La vera democrazia

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Attilio Brunialti

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ATTILIO BRUNIALTI


LA VERA DEMOCRAZIA

FIRENZE

uffizio della rassegna nazionale

Via Faenza, 72 bis


1883

coi tipi di m cellini e c.

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DEC 20 1930

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I.

Il trionfatore di Roma aveva presso alla quadriga aurata lo schiavo che metteva una nota triste e melanconica nei canti della vittoria1. Ma è davvero malcauto, signore gentili, questo schiavo che turba l'armonia degli inni, i quali volano intorno all’ingegno vostro, alla bellezza raggiante nel gran mondo, od alla virtù modesta nelle pareti della casa, con una nota severa, che vi lascierà forse qualche turbamento nell’animo, qualche dubbio nel pensiero. Malcauto anche più, se l'osa, mentre vi chiama all’aperto tanto sorriso di sole, e vi allettano più geniali ritrovi, e l'arte vi dispiega innanzi tesori onde può superbire onorato il genio italiano.

Eppure, Signore, io sono certo che già dentro voi, un intimo senso compie talvolta a questo ufficio molesto, e se anche lampo fugace vi richiama a certi gravi e tormentosi problemi del nostro tempo, ve ne fa almeno sospettare l’esistenza. Vi affacciate come ad abissi paurosi, e ne provate lo scoramento e la paura dei naviganti della leggenda, quando erano trascinati dalla tempesta presso ai vortici dove, sedotti dalla sirena, sparivano inghiottiti per virtù d’incanto. Ci riempiono di nobile orgoglio i progressi delle moderne genti di civiltà europea, solo che noi siamo chiamati a constatarli nelle cotidiane applicazioni, a sentirne in alcuna di queste conferenze le meraviglie, a vederle persino rappresentate coreograficamente sul palco scenico. Pare proprio vero il superbo vanto nil mortalibus arduum! La scienza come ha doma la natura ribelle! Il nostro sguardo spazia libero dalle profondità spaventose del cielo, agli abissi dell’oceano; la nostra parola si trasmette più rapida del fulmine da un capo all’altro del mondo. Superiamo le distanze e sfidiamo le tempeste; pesiamo i mondi e scrutiamo i più intimi segreti della vita nei laboratorii; penetriamo nelle viscere delle montagne [p. 4 modifica] come era attribuito agli spiriti infernali; spezziamo le barriere istmiche onde sono uniti i continenti, come se avessimo trovato il martello del Dio Thor, e con un pugno di materia apparentemente innocua potremmo rovesciare monumenti, che per secoli tormentarono invano il ferro dei barbari. Che cosa ci arresta, ormai, e chi sa dire dove si arrestino più le nostre superbe speranze? Anche a noi il tentatore sussurra, s’io non mi inganno, quell’eritis sicut deus, che precedette la prima catastrofe umana. Quanto ci rimanga lo so; basta aver letti soltanto i viaggi immaginosi di Giulio Verne. E come nella scienza, così e più ci rimane nella vita, in tutte le sue manifestazioni individuali, sociali, politiche; basterebbe paragonare le condizioni presenti d’Italia a quelle dei nostri aborigeni, o delle tribù dell’Africa centrale. Ma il movimento progressivo dell’umanità si è tanto accelerato, da metterci le vertigini di un treno direttissimo e nell’animo la stessa paura di un deragliamento. Quante altre civiltà non sono andate in frantumi, che adesso gli archeologi frugano nelle terre sterili e deserte! quante volte l’excelsior non è rotto dal rantolo della morte, per gli individui e pei popoli!

Il dottor Dulcamara è sempre là, sorridente e sereno, col suo specifico infallibile; vi sono di quelli che guariscono tutti i mali dell’uomo e di quelli che sanano tutte le piaghe sociali, buoni per tutti i tempi e per tutti i paesi. La loro presunzione s’agguaglia all’infinita ignoranza; adoperano parole cabalistiche, sonore, formole semplici; quando parlano, il volgo non li comprende, ma li applaude; quando si applicano i loro rimedi nessuno più li trova, sono scomparsi, lontani. Eppure oggi voglio provarmi a mettere uno di cotesti omuncoli dentro la boccetta di vetro, e ad esaminarlo bene, lui e il suo specifico. Il nostro Dulcamara non sa dire più d’una parola, l’ha sentita ripetere ogni giorno, questa parola vaga, indefinita, equivoca: democrazia. Dovrebbe dileguare tutta quella nostra ansia per l’avvenire, restituirci il paradiso terrestre dei sacerdoti, l’aurea prima aetas dei poeti, lo stato di natura dei filosofi; dettare ed applicare il nuovo Statuto della democrazia, in tre soli articoli: tutti liberi, tutti eguali, tutti felici. Affrontiamo la seduzione; percorriamo assieme i fioriti sentieri dell’utopia, tenendo l’occhio a quelli spinosi della realtà indaghiamo se accanto alla democrazia vera non ve ne sia una falsa.

Voi mi insegnereste subito, o signore, a distinguere i diamanti dai moderni preparati di carbonio; anche la democrazia ha i suoi preparati di carbonio, ed io vorrei riuscire a darvi qualche consiglio per distinguerli, disprezzarli e gittarli via, come fareste d’un diamante falso. [p. 5 modifica]

II.

L’umanità primitiva è democratica. Quando Adamo vangava la terra ed Eva filava, dice un proverbio inglese, non v’erano gentiluomini. Ma già vedete subito, nel fatto di Caino, la prima aristocrazia della forza; presto si affermano e si sviluppano le differenze; il pesce grosso mangia il piccolo, e quando, all’uomo abituato alle dolcezze delle frutta e dei prodotti del suolo, ripugna divorare così crudo e sanguinante il suo simile, lo vende schiavo. Pure nel seno della tribù primitiva dura una cotale uguaglianza che Rousseau ammira, ed anche a qualche viaggiatore moderno parve idillio di pastori innocenti e felici. Altri, meno allucinato dalla teoria, potrebbe ravvisarvi in azione certi romanzi paurosi degli anarchici moderni. Avete udite forse le confessioni di quelli condannati a Lione: non più famiglia, non proprietà, nessuna autorità, nessuna legge, nessun freno agli istinti; e abbasso gli inganni della religione, le corruzioni dell’arte, le disuguaglianze della civiltà. Fatica sprecata ricostrurre questi romanzi davanti alle Assise: basta andar tra i Niam-Niam, per esempio, vedremo impallidire gli stessi ideali, dinanzi ai colori forti, vivi, sfacciati della realtà, I Niam-Niam, la sono tutti eguali per davvero: vivono nella più completa nudità, appollajati sugli alberi od accovacciati dentro ai fori scavati nel suolo od alle capanne di corteccie coperte di fogliame e mangiano quello vien loro sotto la mano. Nessuna idea di vita soprannaturale, che nemmeno adorano i feticci primitivi sbozzati in un pezzo di legno, deformi e paurosi iddii, d’altre tribù. Nessun vincolo sociale; al capo obbediscono come e quando loro talenta; se non piace, lasciano la tribù e vanno ad un’altra, o formano la nuova nella immensità della foresta. Nessuna idea di famiglia; amano come le bestie, giusto quanto è necessario, perchè la legge di natura si compia; se là femmina non vuol tenere il frutto, lo butta via, ed appena cresciuto nessuno più vi pensa, salvo non si presenti l'occasione di cavarne un profitto, di venderlo ai mercanti arabi. Di civiltà neanche l’ombra; le donne non volevano persuadersi che l’acqua avrebbe fatto andar via il fango dai guarnelli loro regalati da Piaggia; lo guardavano, lo guardavano cogli occhi fissi, imbambolati, paurosi, pronte a scappare come cerbiatti; e quando s’addomesticarono, vollero sapere che cosa era la scorza che lo copriva, e se era fatto come gli altri. Mi pareva, dice il buon Piaggia, d’essere in un Asilo d’infanzia.

Tale si presenta dovunque ai nostri occhi l’umanità primitiva; [p. 6 modifica] è una democrazia anche quella, la più schietta e pura, secondo il concetto che alcuni se ne formano nella mente. Ma l’infanzia dell'umanità è come la nostra, o signore. Chi di voi non è entrata in un Asilo d’infanzia, o meglio, non ha visto insieme bimbi di condizioni sociali le più diverse? anche loro sono tutti liberi, tutti eguali, tutti felici; i loro capriccietti non hanno limiti fuor delle piccole forze; non hanno coscienza della ricchezza e delle disuguaglianze che ne derivano; sorridono beati davanti alla gioja come davanti alla sventura; s’impacciano ad esprimere i loro sentimenti e i loro bisogni. Più di un viaggiatore ha provato tra popoli selvaggi quel senso dolcissimo e mesto che noi proviamo in un Asilo d’infanzia; ma soltanto al nostro dottor Dulcamara può sorridere l’idea che l’umanità sia trasformata in un Asilo di grandi e grossi bambini, antipatici e nojosi, quanto sono cari i piccini.

III.

La società primitiva si trasforma, il progresso agisce su di essa, nasce e si sviluppa la coscienza dello Stato, il quale obbedendo a forze diverse, assume diverse forme. Aristotile, che è stato il più gran maestro di politica dell’antichità, ed ha scritto cose ancora oggi non superate, distingueva i Governi in buoni e cattivi. Se un re, se alcuni ottimati od il popolo reggono lo Stato nell’interesse di tutti, allora abbiamo la monarchia, l’aristocrazia, la repubblica, governi buoni; se lo reggono nel proprio interesse, queste forme diventano dispotismo, oligarchia, democrazia. La democrazia pel gran filosofo, era una degenerazione illegittima della repubblica, quando pigliano il sopravvento i nulla tenenti, i Ciompi, le plebi, e governano nell’interesse d’una parte sola, la meno intelligente del popolo. Però la fortuna della parola democrazia, mutò subito; già Erodoto, Tucidide, Polibio l’avevano usata nel buon senso; i traduttori di Aristotele diedero alla degenerazione della democrazia il nome di oclocrazia, e noi diciamo più comunemente demagogia. Il qual nome è più appropriato, perchè le plebi sono sempre trascinate a prorompere da quelli che dei loro bisogni e dei loro furori, degli istinti e delle legittime aspirazioni fanno sgabello a vanità malsane, ad ambizioni feroci, ad insaziabili cupidigie.

Gli storici della democrazia passano sull’antico e sul nuovo oriente, dove l’arbitrio domina sempre negli Stati destinati a corrompersi, impacciando lo sviluppo economico, politico e sociale. Così non hanno sufficienti documenti per giudicare a qual grado pervenisse il potere popolare nella Fenicia ed a Cartagine. Ma sulla [p. 7 modifica] Grecia si fermano e scrivono pagine gloriose, che accendono ancora i nostri entusiasmi. Chi di voi non si è commossa, chi non si è sentita più grande e quasi abbagliata dalla luce che scende oggi ancora dalla democrazia ateniese? Doveva essere tradizione antica del popolo, se organizzò a questo modo persino l’Olimpo; Giove è un re costituzionale, ed ha consiglio dei Ministri e Parlamento, dove siedono anche le Ninfe

.    .    .    .    .    .    dei boschi,
e dei prati e dei fonti abitatrici.

Raggiunse l’apogeo delle sue glorie in Atene. «La forma dello Stato nostro, diceva Pericle, che lo aveva fondato, è popolare perchè il governo è nelle mani dei più, e non di pochi. Dinanzi alla legge tutti sono eguali nei litigi privati; e ciascuno a seconda della riputazione che si è acquistata in alcuna cosa è preposto agli affari pubblici, non per ragione di nascita, ma di virtù». Noi viviamo liberamente così nel governo della cosa pubblica, che nelle quotidiane relazioni, schivi di sospetto, e con lieto animo sempre. Franchi a cotesto modo nelle relazioni private, in pubblico non esorbitiamo, soprattutto per riverenza, avendo rispetto a chi sia al Governo e alle leggi... Alle fatiche dello spirito abbiamo procurato molti sollievi con spettacoli e sacrifici, e consentendo ai privati splendida vita. La città grande attrae da ogni parte quanto si possa desiderare, ed a noi deriva maggior frutto dai nostri beni, che se avessimo quelli di tutti gli uomini». Così si resse il popolo pel quale Fidia e Polignoto raggiungevano le supreme altezze dell’arte; Eschilo, Sofocle, Euripide, scrivevano tragedie insuperate; Mnesicle e Callicrate inventavano il nuovo stile più squisito e meglio proporzionato d’architettura; il popolo, che non aveva giornali, ma dalla licenza rustica e motteggiatrice delle feste di Bacco seppe svilupparsi la commedia d’Aristofane; il popolo che era abituato a sentire nei suoi comizii, l’eloquenza affascinante di Pericle, che seguiva con intelletto d’amore filosofi come Zenone ed Anassagora, ed aveva bisogno d’Erodoto che ne scrivesse la storia. Erano animi elevati e ingentiliti; ciascuno poteva essere legislatore e giudice, e teneva nelle mani a un tempo la decisione e la deliberazione, mentre i pubblici ufficii, perchè non vi entrasse alcuna forma di corruzione, si davano a sorte.

L’ideale non è scomparso dalle menti; ma era vera democrazia quella d’Atene, era sovrattutto tale da meritare non solo l’ammirazione, ma la nostra invidia? Cansiamo, o signore, l’illusione volgare. Già il popolo d’allora era una aristocrazia di popolo, [p. 8 modifica] ventimila cittadini sopra quattro o cinquecentomila abitanti tenuti in conto di cosa vile o di stranieri nel suolo dell’Attica. Quel cittadino ateniese poteva consumare la giornata anche prima d’averne un salario, nel legiferare e nel giudicare, perchè gli schiavi provvedevano per lui ai bisogni materiali della vita. In secondo luogo lo Stato era tutto raccolto nella città, era Atene; il popolo poteva radunarsi tutto a parlamento nella Pnice, e sentire la voce degli oratori; fuor delle mura sacre erano schiavi, sudditi, stranieri, coloni retti con diverse leggi, non cittadini. E infine fu quella una regia democrazia, se degenerò subito dopo la morte di Pericle, il suo gran fondatore. La gelosia, la superstizione, l’invidia, ebbero presto i naturali eccitamenti in quegli strati sociali dove non scende, appo alcun popolo luce d’arte o di pensiero. Il cittadino ateniese si lasciò raggirare dai demagogi ai quali trasmetteva la sua onnipotenza; la corruttela penetrò in tutti gli ordini sociali, e quella gloriosa democrazia che aveva mandato tanta luce nella Grecia e nel mondo, si spense, come certi pianeti morti da centinaia di secoli, la cui luce continua a scendere ancora quaggiù.

IV.

Nè più vera democrazia, nel senso moderno della parola, fu quella di Roma. Il popolo aiutò i suoi maggiorenti nella guerra coi re; poi continuò per proprio conto la lotta contro le vecchie distruzioni gentilizie ed i privilegi aristocratici. Ma il potere determinante era raccolto nel Senato e nei Consoli, e fu quella l’epoca gloriosa della Repubblica, quando conquistò l’Italia, vinse le guerre puniche, ebbe i più grandi cittadini, e diede alla civiltà del mondo gli elementi che mancavano alla greca, il senso giuridico, la saggezza politica, un concetto più umano dello Stato. Quando il popolo prevalse nel governo, aveva dimenticata l’antica virtù dell’aspettare, ed il tradizionale rispetto al diritto, aveva imparato ad appellarsi alle passioni e alla forza. Così al più meraviglioso sviluppo politico, militare, giuridico che il mondo vedesse mai, sottentravano subito le lotte sanguinose, la corruttela universale, l’impero della forza, che diedero Roma in balìa dei Cesari; laonde dice Giovenale:

.   .   .   .   .   Colui che un tempo
     Dava fasci, legioni, impero e tutto,
     Picciol s’è fatto, ed a due soli intenti
     Volge ansioso il pensiero, ai circhi e al pane.

Si può dire adunque di Roma che non fu mai vera democrazia, perchè il popolo ebbe impero limitato e parziale, ed appena lo [p. 9 modifica] ridusse violentemente in sue mani, fa la prima vittima del violato ordine giuridico.

V.

La Chiesa cristiana primitiva suole venirci talvolta descritta dagli storici come una democrazia schietta e purissima. Per verità le classi diseredate si affrettarono ad abbracciare il nuovo culto, che le riabilitava, le elevava, porgeva loro tanti aiuti, tanti conforti. Ciascuno portava il piccolo aver suo, mettevano tutto in comune, e il dividendo era proporzionato ai bisogni. In questa grande opera di beneficenza e di mutuo soccorso, uomini e donne portavano le diverse virtù e associavano l’opera loro per lenire le umane miserie. «La moltitudine dei fedeli, come dice l’Apostolo, aveva un solo cuore, ed un’anima sola; nessuno considerava quanto possedeva come proprio, perchè di tutte cose godevano assieme. Così non vi erano poveri in mezzo a loro; quelli che avevano case o campi le vendevano e portavano il prezzo ai piedi degli Apostoli; poi si facevano le parti secondo i bisogni d’ognuno. Ed ogni giorno spezzavano il pane in pieno accordo, colla gioia e la semplicità nel cuore».

V’è però una differenza profonda tra questa democratica Chiesa degli Apostoli, e certe utopie che ci vien ripetendo il nostro dottor Dulcamara, certe utopie onde in più d’una rivoluzione si è tentato l’esperimento, quando, passando per la Corte d’Assise, non riuscirono al carcere o al manicomio. Il comunismo cristiano, aveva una base religiosa; era un sentimento di abnegazione, una fede ardente in un sublime ideale. Quegli uomini semplici e buoni con una scienza profonda, perchè veniva dal cuore, gettarono le basi delle due grandi virtù cristiane, la carità, la fraternità universale. Il cristianesimo primitivo si affermava contro il mondo romano, a guisa di una grande associazione di poveri, fondata su questa idea, che ciascuno ha diritto nulla più che al necessario, e deve dare il superfluo a chi non ha il necessario. Ma per riuscire a regnare sul mondo, il Cristianesimo primitivo è costretto a modificare le tendenze native, a correggere il programma originale, e così il primitivo ordinamento si chiarisce impossibile, nei limiti della sua azione sociale, ed anzi in quelli stessi della sua azione religiosa.

Ma intanto una grande barriera era caduta. Indarno il feudalismo irrigidirà la gerarchia sociale; indarno la Chiesa aspirerà all’impero universale; indarno i monarchi si foggeranno il potere assoluto. L’umile servo della gleba può ormai sedere sacerdote fra i nobili, sovrastare ad essi, imporsi agli stessi monarchi; il [p. 10 modifica] nullatenente può addottrinarsi nelle leggi, umiliare i più orgogliosi feudatarii, esercitare un preciso dominio nello Stato; e dall’ultima plebe può sorgere il forte ingegno, che colle lettere crea, muta, domina onnipotente la pubblica opinione. Così l’ingegno, vince la nascita, i feudi, la ricchezza; e col concetto cristiano dell’eguaglianza, il diritto del popolo è messo al disopra dei privilegi di classe, della corona dei re, della tiara dei papi.

VI.

Nelle repubbliche italiane abbiamo avuto splendidi esempi di governo e popolo, e non avevano schiavi come Atene, non fecero appello alla forza come a Roma, nè, come la Chiesa primitiva, condannarono gli agi della ricchezza e gli splendori dell’arte. Tutti i cittadini capaci di regger l’armi venivano convocati in piazza a Parlamento; avevano consoli e Senati, e magistratura nominata dalle corporazioni d’arti, dove prevalevano le maggiori, con minor numero di cittadini, ma con assai più teste pensanti. Avevano funzionari zelanti, onesti, liberali; i cittadini erano animati da un patriottismo purissimo, e sposavano le tradizioni della civiltà romana ai principii umani e caritatevoli del cristianesimo. Le arti, i monumenti, le relazioni lontane allargavano gli orizzonti dello spirito, le imprese di guerra addestravano il corpo; conquistarono la libertà e il potere; promossero di dentro il maggior bene comune; seppero resistere di fuori a signori collegati, a vescovi, a monarchi; progredirono rapidamente facendo rispettare le leggi, tutelando gli averi. Avevano fede ed aprivano nuove vie al genio, e trovavano negli entusiasmi dei concittadini un incoraggiamento alle loro sublimi aspirazioni. Potevano inoltrarsi nei campi infiniti del pensiero, senza temere l’impaccio delle obbligazioni convenzionali d’una società artificiale. L’Europa, avvolta nelle tenebre, pareva una foresta fitta d’armi e paurosa di barbari ululati, quando le nostre città erano illuminate dal vivo sole; quando alzavano monumenti superbi, gittavano ponti grandiosi sui fiumi, costruivano palazzi da sovrani, creavano i miracoli dell’arte, rievocavano da un silenzio di dodici secoli la poesia, trattavano da maestri la filosofia e la storia, coltivavano con successo tutte le scienze, risuscitavano i capolavori dell’antichità. E coltivavano le terre con cura gelosa; portavano all’Europa i prodotti dell’Oriente; iniziavano il mondo ai misteri della finanza e degli scambii. Erano insomma economicamente e politicamente superiori alla stessa Atene, sebbene non avessero i suoi oratori, i suoi artisti, soprattutto le sue virtù militari2. Ancora adesso a Firenze [p. 11 modifica] noi rimaniamo attoniti della grandezza di quella democrazia, e ci domandiamo perchè l’Italia libera ed una non ha saputo ancora ritrovare il segreto di quella potenza, ed agguagliare, se non superare, nelle arti, nella coltura, nelle industrie, nei commerci, nell’influenza civile, una sola di quelle sue gloriose e potenti città. Ma qui pure badiamo a non cedere, come sussurra il nostro Dulcamara, a cotesti entusiasmi. A Firenze troppe cose mancarono a costituire una vera e durevole democrazia, perchè valga per noi l’illustre esempio. Anche quella democrazia si mostrò in fondo esclusiva, ingiusta, piena d’invidia; fu tratta a lasciare le cariche pubbliche alla sorte e la difesa dello Stato ai mercenari. Soprattutto poi quelle nostre democrazie non seppero elevarsi alla coscienza della nazionalità, perchè non avevano modo di sviluppare lo Stato. E se diedero illustri segni di amare la libertà, se la usarono splendidamente talvolta, acerbamente talaltra e la resero sorgente di opere magnifiche ed utili, si mostrarono male esperte nel conservarla. Era destino d’Italia afferrare i grandi propositi, ornarli di splendidi colori, consacrarli con generosi sacrifizii, e poi smarrirli dopo averli spinti a riprovevoli eccessi o guasti per difetto di giusta previsione e di tranquilla prudenza3.

VII.

Dopo la formazione degli Stati nazionali non era più possibile che il popolo fosse convocato tutto a Parlamento sulla pubblica piazza. In Inghilterra continuò tuttavia a tenersi il Parlamento, anche dopo l’unione degli Stati dell’eptarchia, e vi andarono quelli che erano al seguito del Re, o si trovavano nel luogo dove tenevasi, od avevano mezzi per andarvi, sino a che si trovò modo di raccogliervi di nuovo tutto il popolo, o coloro che se ne reputavano capaci, per mezzo dei rappresentanti, nominati e controllati da esso. Durò solo in alcuni cantoni della Svizzera l’antica forma di democrazia; tutti gli anni il popolo vi si raccoglie nella piazza o sul prato tradizionale, per esercitare un giorno di sovranità. Ma sono i cantoni più piccoli, dove la vita corre semplice, calma, pastorale; dove la vivacità del sentimento religioso tempera ogni esorbitanza, l’unità politica e geografica del paese è completa. E poi l’azione popolare ha il freno dei poteri federali. Negli altri cantoni, ed agli Stati Uniti d’America, come dovunque prevalse, nella repubblica o nella monarchia fondata sulla sovranità nazionale, la democrazia ha dovuto acconciarsi alla forma rappresentativa. La stampa, le associazioni politiche, i discorsi [p. 12 modifica] in pubblico, le facili e frequenti comunicazioni, valgono tuttavia a rendere non meno efficace, di quella che esercitava nella Pnice d’Atene, l’azione del popolo sul governo di un libero Stato. Ed appunto per questo riesce più difficile, nella società moderna, dove si parla tanto di democrazia, distinguere la vera dalla falsa, segnalare i pericoli di questa, le condizioni alle quali la vera può procurare e guarentire a tutti libertà, giustizia, benessere, che sono le tre grandi necessità delle moderne società civili.

VIII.

In nessun paese il concetto di democrazia fu più falsato che in Francia, in nessuno essa fu meno abile a contenersi, meno rispettosa del diritto, più spesso trascinata a prorompere suscitando reazioni fatali. Già nelle insurrezioni rurali del XIV secolo e nella Comune fondata a Parigi da Stefano Marcello domina cotesto carattere violento, eccessivo, radicale. Rousseau lo eleva a dottrina; la rivoluzione ne fa esperimento su grande scala. La società francese era una costruzione complicata di privilegi, la più grande antitesi della democrazia; l’aristocrazia feudale era diventata una società falsa, convenzionale, teatrale; e tuttavia elegante, côlta, piena di ideali ed a suo modo anche buona. Il progresso delle scienze naturali aveva determinato il distacco della filosofia dalla teologia, trasformata la storia e la psicologia, sviluppato sopra basi insufficienti o fallaci il metodo analitico. Lo spirito classico aveva elaborato coteste conquiste e messa la ragione al posto della tradizione, screditando tutte le istituzioni fondate su questo e pretendendo di costruire esclusivamente sulla ragione elevata sino agli altari, la società nuova. Quegli scrittori, quei filosofi, per una nobile allucinazione, suppongono tutti gli uomini buoni, ragionevoli, e nei loro scritti, nelle commedie, nei romanzi, perfino i selvaggi parlano come filosofi, si commuovono, sono capaci dei sentimenti più delicati. Ed il governo tiene al popolo un linguaggio idillico; «non bruciate i castelli, perchè fate dispiacere al buon re». Credono di vivere in piena egloga, di poter ricondurre al suono del flauto dentro la stalla le mute urlanti delle collere bestiali e degli istinti perversi4.

La nuova dottrina democratica non si limita a rinnegare la tradizione, la religione, lo Stato; ignora i primi elementi della fisiologia e della psicologia. La ragione è uno stato di equilibrio instabile, che dipende da quello del cervello, dei nervi, del sangue, dello stomaco. La più semplice operazione mentale una percezione dei sensi, un ricordo, è anzitutto il risultato dell’azione reciproca di un miliardo e mezzo di cellule [p. 13 modifica] cerebrali, e di quattro miliardi di fibre che le collegano. Livingstone ha consumato indarno dei mesi per far comprendere ad un africano l’idea della vita futura, e poi vi rinunciò. Andate un po’ a parlare di ragione, di rispetto alle leggi e alla libertà a mille femmine affamate od a mille uomini ubbriachi, sovreccitati dalle grida, dall’attesa lunga, dal contagio reciproco delle loro emozioni! È sempre il buon Dulcamara che non tiene conto del temperamento fisico, dei bisogni del corpo, degli istinti animali, dei pregiudizii ereditarii, della passione dominante degli interessi di famiglia, di casta, di parte. Non sa, che l’uomo abbandonato ai proprii istinti, è un animale carnivoro, che comincia col mangiare il proprio simile allo stato selvaggio, e finisce col concepire, nel maggior fiore di civiltà, il delirio della distruzione, dell’annichilamento universale; non sa, che gittato sopra un suolo ingrato deve morire o lottare per acquistare, e possedere, prima rapace, poi avaro, specie quando attaccato alla gleba digiuna da sessanta generazioni per mantenere il lusso degli altri; non sa che se anche la sua mente si affina, vi pullulano i sogni, e crescono, e si mutano in chimere mostruose, amplificando timori, speranze, desiderii, determinando eccessi contagiosi, correnti irresistibili di passioni, epidemie di credulità e di sospetti. Lasciato l’uomo in balìa di cotesto forze, senza gli argini della fede, senza la custodia della legge, senza i freni dell’autorità, la rivoluzione diventa permanente, l’anarchia completa, perchè ciascun cittadino sovrano vuol comandare, non obbedire; afferma diritti, non riconosce doveri. Tutto cade in cotesta demolizione, e se qualcosa risorge sull’immane rovina, sarà lo Stato onnipotente, che rinnegherà la libertà. Al volere d’ognuno si sostituisce la volontà pubblica, cioè l’arbitrio mutevole della maggioranza in teoria, in pratica l’arbitrio rigido dell’Assemblea, della fazione, d’un uomo. E lo Stato, unico rappresentante e interprete della ragione, disfà e rifà tutte cose: gli usi, le feste, le cerimonie, il calendario, i pesi, le misure, i nomi dei mesi, dei luoghi, dei monumenti, delle famiglie, i titoli, le forme del discorso, del saluto, dello scrivere. Così il convento di Sparta si alterna ai baccanali di Mitra, fino a che l’automa improvvisato messo al posto dall’uomo vivo, vario, come è prodotto dall’evoluzione, precipita, si sfascia e mostra l’impotenza della teoria, la falsità assoluta di cotesta democrazia.

IX.

La vera democrazia deve anzitutto distinguere il vero popolo dal falso, che mira a sostituirsi a quello, a parlare, ad agire, a dominare in suo nome. Sul fondo, per lo più calmo e tranquillo delle [p. 14 modifica] masse lavoratrici, nelle campagne, ma più nelle città, si disegnano talvolta alcuni gruppi ardenti, che vogliono trascinare la folla; in ogni gruppo vi sono alcune individualità energiche ed appassionate che lo guidano. Qualche volta le masse cedono; allora l’oceano popolare si sconvolge tutto e ne seguono le grandi rivoluzioni politiche e sociali; ma per lo più restano indifferenti, perchè non vedono un interesse immediato, o non le agita la passione, le trattengono l’autorità, il rispetto o il timore. Allora sorgono i rappresentanti senza mandato di questo popolo addormentato, indifferente, o calmo, e fanno parlare la sibilla infallibile a modo loro. Poi da questo gruppo si distacca un altro gruppo più ardente, più impaziente; ogni giornale si afferma unico rappresentante del popolo; da ogni tribuna si gitta l’anatema, e le violenze brutali della parola tengono il luogo della guerra civile, qualche volta la preparano. In questi casi la volontà popolare e l’opinione sovreccitata, convenzionale, di una intima parte della nazione, quella che la violenza delle passioni o la profondità della miseria spinge più facilmente alla ribellione. Di cotesto popolo diceva giusto un filosofo francese, il Caro, «popolo da teatro, da circo, che si moltiplica cogli artificii di una ingegnosa circolazione; che simula la folla collo strepito, ricordando il coro dell’antica tragedia greca, quando parlava almeno in versi armoniosi... Sono quattro, cinquemila forse, che forniscono uditori numerosi ai comizii, e lettori a certi giornali; che colmano le lacune della discussione seria coll’agitazione, colle grida, con proposte insensate, accaparrando l’attenzione e crescendo la paura della gente; bassa e volgare democrazia di parata, a servizio di vanità perverse, di ambizioni malsane, di oscuri fanatismi... Nè senza pericolo; perchè viene il giorno nel quale sotto il soffio come d’un uragano, il contagio si spande nella folla; e il delirio dell’ira versato a piene mani nell’animo di gente ingenua, ignorante e che soffre, può fare di ogni miseria e di ogni sofferenza un urlo d’odio e di rivolta selvaggia»5.

Nè può dirsi vero governo di popolo quello che esclude la parte migliore del popolo, ed a questo riguardo anche la più grande democrazia moderna, quella degli Stati Uniti d’America non mi pare nel vero; adesso, ancora meno che al tempo di Tocqueville. L’ingratitudine e l’invidia vi sono quasi elevate a virtù; perchè il popolo deve essere sciolto da ogni sentimento di gratitudine, che potrebbe vincolarlo, diffidente verso gli intelletti superiori, che potrebbero dominarlo. Sceglie sempre coloro che meglio rappresentano le sue idee, i suoi capricci, le sue passioni; coloro che sanno colmarlo d’adulazioni, ed inebbriarlo di incensi. Così la mediocrità, [p. 15 modifica] anzi la volgarità trionfa; l’individualismo compie grandi cose, ma riesce al più brutale egoismo, e la società appare rimpicciolita, triste, incerta della dimane, senza una virtù eroica, senza un ideale, un mondo di pigmei, insomma, che ad onta di una grandezza materiale veramente insuperata non lascia nella storia nemmeno la traccia di quei solchi luminosi che vi lasciarono altri popoli, in altri tempi.

La falsa democrazia non riconosce limite a se stessa; attribuisce ogni potere alla maggioranza del popolo, e turba lo stesso ordine giuridico colle decisioni mutabili di questa maggioranza. Così usurpa il diritto individuale e viola quello della nazione. Sapete che non c’è maggioranza, non legge, non autorità che possa imporvi, per esempio, di mutare una sola delle vostre credenze; i martiri d’ogni età vi dimostrano che non lo può nemmeno la forza. Alla stessa maniera anche una decisione della maggioranza non potrebbe distruggere la famiglia, accomunare la proprietà, turbare i principii sociali. E non potrebbe senza uscire dall’ordine giuridico cangiare la forma dello Stato, quando, come tra noi, è proprietà non solo di noi, che in esso viviamo, ma delle generazioni che ci hanno preceduto, e ci prepararono o costruirono col loro sangue, cogli esilii, coi patimenti e le fatiche d’ogni sorta questa patria, non perchè noi ne compromettessimo l’esistenza, nè scemassimo le libertà, ne riducessimo la potenza, ma coll’obbligo di trasmetterla ai figli nostri più grande, più libera e forte madre di cittadini virtuosi e felici.

X.

Il nostro Dulcamara, che è un dialettico terribile e funesto, ricostruisce ad uso del popolo la teoria assurda ed umiliante edificata già ad usum delphini da spregevoli cortigiani. Una volta dicevano che «è legge tutto quello che piace al principe; e non è obbligato verso nessuno, perchè se fa le leggi, non le fa per lui, e non è tenuto ad obbedirle». Adesso ripetono la stessa cosa del popolo, senza pensare alle conseguenze, o piuttosto sapendo bene quale profitto ne ritrarrebbero primi, e forse soli cotesti suoi cortigiani.

So bene che non è facile scrivere dove termina il diritto della maggioranza, dove incomincia quello dell’individuo. Prendiamo ad esempio la proprietà, perchè già è il diritto che corre maggior pericolo, per la semplicissima ragione che i poveri sono in numero assai maggiore dei ricchi. Non bisogna illudersi che sia molto lontano il gran conflitto tra chi possiede e i nullatenenti, se già ne abbiamo i sintomi nelle società più forti e meglio costituite. Quale eloquenza inspirata da una virile tenerezza potrà far comprendere a questi diseredati, che sono il numero e la forza, e troppi illudono [p. 16 modifica] facendoli anche credere il diritto, la distinzione necessaria, delicata, sottile, fra il diritto delle maggioranze e quello degli individui? Ma credete voi che quando il popolo potrà mutare ogni cosa, il Governo come la religione, le leggi del lavoro e quelle dello scambio, credete voi, o Signore, che rispetterà il codice penale, e non chiamerà invece un privilegio, la famiglia, un furto la proprietà?

Quello che avverrà allora ve lo dirò colle parole, forse non ignote anche a voi, colte Signore, di uno storico illustre, il Macaulay, il quale faceva la sua profezia per il paese che sembrerebbe più di tutti al mondo lontano da questo pericolo, per gli Stati Uniti d’America. «Il vostro destino è scritto, sebbene scongiurato per il momento da cause fisiche. Sino a che avrete una immensa distesa di terra ferace e disoccupata, i vostri lavoratori si troveranno a loro agio molto più che nel vecchio mondo. Ma giorno verrà, in cui la nuova Inghilterra avrà una popolazione densa come la vecchia, e il salario abbasserà, fluttuerà, diventerà precario, come da noi... Allora verrà per le vostre istituzioni il giorno della prova. La miseria rende dovunque il lavoratore malcontento e ribelle, preda naturale degli agitatori, che gli mostrano come sia ingiusta questa distribuzione della ricchezza, dove l’uno ha dei milioni, l’altro non sa con che cosa sfamare i suoi figli... Come ne uscirete voi? Io vi auguro il maggior successo; ma il cuore si ribella alla ragione e mi fa presagire tristissimi giorni. Il vostro governo non sarà mai capace di contenere una maggioranza sofferente ed irata, perchè la maggioranza è sovrana, ed i ricchi sono in sua balìa. Giorno verrà in cui cotesta folla, tra una metà di pranzo e una speranza di cena, nominerà i legislatori. Potete dubitare chi nominerà? Da una parte un onesto uomo di Stato, che predicherà la pazienza e la carità, il rispetto del diritto, l’osservanza della fede pubblica; dall’altra un demagogo, declamante contro la tirannide del capitale e dell’usura, domandando perchè i pochi bevono lo Champagne e vanno in carrozza, mentre i molti non hanno di che sfamarsi, e vanno senza scarpe. Qual candidato credete voi preferirà l’operaio, che non sa come portare a casa il pane ai suoi bambini? Ho paura che voi farete allora di quelle cose, dopo le quali la prosperità d’un paese è morta; e la vostra repubblica sarà saccheggiata e immiserita nel XX secolo più che noi fosse dai barbari del V secolo l’impero romano; colla differenza che quelli erano Unni e Vandali, e venivano di fuori; mentre i vostri barbari saranno figli della stessa patria, opera delle vostre istituzioni».

Nelle nostre vecchie società europee, nessuno può dire quanto più presto ciò possa accadere, e dove ci condurrà, di quanti se[p. 17 modifica]coli farà indietreggiare l’umanità. Imperocchè quando entriamo nel dominio di cotesta falsa democrazia, non vi sono più limiti. Vermesch, uno degli incendiarii della Comune, scrive che la borghesia deve soccombere e scomparire tutta quanta, perchè 35 milioni di proletarii, non possono lasciarsi mangiare da due milioni di oziosi. Lo aveva detto anche Danton; ed aggiunge: «i lavoratori devono preparare un eccidio universale, di tutti coloro che vivono sfruttando i loro simili. E non c’è da ingannarsi; il mezzo di riconoscere i nemici del popolo è facilissimo: quando uno ha mani pulite bisogna colpire. Non perdiamo il tempo a giudicare i colpevoli, insorti eterni contro il lavoro, sanguisughe mostruose del proletario. I borghesi, dopo aver ucciso il padre, lasciavano vivere la famiglia, perchè morisse di fame. Siamo più umani, non risparmiamo nessuno. Morta la bestia, morto il veleno... Giorno verrà in cui la piazza della Concordia sarà una selva di forche; e là sarete appesi tutti, cogli occhi fuori dell’orbita, e nelle ultime convulsioni dell’agonia, faremo venire le vostre donne e i vostri figliuoli, perchè ballino sotto le forche, in cadenza, a suon di frustate, mentre il popolo canterà gli inni della vendetta, sino a che la vostra lurida carcassa putrefatta, cadrà a pezzi nella polvere e nel fango della strada» 6. La Comune ha mostrato che sanno tenere le promesse; il processo di Lione vi ha ricordato, che sono disposti sempre a ricominciare da capo. Anzi vi è un progresso anche in cotesti delirii. La ghigliottina è un vecchio arnese, il petrolio non serve; appena la dinamite basta alle nuove impazienze della demagogia. La scienza condensa la forza per il bene come per il male, e se alcuna forza morale non ci salvi, il male ne trarrà profitto prima e più del bene.

XI.

Nell’ordine politico e nell’ordine sociale la vera democrazia può trarre profitto dalle esperienze e dalle abnegazioni di tutti i tempi e di tutti i popoli. Non possiamo imitare le adunanze popolari della Grecia, i parlamenti fiorentini, le landsgemeinde elvetiche, perchè ci manca sotto un popolo di schiavi, e io Stato si confonde quasi colla nazione. Ammettiamo, è una utopia che vi farà paura, ammettiamo che possa compiersi nei secoli un nuovo travaso di popoli od una lenta infiltrazione, per cui la razza bianca occupi in tutto il mondo il primo grado sociale, ed abbia di sotto, serve, se non proprio [p. 18 modifica]schiave, la gialla e la nera. Ed ammettiamo pure un’altra ipotesi: che tutto il mondo si costituisca d’una serie di federazioni, le quali incomincino dalla città e dal villaggio, liberi di reggersi a loro talento. Ebbene, nell’ordine politico non avremo nè maggior libertà, nè più sicura giustizia, di quello che a noi ha procurato la monarchia popolare. Vi è un diritto nostro il quale possa essere offeso impunemente, una legge ingiusta, che non ci sia lecito mutare, un abuso che sia impossibile rimuovere? Chi può metter limiti alle manifestazioni del genio, ai progressi della scienza, alle stesse aberrazioni dell’arte? Quale buona e giusta idea che non possa prevalere colla discussione, non già imponendosi a viva forza, ma colla persuasione lenta, calma, che ci dà l’onnipotenza del bene, e ci lascia l’impotenza del male? Ed a quale uomo sia pur nato in basso stato, e povero, e privo di mezzi, a qual uomo è vietato di arrivare col suo lavoro e colle altre virtù sue ai più alti gradi del potere, della ricchezza, dell’influenza sociale? Vivono ancora tra noi ricordi del passato; e più di un costume, più d’una legge contraddicono alle virtù e ai bisogni d’una società democratica; ma l’elemento storico, la tradizione, la forza dei diritti acquisiti, debbono pur avere la parte loro. Non è però meno vero che noi siamo politicamente una vera democrazia, perchè la nazione è sovrana, il governo è nelle mani dei governanti, e l’interesse del maggior numero è guarentito dalla volontà del maggior numero. Forse non è fatta ancora una giusta parte a tutti gli elementi sociali, e la nostra vita si concentra troppo nello Stato, a danno delle istituzioni locali, e lasciano molto a desiderare i tribunali, la polizia, le carceri, che sono pure le ottime istituzioni per i rivoluzionari della dinamite. Ma possediamo il fondamento sul quale non ci riuscirà difficile edificare come gioverà alla grandezza della patria.

XII.

Anche sulla via buona evitiamo però le illusioni. Perchè la democrazia vera progredisca, e non degeneri anche tra noi nella falsa, in demagogia, è necessario fermare assai maggiore attenzione all’altra faccia il problema. Siamo giusti: le classi colte, intelligenti, nobili, ricche, in qualunque modo influenti, hanno tratto dalla rivoluzione italiana molti vantaggi; ma la parte meno abbiente e meno intelligente del popolo pochi ne ebbe comuni con noi, fuori del massimo, di avere una patria, per cui tutti sospirarono, e soffrirono e versarono il sangue. Non dirò che le condizioni loro siano peggiorate; ma i progressi compiuti sono povera cosa, nulla a paragone delle speranze. Molto si è fatto per la libertà, [p. 19 modifica]qualche cosa per la giustizia, nulla per il benessere. Il noblesse oblige s’è quasi dimenticato, quando gli obblighi della nascita avrebbero dovuto estendersi alle altre nobiltà della ricchezza, dell’ingegno, della virtù, a tutte, insomma, le forze sane ed operose della società.

Accanto ai progressi della coltura, ai trionfi dell’arte, alle meraviglie della scienza, che ci entusiasmano, che ci accendono di nobile orgoglio, che ci destano audacie nuove, quanti altri fatti tristi, vergognosi, umilianti, che ci fanno salire al viso la vergogna, evocano sulle labbra l’imprecazione, ci suscitano nell’animo lo scoramento o il terrore! Quando correte la campagna romana in un tepido carro della ferrovia, o sorridenti e corteggiate amazzoni, gittate uno sguardo al bufalaro emaciato dalle febbri: che differenza tra lui e molti selvaggi dell’Africa, più fortunati, perchè natura prodigò loro i suoi doni? E dite, dite voi come possa vivere il montanaro delle mie prealpi, che non guadagna suppergiù nell’anno tante lire quanti sono i suoi giorni, mettendo assieme il lavoro di tutta la famiglia, che deve mantenere? Ed il bracciante della pianura che muore di pellagra, generando una prole anche più misera, predestinata alla miseria od al delitto; e quell’altro, che scende dall’Appennino nella maremma toscana o nelle piane di Sicilia, e curvo sui solchi maturi, sotto il sole canicolare, respirando la febbre, giuocando la vita, non guadagna abbastanza da saziare la fame; e il giornaliero, il piccolo proprietario che bestemmiando ad una patria matrigna, seguendo lusinghiere parvenze e bugiardi o fraudolenti allettamenti, emigra lontano lontano, lasciando ogni cara cosa, e mettendo per posta al giuoco disastroso la vita sua e dei suoi cari, e l’operaio della città, che deve combattere ogni giorno i mille allettamenti del vizio, gli eccitamenti dell’invidia, e soddisfare ai bisogni crescenti colla civiltà, mentre nella lotta fiera della concorrenza non aumentano di pari passo i salari; e la povera fanciulla, che messa a contatto cotidiano col lusso, nell’età in cui più forte parlano i sensi e tutto intorno è un inno d’amore, dee vivere onesta con una lira al giorno, quando non si tratta anche di centesimi?... Voi comprendete o signore, quanta materia combustibile per gli agitatori, per i nemici delle istituzioni, per coloro che cercano uno sgabello a sfrenate cupidigie, ad insane ambizioni, ed a nulla riusciti in una società che ancora ha la virtù di sprezzarli, ne vogliono trarre vendetta preparandone la distruzione, la rovina. E ancora non vi parlo delle miserie straordinarie, dei contagi, dei falliti raccolti, delle violenze della natura, che in ogni tempo diè prove nella penisola di sua ter[p. 20 modifica]ribile potenza. Ricordo soltanto un triste giorno, attraverso l’argine del Po e le campagne coperte dalle acque quando già vi maturavano le messi. L’argine era pieno di masserizie ammucchiate sotto la pioggia fitta; le stuoie mal riparavano gli esuli dalle case dirute, nutriti a stento dalla carità, collo sguardo fisso, inebetito dallo spavento o dalla disperazione, i bambini morivano falciati dalla difterite; gli animali ischeletriti parevano implorare anch’essi pietà. E da una parte gorgogliavano i vortici del Po gonfio, giallo, pauroso; dall’altra a perdita d’occhio si vedevano emergere sulle acque le cime degli alberi, le case rovinate, gli argini rotti in ogni parte. So che fu un vero plebiscito di carità, una gara nobilissima tra le provincie italiane per alleviare la sventura umana; ma non posso dimenticare che da troppo tempo si vanno anche prodigando d’ogni maniera lusinghe a queste grandi miserie, a queste speranze deluse, a queste passioni, e potrebb’essere non lontana dall’esaurimento la loro pazienza, poichè è di tanto scemato il rispetto dell’autorità, e va dileguando in quelle anime ogni senso religioso.

XIII.

Noi ripetiamo a noi medesimi la lusinga di trovarsi in condizioni migliori degli altri paesi, e d’avere a temere assai meno il tralignare della democrazia. Vero: non abbiamo avuto la Comune, non ci commuovono problemi come quelli che agitano l’Irlanda, e non conosciamo ancora i terrori del socialismo tedesco o del nichilismo russo. Ma ci manca un vantaggio di quei popoli, ci manca il sentimento religioso, che è una delle molle più potenti della democrazia Americana e della Svizzera. Scettici, in fondo, per natura, quantunque volte non ci invade un fanatismo cieco e ignorante, si è aggiunto il dissidio tra lo Stato e la Chiesa a turbare i credenti, ad accrescere lo scompiglio sociale, a togliere allo Stato una forza, che in certe condizioni potrebbe riuscire necessaria. Difficile impresa una democrazia, dove si spenga il sentimento religioso, mentre il senso della legalità, mentre l’educazione completa e diffusa del popolo sono ancora desiderii lontanissimi e in così gran parte vani, e gli basta la più elementare istruzione per esercitare il potere politico. Il dilemma è fatale, imperocchè o noi, mettendo in opera tutte le buone influenze sociali, eleveremo coloro che ci agguagliano adesso soltanto nel potere politico, accrescendo il loro benessere, sviluppando i buoni sentimenti, educandone il cuore e l’intelletto, o saremo inesorabilmente abbassati, e vedremo compromesse e perdute nella violenta tutte le conquiste della civiltà. La democrazia [p. 21 modifica]vera non accampa esigenze impossibili; rispetta la monarchia plebiscitaria al pari della repubblica; sa che per conservare la libertà bisogna usarla moderatamente, perchè è fatto attestata da mille esempi, che agli eccessi della libertà tiene dietro la perdita sua, non lagrimata quando sia divenuta fomite di disordini e produttrice di scandali. La vera democrazia non disconosce i freni morali della religione, del buon costume e del rispetto reciproco ai diritti e ai riguardi di ogni persona, dei poteri bene ordinati e delle leggi. Ma vuole che s’accrescano i beni d’uso comune, e scemi l’asprezza che è nelle naturali disuguaglianze sociali; non toglie ad alcuno nulla del superfluo, perchè sarebbe difficile dire che cosa sia il superfluo, ma non tollera che alcuno manchi del necessario ed esige che gli agiati sentano la responsabilità della ricchezza e gli intelligenti quella dell’ingegno. Chiunque di noi si chiude in un beato egoismo, è complice degli anarchici, e più colpevole di coloro stessi che preparano la rovina della società. È una povera lusinga credere che bastino la questura, i tribunali, le galere; noi, noi soli possiamo salvarci, e se non lo faremo, sarà tutta nostra la colpa.

XIV.

Consentite che io riassuma la differenza tra le due democrazie e le conseguenze diverse cui trascinerebbero un paese con uno di quei raffronti che ci porge la storia della terra, la quale determina tante volte o riflette la storia dell’umanità.

Sopprimendo ogni vincolo, ogni ritegno, ogni diga, ogni argine, riusciremo ad una pretesa eguaglianza, nella natura meglio che nella società. Strappiamo alle montagne il verde manto della foresta, e gli agenti atmosferici, le acque irruenti, gl’influssi sotterranei, quando la roccia sia fessa, spezzata, frantumata la trascineranno giù abbasso; trascuriamo le chiuse dei burroni alpini, e mancherà un primo, efficace ritegno; lasciamo liberi i fiumi a loro talento là dove si formano, essi scenderanno precipitosi, impetuosi, furenti contro gli argini, e li abbatteranno, spargendosi per la campagna. Noi lotteremo per elevare questi argini, per rafforzarli, per rinnovarli, ma giorno verrà in cui saremo vinti nella lotta disuguale, e alle montagne denudate, alle prealpi isterilite, farà riscontro la pianura impaludata, appestata dai miasmi, resa inabitabile all’uomo. Gli elementi continueranno la loro azione più rapida quanto meno impacciata, sino a che avranno tutto agguagliato, e messo in luogo dei boschi folti, delle colline amenissime, delle feraci campagne, un altipiano sabbioso come quello di Gobi, od un caos malinconico di pietre come [p. 22 modifica]nel centro della Spagna. Nella società la demagogia potrebbe allo stesso modo distruggere le conquiste della civiltà, le meraviglie dell’arte e lo stesso senso morale, ma non saremmo più «latin sangue gentile», sibbene un popolo selvaggio: tutti eguali, tutti liberi, tutti felici come i Niam-Niam, come i bambini dell’asilo.

Lasciate invece alla terra le naturali varietà sue, proteggete i colossi delle Alpi, le ghiacciaie, le foreste, i pascoli verdi, le colline festanti, le campagne feraci e prosciugate le paludi: qual diverso spettacolo, e come ci si presenta bello e nobile l’avvenire della società! Chi lavora vedrà tutelati i frutti del suo lavoro, protetta la sua vecchiaia; ciascuno avrà la sua piccola casa, il suo campo, e potrà procurarsi quanto gli è necessario. I beni di uso pubblico accresceranno gli agi di tutti, e un più forte sentimento di benevolenza riuscirà a prevenire ogni miseria. L’anarchia dell’invidia e delle male passioni ripullulerà sempre, come la malattia nel corpo umano, come la filossera nella vite: ma non riuscirà mai a prevalere, e nessuna reazione selvaggia turberà od arresterà il movimento ascendente del progresso.

La vera democrazia dee prefiggersi, insomma, una meta alta, nobile, degna; associare la coltura e l’arte ateniese alla saggezza romana, al sentimento cristiano, al patriottismo delle repubbliche italiane, e fondere tutto questo nel crogiuolo vasto della monarchia nazionale.

Non tutti, lo so, hanno la testa sicura, sani i polmoni e solidi i garretti per toccar le più alte cime; ma che nessuno pretenda stoltamente di tuffare nella palude chi è avviato a quelle con passo sicuro; e nessuno, d’altra parte, dimentichi o trascuri il dovere di essere guida ai deboli, ai fiacchi, agli impotenti, di spianare loro la difficoltà del cammino, di ammaestrarli trascinarli, se giovi, alle maggiori altezze.

Meglio, mille volte meglio per un uomo come per una nazione cader fulminato dalle vette sovrapposte come i Titani, che vegetare gracchiando a guisa di rane in una palude. Ed a voi, o Signore, che mi foste così cortesi di benevola attenzione, piaccia, se non altro, trarre dal mio discorso una coscienza più operosa del difficile problema e qualche traccia delle vie sulle quali bisogna cercarne la soluzione. Da voi, specialmente da voi, la moderna democrazia può attingere il culto dell’ideale, la viva fede, il rispetto di tutto ciò che è sacro e legittimo; in voi la moderna umanità, raffigurata pur sempre nel mito di Fausto, potrà trovare nei suoi scoramenti e nelle sue stesse cadute, il pensiero che la guidi al compimento dei futuri destini.


Note

  1. Lettura tenuta dall’autore alle Signore romane della Società per l’educazione della donna della Scuola superiore femminile di via della Palombella.
  2. Erskine May: Democracy in Europe. Capo VII.
  3. Sclopis: Delle Assemblee rappresentative del Piemonte e della Savoja. Introd.
  4. Taine: Origines de la France contemporaine, Vol. I.
  5. La vraie et la fausse démocratie. «Revue des deux mondes» 1871.
  6. Les Incendiaires par E. Vermesch, Londra 1874. - La dictature par le même. - La liquidation sociale, id. - La Iustice.