Morgante maggiore/Canto decimosesto

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Canto decimosesto

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Canto decimoquinto Canto decimosettimo
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CANTO DECIMOSESTO.




ARGOMENTO.

     Viene a Rinaldo Antea, perchè suo padre
L’eredità dell’Amostante chiede:
Rinaldo adocchia le forme leggiadre
Di tal donzella; e più lume non vede.
Con tre campion delle contrarie squadre
Antea combatte, e un solo a lei non cede.
Rinaldo e Orlando, partito il Soldano,
Si trovan tra i giganti a un caso strano.


1 O gloriosa figlia di Davitte,
     Ch’ogni emisperio allumi. e ’l ciel fai bello,
     Per cui salvate fur tante alme afflitte,
     Quel dì che ti disse Ave Gabriello;
     Insino a qui son nostre storie pitte
     Col tuo color, tua arte, e tuo pennello;
     Colla tua grazia abbiam passato il mezzo:
     Non lasciar la mia mente al buio e al rezzo.

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2 Pareva Antea mill’anni di vedere
     Rinaldo, ed Ulivieri, e ’l conte Orlando,
     E Ricciardetto sì buon cavaliere;
     E tuttavolta si viene assettando:
     Della sua gente ordinava tre schiere
     Forniti d’arme e di lancia e di brando,
     E dal Soldan facea la dipartita,
     E finalmente in Persia ne fu ita.

3 Nè prima giunse in su la piazza questa,
     Ch’una lancia pigliò con gran fierezza,
     Mosse il cavallo, e poi la pose in resta,
     Ruppela in terra con gran gentilezza;
     E mentre che ’l caval furia e tempesta,
     Volselo in aria con tanta destrezza,
     Che non lo volse mai sì destro Ettorre;
     E ’l popolo a furor là a veder corre.

4 Rinaldo, che vedea dalla finestra,
     Maravigliossi troppo di quell’atto,
     E disse: Donna mai vidi sì destra,
     Nè cosa più mirabil ch’ella ha fatto:
     Questa è pur d’ogni cosa la maestra.
     Orlando ne pareva stupefatto,
     E vanno tutti incontro alla donzella,
     Ed evvi Luciana e Chiariella.

5 E giunti appresso alla gentil Pagana,
     Ognun la salutò con grand’onore;
     Ella rispose in lingua soriana
     Cose che tutti infiammava nel core;
     E in mezzo a Chiariella e Luciana
     Menata fu nel palazzo maggiore,
     E in una ricca sedia a seder posta;
     Poi fece in questo modo la proposta.

6 Quel primo Dio che fece cielo e terra,
     E la natura, e stelle, e sole, e luna,
     Ed a sua posta l’abisso apre e serra,
     E fa, quando e’ vuol, l’aria chiara e bruna,
     E che, pietoso e giusto, e mai non erra,
     Benchè ciascun pur gridi alla fortuna;
     Salvi e mantenga il mio padre Soldano,
     E ’l buon Rinaldo e ’l Senator Romano:

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7 Ed Ulivier, Ricciardetto, e Terigi,
     E s’alcun c’è della vostra brigata,
     E Carlo imperadore, e San Dionigi.
     La cagion che ’l Soldan m’ha qui mandata,
     Non è per ricercar guerra o litigi,
     Ma credo indoviniate la ’mbasciata;
     Altro non vuol che quel che vuol ragione,
     E conservar la sua giuridizione.

8 Questa città coll’altre tutte quante
     Del corno qua di Persia e di Soria,
     E di tutto il paese di Levante,
     Son sottoposte a nostra monarchia:
     Però, poi ch’egli è morto l’Amostante,
     Ritorna al padre mio la signoria:
     Questo si dice, questo chiar si mostra,
     Che in ogni modo questa terra è nostra.

9 Nè credo che voi siate in quest’errore,
     Di non sapere a cui ricade il regno:
     Ma ogni cosa il Roman Senatore
     Ha fatto per vendetta e per isdegno,
     Il quale ha tanta forza in nobil core,
     Che fa della ragion passare il segno;
     E così fe’il Soldan (nota, Rinaldo)
     Per isdegno anco lui di Marcovaldo.

10 Se voi volete lasciar la cittade
     Sanza quistion, contento è il padre mio,
     E ritornar nelle vostre contrade:
     Se questo non farete, sia con Dio;
     Noi proverem se taglian nostre spade,
     E così da sua parte vi dich’io,
     E vengo a protestarvi nuova guerra,
     Se non ci date libera la terra.

11 Poche parole a chi m’intende basti.
     E poi soggiunse: O misero Copardo,
     O Chiariella mia, quanto fallasti!
     O giudizio del Ciel, tu vien sì tardo!
     Ma licito ti sia, poi che cavasti,
     Se ben col mio giudicio retto guardo,
     Di luoghi tenebrosi oscuri e bui
     Sì gentil cavalier quanto è costui.

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12 E volsesi a Orlando con un riso,
     Con un atto benigno, e con parole,
     Che si vedeva aperto il paradiso,
     Che si fermò a udir la luna e ’l sole.
     Ma Chiariella diventò nel viso
     Del color delle mammole viole,
     Così Copardo; e gli occhi giù abbassorno,
     Chè del peccato lor si ricordorno.

13 Seguì più oltre Antea: Ciò ch’io v’ho detto,
     È quel che ’l padre mio da voi sol brama;
     Or vi dirò quel ch’io serbo nel petto:
     È questo il cavalier c’ha tanta fama,
     La qual già non asconde il suo conspetto?
     Se’ tu colui, che tutto il mondo chiama
     Il miglior paladin che abbassi lancia,
     Onore e gloria e di Carlo e di Francia?

14 Se’ tu Rinaldo mio famoso e bello?
     Se’ tu colui che ti stai in su quel monte?
     Se’ tu d’Orlando suo cugin fratello?
     Se’ tu quel della gesta di Chiarmonte?
     Se’ tu colui ch’uccise Chiariello?
     Se’ tu quel ch’ammazzasti Brunamonte?
     Se’ tu il nimico di Gan di Maganza?
     Se’ tu colui ch’ogni altro al mondo avanza?

15 Rinaldo sono, o gentil damigella,
     Come tu conti, e di quel parentado.
     Disse la dama: Di te si favella
     Per tutto l’universo, e ciò m’è a grado,
     Salvo ch’alcun te mancatore appella
     Di gentilezza, ch’udito hai di rado
     A imbasciador già mai far villania,
     Comunche e’ parli, o qualunque e’ si sia.

16 Tu uccidesti il nostro imbasciadore:
     Io non vo’ giudicar chi s’abbi il torto;
     Se non che mi dispiace per tuo onore,
     E per onor di me, poi ch’egli è morto,
     Sendo mandato da sì gran signore:
     Di far di lui vendetta mi conforto,
     Nè sanza giostra indrieto vo’ tornarmi:
     Così ti sfido, e prenderai tue armi.

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17 Se tu m’abbatti per tuo valimento,1
     Ogni cosa sia tuo che’hai acquistato,
     E so che ’l padre mio sarà contento;
     Ma s’io t’arò del tuo caval gittato,
     Io vo’ che’ tuoi stendardi spieghi al vento,
     E con tua gente in Francia sia tornato:
     E che tu lasci in pace i nostri regni,
     E contro al padre mio mai più non vegni.

18 Rinaldo disse alla donna famosa:
     Perch’io non paia nè muto nè sordo,
     Ciò che tu hai detto, nel petto ogni cosa
     Drento scolpito ho, ch’io me ne ricordo;
     Ma tu facesti alla fine tal chiosa,
     Che fa che d’ogni cosa siam d’accordo:
     Non ci è più giusta cosa che la spada
     A assolver nostra lite; e così vada.

19 Ma una grazia prima ti domando,
     Che con la spada al campo ci troviamo,
     Così ti priega il mio cugino Orlando,
     Che insieme questo giorno dimoriamo;
     Ch’io sento il cor ferito, e non so quando
     Io fussi da te preso, o con che amo;
     Il terzo dì sopra il mio buon destriere
     Verrò in sul campo armato a tuo piacere.

20 Rispose alle parole presto Antea:
     Ciò ch’a te piace, a me convien che piaccia;
     E mentre che così gli rispondea,
     S’accese tutta quanta nella faccia,
     Però ch’un foco sol due cori ardea.
     Come anima gentil presto s’allaccia!
     Così ferito è l’uno e l’altro amante
     Da quello stral che passa ogni adamante.

21 E cominciorno insieme a riguardarsi
     Ognun più che l’usato intento e fiso:
     Rinaldo non potea di lei saziarsi,
     Nè crede ch’altro ben sia in paradiso:
     E la fanciulla cominciò a pensarsi
     Che così bel già mai fussi Narciso:
     Dovunque e’ va, gli tenea drieto gli occhi,
     E par che fiamme Amor nel suo cor fiocchi.

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22 Ed ordinossi un convito sì magno,
     Che simil forse non fu ancor veduto.
     Disse Rinaldo al suo caro compagno:
     O Ulivier, qui bisogna il tuo aiuto.
     Vadiane Persia e ciò ch’io ci guadagno,
     Fa che tu abbi a tutto provveduto;
     E vo’ che di tua man serva costei
     Per lo mio amor, com’io per te farei.

23 E s’io ti fe’ mai gentilezza alcuna
     Di Forisena e di Meridiana,
     Fa’ che qui cosa non manchi nessuna,
     Da onorar questa gentil Pagana.
     Disse Ulivier: Così va la fortuna;
     Cércati d’altro amante, Luciana;
     Da me sarai d’ogni cosa servito.
     Ed ordinò di subito il convito.

24 Furno al convito le vivande tutte
     Che si potevon dare in quel paese,
     Con preziosi vin, confetti e frutte;
     Furonvi tutte le dame cortese
     Della città, nè creder le più brutte:
     E sempre di sua man servì il marchese,
     Massime Antea con molta riverenzia,
     Di coppa, di coltello e di credenzia.

25 Fatto il convito, vennon molti suoni,
     Acciò che meno il giorno lor rincresca,
     Trombe e trombette, e nacchere e busoni,
     Cembolo e staffa2 e cemmamelle3 in tresca,
     Corni, tambur, cornamuse e sveglioni,4
     E molt’altri stormenti alla moresca,
     Liuti e arpe, e chitarre e salteri,
     Buffoni e giuochi, e infiniti piaceri.

26 Così passorno il giorno con gran festa:
     Ma poi che ’l sole in Granata s’accosta,
     La gentil donna con voce modesta
     Disse, che al tutto tornare è disposta,
     Benchè tal dipartenza gli è molesta,
     Al gran Soldan ch’aspetta la risposta:
     E ’l terzo dì, come promesso avea,
     Essere armata in sul campo dicea.

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27 Così la festa ristette col ballo,
     E dipartissi la donna famosa;
     Rinaldo compagnia gli fe a cavallo
     Insino appresso ove il Soldan si posa;
     E morir si credette sanza fallo,
     Quand’e’ lasciò questa dama vezzosa,
     E con fatica le lacrime tenne,
     Insin che pure a casa se ne venne.

28 Il Soldan domandò quel ch’avea fatto
     La gentil figlia in Persia co’ Cristiani;
     Ella gli disse la convegna e ’l patto,
     Che ’l terzo dì debb'essere alle mani;
     E che sperava dare scaccomatto
     Al buon Rinaldo con l’arme in su’ piani,
     E racquistar tutte le terre sue:
     Donde il Soldan molto contento fue;

29 Però che molto in costei si fidava.
     Or ci convien tornare a dar conforto
     A Rinaldo, ch’a letto se n’andava,
     E non pareva già vivo nè morto,
     Ma con sospiri Antea sua richiamava;
     Dicendo: Lasso, tu m’hai fatto torto,
     Avermi dato e poi furato il core!
     E detto questo si dolea d’Amore.

30 Come hai tu consentito, che costei
     M’abbi così rubato da me stesso,
     E transformato così tosto in lei,
     Tanto che quel ch’io fui non son più desso?
     Ella se n’ha portati i pensier miei,
     Questo non è quel che tu m’hai promesso!
     E non ti gloriar, se col tuo arco
     Per donna sì gentil m’hai preso al varco.

31 Chè non sarebbe ingannata Europia,5
     Non si sarebbe transformato in toro
     Giove, e mutata la sua forma propia,
     Nè Ganimede rapito al suo coro,
     S’avessi visto sì leggiadra copia:
     E non sarebbe Dafne un verde alloro,
     Se Febo avessi veduto il dì Antea,
     Che, innamorato: Aspetta; pur dicea,

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32 Nè fatto servo de’ servi d’Ameto,
     Nè tanto tempo Giacobbe fedele,
     Che veggendo costei, come discreto,
     Serviva per Antea non per Rachele;
     Che col suo viso faria mansueto
     Ogni aspro tigre arrabbiato e crudele;
     Anzi farebbe il mar pietoso e’ venti,
     E, per vederla, fermi stare attenti.

33 E non arebbe Andromada Perseo
     Combattuta col capo di Medusa,
     E fatto un sasso diventar Fineo,
     Nè fatto arebbe Ipolito mai scusa:
     Nè tanto Euridice chiesto Orfeo,
     O ver conversa in un fonte Aretusa;
     Se stata fussi Antea nel mondo allora,
     Che degli abissi l’anime innamora.

34 Non bisognava che Venere Iddea
     Insegnassi a Ipomene già, come
     Gittassi, mentre Atalanta correa,
     Come fussi passata innanzi, il pome;
     Nè nel suo Aconzio Cidippe scrivea,
     Veggendo a questa il bel viso e le chiome;
     E non sarebbe il convito turbato
     Del pome ch’a Parisse fu mandato.

35 Chè non l’arebbe giudicato a Venere,
     Non bisognava far di ciò contesa,
     E Troia non saria conversa in cenere,
     E tutta Grecia mossa a tanta impresa;
     Veggendo nude queste membra tenere,
     Che m’han sì il cor ferito e l’alma incesa,
     Nè da sè sè per sè stesso diviso
     Arebbe, questa veggendo, Narciso.

36 E non sarebbe Leandro d’Abido
     Portato così misero e meschino,
     Come tu sai, fra l’onde già, Cupido,
     Appiè della sua donna dal dalfino;
     S’avessi Antea veduta, ond’io pur grido:
     Nè Polifemo in sul lito marino
     Chiamata Galatea colla zampogna,
     Dolendosi che in grembo Ati a lei sogna.

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37 Tu non aresti già, Teseo, menata
     Ipolita del regno già Amazzone;
     Tu non aresti Adriana lasciata
     Su l’isoletta in tanta passione;
     E non sarebbe Emilia repugnata,
     Atene per Arcita e Palamone,
     Nè Pirramo già morto, e mille amanti,
     Ch’or sare’ lungo a contar tutti quanti,

38 Se fussi al secol lor vivuta questa,
     Ch’io pur non vidi mai più bella figlia,
     S’io guardo ben la refulgente testa,
     E ’l capo suo, che Venere simiglia,
     La faccia pulcra angelica e modesta,
     I duo begli occhi e l’archeggiate ciglia,
     E gli atti sì soavi, e le parole,
     Ch’arien forza di far fermare il sole.

39 Ben puoi tu, crudo, per lei saettarmi,
     Ben puoi di me vittoria avere, Amore;
     Che pensi tu, ch’io apparecchi l’armi,
     Per passar con la lancia a questa il core,
     Che può ferirmi a sua posta e sanarmi,6
     Come Pelleo? non già tu, traditore.
     Queste parole e molte altre dicea,
     Ma finalmente richiamava Antea.

40 Dove se’ tu, perchè m’hai qui lasciato?
     Non potesti star meco solo un giorno?
     Che pensi tu, ch’al campo io venga armato?
     Aspetta tanto ch’io chiami col corno;
     Tu m’hai già preso per modo e legato,
     Ch’omai più in Francia al mio signor non torno,
     Nè posso in Babilonia anco star teco,
     Nè, poi ch’io vidi te, più star con meco.

41 Che debbo far? dove sarà il mio regno?
     Dove starà il mio cor così soletto?
     Orlando, ch’avea fatto alcun disegno,
     La mattina trovò Rinaldo a letto,
     E misse a queste parole lo ’ngegno:
     Disse: Cugino, aresti tu difetto?
     Rinaldo il volea far pur cornamusa7
     D’un certo sogno, e trovava sua scusa.

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42 Rispose Orlando: Noi sarem que’ frati,
     Che mangiando il migliaccio, l’un si cosse;
     L’altro gli vide gli occhi imbambolati,
     E domandò quel che la cagion fosse;
     Colui rispose: Noi siam due restati
     A mensa, e gli altri sono or per le fosse,
     Che trentatrè già fummo, e tu lo sai:
     Quand’io vi penso, io piango sempre mai.

43 Quell’altro, che vedea che lo ’ngannava,
     Finse di pianger, mostrando dolore,
     E disse a quel che di ciò domandava:
     Ed anco io piango, anzi mi scoppia il core,
     Che noi siam due restati; e sospirava,
     Ed è già l’uno all’altro traditore:
     Così mi par che facciam noi, Rinaldo:
     Chè nol di’ tu che ’l migliaccio era caldo?

44 Ma questo è altro caldo veramente.
     Rinaldo si volea pur ricoprire:
     Per Dio, cugin, ch’i’ sognavo al presente,
     Ch’un gran lion mi veniva assalire,
     Ond’io gridavo e chiamavo altra gente,
     E con Frusberta il volevo ferire;
     Forse che in sogno parlai per ventura,
     Tu mi destasti in su questa paura.

45 Dond’io ti son, ti prometto, obbligato,
     Però ch’i’ero tanto impaurito,
     Che mi pare esser di bocca cavato
     All’animal che m’aveva assalito.
     Rispose Orlando: Ah cugino impazzato,
     Or fussi sogno quel ch’i’ ho udito:
     Più su sta mona Luna, fratel mio!
     Guarda se in sogno dicevi com’io.

46 O vaga Antea, che ti feci io giammai?
     Dove m’hai tu lasciato, ove è la fede?
     Dove se’ ora, e quando tornerai?
     E non arai tu mai di me merzede,
     Che t’ho pur dato il cor, come tu sai,
     Che son tuo servo pur, come Amor vede,
     Che tante volte di me domandasti:
     Se’ tu colui che tu m’innamorasti?

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47 Tu se’ colei ch’ogni altra bella avanza,
     Tu se’ di nobiltà ricco tesoro,
     Tu se’ colei che mi dài sol baldanza,
     Tu se’ la luce dell’eterno coro;
     Tu se’ colei che m’hai dato speranza,
     Tu se’ colei per ch’io sol vivo e moro;
     Tu se’ fontana d’ogni leggiadria,
     Tu se’ il mio cor, tu se’ l’anima mia.

48 Nè mica, cugin mio, par che tu sogni,
     Non creder da me tu voler celarti,
     Pensa ch’un altro trovar ti bisogni;
     Dunque tu vieni in Persia a innamorarti
     D’una pagana! or fa’ che ti vergogni,
     Chè questo è poco men che sbattezzarti:
     Se’ tu sì della mente fatto cieco?
     Guarda che Cristo non s’adiri teco.

49 Ove è, Rinaldo, la tua gagliardia?
     Ove è, Rinaldo, il tuo sommo potere?
     Ove è, Rinaldo, il tuo senno di pria?
     Ove è, Rinaldo, il tuo antivedere?
     Ove è, Rinaldo, la tua fantasia?
     Ove è, Rinaldo, l’arme e ’l tuo destriere?
     Ove è, Rinaldo, la tua gloria e fama?
     Ove è, Rinaldo, il tuo core? alla dama.

50 Pàrti che ’l tempo sia conforme a questo?
     Pàrti che ’l tempo sia da innamorarsi?
     Pàrti che ’l tempo sia qui lungo o presto?
     Pàrti che ’l tempo sia dover più starsi?
     Pàrti che ’l tempo sia tranquillo o infesto?
     Pàrti che ’l tempo sia da motteggiarsi?
     Pàrti che ’l tempo sia da dama o lancia?
     Pàrti che ’l tempo sia d’andarne in Francia?

51 A questo modo il regno in pace aremo?
     A questo modo acquisterai corona?
     A questo modo Antea giù abbatteremo?
     A questo modo andrem poi in Babbillona?
     A questo modo la fede alzeremo?
     A questo modo or di te si ragiona?
     A questo modo se’ fatto discreto?
     Misero a me, ch’io non sarò mai lieto.

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52 Lascia questo pensier sì stolto e vano,
     Comincia a rassettar la tua armadura,
     Chè questo nostro Cristo e partigiano
     Non so come comporta tua natura;
     Vedi ch’addosso ci viene il Soldano;
     E se tu abbatti Antea per tua ventura,
     Che questo regno e tutte sue contrade
     Sicuro abbiam, sanza operar più spade.

53 Quando Rinaldo si vide scoperto,
     E non potè celar quel ch’è palese,
     Rispose sospirando: Io veggo certo
     Che queste al nostro Dio son grave offese,
     E molta punizion, come di’, merto;
     Ma se quel Giove Dio non si difese
     Da questo amor, nè ’l bellicoso Marte,
     Che val qui la mia forza, o ingegno o arte?

54 Io voglio al campo andar, ch’io l’ho promesso,
     E porterò la lancia e ’l brando cinto,
     Ma come potre’ io ferir me stesso,
     O vincer mai colei che m’ha già vinto?
     Io ho la mente cieca, io tel confesso,
     Ed anco il mio signor cieco è dipinto,
     E guida a questa volta il cieco l’orbo:
     Dunque tu bussi a formica di sorbo.8

55 Io non posso voler, perch’io non voglio;
     Lasciar costei, dunque io non voglio o posso;
     Io non son più il cugin tuo, com’io soglio,
     Però che questo è mal che sta nell’osso;
     E s’io sapessi gittar questo scoglio,
     Sarebbe Salamon suto un uom grosso,
     Aristotile, e Socrate, e Platone:
     Dunque, fratel, non ne facciam quistione.

56 Ch’io non vo’ disputar d’astrologia
     Con quel che non sa ancor che cosa è stella;
     Io non vo’ disputar di cerusia
     Con chi sempre ara, o macina, o martella;
     Io non vo’ disputar quel ch’amor sia
     Con un che sol conosce Alda la bella;
     Ma priego Amor che qualche ingegno trovi,
     Acciò che tu mi creda, che tu ’l provi.

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57 Rimase Orlando tutto spennecchiato,
     Quando e’ sentì quel che ’l cugino ha detto,
     Perchè conobbe ch’egli era ostinato;
     A Ulivier n’andava e Ricciardetto,
     E disse: Il nostro Rinaldo è già armato,
     Ch’aspetta alla battaglia Antea nel letto:
     E raccontò ciò ch’egli avea sentito,
     Donde ciascun di lor n’è sbigottito.

58 Ma Ulivier con Orlando dicea:
     Io gli ho a cantar poi il vespro, s’io mi cruccio.
     Deh, taci, Orlando tosto rispondea;
     Chè ti direbbe: Néttati il cappuccio;9
     A me, che ignuno error di ciò sapea,
     M’ha rimandato in drieto come un cuccio:
     Chi vi cercassi trito a falde a falde,10
     Nè l’un nè l’altro è farina da cialde.11

59 Vo’ che tu corra, come fe a furore
     Quella badessa, e lievi il romor grande,
     Che volle tor la cuffia, e per errore
     Si misse dell’abate le mutande;
     Per che la monacella peccatore
     Disse: Madonna, il capo vi si spande,
     La cuffia prima un poco v’acconciate;
     Dond’ella si tornò al suo santo abate.

60 Qui si bisogna provedere a noi,
     E che noi andian domani al campo armati:
     Io sarò il primo, e poi sarete voi,
     Che con Antea ci saremo sfidati:
     Io so ch’io l’uccidrò, sia che vuol poi;
     Se noi sarem dal Soldano assaltati,
     Difenderenci, e Dio ci aiuterae,
     Nè più la dama il mio cugino arae.

61 Ma forse altri pensier potrebbe avere,
     Se la fortuna o il peccato volessi
     Ch’ella m’abbatta in terra del destriere,
     Bench’io mi credo che se ne ridessi;
     Ma Cristo mi darà forza e potere,
     E con sua man mi sosterrà lui stessi:
     E lasceren Rinaldo a riposarsi
     Nel letto, insin che potrebbe destarsi.

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62 Ulivier non rispose nulla a questo,
     E diecimila a cavallo ordinorno:
     L’altra mattina ognun s’armava presto:
     Verso dell’oste del Soldan n’andorno:
     Così Rinaldo sanza esser richiesto;
     E disse al conte: Sonerai tu il corno,
     Chè sai che poco il sonarlo è mia arte,
     E chiama al campo Antea dalla mia parte.

63 Ah, disse Orlando, tu non di’ da vero,
     Io lo farò come persona sciocca,
     Chè di piacerti ho troppo desidero;
     E l’elefante12 si poneva a bocca,
     E sonò tanto forte e tanto altero,
     Che come il suon del corno fuori scocca,
     Subito venne agli orecchi d’Antea,
     Che fra se stessa gran dolor n’avea.

64 Dicendo: Io ho qui perduta ogni fama:
     Parrà che per viltà nel padiglione
     Mi stessi addormentata; e l’arme chiama,
     E finalmente saltò in sull’arcione.
     Quando Rinaldo scorgeva la dama,
     Par che sia tratto il cappello al falcone;
     E tutto si rassetta in sulla sella,
     E in qua e in là con Baiardo saltella.

65 Giunta costei, con un gentil saluto
     Lo salutò, che in mezzo il cor gli passa;
     Poi fece con Orlando il suo dovuto;
     Orlando per dolor giù gli occhi abbassa.
     Disse la dama: E’ vi sarà paruto
     Ch’io sia molto per certo pigra e lassa,
     Chè sto nel letto, e voi siete a aspettarmi;
     Veggo che l’arte è pur vostra dell’armi.

66 Prendi del campo tu, Rinaldo mio,
     Chè so che tu m’aspetti alla battaglia,
     E ciò ch’io ti promissi pel mio Dio
     Osserverotti, sanza mancar maglia.
     Dicea Rinaldo: A combatter vengh’io,
     Ma vorrei far con arme che non taglia:
     Volse il cavallo, e così la fanciulla:
     Disse Ulivieri: E’ non ne sarà nulla.

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67 E parvegli ch’Antea se ne ridesse,
     Quand’ella volse il cavallo arabesco:
     Volto Rinaldo, l’aste in resta messe,
     E con Baiardo fe del barberesco;
     Ma come e’ par ch’alla dama s’appresse,
     Un bello scudo ch’aveva moresco,
     Subito drieto alle spalle gittava,
     E gittò via la lancia che portava.

68 Veggendo questo Antea, ch’era gentile,
     Subito anch’ella lo scudo volgea,
     Per non parer nè villana nè vile;
     Orlando troppo di ciò si dolea,
     E dice: L’esca riscalda il fucile;
     Maladetta sia tu per certo, Antea:
     Or vedi, Ricciardetto, ove noi siamo;
     Qui si convien che l’arme adoperiamo.

69 Chè quando io vidi Antea sì larghi patti
     Far, se Rinaldo la vinceva in giostra,
     Io dissi: Or sono acconci i nostri fatti,
     A salvamento omai la terra è nostra;
     Ora ho temenza al fin non siam disfatti,
     Poi che tanta pazzia Rinaldo mostra:
     Parmi ch’uscito sia dello intelletto.
     E così a me; diceva Ricciardetto.

70 Accostasi a Rinaldo Orlando allora,
     E disse: Dimmi, dove tu hai apparato
     Giostrar così, ch’io nol sapevo ancora?
     E molto caro ho tu m’abbi insegnato:
     Veggo che ’l foco drento ben lavora,
     E ’n questo dì riman vituperato.
     Disse la dama: Così vuole Amore;
     Prendi del campo tu, gentil signore.

71 Allor comincia Ulivieri a pregare:
     Per grazia, car cognato, ti domando,
     Che tu mi lasci con questa provare.
     Io son contento, rispondeva Orlando;
     Non che pregarmi, tu puoi comandare:
     Ulivier venne il suo destrier voltando,
     E quanto gli parea del campo prese;
     Così la donna, e volsesi al marchese.

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72 Riscontrò Ulivier la damigella,
     E ruppe la sua lancia, e non la mosse,
     Nè piegò pure un dito in sulla sella;
     Ma in sullo scudo in modo lui percosse,
     Che cadde per virtù della donzella,
     E bisognoe che prigione suo fosse;
     E Ricciardetto gli fe compagnia,
     Acciò che gl’increscessi men la via.

73 E ’nverso il padiglion furno avviati;
     Rinaldo si ridea del suo fratello,
     Orlando gli dicea: Pe’ tuoi peccati
     Credo tu abbi perduto il cervello;
     Ma que’ che son di sopra coronati,
     Ben ti serbano a tempo il tuo flagello.
     Rinaldo, ch’avea il cor dato in diposito,
     Non rispondeva ad Orlando a proposito.

74 Per la qual cosa Orlando è insuperbito,
     E disse: Io giuro pel nostro Gesù,
     Che se ’l peccato tuo non è punito,
     In qualche modo io piglierò virtù
     Di levarti da giuoco e da partito,
     Chè con Antea non giostrerrai più tu,
     Ch’io gli darò la morte in tua presenzia,
     Per darti parte di tua penitenzia.

75 E disse: Antea, se vuoi, piglia del campo,
     Chè fia cagion del tuo morir Rinaldo,
     Ch’io ti farò sentir, s’io non inciampo,
     D’altro per certo che d’amor pur caldo.
     Disse la dama: Non c’è ignuno scampo,
     Se fussi, Orlando, più ch’un muro saldo,
     Io ti farò cader per tuo dispetto;
     Così ti sfido, e così ti prometto.

76 Orlando con grand’ira il destrier volse,
     E va sbuffando che pareva un toro;
     Così del campo la fanciulla tolse,
     Poi si voltò, che non fe ignun dimoro:
     Sopra lo scudo del buon conte colse,
     Credendo dargli il suo sezzo martoro;
     Ruppe la lancia, e non si mosse il muro,
     Come avea detto, tanto è forte e duro.

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77 Maravigliossi di questo la dama,
     E disse: Io ero in un pensiero strano,
     D’abbatter un tal uom c’ha tanta fama.
     Orlando anco la lancia ruppe invano,
     Perchè lo scudo è incantato e la lama;
     Dunque le spade pigliavano in mano,
     E cominciorno la battaglia insieme,
     Per modo che d’Antea Rinaldo teme.

78 Are’ voluto, tanto è innamorato,
     Del suo cugin veder la terra rossa;
     E come Orlando il colpo aveva dato,
     Gli rimbombava nel cuor la percossa,
     E par che ’l petto gli resti intronato,
     Come avviene allo infermo per la tossa:
     Ed ogni volta con Cristo si cruccia,
     E dice l’orazion della bertuccia.13

79 Alcuna volta che Antea superava
     Un poco Orlando, egli arebbe voluto
     Ch’ella il gittassi in terra, e sospirava,
     E con sue proprie man porgergli aiuto:
     Guarda costui quanto Amor lo ’ngannava!
     Ch’era di poco di Francia venuto
     Con tanta impresa a trarlo di prigione,
     Ed or chiedea la sua distruzione.

80 Or basti questo esemplo a chi m’intende:
     Orlando con Antea mirabil pruova
     Facea col brando, e costei si difende,
     Però che l’arme sua fatata truova,
     E spesso a lui simil derrate rende;
     Ma sopra l’armi sue poco ancor giova,
     Però che Orlando tale avea armadura,
     Che regge a tutte botte, in modo è dura.

81 Durò tutto quel giorno la battaglia,
     Sanza avanzar l’un l’altro di niente,
     Da poi che l’arme non si rompe o taglia:
     Era già il sol caduto in Occidente,
     E non restando la fiera puntaglia,
     Orlando disse alla dama piacente:
     Credo che tempo da ritrarsi sia,
     E facendo altro, sare’ villania.

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82 Non c'è vergogna, chè non c'è vantaggio:
     Per istasera la guerra è finita.
     Disse la donna: Io ho per grande oltraggio,
     Ch’io non t’ho fatto qui lasciar la vita:
     Ora a tua posta vanne a tuo viaggio.
     E così fecion dal campo partita,
     E ritornossi Orlando al suo stazzone,14
     E la fanciulla al padre al padiglione.

83 E fra tre dì promesson ritornare
     Alla battaglia, e far quel ch’è usanza.
     Or altra storia ci convien trattare:
     Cercato il mondo avea Gan di Maganza,
     Com’e’ potessi Rinaldo trovare,
     Ma dove fussi non avea certanza;
     Al campo capitò dove è il Soldano,
     E dettesi a conoscer ch’era Gano.

84 E disse che di corte era sbandito,
     E dava tutte a Rinaldo le colpe,
     E che pel mondo alcun tempo era gito,
     Per fargli alfin lasciar l’ossa e le polpe.
     Avea il Soldan di Gan molto sentito,
     Com’egli è malizioso più che volpe,
     E più che Giuda tristo e traditore;
     E quanto più potea gli fece onore.

85 E raccontò di Persia come era ito
     Il fatto, e come Orlando l’avea presa,
     E Chiariella il padre avea tradito,
     E che per questo mossa ha tale impresa;
     Però che ’l regno a lui è stabilito,
     Ma nol può racquistar sanza contesa;
     Ma tanto tempo è disposto far guerra,
     Che torrà loro e la vita e la terra.

86 E disse come al campo era venuto
     Rinaldo e Ulivieri, e ’l conte Orlando,
     E come Ricciardetto era caduto,
     Ed Ulivier, sanza operare il brando;
     E la sua figlia l’aveva abbattuto,
     E com’egli ha i prigioni al suo comando:
     Ebbe di questo Gan molta letizia,
     E cominciò a pensar tosto a malizia.

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87 E dopo molto gran ragionamento
     Dicea: Soldano, intendi il mio consiglio;
     Combatter con Orlando è fumo al vento,
     E’ darà al fine a’ tuoi prigion di piglio:
     Io cercherei d’avergli a salvamento,
     Acciò che non ti fugghin dell'artiglio,
     E non farei in su’ campi più dimoro,
     Ma in Babillona me n’andrei con loro.

88 So che Rinaldo tanto ama il fratello,
     E così Orlando il cognato Ulivieri,
     Che ciò che tu vorrai l’arai da quello,
     Pur che tu renda lor questi guerrieri;
     Io darei presto al vento il mio drappello,
     Che non riusciranno qui i pensieri:
     E tanto seppe il Soldan confortare,
     Che s’accordava il suo campo levare.

89 Rinaldo con Orlando era tornato
     In Persia, e fatta gran disputazione;
     Orlando s’era con lui riscaldato:
     Io credo che tu stavi in orazione
     Ch’io fussi da colei preso e legato;
     E quando bene alla tua intenzione
     Non riusciva il disegno o l’archimia,15
     Dicevi il paternostro della scimia.

90 E forse che di questo era indovino.
     Così la sera a posar se n’andorno,
     Rimbrottandosi insieme col cugino.
     Rinaldo si levò, come fu giorno:
     Vide levato il campo saracino
     Da un balcon dond’e’ vedea d’intorno;
     Maravigliossi, e gran dolor n’avea,
     Chè riveder mai più non crede Antea.

91 Non si ricorda già di Ricciardetto,
     Non si ricorda che Ulivieri è preso,
     Ch’egli soleva amar con tanto affetto,
     Tanto il foco d’amor drento era acceso;
     Al conte Orlando presto andava al letto,
     E disse: Hai tu del nuovo caso inteso?
     Dal mio balcon testè guardando il piano,
     Veggo che il campo ha levato il Soldano.

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92 Ah, disse Orlando, come esser può questo,
     Come può farlo altro che solo Dio,
     Che sia di qui partito così presto?
     O Ulivieri, o Ricciardetto mio,
     Forse che avvolto avete ora il capresto!
     Or se’ contento, cugin pazzo e rio?
     Or si vendicherà il Soldan de’ torti;
     Io ne farò vendetta, se gli ha morti.

93 Qui si bisogna subito riparo,
     E tempo non è più d’essere amante.
     E finalmente d’accordo ordinaro,
     Che Chiariella sposassi Balante,
     E ’l regno a questi a governo lasciaro:
     E Luciana col suo Balugante
     A Saragozza a Marsilio tornassino,
     E per lor parte assai lo ringraziassino.

94 E ben conobbe Luciana, e vede
     Ch’al suo Rinaldo era uscita del core;
     Contenta si partì, come ognun crede,
     E disse fra se stessa: Ingrato Amore,
     È questo il merto di mia tanta fede?
     Così va chi si fida in amadore.
     E ritornossi assai dogliosa al padre
     Con Balugante e con le loro squadre.

95 Ordinato la terra, si partiro
     Rinaldo, Orlando, e ’l suo caro scudiere,
     E per diverse vie cercando giro,
     Dove sien del Soldan le sue bandiere.
     Una mattina in un bosco apparire,
     Dove s’andava per istran sentiere,
     Per ispelonche, per burroni e balze,
     Dove vanno le capre appena scalze.

96 E come furno in mezzo del deserto,
     Cinque giganti trovorno assassini,
     Che tutto quel paese avien diserto,
     Tanto che presso non v’è più vicini:
     In una grotta in un luogo coperto
     Si riducevan come malandrini,
     E una damigella avien con loro
     Tutta angosciosa, e con assai martoro.

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97 Al re Gostanzo l’avevon rubata,
     Ch’era signor della Bellamarina:
     In questa grotta l’avevon legata,
     E molto la sua vita era meschina:
     E come giunse la nostra brigata,
     L’un de’ giganti a Rinaldo cammina,
     E in ogni modo Baiardo volea,
     E minacciaval, se non ne scendea.

98 E dice: Tu potrai poi starti meco,
     E menerotti per queste contrade;
     Aiutera’mi a recar ciò ch’io reco,
     Chè ogni giorno rubiam queste strade.
     Disse Rinaldo: Dunque starò teco,
     Se drieto ti verrò per le masnade?
     Tu mi par poco pratico, gigante,
     Ch’io non son uom da star teco per fante.

99 E detto questo, Baiardo scostava,
     Poi cogli sproni in su’ fianchi ferillo,
     In modo che tre lanci egli spiccava,
     Che gozzivaio16 non parea ma grillo;
     La lancia abbassa, e ’l gigante trovava:
     In mezzo il petto col ferro ferillo,
     E passò il cuore al gigante gagliardo,
     Ed anco d’urto gli diè con Baiardo.

100 Un di quegli altri ad Orlando s’accosta,
     E ’n sull’elmetto gli diè sì gran picchio,
     Che se non fussi che l’arme fe sosta,
     E’ gli levava del capo uno spicchio.
     Non si potè riavere a sua posta
     Orlando, che pel duol si fece un nicchio,
     E tramortito par che giù cascasse,
     Ma il fer gigante di sella lo trasse,

101 E portollo di peso un mezzo miglio,
     Per gittarlo in un luogo fuor di strada:
     Orlando ritornò nel suo consiglio,
     Videsi preso, e pigliava la spada,
     E ficcolla al gigante in mezzo al ciglio,
     Tanto che morto convien che giù vada:
     Che per l’orecchio riuscì dal lato,
     Sicchè pel colpo il gigante è cascato.

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102 Terigi sempre l’aveva seguito.
     Or ritorniamo a Rinaldo, che resta
     Nella battaglia dagli altri assalito,
     Che forse alfin gli rompevan la testa,
     Se non fussi il caval ch’è tanto ardito,
     Che morde e trae, e facea gran tempesta:
     Tanto che gnun non si vuole accostare;
     Donde un gigante cominciò a parlare:

103 Chi tu ti sia, Cristiano o Saracino,
     Tu mi pari uom da far poco guadagno;
     Per mio consiglio, piglia il tuo cammino,
     Chè questo tuo destriere è buon compagno.
     Rinaldo s’avviava e Vegliantino
     Cercato ha tanto del suo signor magno,
     Che lo trovava, e su rimonta Orlando,
     E molto di Rinaldo andò cercando.

104 E Rinaldo di lui cercava ancora.
     Non si trovorno, chè smarriti sono:
     Della foresta cercano uscir fuora,
     Orlando sente per la selva un suono:
     Ecco apparir quella fanciulla allora,
     Che s’inginocchia e domanda perdono,
     E dice come ella fussi scampata,
     Mentre ch’egli era la zuffa appiccata;

105 E che gli dessi ed aiuto e conforto.
     Orlando di Rinaldo suo domanda;
     Disse la dama: Io so che non è morto,
     Ma dove e’ gissi non so da qual banda;
     Andiam cercando, per Dio, qualche porto.
     Allora Orlando a Dio si raccomanda,
     E cavalcorno il giorno, e poi la notte,
     Sempre per balzi e per fossati e grotte.

106 Rinaldo uscito al giorno d’un burrone,
     Comincia del dimestico a trovare:
     Truova un pastor che in su ’n un capperone17
     Certe vivande sue volea mangiare,
     E fece insiem con lui colezione:
     Mangiato, cominciossi addormentare,
     Perchè la notte non avea dormito,
     E dal pastor si trovò poi tradito.

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107 Questo pastor sopra Baiardo arranca,
     Come vide Rinaldo addormentato;
     Vede Rinaldo che ’l destrier gli manca,
     Che si destò, perch’egli avea sognato,
     Ch’un gran lion l’avea preso per l’anca;
     E disse: Or son io ben male arrivato!
     E ’l me’ che può soletto ne va a piede,
     Perchè Baiardo e ’l pastor non rivede.

108 Questo pastor n’andò a una città,
     Dove il Soldan teneva il suo tesoro:
     Il mastro giustizier, che quivi sta,
     Vide il cavallo a quell’uom grosso e soro,18
     E quel che ne volea domandato ha:
     Costui chiedea trecento dobbre19 d’oro;
     Onde e’ rispose: Io vo’ veder provallo;
     E quel pastor di spron dette al cavallo.

109 Baiardo conosceva a chi egli è sotto:
     Subitamente prese in aria un salto
     Onde il pastor, che all’arte non è dotto,
     Si ritrovò di fatto in su lo smalto,
     E del petto due costole s’ha rotto.
     Il giustizier, che ’l vide levare alto,
     Disse al pastor: Questo è pel tuo peccato,
     Ch’io so che questo cavallo hai imbolato.

110 Poi gli fece i danari annoverare.
     Or ritorniamo a Rinaldo, ch’andava
     Sanza saper dov’egli abbi arrivare,
     E Ricciardetto ed Ulivier chiamava:
     A questo modo vi vengo aiutare?
     Quando d’Orlando si rammaricava:
     Dove lasciato t’ho, cugin mio buono,
     Nel bosco, e io dove arrivato sono?

111 Carlo Magno, ben sarai contento,
     O Ganellon, bene arai allegrezza,
     O Chiaramonte, il tuo rigoglio è spento,
     O Montalban, tu tornerai in bassezza;
     O buon Guicciardo, dove è il tuo ardimento?
     O donna mia, dov’è tua gentilezza?
     O caro Astolfo mio, come farai?
     Omè, Rinaldo, che via piglierai?

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112 E così lamentando, capitoe
     A Babillona per molte contrade;
     Essendo presso, un Pagan riscontroe,
     E domandollo di quella cittade;
     Onde il Pagan ridendo lo beffoe,
     Quando lo vide così in povertade:
     Tu hai gli spron, dicea, dove è il ronzino?
     Tu ’l debbi aver giucato pel cammino.

113 Donde Rinaldo s’adirò con quello,
     Disse: Per Dio, tu pagherai lo scotto;
     Prese la briglia, e colui pel mantello,
     E disse: Io vo’ l’alfana che tu hai sotto,
     E serba tu gli spron, ribaldo e fello:
     Poi trasse fuor Frusberta, e non fe motto,
     E dèttegli un rovescio alla francesca,
     Che lo tagliò pel mezzo alla turchesca.

114 Morto costui, innanzi gli venia
     Un altro che parea buona persona;
     Disse Rinaldo: Dimmi, in cortesia,
     Questa città com’ella si ragiona?20
     Colui rispose sanza villania:
     Sappi che questa è la gran Babillona,
     E Babillona si chiama maggiore,
     E ’l Soldan dell’Amecche21 n’è signore.

115 Ed ecci una figliuola del Soldano
     Che molto afflitta mena la sua vita,
     Ed èssi innamorata d’un Cristiano,
     E duolsi che nol vide alla partita:
     Sento ch’egli è non so che Montalbano;
     Tant’è che, per lui par tutta smarrita,
     E tutta solitaria è fatta questa,
     Che solea la città tener già in festa.

116 Ora io t’ho detto più che non domandi:
     S’altro tu vuoi da me, chiedi tu stesso,
     Ch’io il farò volentier pur che comandi,
     Chè certo un uom gentil mi par da presso.
     Disse Rinaldo: Troppo me ne mandi
     Contento, se ’l tuo nome mi di’ adesso.
     Dicea il Pagan: Sia fatto e volentieri
     Ciò che tu vuoi; chiamato son Gualtieri.

[p. 348 modifica]

117 E se ti piace, io vo’ teco venire
     Dove tu vai, ch’io son uom poveretto,
     Non ho faccenda o roba da partire,
     E d’esserti fedel giuro e prometto:
     Quando Rinaldo così ode dire,
     Disse: Gualtier, per buon fratel t’accetto;
     Come nell’altro dir vi sarà porto.
     Cristo vi guardi, e dia pace e conforto.

Note

  1. [p. 367 modifica]valimento. Valore.
  2. [p. 367 modifica]staffa. Strumento da suonare, fatto di ferro a guisa di staffa, con alcune campanelle. Si dice anche staffetta.
  3. [p. 367 modifica]cemmamelle. Strumento a modo di due piatti o bacini che si suona colle mani, picchiando l’uno contro l’altro.
  4. [p. 367 modifica]sveglioni. Sveglie grandi. Era la sveglia uno strumento antico da suonare col fiato, del quale s’è perduto l’uso.
  5. [p. 367 modifica]Europia. Per comodo della rima in vece d’Europa, rapita da Giove in forma di Toro. Rammenta qui il Poeta varii numi ed eroi, i quali, egli dice, se avessero conosciuto Antea, non si sarebbero innamorati d’altra donna.
  6. [p. 367 modifica]Che può ferirmi ec. È noto come la lancia d’Achille, figliuolo di Peleo, feriva ad un tempo e sanava.
  7. [p. 367 modifica]far... cornamusa. Vale, dargli ad intendere cosa non credibile o stravagante.
  8. [p. 367 modifica]tu bussi a formica di sorbo. Modo di dire tratto da ciò che quella specie di formiche che stanno nel sorbo, per quanto altri dia percosse nell’albero, esse non escono mai fuori ; laddove quelle che abitano nei ceppi degli altri alberi, sbucano tosto per ogni piccola percossa. Vedi Varchi, Ercolano.
  9. [p. 367 modifica]Nèttati il cappuccio. Imperocchè tu se’ macchiato della medesima pece. Rinaldo rimproverò già Ulivieri perch’egli era come l’asin del pentolaio, e appiccava il maio ad ogni uscio.
  10. [p. 367 modifica]Chi vi cercassi ec. Chi ricercasse per entro attentamente a questo negozio.
  11. [p. 367 modifica]farina da cialde. Farina pura, schietta.
  12. [p. 367 modifica]E l’elefante. Questo corno era d’avorio, che è dente d’elefante.
  13. [p. 367 modifica]l’orazion della bertuccia. Dire l’orazione o il paternostro della bertuccia è mormorare o bestemmiare fra’ denti e sotto voce. E si dice così, perchè colui che borbotta fra i denti e con la bocca quei moti e gesti che la bertuccia suol fare quando ò in rabbie; sicchè pare che ella borbotti e discorra fra se, come se dicesse orazioni.
  14. [p. 367 modifica]stazzone. È voce antica, e significa stazione, abitazione.
  15. [p. 367 modifica]archimia. Alchimia; l’arte di raffinare, mescolare ed alterare i metalli. Secondo il Bociarto questa voce viene dalla particella araba al e dal verbo pure arabo chima, che significa occultare.
  16. [p. 367 modifica]gozzivaio. Specie d’animale così detto dall’avere il color della pelle vaio e nereggiante.
  17. [p. 367 modifica]capperone. Cappuccio contadinesco o da vetturali, che si mettono in capo sopra il cappello quando e’ piove.
  18. [p. 367 modifica]soro. Dicesi d’uccello di rapina, avanti ch’egli abbia mudato, ma che però abbia volato: e figuratamente d’uomo semplice ed inesperto.
  19. [p. 367 modifica]dobbre. Doppie ; monete d’oro.
  20. [p. 367 modifica]com’ella si ragiona. Come si chiami.
  21. [p. 367 modifica]dell’Amecche. Della Mecca.