Le Mille ed una Notti/Storia della principessa di Deryabar

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Storia della principessa di Deryabar
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NOTTE CCLXXXIV

STORIA


DELLA PRINCIPESSA DI DERYABAR.


La sultana delle Indie, in nome della principessa di Deryabar, cominciò così la sua storia:

— Sire, v’ha in un’isola una grande città chiamata Deryabar. Governata per molto tempo da un re [p. 272 modifica] possente, liberale e virtuoso, non aveva questo principe figliuoli, e ciò solo mancava alla sua felicità. Volgeva di continuo preghiere al cielo, ma non fu esaudito che per metà; poichè la regina sua consorte, dopo lunga aspettativa, mise alla luce una sola bambina.

«Io sono questa infelice principessa. Mio padre provò più dolore che gioia della mia nascita, ma si sottomise alla volontà del cielo. Mi fece educare con tutta l’immaginabile cura, risoluto, giacchè non aveva figliuoli, ad insegnarmi l’arte di regnare, per farmi occupare il soglio dopo di lui.

«Un giorno, che divertivasi alla caccia, scoperse un asino selvatico, ed inseguendolo, separatosi dal grosso della sua gente, l’ardore lo spinse tant’oltre, che, senza pensare di smarrirsi, corse fino a notte. Discese allora da cavallo, e sedè all’ingresso d’un bosco, nel quale s’avvide che l’asino erasi cacciato. Appena calata la sera, scorse fra gli alberi un lume, che gli fece giudicare di non esser lontano da qualche villaggio: rallegratosi nella speranza di andarvi a passare la notte, e trovarvi alcuno da poter ispedire ad avvisar le genti del suo seguito del luogo in cui si trovava, alzossi e s’avviò verso il lume che servivagli di fanale per condursi.

«Conobbe però in breve d’essersi ingannato: quel lume altro non era che un fuoco acceso in una capanna: se ne avvicina, e scorge con istupore un grand’uomo negro, o piuttosto un gigante spaventevole seduto sur un sofà. Aveva il mostro davanti una grossa brocca di vino, e faceva arrostire sui carboni accesi un bue scorticato. Ora portavasi alle labbra la brocca ed ora tagliava il bue, e se lo mangiava a pezzi. Ma ciò che più attrasse l’attenzione di mio padre, fu una bellissima donna che vide nella capanna. Pareva costei immersa in profonda tristezza; aveva [p. 273 modifica] le mani legate, e vedeasi a’ suoi piedi un fanciullino di due o tre anni, il quale, quasi dividendo le disgrazie della madre, piangeva di continuo, empiendo l’acre delle sue grida.

«Colpito mio padre da quel commovente oggetto, fu alla prima tentato d’entrare nella capanna ed attaccar il gigante; ma riflettendo che ineguale sarebbe la pugna, si fermò, e risolse, poichè le sue forze non bastavano, di vincere per sorpresa. Frattanto il gigante, votata la brocca e mangiata più della metà del bue, si volse alla donna, e le disse: — Bella principessa, perchè mi obbligate colla vostra ostinazione a trattarvi con tal rigore? Sta in voi sola essere felice: non avete che a determinarvi di amarmi ed essermi fedele, e vi userò maniere più cortesi. — O satiro spaventoso,» rispose la donna, non isperare che il tempo diminuisca l’orrore che ho per te! Sarai sempre un mostro a’ miei occhi!» E furono quelle parole seguite da tante ingiurie, che il gigante se ne irritò. — Questo è troppo,» gridò con furibondo accento; «l’amor mio disprezzato si converte in rabbia; l’odio tuo suscita finalmente il mio; sento che già trionfa de’ miei desiderii, e che bramo la tua morte con maggior ardore che non desidero possederti.» Ciò dicendo, afferra la disgraziata donna pei capelli, la tiene con una mano sospesa in aria, e coll’altra, sguainata la sciabola, stava per troncarle il capo, quando il re mio padre scocca una freccia e la vibra nel petto al gigante, il quale vacilla e cade sul momento privo di vita.

«Entrò allora mio padre nella capanna, e slegate le mani alla donna, le chiese chi fosse e per qual avventura colà si trovasse. — Signore,» quella gli rispose, «sono sulla spiaggia del mare varie famiglie saracene, le quali hanno per capo un principe, ch’è mio marito. Il gigante che uccideste era uno [p. 274 modifica] de’ suoi primari officiali. Concepì il miserabile una violenta passione per me, cui prese gran cura di celare finchè trovò il destro d’eseguire l’iniquo suo disegno di rapirmi. Fortuna favorisce più spesso le ingiuste imprese, che le buone risoluzioni. Un giorno, il gigante mi sorprese col mio bambino in un luogo remoto, ci rapì entrambi, e per rendere inutili tutte le ricerche che stimava avrebbe fatto mio marito di tal ratto, si allontanò dal paese abitato dai Saraceni, e ci condusse in questo bosco, dove da qualche giorno mi trattiene. Per quanto deplorabile però sia il mio destino, non cesso di provare una segreta consolazione al pensiero che quel gigante, per quanto brutale ed innamorato fosse, non mi usò alcuna violenza per ottenere ciò che sempre negai alle sue preghiere. Non già che non m’abbia le cento volte minacciato di venirne alle più disperate estremità, se non poteva vincere altrimenti la mia resistenza; e vi confesso che testè, quando n’eccitai colle mie parole la rabbia, temeva meno per la vita che per l’onor mio. Ecco, o signore,» continuò la moglie del principe de’ Saraceni, «ecco la mia storia; non dubito che non mi troviate abbastanza degna di compassione per non pentirvi di avermi sì generosamente soccorsa.

«— Certo,madama,» le disse mio padre, «le vostre disgrazie m’hanno intenerito, e ne sono vivamente commosso; ma non istarà in me che la vostra sorte non divenga migliore. Domani, appena il giorno avrà fugate le ombre notturne, usciremo da questo bosco, cercheremo la strada della grande città di Deryabar, di cui sono sovrano, e, se v’aggrada, alloggerete nel mio palazzo, sinchè il principe vostro sposo vi venga a cercare. —

«Accettò la dama saracena la proposta, e alla domane seguì mio padre, il quale, all’uscir dal bosco, [p. 275 modifica] trovò tutti i suoi ufficiali, che avevano passata la notte a cercarlo, e stavano assai inquieti per lui. Lietissimi di ritrovarlo, rimasero del pari maravigliati vedendolo accompagnato da una dama d’incantevol bellezza. Ei raccontò loro in qual modo l’avesse incontrata ed il pericolo corso nell’avvicinarsi alla capanna, ove avrebbe perduto senza dubbio la vita se il gigante avesselo scorto. Un officiale prese quindi in groppa la donna, ed un altro portò il fanciullo.

«Giunsero in quell’equipaggio al palazzo di mio padre, che diede un appartamento alla bella Saracena, e fece con somma cura educare il fanciulletto. La dama non fu insensibile alle bontà del re, ed ebbe per lui tutta la riconoscenza che potesse desiderare. Da principio parve molto inquieta ed impaziente perchè il marito non la cercasse; ma a poco a poco cessò dall’inquietudine: le attenzioni che mio padre le usava, ne calmarono l’impazienza, e credo che infine sarebbesi lagnata colla fortuna di avvicinarla a’ parenti, più che non d’avernela allontanata.

«Frattanto il figlio di quella signora crebbe d’anni; era di leggiadro aspetto, e siccome non mancava di spirito, trovò mezzo di piacere al re mio padre, il quale lo prese in molta amicizia. Tutti i cortigiani se ne avvidero, e stimarono che quel giovane potesse sposarmi. In tal idea, e risguardandolo già come erede della corona, si attaccarono a lui, e ciascuno cercava di guadagnarsene l’amicizia. Penetrò egli il motivo del loro attaccamento, se ne applaudì, e dimenticata la distanza esistente fra le nostre condizioni, si lusingò che, in fatti, mio padre lo amasse tanto da preferire la sua parentela a quella di tutti i principi della terra. Fece di più: tardando troppo il re, a parer suo, ad offrirgli la mia mano, ebbe l’ardire di chiedergliela. Benchè la sua audacia meritasse castigo, mio padre contentossi di [p. 276 modifica] dirgli che aveva su me altre mire, nè degnossi di mostrarne sdegno alcuno.

«Fu il giovane irritato da quel rifiuto: l’orgoglioso si sentiva offeso dello spregio in cui teneasi la sua richiesta, quasi avesse domandato una donzella comune o fosse stato di nascita pari alla mia. Nè fermandosi a questo, risolse di vendicarsi del re, e con un’ingratitudine, che ha pochi esempi, cospirò contro di lui, e pugnalatolo, si fece proclamare re di Deryabar da gran numero di malcontenti, del cui dispetto seppe approfittare. Sua prima cura, appena videsi liberato di mio padre, fu di correre egli stesso nel mio appartamento alla testa d’una parte dei congiurati, col disegno di togliermi la vita o costringermi per forza a sposarlo. Ma ebbi il tempo di fuggire; mentre stava intento a trucidar mio padre, il gran visir, stato sempre fedele al suo signore, venne a strapparmi dal palazzo, e mi pose in sicurezza nella casa d’un suo amico, dove mi trattenne finchè un vascello, segretamente allestito per sua cura, fu in istato di sciogliere le vele. Allora uscii dall’isola accompagnata da una sola governante e dal generoso ministro, che preferì seguire la figlia del suo padrone nell’esiguo, anzichè obbedire al tiranno.

«Proponevasi il gran visir di condurmi nelle corti de’ re vicini ad implorarne l’assistenza, ed eccitarli a vendicare la morte del re mio padre; ma il cielo non approvò una determinazione che ci pareva tanto ragionevole. Dopo alcuni giorni di navigazione suscitossi una furiosa tempesta, e malgrado l’arte de’ marinai, il vascello, trasportato dall’impeto dei venti e dei marosi, ruppe contro uno scoglio. Non mi fermerò a farvi la descrizione del nostro naufragio; mal vi dipingerei in qual modo la mia governante, il gran visir e tutto l’equipaggio furono inghiottiti negli abissi del mare: il terrore ond’era colta, [p. 277 modifica] non mi permise d’avvedermi di tutto l’orrore della nostra sorte. Smarrii i sensi, e sia che fossi da qualche frantume del bastimento portata alla costa, sia che il cielo, il quale riservavami ad altre disgrazie, abbia fatto un miracolo per salvarmi, quand’ebbi ricuperato gli spiriti, mi trovai sulla riva.

«Spesso le sciagure ci rendono ingiusti; invece di ringraziar Iddio della grazia speciale che ne riceveva, alzai gli occhi al cielo per rimproverarlo di avermi salvata. Lungi dal compiangere il visir e la mia governante, ne invidiava il destino, ed a poco a poco la mia ragione cedendo alle terribili immagini che la turbavano, determinai di gettarmi in mare. Già stava per farlo, allorchè, udendo dietro di me un gran rumore d’uomini e di cavalli, volsi subito la testa per vedere cosa fosse, e scorsi parecchi cavalieri armati, fra’ quali uno montato sur un destriero arabo: vestiva questi un abito ricamato d’argento con una cintura di gemme, e portava in capo una corona d’oro. Quand’anche non avessi giudicato, dal suo abbigliamento, che fosse il signore degli altri, me ne sarei avveduta dall’aria di grandezza sparsa su tutta la sua persona. Era un giovane di venuste forme, e più bello del giorno. Sorpreso al vedere in quel luogo una giovane affatto sola, staccò alcuni officiali per venirmi a chiedere chi fossi. Non risposi se non con pianti e gemiti. Siccome la spiaggia era coperta dei frantumi del nostro bastimento, giudicarono che una nave avesse naufragato alla costa, e ch’io fossi di certo una vittima sfuggita dall’onde. Tale congettura ed il vivo dolore ch’io dimostrava irritando la curiosità degli ufficiali, cominciarono a farmi mille interrogazioni, assicurandomi che il loro re era un principe generoso, e che alla sua corte troverei materia di conforto.

«Il re, impaziente d’udire chi potessi essere, si [p. 278 modifica] stancò di aspettare il ritorno degli officiali, ed accostatosi, guardommi attentamente; siccome io non cessava di piangere ed affliggermi, senza poter rispondere a quelli che m’interrogavano, egli ingiunse di non stancarmi più oltre colle domande, e rivoltosi a me: — Signora,» mi disse, «vi scongiuro a moderare l’eccesso del vostro duolo. Se l’ira del cielo vi fece provare il suo rigore, dovete perciò abbandonarvi alla disperazione? Abbiate, vi prego, maggior fermezza: la fortuna che vi perseguita è incostante; la vostra sorte può cangiare. Oso pure assicurarvi, che se le vostre disgrazie possono essere alleviate, lo saranno nei miei stati. Vi offro il mio palazzo; dimorerete vicino alla regina mia madre, la quale cercherà, co’ suoi buoni trattamenti, di addolcire le vostre pene. Non so ancora chi siate, ma sento che già m’interesso per voi. —

«Ringraziai il giovane re della sua bontà; accettai le cortesi di lui offerte, e per dimostrargli che non n’era indegna, gli palesai la mia condizione. Gli dipinsi l’audacia del giovane Saraceno, e non ebbi bisogno che di raccontargli semplicemente le mie disgrazie, per eccitarne la compassione e quella di tutti i suoi officiali che m’ascoltavano. Il principe, cessato ch’io ebbi di favellare, ripigliò la parola, e mi assicurò nuovamente che s’interessava molto al mio infortunio. Mi condusse poscia al palazzo, dove, presentatami alla regina sua madre, fu d’uopo ricominciare il racconto delle mie avventure e rinnovare le lagrime. Sensibilissima si mostrò la regina ai miei affanni, e concepì per me estrema tenerezza, mentre il re, da parte sua, invaghitosi perdutamente di me, m’offrì in breve la corona e la mano. Era ancora così afflitta delle mie disgrazie, che il principe, per quanto fosse amabile, non fece su me l’impressione che avrebbe potuto fare in altri tempi, tuttavia, piena [p. 279 modifica] di gratitudine, non ricusai di contribuire alla sua felicità, ed il nostro matrimonio si fece con tutta la pompa immaginabile.

«Mentre tutti stavano intenti a celebrare le nozze del loro sovrano, un principe vicino e nemico venne una notte a sbarcar nell’isola con numerosa falangi; quel formidabile avversario era il re di Zanguebar, il quale sorprese e tagliò a pezzi tutti i sudditi del principe mio marito. Anzi poco mancò non ci prendesse amendue, essendo già nel palazzo con alcuni de’ suoi; ma noi trovammo il mezzo di salvarci, e raggiunta la spiaggia, ci gettammo in una barca peschereccia ch’ebbimo la fortuna di rinvenire. Vogammo in balia de’ venti per due giorni senza sapere il nostro destino; il terzo, scoprimmo una nave che ci veniva incontro a tutte vele. Alla prima ce ne rallegrammo, immaginandoci fosse un legno mercantile che ci potesse raccogliere; ma fummo colpiti da inesprimibile terrore quando, avvicinatasi a noi, apparvero sul ponte dieci o dodici corsari armati. Cinque o sei di coloro, scesi in una barca, vennero all’abbordaggio, ed impossessatisi di noi due, legarono il principe mio marito, e mi fecero passare sulla loro nave, dove tosto mi tolsero il velo. La mia gioventù e bellezza li colpiscono in guisa, che tutti que’ pirati dichiarano d’essere incantati dalla mia vista; invece di tirar a sorte, ognuno pretende d’avere la preferenza, e che io ne divenga la preda. Si riscaldano, vengono alle mani, combattono come furiosi: in un momento il ponte è coperto di morti. Infine, ammazzaronsi tutti, tranne un solo, il quale, vedendosi padrone della mia persona, mi disse: — Siete mia; vi condurrò al Cairo per consegnarvi ad un mio amico, al quale ho promesso una bella schiava. Ma,» soggiunse, guardando il re mio consorte, «chi è quell’uomo? Quai legami lo uniscono a voi? Sono quelli [p. 280 modifica] della parentela o dell’amore? — Signore,» gli risposi io, «è mio marito. — In tal caso,» riprese il corsaro, «bisogna che me ne disfaccia per compassione; ei soffrirebbe troppo vedendovi fra le braccia del mio amico.» A tali parole, prese il misero principe, ch’era già legato, e lo gettò in mare, malgrado i miei sforzi per impedirnelo.

«A sì crudele azione mandai alte strida, e mi sarei indubitatamente precipitata nell’onde, se il pirata non m’avesse trattenuta. Avvedutosi che non avea altra voglia, mi legò colle corde all’albero maestro, e spiegate le vele, volse la prora verso terra, dove andò a sbarcare. Allora mi slegò, e mi condusse in una piccola città, dove, comperati alcuni camelli, tende e schiavi, prese quindi la via del Cairo, col disegno, diceva ei sempre, d’andare a presentarmi al suo amico, mantenendo così la propria parola.

«Erano già più giorni che ci trovavamo in viaggio, quando, passando ieri per la pianura, scoprimmo il negro che abitava questo castello. Di lontano lo scambiammo per una torre, e quando ci fu vicino, appena potemmo credere che fosse un uomo. Impugnata la larga sua scimitarra, intimò al pirata d’arrendersi prigioniero cogli schiavi e la dama che conduceva. Il corsaro era coraggioso, e secondato da tutti gli schiavi, che promisero di essergli fedeli, attaccò il negro. Il combattimento durò a lungo, ma alla fine il pirata cadde sotto i colpi del mostro, al pari di tutti gli schiavi, i quali preferirono morire con lui anzichè abbandonarlo. Quindi il negro mi condusse in questo castello, dove, portato il corpo del pirata, se lo mangiò a cena. Verso il fine di quell’orribil pasto, vedendo ch’io continuava a piangere, mi disse: — Giovane dama, disponti a soddisfare alle mie voglie invece di affliggerti così. Cedi di buona grazia alla necessità: ti do tempo fino a [p. 281 modifica] domani per fare le tue riflessioni. Che ti rivegga tutta consolata delle tue sventure, e lieta di essere riservata al mio letto.» Ciò detto, mi condusse in una camera, e si coricò poscia nella sua dopo avere in persona chiuse tutte le porte del castello. Le ha aperte stamattina, rinchiudendole tosto, per inseguire alcuni viaggiatore che avea da lontano notati; ma bisogna che gli siano sfuggiti, poichè tornava solo e senza le loro spoglie, quando voi lo attaccaste.»

L’alba sorgeva mentre Scheherazade finiva la storia della principessa di Deryabar: la domane la sultana ripigliò quella di Kodadad, e volgendosi a Schahriar:


NOTTE CCLXXXV


— Appena la principessa ebbe finito il racconto delle sue avventure, Kodadad le attestò di essere vivamente commosso dalle sue disgrazie. — Ma, signora,» soggiunse, «non istarà se non in voi di vivere ormai tranquillamente. I figliuoli del re di Harran vi offrono asilo nella corte del loro padre; di grazia, accettatelo; vi sarete amata da quel principe, e rispettata da tutti; e se non isdegnate la mano del vostro liberatore, soffrite che ve la presenti, e vi sposi dinanzi a tutti questi principi; siano essi testimoni del nostro nodo.» La principessa acconsentì, e subito nel giorno stesso il matrimonio si fece nel castello, dove trovaronsi ogni sorta di provvisioni: piene le cucine di carni ed altre vivande, di cui il negro soleva nutrirsi quand’era sazio di carne umana; v’erano ancora moltissimi frutti, tutti eccellenti [p. 282 modifica] nelle loro specie; e, per colmo di delizie, immensa quantità di liquori e vini squisiti.

«Si posero tutti a tavola, e quand’ebbero ben mangiato e bevuto, portarono via tutto il resto delle provvisioni, uscendo dal castello nel pensiero di recarsi alla corte del re di Harran. Camminarono parecchi giorni, accampandosi nei siti più ameni che potevano trovare; e non istavano più se non ad una giornata da Harran, allorchè, fermatisi e tornando a bere, come gente che più non si curava di risparmiar il vino, Kodadad prese a dire: — Principi, è troppo il nascondervi più oltre chi io sia: voi vedete in me vostro fratello Kodadad; io deggio la vita, al par di voi tutti, al re di Harran. Il principe di Samaria mi ha educato, e la principessa Piruzè è mia madre. Madama,» soggiunse quindi, volgendosi alla principessa di Deryabar, «perdonatemi se a voi pure feci mistero dalla mia nascita. Forse, scoprendovela più presto, avrei prevenuta qualche riflessione dispiacevole che può avervi fatto nascere un matrimonio da voi creduto ineguale. — No, signore,» rispose la principessa, «i sentimenti che mi avete alla prima ispirati, andarono vie più afforzandosi, e per formare la mia felicità non era bisogno di tal origine che ora mi palesate. —

«I principi felicitarono Kodadad sulla sua nascita, e gliene dimostrarono molta gioia; ma nel fondo del cuore, invece di esserne contenti, l’odio loro per un sì amabile fratello non fece che aumentare. Adunatisi insieme la notte in un luogo remoto, mentre Kodadad e la principessa sua consorte gustavano sotto la loro tenda le dolcezze del sonno, dimenticarono quegl’ingrati, quegl’invidiosi fratelli che senza il coraggioso figliuolo di Piruzè sarebbero tutti caduti preda del negro, e risolsero fra loro di assassinarlo. — Non ci resta altro partito da prendere,» disse uno [p. 283 modifica] di quei perfidi; «appena il re saprà che questo straniero, cui ama tanto, è suo figliuolo, e ch’ebbe la forza di atterrare egli solo un gigante, che noi tutti uniti non potemmo vincere, lo colmerà di carezze, gli farà mille lodi, e lo dichiarerà proprio erede a spese di tutti gli altri suoi figli, che saranno costretti a prosternarsi davanti al loro fratello ed obbedirgli. —

«A simili parole altre ne aggiunse che fecero tanta impressione su quegli spiriti gelosi, che andati sul momento alla tenda ove Kodadad dormiva, lo trafissero di mille pugnalate, e lasciatolo esangue tra le braccia della principessa, subito partirono per restituirsi alla città di Harran, in cui giunsero alla domane.

«Il loro inaspettato ritorno produsse tanta maggior gioia al re loro padre, in quanto che disperava di rivederli. Chiesta ad essi la cagione del ritardo, ben si guardarono dal dirgliela, e non facendo alcuna menzione del negro, nè di Kodadad, sol dissero che non avevano potuto resistere alla curiosità di vedere il paese, ed eransi fermati in varie città vicine.

«Intanto Kodadad, immerso nel proprio sangue e pari ad un estinto, stava sotto la tenda colla consorte, che non pareva da compiangersi meno di lui. Riempiva l’aria di lamentevoli strida, strappavasi i capelli, e bagnava di lagrime il cadavere del marito. — Ah, Kodadad!» sclamava ad ogni momento; «mio caro Kodadad, sei tu che veggo sul punto di spirare? Quali mani crudeli ti ridussero in tale stato? Dovrò credere i tuoi propri fratelli autori di sì spietato assassinio, quei fratelli che salvasti col tuo valore? No, sono piuttosto demoni che, sotto lineamenti sì cari, vennero a rapirti la vita. Ah, barbari! chiunque siate, come mai poteste pagare di tanta ingratitudine il servigio ch’egli vi ha reso? Ma perchè [p. 284 modifica] prendermela co’ tuoi fratelli, infelice Kodadad? A me sola debbo imputare la tua morte: volesti unire il tuo destino al mio, e tutta la sciagura che con me trascino dacchè uscii dal palazzo di mio padre, si è versata sopra di te. O cielo, che mi condannasti ad una vita errante e sventurata, se non volevi che avessi sposo, perchè permettere che ne trovassi? Eccone già due che mi togli, nel tempo che comincio ad affezionarmi a loro. —

«Con simili e più commoventi discorsi la desolata principessa di Deryabar esprimeva il proprio dolore guardando il misero Kodadad, che non poteva intenderla. Non era però morto, e sua moglie, essendosi accorta che respirava ancora, corse verso una grossa borgata, cui vide nella pianura, per cercarvi un chirurgo. Glie ne insegnarono uno, il quale partì all’istante con lei; ma giunti sotto la tenda, più non vi trovarono Kodadad; talchè, giudicando che qualche bestia feroce l’avesse portato via per divorarlo, la principessa ricominciò i pianti e le querele nel più compassionevole modo, tanto che il chirurgo, inteneritosene, e non volendo abbandonarla nel terribile stato in cui la vedeva, le propose di tornare al borgo, e le offrì la sua casa ed i suoi servigi.

«Si lasciò quella trascinare: il chirurgo la condusse a casa, e senza sapere ancora chi fosse, la trattò con tutti i riguardi e col maggior rispetto. Procurava co’ suoi discorsi di consolarla, ma ebbe un bel combattere il di lei dolore, non facendo che inasprirlo invece di alleviarlo. — Signora,» le disse un giorno, «narratemi, di grazia, tutte le vostre sventure; ditemi di qual paese siete e di qual condizione: forse potrò darvi buoni consigli, quando sia istruito di tutte le circostanze del vostro infortunio. Voi non fate che affliggervi, senza pensare che trovar si ponno nmedi ai più disperati mali. — [p. 285 modifica]«Il chirurgo parlò con tanta eloquenza, che persuase la principessa; gli raccontò questa le sue avventure, e quand’ebbe finito, il chirurgo soggiunse: — Signora, poichè le cose sono così, permettete vi supplichi di non abbandonarvi al vostro cordoglio; piuttosto armatevi di costanza, e fate ciò che il nome ed il dovere d’una sposa da voi esigono: dovete vendicare vostro marito. Son pronto, se desiderate, a servirvi di scudiero. Andiamo alla corte del re di Harran: è un principe buono ed equo; non avete che a dipingergli con vivi colori il trattamento usato dai fratelli a Kodadad, e sono persuaso ch’egli vi farà giustizia. — Cedo alle vostre ragioni,» rispose la principessa; «si, devo intraprendere la vendetta di Kodadad, e poichè siete tanto cortese e generoso di volermi accompagnare, eccomi pronta alla partenza.» Presa tal risoluzione, il chirurgo fece tosto allestire due camelli, sui quali la principessa ed egli si misero in viaggio per alla volta della città di Harran.

«Andati a smontare al primo caravanserraglio che trovarono, chiesero all’albergatore notizie della corte. — Vi regna,» rispose colui, «una grandissima inquietudine. Il re aveva un figlio, il quale rimase incognito assai tempo presso di lui, e non si sa poi cosa ne sia stato. Una moglie del re, chiamata Piruzè, n’è la madre, la quale fece fare, ma indarno, mille indagini. Tutti sono dolenti della perdita di questo principe, giovane di molto merito. Il re ha quarantanove altri figli, tutti nati da madre diversa; ma non ve n’ha uno solo che abbia virtù bastante per consolare il re della morte di Kodadad. Dico la morte, essendo impossibile che viva ancora, se non riuscì trovarlo malgrado tutte le ricerche che se ne fecero. —

«Sul rapporto dell’oste, giudicò il chirurgo che la principessa di Deryabar non avesse altro partito da [p. 286 modifica] prendere fuorchè d’andarsi a presentare a Piruzè; ma un tal passo non era senza pericolo, e richiedeva molte precauzioni, essendo da temere non i figliuoli del re di Harran, ove scoprissero l’arrivo ed il disegno della loro cognata, la facessero uccidere prima che potesse parlare alla madre di Kodadad. Il chirurgo fece tutte codeste riflessioni, e rappresentossi il pericolo ch’egli medesimo correva; talchè volendo, in tal congiuntura, condursi prudentemente, pregò la principessa a rimanere nel caravanserraglio, mentr’egli recavasi al palazzo onde indagare i mezzi di poterla far sicuramente pervenire fino a Piruzè.

«Andò dunque nella città, e camminava verso il palazzo come uomo pinto soltanto dalla curiosità di vedere la corte, allorchè scorso una dama montata sur una mula riccamente bardata, seguita da varie damigelle, montate anch’esse su mule, e da gran numero di guardie e di schiavi negri. Tutto il popolo faceva ala per vederla passare, e la salutava prosternandosi colla faccia a terra. Anche il chirurgo la salutò alla medesima guisa, e chiesto poscia ad un calendero, che gli si trovava vicino, se quella dama fosse moglie del re: — Sì, fratello,» rispose il calendero, «è una delle sue mogli, e la più onorata e diletta al popolo, per essere la madre del principe Kodadad, del quale dovete aver udito parlare. —

«Il chirurgo non volle saperne di più, e seguì Piruzè fino ad una moschea, dove questa entrò per distribuir elemosine, ed assistere alle pubbliche preci, ordinate dal re pel ritorno di Kodadad. Il popolo, che sommamente s’interessava al destino del giovane principe, correva in folla ad unire i propri ai voti de’ sacerdoti, per modo che la moschea era piena di gente.

«Il chirurgo, fattosi largo in mezzo alla calca, s’inoltrò fino alle guardie di Piruzè, dove intese tutte le preghiere, e quando la principessa uscì, si diresse ad uno degli [p. 287 modifica] schiavi, e dissegli all’orecchio: — Fratello, ho un secreto importante da palesare alla principessa Piruzè; non potrei, col vostro mezzo, essere introdotto nel suo appartamento? — Se il segreto,» rispose lo schiavo, «riguarda il principe Kodadad, oso promettervi che oggi stesso avrete da lei l’udienza che desiderate; ma se tal segreto non lo risguarda, è inutile che cerchiate di farvi presentare alla principessa, non occupandosi ella che di suo figlio, e non volendo udir parlare di verun’altra cosa. — È appunto del suo caro figlio ch’io voglio parlarle,» rispose il chirurgo. — Se così è,» soggiunse lo schiavo, «seguiteci al palazzo, e ben presto le parlerete. —

«In fatti, tornata Piruzè nel suo appartamento, lo schiavo le disse che uno sconosciuto aveva qualche cosa da comunicarle risguardante Kodadad. Appena ebbe quegli pronunciate tali parole, che Piruzè dimostrò una viva impazienza di vedere lo sconosciuto; lo schiavo lo introdusse allora immediatamente nel gabinetto della principessa, la quale, allontanate tutte le donne ad eccezione di due, per le quali non aveva segreti, tostochè vide il chirurgo, gli domandò ansiosa quali nuove avesse a recarle di Kodadad. — Signora,» rispose il chirurgo, dopo essersi prosternato col volto fino a terra, «debbo raccontarvi una lunga storia, e cose che senza dubbio vi sorprenderanno.» Allora le fece il particolareggiato racconto di tutto l’accaduto fra Kodadad ed i suoi fratelli, ed essa l’ascoltò con avidissima attenzione; ma quando venne a parlare dell’assassinio, quella tenera madre, quasi si fosse sentita trapassare da’ medesimi colpi, cadde svenuta. La soccorsero le due donne prontamente, e fattile riprendere i sensi, continuò il chirurgo la sua relazione. Terminato ch’ebbe, la principessa gli disse: — Andate a trovare la principessa di Deryabar, ed annunziatele che il re subito la riconoscerà per sua nuora; quanto [p. 288 modifica] a voi, siate certo che i vostri servigi saranno ben ricompensati. —

«Uscito il chirurgo, Piruzè rimase sul sofà nell’abbattimento che ognun si può immaginare, e commovendosi alla memoria di Kodadad: — O figlio mio,» sclamava, «eccomi dunque per sempre priva del diletto di vederti! Allorchè ti lasciai partire di Samaria per venire in questa corte, e ricevetti i tuoi addii, aimè! io non credeva che una morte funesta ti mietesse lungi da me! O sventurato Kodadad! Perchè lasciarmi? Non avresti, in vero, acquistata tanta gloria, ma vivresti ancora, e non costeresti tante lagrime a tua madre.» Ciò dicendo, piangeva amaramente; e le due confidenti del suo dolore mescevano le loro alle di lei lagrime.

«Mentre affliggevansi a vicenda tutte e tre, entrò il re nel gabinetto, e scorgendole in quello stato, chiese a Piruzè se avesse ricevuto tristi notizie di Kodadad. — Ah signore,» rispose quella, «tutto è finito; mio figlio ha perduta la vita! e per colmo di dolore, non posso rendergli gli onori della sepoltura, poichè, secondo tutte le apparenze, le bestie feroci lo hanno divorato.» E subito gli raccontò quanto detto le aveva il chirurgo, non mancando di diffondersi sul modo crudele, onde Kodadad era stato assassinato dai fratelli.

«Il re non diede tempo a Piruzè di finire il racconto infiammato d’ira, e cedendo al suo trasporto: — Signora,» le disse, «i perfidi che fanno scorrere le vostre lagrime, e che cagionano al padre loro questo mortal dolore, ne proveranno il giusto castigo.» Sì dicendo, quel principe, col furore dipinto negli occhi, recasi alla sala d’udienza, dove stavano i cortigiani e quelli del popolo che aveano da fargli qualche preghiera, i quali, tutti maravigliati al vederlo comparire con quell’aria furiosa, lo giudicano in collera [p. 289 modifica] contro il suo popolo, e tremano di spavento. Sale egli sul trono, e fattosi avvicinare il gran visir: — Hassan,» gli dice, «ho da darti un ordine; va immediatamente a prendere mille soldati della mia guardia, ed arresta tutti i principi miei figliuoli; chiudili nella torre destinata a servir di prigione agli assassini, e ciò sia fatto sul momento.» A quell’ordine straordinario fremettero tutti gli astanti; il gran visir, senza risponder sillaba, si pose la mano sul capo per dinotare la propria obbedienza, ed uscì dalla sala per andar ad adempiere un incarico ond’era molto stupito. Intanto il re rimandò le persone che venivano a chiedergli udienza, e dichiarò che per un mese non voleva udir parlare di affari. Trovatasi ancora nella sala, quando Hassan tornò. — Ebbene, visir,» gli chiese il principe, «i miei figliuoli sono tutti nella torre? — Sì, o sire,» rispose il ministro; «siete obbedito. — Non è tutto,» ripigliò il re; «ho ancora un altro ordine da darti.» Ciò detto, uscì dalla sala d’udienza e tornò nell’appartamento di Piruzè col visir che lo seguiva. Quivi domandò alla principessa dove fosse alloggiata la vedova di Kodadad, e le donne di Piruzè avendoglielo indicato, giacchè il chirurgo non l’aveva nel suo racconto taciuto, rivoltosi allora il re al ministro: — Va,» gli disse, «in quel caravanserraglio, e conducimi qui una giovane principessa che vi sta alloggiata; ma trattala con tutto il rispetto dovuto ad una persona del suo grado. —

«Non mise il visir gran tempo ad eseguire quell’ingiunzione: montò a cavallo con tutti gli emiri e gli altri cortigiani, e recatosi al caravanserraglio ove trovavasi la principessa di Deryabar, le espose l’ordine avuto e presentolle, da parte del re, una bella mula bianca che aveva sella e briglie d’oro, tempestate di rubini e di smeraldi. Vi salì la giovane, ed in mezzo a tutti quei signori s’avviò al palazzo, [p. 290 modifica] seguita dal chirurgo, montato anch’esso sopra un bel cavallo tartaro che il visir aveagli fatto dare. Il popolo stava alle finestre o per le vie a veder passare la magnifica cavalcata; ed essendosi divulgato che quella principessa, condotta con tanta pompa alla corte, era moglie di Kodadad, dovunque scoppiavano applausi, e l’aria rimbombava di mille giulive grida, che sarebbonsi di certo convertite in gemiti, se fosse stata nota la trista avventura di quel giovane principe, tanto universalmente amato.»

La lunghezza di questa notte non aveva stancata l’attenzione del sultano, ed egli avrebbe desiderato che l’alba non avesse impedito a Scheherazade di finire il racconto. Lo attestò alla principessa, la quale gli promise tal soddisfazione pel giorno successivo.


NOTTE CCLXXXVI


— La principessa di Deryabar trovò il re che l’attendeva alla porta del palazzo per riceverla. La prese egli per mano, e la condusse all’appartamento di Piruzè, dove accadde una commoventissima scena. La moglie di Kodadad sentì rinnovare la propria afflizione alla vista dei genitori del marito, come pur non poterono questi vedere la sposa del loro figliuolo senza esserne vivamente agitati. Si buttò essa a’ piedi del re, e bagnatili di lagrime, fu còlta da sì mortal dolore, che non ebbe la forza di parlare. Nè in condizione men deplorabile era Piruzè, la quale pareva penetrata dalle sue pene, ed il re, colpito da quei commoventi oggetti, si abbandonava al proprio cordoglio. Quelle tre persone, confondendo insieme i [p. 291 modifica] sospiri e le lagrime, si tennero per qualche tempo in un silenzio tenero e degno di pietà. Infine, essendosi la principessa di Deryabar riavuta dal suo abbattimento, raccontò l’avventura del castello e la disgrazia di Kodadad, chiedendo poscia giustizia del tradimento dei principi. — Sì, madama,» le disse il re, «quegl’ingrati periranno; ma bisogna prima render pubblica la morte di Kodadad, affinchè il supplizio de’ suoi fratelli non sia causa di ribellione pe’ miei sudditi. D’altra parte, benchè privi del cadavere di mio figliuolo, non tralasciamo di rendergli gli ultimi uffici.» Si volse quindi al visir, e gli ordinò di far erigere un mausoleo di marmo bianco nella bella pianura, in mezzo alla quale sorge la città di Harran, e frattanto diede alla principessa di Deryabar un sontuoso appartamento nel palazzo, riconoscendola per nuora.

«Fece Hassan lavorare con tal sollecitudine, adoperandovi tanti operai, che in pochi giorni il mausoleo fu eretto. Vi si alzò sotto una tomba sormontata da una figura rappresentante Kodadad; e subito finito il lavoro, il re ordinò solenni preghiere, e stabili un giorno per le esequie del figliuolo.

«Venuto quel giorno, gli abitanti della città si sparsero per la pianura, onde vedere la cerimonia che si fece di tal guisa:

«Il re, seguito dal visir e dai principali signori della corte, si recò al mausoleo, e giuntovi, entrò, sedendo con essi su tappeti di raso a fiorami d’oro; poscia, una numerosa schiera di guardie a cavallo, cogli occhi semichiusi e la testa bassa, avvicinatasi al sepolcro, ne fece due volte il giro in profondo silenzio; ma la terza, fermaronsi davanti alla porta, e tutti dissero, l’un dopo l’altro, queste parole ad alta voce:

«— O principe, figlio del nostro re! se potessimo [p. 292 modifica] recare qualche sollievo al tuo male, pel fendente delle nostre scimitarre e per l’umano valore, ti faremmo rivedere la luce del giorno; ma il re de’ re ha comandato, e l’angelo della morte obbedì. —

«Ciò detto, ritiraronsi per dar luogo a cento vecchi, tutti montati su mule nere, i quali portavano lunghe barbe bianche. Erano solitari che, nel corso della loro vita, tenevansi nascosti nelle spelonche, nè mostravansi mai alla vista degli uomini se non per assistere ai funerali dei re di Harran e dei principi della loro casa. Portavano quei venerabili vecchioni un grosso libro ciascuno sulla testa, tenendolo fermo con una mano; fecero tre volte il giro del mausoleo senza schiuder labbro, e fermatisi poi alla porta, uno di loro proferì queste parole:

«— O principe! che cosa possiamo fare per te? Se, mediante la preghiera o la scienza, ti potessimo restituire la vita, stropicceremmo le nostre canute barbe a’ tuoi piedi, recitando orazioni; ma il re dell’universo ti ha rapito per sempre. —

«Que’ vecchioni, parlato in tal modo, allontanaronsi dal sepolcro, e subito cinquanta leggiadrissime giovanotte se ne avvicinarono, ognuna montata sur un picciolo cavallo bianco. Erano senza veli, e portavano canestrini d’oro pieni d’ogni sorta di pietre preziose. Girarono anch’esse tre volte intorno al funebre edificio, e fermatesi quindi nel medesimo sito degli altri, la più giovane prese la parola, e disse:

«— O principe, una volta così bello! qual soccorso puoi tu aspettarti da noi? Se potessimo co’ nostri vezzi renderti la vita, ci faremmo tue schiave; ma tu non sei più sensibile alla beltade, nè hai più bisogno di noi. —

«Ritiratesi le fanciulle, il re ed i cortigiani si alzarono, e fecero tre volte il giro del mausoleo; poi il re così parlò:

[p. 293 modifica]«— O mio caro figlio! luce degli occhi miei! ti ho dunque perduto per sempre? —

«Ed accompagnò le parole coi sospiri, bagnando di lagrime la tomba. Piansero anche i cortigiani al suo esempio, e poscia, chiusa la porta, tutti tornarono alla città. Il giorno appresso si fecero pubbliche preci nelle moscece, continuandole otto giorni di seguito.

«Il nono, il re risolse di far troncare il capo ai principi suoi figliuoli; tutto il popolo, sdegnato del trattamento da essi fatto al fratello Kodadad, sembrava aspettarne impaziente il supplizio. Si cominciarono ad erigere i patiboli; ma furono costretti a rimetterne l’esecuzione a miglior tempo, essendosi d’improvviso sparsa la notizia che i principi vicini, i quali avevano già fatta la guerra al re di Harran, avanzavansi con forze più poderose della prima volta, e non istavano molto lontani dalla città. Era già qualche tempo che si sapeva ch’essi preparavansi alla guerra, ma non aveasi badato ai loro preparativi; quella nuova cagionò universale costernazione, e somministrò occasione di piangere di nuovo Kodadad, essendosi il principe segnalato nella precedente campagna contro i medesimi nemici. — Ah!» dicevano; «se il generoso Kodadad vivesse ancora, poco ci calerebbe di quei principi che vengono a sorprenderci.» Intanto il re, invece di abbandonarsi al timore, levata gente in fretta, forma un esercito rispettabile, e troppo coraggioso per attendere i nemici entro le mura, esce dalla città e marcia loro incontro. I nemici, da parte propria, avendo saputo dagli scorridori che il re di Harran avanzavasi per combatterli, si fermarono in una pianura, schierando le soldatesche in ordine di battaglia.

«Non appena ebbeli il re scoperti, che ordina anch’egli e dispone le sue truppe alla pugna, fa [p. 294 modifica] suonare la carica, ed assale con estremo ardore; con egual valore gli si resiste: molto sangue è sparso d’ambe le parti, e la vittoria pende a lungo indecisa. Ma finalmente stava per dichiararsi in favore degli avversari del re di Harran, i quali, essendo in maggior numero, già lo circondavano, allorchè si vide comparire nella pianura un grosso stuolo di cavalieri, i quali avvicinavansi in buon ordine ai combattenti. Maravigliarono le due parti alla vista di quei nuovi soldati, e non sapevano cosa pensarne. Ma non rimasero a lungo nell’incertezza; quei guerrieri vennero a prendere di fianco i nemici del re di Harran, e li caricarono con tal furia, che alla prima disordinatene le schiere, l’ebbero in breve fugati e volti in rotta; nè contenti di ciò, inseguitili a tutta possa, li tagliarono quasi tutti a pezzi.

«Il re di Harran, il quale aveva osservato con molta attenzione tutto ciò ch’era accaduto, ammirando l’audacia di quei cavalieri, il cui inopinato soccorso veniva a determinare la vittoria in suo favore, erasi specialmente compiaciuto del loro capo, avendolo veduto combattere con sommo valore, e desiderava sapere il nome di quel generoso eroe. Impaziente di vederlo e ringraziarlo, cerca di raggiungerlo, e scorge che quegli si avanza per prevenirlo; i due principi si accostano, ed il re di Harran, riconoscendo, nel bravo guerriero che aveva sì opportunamente battuti i suoi nemici in quel frangente, il figliuolo Kodadad, rimase estatico di maraviglia e d’allegrezza. — Sire,» gli disse il principe, «estrema sarà al certo la vostra sorpresa vedendo così d’improvviso comparire davanti a vostra maestà un uomo che credevate estinto. Lo sarei, se il cielo non mi avesse conservato per servirvi ancora contro i vostri nemici. — Ah, figliuolo!» sclamò il re; «è possibile che mi siate restituito? Aimè! Io disperava [p. 295 modifica] di mai più rivedervi.» Sì dicendo, stese le braccia al principe, che si abbandonò al dolce amplesso.

«— So tutto, figliuolo,» ripigliò il re, dopo averlo tenuto buona pezza abbracciato; «so in qual modo i vostri fratelli pagarono il servigio che loro faceste, liberandoli dalle mani del negro; ma domani sarete vendicato. Intanto andiamo al palazzo; vostra madre, alla quale costaste tante lagrime, mi attende per rallegrarsi meco della sconfitta de’ nostri avversari. Qual giubilo non le recheremo manifestandole che la mia vittoria è opera vostra! — Sire,» disse Kodadad, «permettetemi di chiedervi come poteste essere istruito dell’avventura del castello. Ve l’avrebbe mai palesata alcuno de’ miei fratelli, spinto dai propri rimorsi? — No,» rispose il re, «fu la principessa di Deryabar che m’informò di tutto, essendo ella venuta nel mio palazzo, non per altro se non per domandarmi giustizia del misfatto de’ vostri fratelli.» Trasportato di gioia al sentire che la sua consorte si trovasse alla corte: — Andiamo, o sire,» sclamò il giovane con trasporto, «corriamo a trovare mia madre che ci aspetta; ardo d’impazienza di asciugare le sue lagrime, al par di quelle della principessa. —

«Il re riprese tosto la via della città coll’esercito, e congedatolo, rientrò in trionfo nel suo palazzo, in mezzo alle acclamazioni del popolo, che lo seguiva in gran folla, pregando Iddio di prolungargli la vita, e portando alle stelle il nome di Kodadad. I due principi trovarono Piruzè e la nuora che attendevano il re per complimentarlo; ma sarebbe impossibile esprimere i trasporti di gioia onde furono agitate quando lo videro accompagnato dal giovane principe. Furono amplessi misti a lagrime, ben diverse da quelle già sparse per lui; soddisfatto ch’ebbero quelle quattro persone a tutti i movimenti che il sangue e l’amore [p. 296 modifica] ispiravano loro, chiesero al figlio di Piruzè per qual miracolo fosse ancora al mondo.

«Rispose che un contadino a cavallo d’una mula, essendo per caso entrato nella tenda in cui egli trovavasi svenuto, e vedendolo solo e trafitto di mille colpi, lo aveva legato sulla bestia, e condotto a casa sua, ivi applicando sulle di lui ferite certe erbe masticate, le quali aveanlo ristabilito in pochi giorni. — Allorchè mi vidi guarito,» soggiunse, «ringraziai il contadino, e gli donai tutti i diamanti che mi trovava in dosso. Accostatomi quindi alla città di Harran, ed avendo inteso per via che alcuni principi vicini, radunate molte soldatesche, già piombavano sui sudditi del re, mi feci conoscere ne’ villaggi, ed eccitai lo zelo de’ suoi popoli a prenderne la difesa. Armato buon numero di giovani, e postomi alla loro testa, giunsi appunto quando i due eserciti stavano alle mani. —

«Finito ch’egli ebbe di parlare, il re disse: — Ringraziamo Iddio per averci conservato Kodadad; ma è d’uopo che i traditori, i quali volevano ucciderlo, oggi periscano. — Sire,» riprese il generoso figliuolo di Piruzè, «per quanto ingrati ed iniqui essi siano, pensate che sono nati dal vostro sangue, e che sono miei fratelli; io perdono al loro delitto, e vi domando grazia per essi. —

«Que’ nobili sensi strapparono lagrime al re, il quale, fatto adunare il popolo, dichiarò Kodadad suo erede. Ordinò poi che si conducessero i principi prigioni, i quali comparvero tutti carichi di ferri; il figlio di Piruzè, tolte loro le catene, li abbracciò tutti ad uno ad uno con tanto buon cuore come fatto aveva nel cortile del castello del negro; ed il popolo salutò di mille applausi la generosità di Kodadad. Fu poscia il chirurgo colmato di benefizi, per rimunerarlo dei servigi resi alla principessa di Deryabar.»

[p. 297 modifica]La sultana Scheherazade aveva raccontata la storia di Ganem, quella di Zeym e di Kodadad con tanto brio, che il sultano delle Indie, suo sposo, non potè astenersi dal dichiararle, per la seconda volta, di averle ascoltate con sommo diletto.

— Sire,» gli disse allora la sultana, «non dubito che vostra maestà non abbia provata molta soddisfazione vedendo il califfo Aaron al-Raschid cangiar di sentimento in favore di Ganem, di sua madre e della sorella Forza de’ Cuori; e credo ch’ella abbia dovuto trovarsi sensibilmente colpita dalle disgrazie degli uni e dai mali trattamenti sofferti dagli altri; credo anche ch’essa avrà sentito con indignazione la perfidia de’ fratelli di Kodadad, il pericolo corso da questi, e veduto con piacere il valoroso principe, ripristinato ne’ propri diritti, perdonare generosamente ai fratelli; ma sono pur persuasa che se vostra maestà volesse udire la storia del Dormiente svegliato, invece di tutti quei moti di sdegno e di compassione che destato aver deve nel suo cuore quella di Ganem e di Kodadad, e di cui è ancora commosso, questa, per lo contrario, non le ispirerebbe che ilarità e piacere.»

Al solo titolo della novella onde parlato aveagli la sultana, Schahriar, il quale ripromettevasene avventure affatto nuove e piacevoli, avrebbe voluto udirne il racconto in quel giorno medesimo; ma era già tempo di alzarsi, talchè differì alla domane l’ascoltare Scheherazade, la quale, il giorno appresso, dopo che Dinarzade l’ebbe destata, cominciò la novella così: