     E in parte mai dar àncora non vidi,
Ove la turba vil di forca degna
Nel gire a’ danni altrui tanto osi e fidi:
     Smonti in Sicilia, in Corsica, in Sardegna,
In Liguria, in Provenza, e ’n Catalugna;
E coglia i frutti altrui, tronchi le legna.
     Non vo’ ch’uom corra al ferro o venga a pugna
Ma preghin chi ’l può far, quei che dan voti
Che freni arpie, c’han sì rapaci l’ugna.
     Che peggio potrian far Svizzeri e Goti
Ne’ campi de’ nemici, e de’ ribegli,
Che qui fan oggi i nostri galeoti?
     Non spero, che in ciò Napoli si svegli.
Poichè in cosa maggior l’aggrava il sonno.
Le man l’avess’io avvolte entro i capegli!
     Torniamo al campo. I ricchi qualor vonno
E con la vigilanza, e con la borza,
Ogni aspro scoglio fertile far ponno
     Onde tastar bisogna oltre la scorza
Il terren, ch’a veder voi siete addutto,
Che sia buon per natura, e non per forza:
     E quando anco sia tal, che per far frutto
Non richieda molt’oro, opra e fatica:
E questa parte grava a par del tutto.
     Quella nobil Romana gente antica,
Tanto lodata in prosa, e ’n verso, e ’n rima,
Che fu dell’arte rustica sì amica,

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     Questo era quel, che investigavan prima,
Se terra egli comprar volean talora;
E questo de’ più scaltri oggi si stima.
     Nè cerco già, nè vo’, che sia tale ora,
Qual fu la terra nell’età de l’oro:
(O fortunato chi nasceva allora!
     Che senza seme altrui, senza lavoro,
Per se stessa abbondante, e fertil era,
E dava a quei mortali il viver loro:
     O sia, qual degli Elisi la riviera,
Ove ogni anno il terren frutta tre volte;
E v’han perpetuo autunno, e primavera.
     Basti che sia, ch’ella si tenda, e volte
Senza sudor soverchio d’uman viso;
Nè le spese surmontin le ricolte.
     Da che gli uomini in cielo, e in paradiso,
L’un furò il foco, e l’altro colse il pomo,
Volgendo in pianto il proprio e l’altrui riso;
     Fè Dio compagni eterni al miser uomo
I morbi, il mal, le cure e le fatiche,
E fu ’l furto punito, e l’ardir domo.
     Onde abbia quanto vuol le stelle amiche,
Bisogna ch’uom patisca in tutte etadi,
E con sudor si pasca, e si nodriche.
     Ma vi son poi le differenze e i gradi:
Cui più, cui men ne tocca; e tuttavia
Son color, che n’han poco, e pochi e radi.

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     Vuol Dio, che stato sotto il ciel non sia,
Ove uom s’acqueti, e men chi ha miglior sorte;
Nè senza affanno abbia uom quel che desia.
     Un saggio contadin venendo a morte,
Acciò che i figli in coltivar la terra
S’esercitasser dopo lui più forte:
     Figli, lor disse, io moro, ed ho sotterra
E nella vigna il più de’ beni ascoso;
Nè mi sovvien del cespo, ove si serra.
     Morto il padre, i fratei senza riposo,
A zappare e a vangar tutto il dì vanno,
Ciascuno del tesoro desioso.
     La vigna s’avanzò dal primiero anno,
E i giovanetti inteser con diletto
Del provvido vecchion l’utile inganno.
     Aveva un buon Romano un poderetto,
Dal qual traea più frutto, che dai grandi
Non traean quei da canto, o di rimpetto.
     Nè basta all’altrui invidia, che dimandi:
Ond’è, che tanto renda il poder tuo,
Che è tal, che un manto il copre; che vi spandi?
     Ma accusandol più d’uno, e più di duo,
Dicean, che con incanti e con malìe
Le biade altrui tirava al terren suo.
     Venne a giudizio il destinato die,
Che si dovea por fine a le tenzoni,
E scoprir l’altrui vero, e le bugie.

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     Il buon uom per difender sue ragioni,
Al tribunal de’ giudici prudenti
Non menò nè dottori, nè patroni;
     Recò tutti i suoi rustici stromenti,
E tutti i ferri, onde il terren s’impiaga,
Ben fatti, e per lungo uso rilucenti;
     Suoi grassi buoi, sua gente d’oprar vaga:
Questi, disse, (già posti in lor presenza)
Son gl’incantesimi miei, l’arte mia maga:
     Le vigilie, i sudor, la diligenza
Trar qui non posso, come fo di questi,
Benchè dell’una io mai non vada senza.
     Subito, senza dar luogo a protesti,
Ed a calunnie, o porvi indugio sopra,
Dichiararon lui buono, e quei scelesti.
     E la sentenza fu, che più può l’opra
Nel terren, che ’l dispendio, che ivi fassi;
E tanto val poder, quanto uom v’adopra.
     D’oprar dunque in sul campo uom mai non lassi
Che ’l frutto è il ver tesor sotterra posto;
Non però tanto, che ’l dover trapassi.
     Terren fecondo per molt’opra e costo,
Sembra uom, che ben guadagni, e spenda largo
Che al fin più ha speso, che non ha riposto.
     Qui bisognan, direte, gli occhi d’Argo,
Perchè del tutto a tempo io mi ravvegga;
Non già quando aro o pianto o il seme spargo.

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     Or’io v’insegnerò come si vegga
La buona terra, e come si conosca;
E qual per grano, e qual per vin s’elegga.
     La miglior terra che sia negra o fosca
Vogliono, o bigia: e questo avvien che s’erre:
Che ancor nelle lagune ella s’infosca.
     Conoscer solo ne’ color le terre,
È proprio un giudicar gli uomini al volto:
Non sempre al volto appar quel che ’l cor serre.
     Quel che importa, è saper, s’è raro e folto
Il terren, grasso o magro, dolce o amaro
Grave o leggier, pria che da noi sia tolto.
     Per farvi dunque a certi indizi chiaro,
Qual e’ si sia, e quando è da sperarne
Che ubbidisca al villan quantunque avaro;
     Dirò qual prova voi potrete farne;
E s’egli è pingue o secco, raro o spesso;
Salso o soave, alta certezza trarne.
     Cavisi un pozzo: del terreno stesso,
Onde pria si votò, poi si riempia,
Coi piè da su bene adeguato, e presso.
     Se ’l terren manca, e che qual fu, non v’empia,
D’esile, e sciolto darà segno aperto
A l’occhio ben accorto, che ’l contempia.
     Ma se ’l fosso ripieno e ricoperto,
Fuora n’avanza, che non possa accorlo,
Che denso e fertil sia, credete certo.

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     E se ’l pozzo s’adegua a par dell’orlo,
Nè fuor cresce il terren, nè dentro scema;
In grado di mezzan potrete porlo.
     Bagnata gleba uom con man tratti e prema;
Se invesca, e tra le dita ella s’attacca,
Di terra magra non abbiate tema:
     O se avventata a terra, non si fiacca,
Ma tutta insieme affissa ivi si resta,
Da vomer grave non sarà mai stracca.
     Per prova del sapor, vil sacco o cesta
S’empia di terra, e là dove più avversa
Ella vi pare, ed al fruttar men presta;
     E d’acqua dolce ben da su cospersa,
Premasi il cesto, o il sacco onde trapela
L’umor, che fuora a larghe gocce versa:
     Indi purgato da stamigna o tela,
In un vaso, qual vin, fatene il saggio;
E il sapor della terra ei vi rivela.
     S’egli ha del dolce, può comprarla uom saggio
S’è amaro o salso, al suo signor potrete
Dir: frate, addio, che sete più non aggio,
     Che estinta m’ha questo liquor la sete
Del poder vostro, che m’avea sì acceso,
Qual fontana d’Ardenna, o rio di Lete.
     S’ella è grave o leggiera, al proprio peso
Conoscer pote uom che non sia cultore,
Che n’abbia alquanto in su la palma preso.

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     Lieta terra si scopre anche all’odore,
Qualor si rompa, e il vento gli presti ala;
Ma che l’odor sia suo non d’erba o fiore;
     Simil a quel ch’ella ha quando il sol cala
Là ’ve l’arco del ciel pon le sue corna,
O che dopo gran secca molle esala,
     Quando cessa la pioggia, e il seren torna,
Così suole odorar nel novo solco
Terra molti anni d’alti boschi adorna;
     Poi che gli svelse, ed arse il buon bifolco,
E in lei fece col vomero le piaghe,
Che fè Giasone in sul terren di Colco:
     E dove augelli, e serpi, e fiere vaghe
Avean lor case, or nudo campo s’ara,
Perchè il padron d’alto, che d’ombre appaghe.
     Daran le terre ed uve, e biade a gara,
Se ben partite elle saran tra i dui;
La spessa a Cerere, a Lieo la rara.
     Ma tante prove far sul campo altrui
Come si può che non sen rida o sdegni,
O il suo signore, o chi vi sta per lui?
     Vorreste dunque ch’io vi dessi segni,
Che a torli l’occhio sol fosse bastante,
Senza tanti strumenti, e tanti ingegni.
     Mirate l’erbe, gli alberi, e le piante,
Che per se stesse in quel terren son nate,
O che altrui man le semini o le piante;

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     Ch’elle vi potran dir la veritate,
E meglio assai che astrologo o profeta,
Promettervi abbondanza o steriltate.
     Se l’erbe liete son, la terra è lieta,
Steril la terra, se sia arsiccia l’erba,
E scemo ciò, ch’indi si coglia o mieta.
     E se l’arbore è grossa, ampia e superba;
O se ha picciolo il tronco, i rami angusti;
Mostra, ch’è tal chi in se li nutre e serba.
     E quanto più van verso il ciel gli arbusti,
Più vien giù l’uva amabile e benigna,
E più sinceri, e generosi i musti.
     Il calamo, il trifoglio, e la gramigna,
Il giunco, il bulbo, il rucco, terren grasso
Mostrano, e più da campo, che da vigna.
     Ove l’edera negra, il peccio, e ’l tasso
Appare, non curate di tentarla;
Ch’è terra fredda, e steril più che sasso.
     Terra simile a legno che si tarla,
Non pur che non vogliate, io vi consiglio,
Ma che ’l piè non si degni di calcarla.
     Terren c’ha polve d’or, terren vermiglio,
E ghiara e sabbia e creta e tofo e selce,
Non bisogna a schifargli altrui consiglio.
     Il mirto, il rosmarin, l’ogliastro, e l’elce
Mostran terra amicissima all’ulivo;
L’ebulo al pane, al buon licor la felce.

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     Ogni terren, quantunque aspro e cattivo,
È ad uso uman, purchè nel suo si fermi,
E non si sforzi agli altri, ond’egli è schivo.
     Che più, che nudi scogli arsicci, ed ermi?
E cappero e bambagia vi si crea,
Questa alle donne, e quel caro agli infermi.
     Uom ch’abbia vista la Pantalarea,
Com’io talor, gli è forza, che concluda,
Che terra non ha il mondo che sia rea.
     Pietra cinta di mar, negra, arsa e nuda,
Dove non credo che mai piova o fiocchi,
Eppur fa frutto, e quel secco osso suda.
     La miglior terra, che col piè si tocchi;
Non pur s’apra col ferro adunco e greve,
Qual sia, dirò con note esposte agli occhi.
     Quella, che esala sottil nebbia e lieve,
Onde in sul grembo suo l’aria ne fuma;
E bee l’umore, e ’l caccia qualor deve,
     Nè la state vien secca, nè la bruma
Umida troppo, e di sua verde erbetta
Sempre si veste, come augel di piuma;
     Nè di ruggine salsa il ferro infetta:
Questa le viti liete agli olmi intesse;
Questa è fertil d’olive, questa alletta
     Greggi ed armenti, e loro fresche e spesse
Erbe ministra, e questa ai buon cultori
Egual al gran desio reca la messe.

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     Tai solcan terra il più degli aratori
Sotto questo ciel nostro sì felice,
Ove son l’erbe eterne, eterni i fiori,
     Ove Cerere e Bacco, e l’inventrice
Dell’ulive contendon di ricchezza,
E dove è ’l paradiso, se dir lice;
     Delizie di natura, ed allegrezza,
Di cui mai sempre il mondo in dubbio è stato
Qual sia più la bontade o la bellezza.
     Or entriamo alla villa a prender fiato:
Che lo star fuora, e volger pietre e zolle,
V’ha forse oltra misura affaticato,
E già vi vedo ormai di sudor molle.