Vai al contenuto

Notizie sugli scavi di lignite in Valgandino, provincia di Bergamo

Da Wikisource.
Luigi Tatti

1854 Indice:Lignite in Valgandino.djvu Testi scientifici Notizie sugli scavi di lignite in Valgandino, provincia di Bergamo Intestazione 14 aprile 2014 100% Da definire

[p. 3 modifica]

Notizie sugli scavi di lignite in Valgandino, provincia di Bergamo.

Memoria dell’ingeg. architetto Luigi Tatti.

(Vedi le tav. 1, 2 e 3.)

Lo sviluppo che l’industria va prendendo nel nostro paese e l’estremo bisogno che esso tiene di buono ed abbondante combustibile come generatore di forza e di calorico, e quindi come ministro e sussidiario nelle operazioni più importanti delle nostre arti, mi ha fatto credere che non fosse senza importanza la pubblicazione di una succinta notizia intorno agli scavi di Valgandino, che sono la principale, od a meglio dire l’unica miniera di combustibile fossile attivata nel nostro regno, che se abbonda di eccellenti torbe, manca pur troppo di carboni fossili. Altri già mi hanno precorso in questo arringo con cognizioni geologiche per la loro epoca non comuni, e fra essi il Majroni da Ponte, l’Amoretti ed il Brocchi1. Quei dotti considerarono l’argomento specialmente dal lato scientifico. È mio scopo invece di discorrerne dal lato storico e dal tecnico ne’ rapporti specialmente della escavazione, nè credo senza qualche interesse pe’ miei colleghi, trattandosi di una applicazione non frequente nel nostro paese dell’esercizio della professione dell’ingegnere.

Non mi occorre ripetere minutamente i caratteri che distinguono le ligniti dai carboni fossili e dalle antraciti. Le ligniti trovansi nei terreni terziarj comprese fra le argille plastiche, mentre i carboni fossili bisogna cercarli nei terreni secondarj e primitivi, racchiusi fra gli schisti i grès e le pudinghe. E mentre le masse dei vegetabili che formano il carbone fossile appartengono quasi esclusivamente agli acotiledoni ed al genere delle felci, dei licopodj e delle alghe, ed i resti animali che vi si rinvengono, alle famiglie dei paleoterj e dei sauroidi, esseri tutti mancati e che non potevano esistere che sotto zone torride ed estremamente umide in un periodo antichissimo in cui il calore di questa nostra terra era d’assai maggiore del moderno, ed in cui l’atmosfera affatto pregna di vapori era assai più favorevole alla vegetazione; quelle masse che compongono il lignite, se riferisconsi in gran parte a varietà di piante dicotiledoni od a bestie ora perdute, il che dinota una longevità pure grandissima e superiore alla nostra immaginazione, riferisconsi però a generi tuttora esistenti e proprj del nostro clima, come sarebbero i pini, i castagni, le noci fra i vegetabili, gli alci, le tartarughe ed i rinoceronti fra gli animali, esseri tutti assai più recenti di quelli che trovansi tra i carboni fossili. Le ligniti insomma sono i carboni fossili dei terreni terziarj. A differenza di questi ultimi la cui frattura è nera e lucida, la pasta compatta, che si gonfiano ardendo, e che contengono giusta l’analisi di Regnault dall’80 sino al 95 per % di carbonio, e pochissimo ossigeno ed azoto; le ligniti hanno un’apparenza bruna ed opaca, una tessitura spesso legnosa, si accendono con facilità ed ardono con fiamma piccola e trasparente, senza gonfiarsi, e con fumo denso ed odore acre e fetido, lasciando gran deposito di ceneri, e non contengono che dal 67 al 73 per cento di carbonio con un residuo dal 28 [p. 4 modifica]al 20 per % di ossigeno ed azoto; mentre la legna comune contiene solo il 50 per % di carbonio, ed il 45 pure per % degli altri due indicati elementi. Alcune ligniti più perfette però presentano una frattura lucida quando sono legate con un glutine molto bituminoso, ed hanno allora una somiglianza perfettissima coi carboni fossili, sicchè difficilmente in tal caso agli esterni caratteri si possono distinguere le ligniti bituminose ed assai concotte dal fossile magro, cui alcuni geologi vorrebbero attribuire ai terreni secondarj coll’appellativo di stipite, mentre riservano il nome di houille o carbon fossile, e quello di antracite ai fossili dei terreni primitivi naturali o metamorfizzati. E chi più bada all’effetto che ai nomi, indifferentemente usa le ligniti migliori ed i carboni fossili di inferiore qualità.

Più importante per noi è la distinzione fra le ligniti e le torbe per l’applicazione delle nostre leggi montanistiche, le quali mentre ritennero le ligniti fra le materie minerali di ragione dello Stato, il quale ne concede l’utile godimento a favore degli escavatori, che si riserva di privilegiare, abbandona le torbe alla libera estrazione dei proprietarj dei fondi in cui si trovano. Il tessuto delle ligniti è, come si disse, principalmente legnoso, prodotto dall’emacerazione e dalla putrefazione di grandi ammassi di piante e dai cadaveri di grossi quadrupedi; quello della torba è formato di muschi, alghe d’aqua dolce, e pianticelle erbacee intrecciate fra di loro, contemporaneamente vegetanti per sovrapposizione al di sopra, e per aggregazione al disotto dello strato aqueo entro cui crescono, non affatto decomposte e tuttavia facilmente riconoscibili, miste a ruderi di piccoli insetti e di lumachelle, con una quantità più o meno grande di terra o sabbia, e riesce più porosa, e specificamente più leggiera del lignite. Il processo della formazione delle torbe è affatto moderno, e lo vediamo continuar sotto i nostri occhi nelle lande aquitrinose, dove l’aqua ha poco scolo, e dove l’uomo non si cura di raccogliere le cannuccie palustri che v’allignano, e di dissodarne le glebe svolgendole, e maritandole colle marne per facilitarne ed utilizzarne la dissoluzione, ed al contrario quello delle ligniti e d’epoca assai più remota, anteriore alla comparsa dell’uomo sulla terra, poichè in esse non trovansi vestigia umane, nè di prodotti della mano dell’uomo, quando le aque tuttavia vagavano irrefrenate, le selve annose e folte formavansi e riproducevansi spontanee, ed i torrenti ne strascinavano impetuosi i resti che adunavansi e galleggiavano nei bacini d’aqua dove facevano capo. Finalmente se le torbe che formano il primo gradino della scala dei combustibili fossili sono sempre superficiali, perchè di formazione affatto recente su cui non passarono ancora colle loro rivoluzioni geologiche le centinaja di secoli, e quindi sono di escavazione facile, ed alla portata di tutti i proprietarj dei fondi in cui rinviensi; le ligniti all’incontro, che sono l’anello che unisce i combustibili fossili dell’epoca presente a quelli delle anteriori coi quali ha molti caratteri di somiglianza, si trovano sempre a profondità più o meno considerabili, coperti da terre di trasporto e il più delle volte da roccie di recente formazione.

Perciò le ligniti in forza della legge 18 agosto 1810 vennero provvidamente equiparate ai minerali ed ai fossili protetti dal regolamento ancor vegliante del 9 agosto 1808; vennero cioè ritenute come proprietà dello Stato, e date ad usufruttare a delle compagnie privilegiate con certe norme e restrizioni portate dalla legge stessa, mentre la escavazione della torba è di diritto dei privati possessori dei fondi nei quali si trova. E con ragione, poichè le prime giacendo a certa profondità sotto suolo, e la loro escavazione essendo affatto sotterranea come quella delle altre miniere, richiedono ingenti spese da cui isfuggirebbero i piccoli proprietarj dei sopra-suolo; poichè non potrebbe controllarsi facilmente nè la limitazione delle proprietà, nè la pubblica sicurezza, e poichè si possono attivare senza ledere il godimento delle campagne superiori nè inceppare l’agricoltura; mentre le seconde, che sono superficiali, non si possono escavare se non impadronendosi affatto del fondo ed espropriandone il proprietario; e d’altro lato il padrone del fondo può con tutta facilità e poco dispendio approfittarne egli stesso, e farne approfittare [p. 5 modifica]all’intera società col porla in commercio. Basata su questi principj, e nel desiderio di avvantaggiarne lo Stato, la saviezza dei nostri padri ha voluto privilegiare le ligniti con una provvida legge, senza della quale quei tesori giacerebbero tuttora infruttiferi ed inesplorati, e ad essa, ad essa sola ne dobbiamo la escavazione.

Ma per venire agli scavi di Valgandino, dirò che da quasi un secolo se ne conosceva l’esistenza. Un certo Alessandro Radice di Gandino ne aveva ottenuta anzi dalla Serenissima Repubblica Veneta, alla quale quel territorio bergamasco apparteneva, un privilegio per lo scavo fino dal 1785. Ma troppo scarsa era ancora l’industria, troppo ricchi tuttavia i boschi, e quindi a troppo buon prezzo la legna, perchè convenisse attivare sul serio delle escavazioni di quel materiale di non facile estrazione, e che nel consumo presenta gli incomodi dell’odore ingrato e nauseante. Caduta la repubblica ai primi anni del secolo presente, G. B. Rossi di Vertua ottenne nel 1804 dalla Prefettura di Bergamo facoltà di escavarlo, ma non ne approfittò. Fu Pietro Treille avventuriero francese, che conosceva il pregio del combustibile, e che probabilmente aveva veduto in patria il modo di escavarlo, il quale fatto accorto dell’esistenza di questo fossile da certo Lorenzo Salvetti di Leffe, si tolse l’impresa di aprirvi una cava nell’anno stesso, associandosi un Francesco Monti ed un Felice Botta, che lo ajutarono di opera e di denaro. Lunga e penosa fu la lotta di questa società per iscegliere i migliori metodi di estrazione, e per adattarvi le macchine le più opportune, giacchè, come è facile l’immaginare, quantunque i principj generali per questa come per tutte le altre simili industrie sieno uniformi, pure la pratica loro applicazione varia all’infinito a norma delle infinite locali combinazioni. Ma molto più lunga fu quella per vincere i pregiudizj dei popolo, ed indurlo ad accettare, se non sul focolare domestico, almeno su quello delle officine principali dell’industria un combustibile che arde con poca fiamma, e che manda ardendo un odore ingrato. Provvido il governo italico la sostenne con sussidj, e coll’aprire nuove strade carreggiabili, e migliorare le vecchie, sicchè le popolazioni di quella valle devono in gran parte all’attivazione di queste cave i grandi beneficj della viabilità allo scopo di minorare la spesa di trasporto, e di permetterne la condotta nei centri di consumo con un vantaggio di costo a fronte della legna. Ma quell’impresa passata nelle mani del Gioja (nome non perituro negli annali delle scienze), che ne pubblicò nel 1815 un apposito opuscoletto, indi in quella di Merembert e Botta, e finalmente limitatasi nella sola ragione Felice Botta, se trasse una vita bastevole a sè, e se da ultimo avvantaggiò al suo unico proprietario, non diede al pubblico quei vantaggi che tanti sagrificj e tanta governativa protezione davano diritto di attendere. Fu nel 1838, che tratto lo scrivente in quei luoghi nell’idea di appoggiare certo Pietro Campana di Gandino, attivando un nuovo scavo, in unione ad altri due amici, domandammo a suo nome di poter suddividere quell’area che avrebbe potuto fruttare assai più in tempi come i nostri, nei quali il combustibile si fa sempre più ricercato e scarso, ed ottenemmo dopo molta insistenza, mediante Dispaccio dell’Eccelsa I. R. Camera Aulica per le zecche e miniere dell’8 gennajo 1844, che l’area fino allora usufruttata dal solo Botta, venisse ridotta nei limiti di legge e divisa in tre parti, lasciando a lui quella porzione dove aveva i suoi fabbricati e le sue escavazioni in attività, e dividendo il resto tra la compagnia nostra, che era intanto cresciuta di socj e di capitali, la quale prese il titolo di Giuseppe Biraghi e Compagni, cessionarj Campana, e certi fratelli Carrara di Bergamo. La parte però toccata a questi ultimi presso Cene, essendo pressochè sterile, non venne attivata, sicchè rimasero nel campo due soli competitori.

È la valle di Gandino un vasto bacino (fig. 1.ª) che spingesi scendendo da ponente a levante, cinta da ogni parte di monti di natura calcare, formati da eruzioni porfiriche che ne tormentarono in mille direzioni gli strati, e coperta in gran parte da ammassi di depositi di ciottoli piuttosto angolosi e calcarei. La attraversano varj rigagnoli perenni che raccolgonsi in uno principale, chiamato la Concossola o la Romna, il quale scende a tributare le [p. 6 modifica]sue aque al Serio di fronte a Vertua, a quattordici miglia da Bergamo. La sua lunghezza misurata dal piede dei monti appena sopra Gandino, dove comincia la parte coltivabile, o per dir meglio la parte del bacino occupata dai terreni di deposito fino al sito detto il Mergarolo, dove il torrente si è aperto una via fra due monti che gli contendevano il passo, è di chilometri 3,20; la sua larghezza da Barzizza a Peja di chilometri 1,40, e misura una superficie di circa chilometri quadri 2,30, nella quale sorgono i villaggi di Leffe, Peja, Casnigo, Cazzano, Barzizza, con una popolazione di circa diecimila abitanti. Tutte le deduzioni che si possono ricavare dalla sua conformazione geologica, e dalla qualità delle conchigliette e delle impronte di pesci di varia grandezza e specie che trovansi in quantità straordinaria commiste alle argille superiori di carattere lacustre, portano a credere che fosse un tempo conca di un lago sbarrato da ogni parte con un emissario a ponente, che in origine doveva essere molto più elevato che di presente non è, alla gola di Mergarolo, dove le corna delle opposte montagne si avvicinano fra di loro, e pel quale le aque versavansi nel Serio. Chi dalla spianata esterna dell’ospedal di Gandino, si fa a contemplare il bacino che da ivi si spiega intero al suo sguardo fino alla gola dove sbocca, non può a meno di convenire nella ipotesi. A spiegare il meraviglioso fenomeno della formazione del lignite a strati, così molteplici e potenti, non basterebbe però il limitare le nostre viste alla sola valle di Gandino. Troppo piccola in relazione è la superficie delle falde dei monti che vi sono d’intorno, per poter facilmente supporre che abbiano potuto somministrare tanta abbondanza di materia vegetale, senza ammettere una longevità di epoca molto superiore a quella che i geologi colla scorta dei fatti assegnano al periodo terziario. A chi ha percorso con qualche attenzione quel tronco di Val Seriana, non riesce fuori dell’impossibile di supporre l’esistenza di una barriera naturale alle forre tra Bondo ed il Ponte di Nossa, a tre miglia circa al disopra dello sbocco della Romna, dove la Val Seriana si stringe e strozza, e dove il fiume corrodendo col lungo volger dei secoli le rocce, onde sono formati quei monti, si è aperto uno stretto e profondo varco cui si contendono alternativamente le sue aque e la strada provinciale. Ivi il fiume sostenuto ad altissimo livello versar doveva parte delle sue piene per la Valle secondaria di Casnigo nel gran bacino sopra descritto, il quale veniva così a formare come un gomito o meglio una lanca del fiume stesso, come una specie di lago che raccoglieva le materie di trasporto nel suo seno tranquillo, lasciando che le onde chiarificate si riversassero nella gran Valle Seriana per lo sbocco attuale della Romna.

Ammesso ciò, non è difficile lo immaginare come siasi formato quel deposito sotterraneo di lignite che stiamo studiando. I boschi che nei remotissimi tempi popolavano la gran catena di montagne che circonda la limitrofa Val Seriana dai confini della Valtellina e delle Valli Camonica e Brembana fino a Ponte di Nossa non ancora spoveriti dalle aque di un buon fondo mobile, estirpati dai turbini, sradicati dai torrenti, portavano colle aque di pioggia le loro spoglie in mezzo al lago, dove soffermate quasi in un seno dalla tranquillità dello stagno galleggiavano secolarmente, ed a guisa di isole natanti, riproducevano altri vegetabili sul loro dorso, finchè macerati dal tempo e fatti più pesanti dell’aqua si precipitavano al fondo a poco a poco. Nuove spoglie vi si succedevano, e nuovi depositi rinnovavansi. Talora le aque scendevano torbide per macigni, per ghiaje, per sabbie od argille che seco portavano, e deposte le materie più pesanti alla riva del lago, le cui aque stagnanti non avevano forza a sostenerle, portavano le più leggieri nel mezzo, dove calmati gli uragani vi deponevano quegli strati argillosi e sabbiosi più o meno potenti che si interpongono alternandosi ai diversi strati di lignite. Questa vicenda, che tuttavia si ammira succedere nelle vergini lande americane, durata molti secoli, fece alla perfine che il lago si colmasse a poco a poco, il che sarà stato accelerato dalla probabile catastrofe accennata dell’abbassamento per corrosione dello sbocco dell’emissario. Allora le materie ghiajose scesero portate dalla furia delle [p. 7 modifica]aque a coprire tutto il bacino a diversi metri d’altezza, mentre le spoglie vegetali ed animali, come più leggiere, venivano trasportate direttamente nel Serio, e si stese poscia sopra questo strato di ghiaja una crosta di conglomerato o pudinga legata con un glutine calcare-siliceo che ha qualche somiglianza col nostro ceppo forte o grossolano, quantunque assai più raro di ciottoli, la quale crosta rapprese, sto per dire, tutta la superficie del bacino, e coverse sotto la sua scorza i grandi fenomeni or ora narrati alla profondità dai trenta ai cinquanta metri. Il Serio intanto corrodendosi dopo il Ponte di Nossa un più facile e natural corso alle sue piene, abbandonando questa via di sfogo secondario, avrà preso definitivamente l’attuale suo corso, mentre un ulteriore progressivo abbassamento dell’emissario della Romna, ha determinate per corrosione le linee e gli avvallamenti dei torrenti e dei rigagnoli attuali, i quali rotta la crosta superiore di pudinga, ed asportati i banchi inferiori di ghiaja, presero a scorrere fra i depositi superiori argillosi, e in qualche parte fin sul dorso degli strati più superficiali del lignite. La pressione dell’enorme peso sovraincumbente, e l’interno calorico delle materie sviluppando una lenta fermentazione produssero col correr dei secoli la naturale carbonizzazione dell’impasto che ora si escava nella forma di ammasso uniforme semi-carbonizzato.

La prima volta che l’uomo pose piede in questa romita valle trovò le cose già portate quasi a questo punto, e fecondò del suo sudore lo strato di terra, che a poco a poco si sovrappose ancora alla crosta di pudinga, riducendo a terriccio i posteriori depositi già pingui per la vegetazione che naturalmente vi avrà allignato. Grande, sorprendente è il fenomeno; ma quando non supponiamo limiti di tempo, niente di più semplice e naturale. Ciò spiega, e la potenza degli strati lignei, e la interruzione dei letti argillosi e sabbiosi, e le loro disposizioni che assecondano le concavità e le irregolarità della valle, e la loro nettezza d’ogni pietruzza benchè piccola e leggiera, e la diversa maturanza dei letti, sicchè i superiori conservino tuttora la forma del legno e le impronte delle foglie e l’immagine dei frutti, tali da poterne argomentare la famiglia e fin anche le specie.

Sgraziatamente quei depositi non si estendono a tutto il bacino, ma si limitano alla parte centrale, ad una certa distanza dalle radici dei monti circoscriventi; cosicchè la parte utile a dedurne da quel poco finora esplorato che sta presso il lembo di ponente, verso lo sbocco della Romna nel Serio, si limita a poco più di un chilometro e mezzo, dal quale è a dedursi la superficie occupata dal grosso paese di Leffe, e di alquanti cascinali e dipendenze sotto i quali non si possono estendere le escavazioni. Molti banchi di lignite (fig. 2) distinguonsi in questi depositi più o meno formati e concotti, più o meno puri di sabbie ed argille, separati fra di loro da strati più o meno alti di marne nere imbevute di carbonio, i quali costituiscono assieme una potenza ragguardevolissima, che varia dai metri undici nella parte che più si approssima al centro del bacino finora tentato, fino ai metri quattro alle ugne dei monti del circondario dove disperdonsi cacciando i lembi sin quasi a fior di terra. Di questi banchi ne ho contati fin dieci. Uno strato di argilla talvolta candidissimo, e talvolta di color cinericcio molto compatto, ma poco tenace, e zeppo di piccole conchigliette univalvi e bivalvi calcinate d’aqua dolce, li precede. Seguitano d’ordinario alternando due piccoli banchi torbosi della potenza di circa mezzo metro non ancora carbonizzati interamente, e nei quali è facile distinguere la forma delle foglie e delle piccole radici, con un interposto letto di argilla nera. Indi vi succede un letto legnoso di altrettanta grossezza, e talvolta maggiore, che giunge fino ad un metro, nel quale tuttavia distinguonsi le fibre dei legni colle loro ramificazioni tuttavia bianche o rossiccie, benchè schiacciate e compresse pel grave peso superiore, e senza quel nervo che conserva il tiglio del legno in istato sano. Tronchi grossissimi vi si scopersero del diametro di oltre un metro, e delle tinte più brillanti che si possono ideare, sicchè intelajati con un contorno di altri legni più robusti, potrebbero servire ad eleganti coperti di tavole, od a specchiature di armadj, giacchè prendono [p. 8 modifica]con facilità il lucido. Ma questo strato che deve essere il più recente, che ne svela la formazione degli altri, e nel quale si riconoscono con legge quasi costante, le noci e gli aceri sul fondo, e le piante delle famiglie delle conifere superficiali, non è tale da poter essere estratto con vantaggio. Devesi anzi abbandonare con altri tre o quattro che trovansi immediatamente inferiori allo stesso, prima di trovare il banco maestro che alimenta le cave. Ma se esso non dà utili prodotti, se snervato come e non è neppure ricercato, anzi rifiutato dai consumatori per difetto di attività calorifica in confronto dell’altro, serve però a formare un tetto assai resistente alle sotterranee escavazioni.

Lo strato maestro è quello che alimenta gli scavi assieme a qualche leggiero strato superiore quando il letto d’argilla che li divide non oltrepassi la grossezza di metri 0,20, e quindi non tolga la convenienza di rimuoverlo. La sua potenza che nelle prime escavazioni, le quali trovavansi molto prossime ad una delle estremità del bacino, giungeva appena a tre metri, e che andava assottigliandosi a poco a poco verso la linea di confine esterna coll’avvicinarsi alla superficie del suolo, negli scavi in corso che vanno avviandosi verso il centro giunge fino ai nove metri, tutto pressochè puro, senza letti attraversanti grossi più di qualche centimetro che lo alterino, e finchè è verde, cioè finchè non ha ancora sentiti gli influssi dell’aria atmosferica, molto simile ad una pasta. La profondità delle prime escavazioni trovavasi a metri undici sotto il piano della campagna, in quel punto che già chinavasi a valle. Quella delle escavazioni attuali della ditta Biraghi, è di metri 34, e quella della ditta Botta, di circa metri 42, e questa differenza, come mostra l’unito profilo (fig. 2), è da attribuirsi all’inclinazione del banco verso il centro del bacino, il quale asseconda la giacitura dell’antico fondo della valle. Sembra che la fermentazione, o quel processo putrido che subì questa massa di vegetabili in macerazione, sia stata più violenta nei depositi più bassi, poichè ivi si trovano come alcune conglomerazioni isolate, a guisa di nocciuole perfettamente carbonizzate, e di frattura lucida che fa distinguere quegli strati dagli operaj col nome di strati del carbone. Si fecero spingere le escavazioni nei primi assaggi per altri ventisei metri circa (fig. 3) sotto il piano delle gallerie. Ma dopo uno strato di metri 4,30 di argilla con sorgenti d’aqua abbondanti, e qualche piccolo letto di lignite, si trovarono altri metri 3,10 di marna calcarea, e poscia un banco di lignite alto bensì metri 3,20, ma così sporco e misto a materie eterogenee da non convenirne la escavazione. Gli altri quindici metri furono sempre attraverso una marna calcarea compattissima e di difficilissima escavazione, finchè raggiunta la ghiaja si sospese il lavoro. Nè l’idea di un altro tentativo di questo genere in parte più centrale del deposito è abbandonata. Solo si attende che i frutti dell’impresa somministrino i mezzi a questi studj senza aggravio della società.

Il nostro lignite ha i caratteri generali degli altri ligniti che ho enumerati, e somiglia moltissimo a quello che si cava presso Uznacht, e del quale si fa molto uso nelle manifatture di Zurigo. Ha tinta bruna, tendente al colore del cioccolatte, ed opaca. È assai compatto, pochissimo bituminoso. Essiccandosi si screpola e sfoglia, massime se lo si espone ai raggi solari, o se si vuol procurare una rapida evaporazione dell’umidità che contiene con mezzi artificiali. Racchiude pochissime piriti sulfuree, sicchè non intacca come molti altri combustibili di questo genere le caldaje. Brucia lentamente con un processo equabile e di molto durata, con una fiamma azzurrognola e chiara, e non molto alta. Lascia gran deposito di cenere che eguaglia in volume i due terzi del combustibile, talvolta bianche, e più spesso azzurrine con qualche vena rossastra, ciò che indicherebbe una lieve mistura d’ocra. La sua combustione deve essere provocata sul principio dalla fiamma viva della legna, e richiede abbondante giro d’aria per alimentarsi. Manda bruciando un fumo denso e biancastro, con odore ingrato, non però così acuto come quello del carbon fossile, odore che diminuisce di intensità più il combustibile è stagionato, ed a differenza del carbon fossile non si gonfia bruciando ma si restringe di volume. Verde rinserra circa il 45 per cento d’aqua e dopo un [p. 9 modifica]anno di stagionatura all’ombra ne perde dal 30 al 35 per cento, diminuendo di circa 1/6 in volume. Un metro cubico di lignite verde pesa per medio 160 pesi bergamaschi, ossia quintali 12,80; proporzione che cresce in ragione inversa della sua purezza. Stagionato, avuto riguardo all’ammanco di volume, non pesa che nove quintali. Alcuni resti animali vi si rinvengono, ma così spappolati e ridotti a tale stato di macerazione, che coll’asciugare si polverizzano e disperdono. I denti e le corna hanno una durata maggiore. Molti di questi frammenti ornano i nostri gabinetti mineralogici pubblici e privati, e molti distinti geologi vi argomentarono, tra le altre, alcune varietà d’alci e di rinoceronti ora perdute. Tra i resti vegetabili i più frequenti sono le frutta di noci e le pannocchie di pino, ma esse pure per alcuni caratteri si riputarono diverse da quelle delle specie tuttor viventi.2

Il vantaggio principale di questo combustibile sta nella costanza, nell’intensità e nell’equabilità del calore che emette; sicchè riesce opportunissimo in tutte quelle officine dove si ha bisogno di mantenere l’ebullizione e la temperatura dell’aqua ad una uniforme elevazione, come nelle filande, nei seccatoj, nelle macchine a vapore; a differenza della legna che arde con moltissima fiamma, e provoca una rapida ebullizione che non può sostenere cessando la fiamma stessa tosto che si è consumata la fibra legnosa, e che richiede di più una più assidua sorveglianza alla bocca del fornello per mantenere l’alimento. La più parte delle filande bergamasche, e molte anche dell’agro milanese orientale verso l’Adda sono disposte per il consumo del lignite, e trovano tali e tanti vantaggi in questo combustibile da anteporlo alla legna anche a pari prezzo, vantaggi che sentono maggiori coloro che hanno disposte le griglie dei focolare con abbastanza larghezza pel passo libero ed abbondante dell’aria, e che ebbero l’accortezza di munire il condotto del fumo di una valvula per regolare la combustione.

È opinione generale dei consumatori che il lignite stagionato sviluppi un’azione calorifica superiore di un quarto di quella della legna dolce. Le esperienze fatte dal Breislak al laboratorio dei nitri in Milano, e riportate dal Gioja nel citato opuscolo, ne porterebbero la differenza a più di un quarto avendo per medio dovuto impiegare per la evaporazione di mastelli 128 di aqua nitrosa, libbre grosse di legna 2163, mentre pari effetto potè venire prodotto da sole libbre grosse 1568 di lignite. Infatti le ligniti contenendo giusta le citate analisi di Regnault, il 67 per cento di carbonio, mentre la legna non ne contiene che il 30, la loro efficacia deve ragionevolmente dedursi di molto superiore. Però evvi in questo disparità di opinioni fra i nostri chimici; dacchè mentre il Kramer attribuisce ai lignite di Valgandino una potenza calorifica, rappresentata dal numero 3012, ne dà alla legna forte in conguaglio 3300, ed alla legna dolce 3290, ed il Curioni paragonando il coke al lignite di Leffe ed alla legna forte, sopra calorie N. 36, ne attribuisce N. 31 al primo, N. 21 al secondo, e sole N. 13 alla legna. In tanta disparità di opinioni dipendenti probabilmente dalla qualità dei campioni sui quali operarono i dotti sperimentatori, e dalla piccolezza degli esperimenti tentati sul crogiuolo del chimico, anzichè sul focolare dell’industriante; ed in mancanza di dirette prove, noi ci terremo alla opinione di coloro, i quali graduano i combustibili nella scala della loro più o meno perfetta carbonizzazione, mettendo ii legno all’infimo gradino, a cui fanno succedere le torbe, indi le ligniti, poi i carboni fossili, il carbone di legna, e da ultimo il coke, ossia il carbone fossile carbonizzato, considerata, ben inteso, la materia nella sua purezza.

Due sono i mezzi che si presentano per intaccare le escavazioni di questo banco sotterraneo, o scendendovi direttamente per mezzo di un pozzo, o procurandoci un cunicolo nelle parti dove per la conformazione della valle e per l’andamento [p. 10 modifica]dello strato fossile se ne presenta la possibilità. Ambedue i mezzi furono da noi tentati. Ma se il secondo presenta i vantaggi di un più facile accesso, di un più libero giro di aria interna, e per conseguenza di un men costoso trasporto di materiale e di una non interrotta lavorazione, presenta d’altronde gli inconvenienti della poca profondità, e per conseguenza del facile scrollamento della superiore crosta e della penetrazione d’aqua; e risultando necessariamente in vicinanza ai confini del banco dove esso riesce meno potente da un prodotto e meno puro ed assai più scarso. L’esperienza quindi ne ha persuasi della prevalenza del partito dei pozzi. Il primo che abbiamo tentato in capo al gran piazzale, intorno al quale piantammo i fabbricati del nostro stabilimento (fig. 3), è quello di cui feci cenno più sopra. Dopo metri 3,20 di ghiaja sciolta scoverse addirittura l’argilla conchiglifera, ed indi i diversi strati di carbone sino alla profondità di metri 11,30. Perchè fosse abbastanza capace da permettere il passo di due tinozzi, lasciando una spazio sufficiente per lo svolgimento delle corde sull’asse, fu tenuto della sezione rettangolare di metri 2,50 per metri 3,00, e per poter sostenere le ghiaje dello strato superiore venne foderato per l’altezza di metri 4,50, con un robusto assito. Il prolungamento della canna tentato per assaggio, servir doveva per deposito delle aque che potevano stillare nelle gallerie o nel pozzo stesso, e fu coperto con impalcatura mobile per poterlo all’occorrenza vuotare, od almeno attingervi le aque superflue nel caso di bisogno col mezzo di secchioni.

Dapprima era mio pensiero di applicarvi una piccola macchina a vapore da alimentarsi coi frantumi del nostro combustibile per l’estrazione del fossile ed all’occorrenza anche dell’aqua, e per l’immissione dell’aria ossigenata e l’aspirazione contemporanea dell’azotata e dell’acido carbonico che si forma in quelle escavazioni nella stagione estiva. Ma visto che la relativa spesa, tanto di primo impianto, quanto di successivo andamento, non poteva riescire ne’ primi tempi in relazione allo smercio, cui ben conoscevamo non potersi aprire ad un tratto in una grandiosa scala, ma che sarebbe venuto crescendo a poco a poco coll’abituarsi degli industriali al nuovo combustibile, ne sospesimo a miglior epoca l’attuazione, e ci appigliammo al sistema semplice già usato in luogo, che è quello della ruota a tamburo con un grand’asse collocato direttamente sul mezzo della bocca del pozzo sul quale si avvolge la fune a cui si appendono i due tinozzi in modo che quando l’uno ascende pieno l’altro si cala vuoto.

Attivato questo pozzo in sul principio dell’autunno del 1844 e copertolo con una provvisoria tettoja, fu prima operazione il penetrare nello strato dal lato verso il quale esso inclinava accennando al centro del bacino, e dirigendosi verso il paese di Leffe col mezzo di una galleria che nominammo maestra o principale. La quale onde fosse capace a dar passaggio a due carriuole ad un tempo, e presentasse assieme la massima solidità, si ricavò di forma a capanna e della sezione di metri 2,50 al piede, e di metri 1,80 in sommità nell’altezza totale di metri 3, che tanta era la potenza del banco rispettando gli strati minori di coperta e qualche piccolo strato imperfetto di suolo; i primi per rafforzare possibilmente il tetto, i secondi onde impedire il gemitio dell’aqua che vien dall’argilla conchiglifera sottoposta. Ricavata la galleria nella pasta del lignite, non diede per alcun tempo segno di deterioramento, sicchè non occorsero sulle prime puntellazioni di sorta, e m’era nata lusinga di poter realizzare ii progetto di servirmi di quel solo pozzo per parecchi anni avvenire, protraendo la galleria maestra per tre o quattro centinaja di metri, staccandovi ad ogni dieci metri delle gallerie minori trasversali, procurandovi la necessaria corrente d’aria per mezzo di pozzi minori da sforarsi ad ogni tratto di circa 100 metri, e facendo scorrere il materiale sotterraneamente sopra ruotaje di legno o di ferro. Ciò richiedeva naturalmente che si spingesse la strada maestra addirittura alla massima possibile distanza per lavorare poscia come si dice in ritirata, spogliando possibilmente la parte che veniva abbandonata, e dove più non occorreva ritornare. Ma le domande del fossile furono fin dal principio così vive per il ribassato prezzo al quale si pose in commercio, che [p. 11 modifica]per soddisfare agli impegni ci fu forza di tentare addirittura delle vie laterali e possibilmente brevi, ed il piano fondamentale fu dal primo anno messo a parte. Anzi nell’operare i movimenti di terra necessarj per disporre il gran piazzale dello stabilimento dove raccolgonsi i carri pel carico e intorno a cui sorgono i porticati per l’essiccamento, e per rendere comodamente praticabile la strada proveniente da Leffe che interinalmente si dovette usare, benchè assai incomoda, fintanto che si combinarono le cose coi proprietarj dei fondi, onde aprire una strada diretta alla provinciale traversando la Romna; scopertosi che il fossile verso ponente si andava alzando a fior di terra talmente da potervisi con facilità penetrare con un cunicolo pressochè orizzontale dal punto più basso della collina, si attivò contemporaneamente anche questo sforo, e si potè senza disagio supplire immediatamente alle molte domande. Presto si posero in comunicazione le due bocche, ed indi si promosse una vivissima corrente d’aria che valse a tenervi attivi gli scavi anche nella stagione estiva.

Ma fatalmente questi vantaggi erano acquistati a prezzo della rapida degradazione delle pareti e del coperto delle gallerie. Dopo alcuni mesi dacchè furono aperte, l’influenza dell’aria atmosferica promovendone l’asciugamento manifestò in alcune di esse degli screpoli che i minatori chiamano setole, dapprima quasi invisibili, e che a poco a poco si andavano allargando in modo da staccarsene dei pezzi non senza pericolo dei passanti. L’aqua dei terreni superiori la quale scorre nei tempi piovosi tra lo strato di ghiaja che la imbeve ed il primo letto d’argilla, cominciò a trapelare sgocciolando da quelle fessure, e si dovette ricorrere a delle buone puntellazioni per preservare almeno le strade principali dalla imminente rovina. Allora conobbi la natura precaria di quei lavori, e mi persuasi della necessità di moltiplicare i pozzi e di regolare l’escavazione intorno ai medesimi in modo, da poterli far servire all’esercizio di cinque o sei anni al più, scompartendone l’area circostante in altrettanti quadri da esaurire l’un per anno, incominciando dal più depresso, e ritenendo il più rilevato per l’ultimo, onde i primi potessero servire di magazzino d’aqua agli altri.

I primi incontri però in po’ potenti d’aqua furono alcune polle che scorrendo in certe cavità, o piccoli canali naturali, s’erano fatta strada a traverso l’argilla e lo stesso lignite. Fortunatamente non erano molto lontane dalla bocca d’ingresso del cunicolo, e trovavansi ad un piano ad essa superiore; sicchè poteronsi allacciare in un bacino, e guidare mediante un piccolo rigoletto fuori dei lavori. Intanto altri sgocciolamenti andavano facendosi più spessi e più vivi; nè tutti potevansi deviare, ma bisognava raccoglierli nel pozzo ed estrarne il prodotto con trombe a mano e con secchioni che si facevano lavorare di notte tempo con più o meno attività a norma dell’aqua defluente. Per trovarsi poi gli scavi superiori a non molta profondità del suolo (in alcuni siti non eccedeva i sei metri), e le aque sgretolando la loro via, le trapelazioni convertivansi a poco a poco in rigagnoletti continui e provocavano delle rovine, alcune delle quali portarono la loro influenza fino alla superficie delle campagne; finchè nella primavera del 1846 un influsso straordinario e repentino d’aqua richiamato da uno di quei rigagnoletti superficiali inondò in poco d’ora tutti i lavori inferiori, che come più profondi e più lontani dalla superficie del suolo erano tuttavia i più sani, e, come quelli che più si avvicinavano al centro del bacino carbonifero, erano eziandio i più proficui, ed invadendo quasi mille metri lineari di galleria ne pose nella situazione di dover abbandonare que’ lavori, limitando le nostre escavazioni alla parte più alta che si teneva sgombra d’aqua mediante l’azione quasi continua delle trombe e dei secchioni.

Quivi però assai prossimi al labbro esterno del bacino incontrammo due ostacoli assai serj: uno dipendente dall’altezza del banco che andava sempre più limitandosi, sicchè riducevasi a poco più di un metro e mezzo, ed era assai sporco, e l’altro dalla poca profondità dei cavi della superficie delle campagne superiori, il che rendendo naturalmente men solido il coperto ne obbligava a tener più strette le gallerie e ad [p. 12 modifica]abbondare con grossissima spesa nelle puntellazioni. Si aggiungeva a tutto ciò la natura stessa del fossile assai più friabile e non impastata a strati regolari ma molto interrotti, natura che i pratici dicono rizza, la quale indica un deposito non affatto tranquillo, forse che l’effetto delle onde siasi propagato fino ad esso trovandosi in non molta distanza dalla riva del lago primitivo, la qual natura rendeva i lavori più precarj e più caduchi; sicchè, fenomeno inaspettato, più di cento metri di galleria ad onta delle puntellazioni repentinamente caddero ad un tratto in una notte, e forse in poco d’ora, al primo manifestarsi dei geli di dicembre, derivasse ciò da effetto atmosferico o da qualche lieve scossa di terremoto. Avventuratamente non v’erano minatori nella cava. Tornati la mattina per riprendere i loro lavori trovarono impedite le vie e sepolti i loro arnesi.

Tutte queste disgrazie avevano poste in qualche angustia le escavazioni. Già dai primi momenti che riconobbi la impossibilità di realizzare il piano grandioso e regolare di escavazione che accennai, aveva pensato alla attivazione di qualche altro pozzo. Una situazione mi si presentava opportuna perchè prossima ad una strada carreggiabile e non molto lontana dai nostri fabbricati, e che potevasi facilmente porre in comunicazione coi lavori che stavano coltivandosi per trarne alimento di aria respirabile, e per avvantaggiare anche di una delle gallerie principali onde trasportare il fossile ai magazzini per la via sotterranea: il che sarebbe tornato comodo, massime nella stagione jemale che in quella regione è piuttosto lunga, e nei grandi sollioni d’estate. Ma dubitando della estensione da quel lato dell’area utile, e volendo conoscere a priori a quale profondità avrei trovato il combustibile, e con quale potenza, feci tentare in prevenzione uno sforo col mezzo di una grossa trivella sino alla profondità di 20 metri. Altro fondo non trovammo che una massa calcare cinerognola con qualche leggiero indizio ad ogni tratto di depositi vegetali. Feci allora che si spingessero da quel lato i lavori in attività con una galleria lunga più di cento metri: ma questa rapidamente alzavasi verso la superficie del suolo facendosi sempre più povera di fossile; sicchè dovemmo conchiudere che quel punto che a tutte le apparenze si riteneva compreso nel bacino carbonifero era fuori dello stesso.

Allora pensai che era tempo di abbandonare il perimetro, e mi risolsi di intaccare la miniera più verso il suo centro, e designai i siti dove escavare due nuovi pozzi ad un tratto, e qui senza anteriori assaggi, poichè i dati delle escavazioni già fatte ne davano la certezza di riuscita. Ma quasichè colle angustie in cui si trovava la miniera per i disastri sopra narrati, le più sfavorevoli circostanze congiurassero, nuovi e non piccoli incagli ne presentò lo scavo dei designati pozzi. Lo strato ghiajoso superficiale, che ordinariamente non si manifesta d’un’altezza maggiore di cinque o sei metri, e che alla distanza di circa 100 metri dal sito dove si cominciò a lavorare per lo sforo, ai piede della collinetta, che sorge isolata, e protendevi dal paese di Leffe a dividere i due fiumicelli della Romna e del Rino, trovasi men alto di un metro; corrispondentemente al nuovo pozzo, aveva la enorme profondità di sedici metri. Non dubitando di questa circostanza si può dire anormale e probabilmente prodotta da un gorgo nell’originario bacino, incominciammo l’approfondamento colla consueta armatura di legname. Ma tra per il bisogno di scavare inferiormente con una certa larghezza per poter impostare al di dietro dello intavolato l’armatura di travi, alla quale inchiodarlo, tra per lo scrollo dipendente dai colpi della inchiodatura all’intavolato stesso, cominciò la ghiaja per sua natura assai sciolta e mobile a sgrottarsi per di dietro; sicchè pervenuti alla profondità di circa sei metri si rilasciò da un lato con fragoroso rovinio. Mi recai tosto in sito. Trovai che benchè due delle pareti avessero alquanto sofferto, le altre mantenevansi tuttavia salde, e non avevano piegato dalla perpendicolare. Feci riempire di fascine e di terre soffici il vuoto, sbadacchiar ben bene con puntelli intermedj la canna già predisposta, sgombrare la materia precipitata nel fondo, e dubitando che il disastro avesse mosso dalla troppa altezza delle puntate che si lasciavano libere raggiungenti l’una per [p. 13 modifica]l’altra metri 1,50, ordinai che si procedesse a piccole puntate di metri 0,60 per volta, e si riempisse tosto il vano che naturalmente formavasi per impostare le travi dell’armatura ben bene con delle fascine e della creta. Infatti lentamente e diligentemente lavorando dopo più d’un mese di fatiche, ed una non piccola spesa si giunse alla profondità di metri 13,00 sempre perforando la stessa qualità di materia. Ma lo sgrottamento posteriore non s’era potuto affatto sospendere. Una bella sera una nuova frana più violenta e rovinosa della prima scompaginò tutti i lavori, e ne fece accorti che era a cambiar sistema e posizione, benchè la presenza dell’aqua ne iudicasse non molto lontano il primo letto d’argilla; poichè troppo difficile e dispendioso ne sarebbe riescito il ristauro della canna già praticata, nè sarebbe stato fors’anche senza pericolo, e gli operaj si rifiutavano di ridiscendervi. Alla distanza di circa sei metri da esso feci allora dar principio ad un nuovo pozzo; ma questa volta non più di figura rettangolare nè della misura consueta di metri 2,50 per metri 3,00, non più rivestito d’asse; ma con piccola modificazione al meccanismo di alzamento dei tinozzi onde gli stessi avessero a mantenersi in una verticale, lo avviammo di figura elittica col diametro maggiore di due metri, ed il minore di un metro e mezzo, e con una camicia di mattoni della spessezza di centimetri 25 (fig. 4). La costruzione condotta da due abilissimi costruttori ebbe esito rapidissimo e felicissimo. In poco più di tre settimane si toccò il banco d’argilla che stava alla profondità del suolo di metri 15,50, ed avanzato il rivestimento per circa metri 3,00 nell’argilla stessa, si rinvenne dopo altri metri 10,00 il banco carbonifero a più strati della complessiva potenza di met. 8,50, che si traforò, e senza indugio avviassi una galleria di escavazione.

Ammaestrati dalla esperienza, il secondo pozzo meno profondo di circa due metri del primo (fig. 5), non ne costò tanta fatica nè tanto studio avendolo eseguito perfettamente simile allo stesso, con questo di più che vi praticammo un cammino d’appello pel giro d’aria del quale si accennerà in seguito.

Questi lavori si eseguivano nella primavera del 1847. Sul finir d’autunno dello stesso anno si pensò alla escavazione di un terzo pozzo in una parte del bacino assai più depresso degli altri due, nell’idea che posto in comunicazione sotterranea con essi, servir dovesse allo scolo delle aque di filtrazione di tutte le escavazioni, e di bocca di esaurimento del combustibile. Questo pozzo (fig. 6) profondo metri 32 toccò il banco maestro del lignite della potenza di met. 9,00. Avviata tosto una galleria all’insù, sul finir della campagna si incontrò felicemente con altra che vi si spingeva dal primo pozzo. E così oltre i vantaggi del regolamento delle aque si ottenne pur quello di un più attivo ed efficace giro d’aria. Questo terzo pozzo si ebbe cura di escavarlo in sito dove mancava quasi affatto lo strato ghiajoso superficiale, giacchè pur troppo l’esperienza degli altri pozzi ne ammaestrava essere il medesimo causa perenne di filtrazione lungo le canne, filtrazioni che in tempo di abbondante ed ostinata pioggia prendevano delle proporzioni allarmanti, cui non valsero a scongiurare le molte e diligenti cure avute nella costruzione della camicia di muratura, sia riempiendone lo spazio posteriore con eccellente argilla, sia adoperarlo per cemento delle malte eminentemente idrauliche, sia finalmente intonacando la superficie interna con pozzolana: giacchè l’enorme pressione che lavorava dietro il primo pozzo, dove lo strato ghiajoso raggiungeva fino i sedici met., come vedemmo sopra, spingeva gli sprizzi attraverso impercettibili meati in modo da formare quasi un vortice di nebbia, mentre una parte maggiore si faceva strada a traverso del letto di unione tra il principio della parte murata e l’argilla soda degli strati inferiori su cui posava. Queste filtrazioni, non molto gravi nei primi anni andarono continuamente crescendo coll’ampliarsi delle gallerie, sia per qualche scoscendimento del superior letto, sia per qualche rottura del suolo che dava luogo a piccole sorgive dal sotto in su, sicchè dopo cinque anni di esercizio più non bastando a tenere sgombri i lavori nè l’opera dei secchioni nè quella di una potente tromba, si dovettero abbandonare tre anni almeno prima di quanto sarebbe stato necessario ad esaurirli.

[p. 14 modifica]Nel 1851 si aprirono quindi due nuovi pozzi sempre più vicini al centro del bacino, evitando possibilmente lo strato ghiajoso superficiale. Questi scoprirono dopo varj strati minori imperfetti il banco maestro della potenza di circa nove metri sempre più puro e concotto, alla cui escavazione si pose tosto mano con tutta alacrità. Crescevano intanto le ricerche del combustibile, sicchè due bocche sole non bastavano alle impegnate commissioni; onde si dovette nel principio del 1852 aprirne una terza più sotto il colle dove il banco è men puro ed ha anche un’altezza minore di circa un metro (fig. 7, 8, 9).

E qui giudicai giunto il momento di attivare la da tempo ideata applicazione di un motore meccanico agli scavi tanto per esaurirvi le aque di filtrazione, quanto per estrarre il fossile, e per spingervi all’uopo dell’aria ossigenata nel caso convenisse protrarre i lavori a stagione calda, quando lo sviluppo dell’aria mefitica ne provoca la sospensione periodica. Ciò era urgentemente richiesto dall’aumento di spaccio rapidamente cresciuto in questi anni per l’incarimento straordinario della legna, a soddisfare il quale ormai non bastano i semplici mezzi manuali finora applicati. Ma prima era ad accertarsi se il banco carbonifero si estendeva anche al di sopra del paese di Leffe come la giacitura naturale del terreno lo prometteva, giacchè ben prevedevamo che ove l’area a noi concessa non fosse stata anche là fruttifera, fra cinque o sei anni sarebbe stata del tutto usufruttata, nè sarebbe forse tornato prezzo dell’opera l’entrar nelle spese dell’impianto di una macchina a vapore. Infatti nello scorso estate si diè mano ad un nuovo pozzo (fig. 10), il quale per lo ascendere sensibile del terreno superficiale, mentre il banco del lignite si mantiene pressochè orizzontale, toccò l’altezza di circa sessanta metri. Fortuna assecondò i nostri voti avvegnachè rinvenuto il banco dell’altezza di oltre nove metri, e perfettissimo, potemmo accertarci di aver trovato materia all’escavazione per parecchi anni avvenire. E così assestato il piano ai futuri lavori, si provvede ora all’impianto della nuova macchina, la cui esecuzione venne affidata alla ditta Schlegel e C. in Milano.

Dato così uno schizzo storico del procedimento delle nostre cave, entrerò ora a discorrere particolarmente del modo con cui viene intaccato il banco, del come procedono i lavori, del come si mantengono e puntellano le gallerie, e degli arnesi e macchine adoperate. Quando si vuole intaccare una galleria, segnata prima dall’ispettore delle miniere la situazione ed indicatane la direzione, due operaj armati d’accetta ben tagliente con lungo manico, e terminante in punta dalla parte opposta come indica la (fig. 11), l’un de’ quali deve lavorare diritto e l’altro mancino, mettono mano all’opera, ed assecondando le linee a capanna del profilo delle gallerie fanno, appena sotto il tetto, due tagli laterali nell’altezza di circa un metro, nella profondità di circa ottanta centimetri, e nella larghezza non maggiore di un decimetro, tale cioè che vi passi l’accetta nello spingere il colpo e niente più. Preparati questi due tagli, se ne forma un altro consimile orizzontale inferiormente alla medesima profondità, e spinti quindi de’ lunghi cunei di ferro a colpi di mazza nella parte superiore, se ne stacca un parallelepipedo, il più delle volte intero dell’altezza di circa mezzo metro, nella lunghezza di quasi due metri, e della profondità di tre quarti di metro, il quale ridotto coll’accetta a pezzi regolari di due a tre centimetri cubici, si carica sulle carriuole, e si esporta alla bocca del pozzo. Il secondo strato si stacca egualmente risparmiando ii taglio orizzontale e facendo lavorare i cunei dai sotto in su. Gli strati inferiori susseguenti poi che talvolta giungono fino a sei o sette a norma della potenza del banco carbonifero, si ajutano con un terzo taglio verticale posteriore; e così si avanza la galleria come dicono di una strada, operazioni che di solito due tagliatori eseguiscono in una giornata di lavoro, ricavando talvolta fino a tre metri cubici di combustibile netto, escluse le spoglie e le parti terrose o miste che rimangono nella cava a rialzare il pavimento, e che qualora abbondino si gettano nelle gallerie già vuotate che formano magazzini dello scarto. La galleria poi si fa procedere a scaglioni spingendo avanti i tre primi tagli superiori. Si calcola per medio che due tagliatori di [p. 15 modifica]mediocre attività diano un prodotto giornaliero per ciascuno di pesi 230 di lignite verde commerciabile, che corrispondono a circa quintali 18. Essi sono serviti da un manuale colla carriuola che talvolta non basta, quando la distanza dei punti di attacco supera i sessanta metri, dovendosi in quel caso farlo rilevare a mezza via. Ventiquattro tagliatori che di solito lavorano nelle nostre cave oltre due puntellatori, uno dei quali esercita la sorveglianza sotterranea dei lavori, sono serviti da diciotto manuali colla carriuola, oltre due garzoni, l’uno per dare l’olio alle lucerne e l’altro per aprire la porta che serve a mantener più o meno vivo il giro d’aria nelle cave. Un uomo per pozzo attende ad attaccare e staccare i tinozzi della portata di circa due quintali di fossile. Altri quattro pure per pozzo attendono in turno, due a girare nella gran ruota a tamburo, e gli altri due a vuotare i tinozzi, a ripulire i massi, ed a sussidiar nel carico i carrettieri. Aggiungasi un falegname per predisporre le puntellazioni e mantenere le macchine, un magazziniere per l’impilamento e la custodia dei magazzeni del combustibile stagionato, un pesatore pei carri, ed un agente che attende alla direzione complessiva dei lavori, ai registri ed alla corrispondenza, e si avrà un complesso di sessantacinque persone, tutta gente adatta e robusta, due soli ragazzi essendo impiegati a leggieri lavori. Talvolta i tagliatori si aumentano a ventotto e si trattengono fino a mezzanotte, oppur si mutano a coppie dì e notte, quando nei mesi d’inverno maggior è il concorso; talvolta si limitano anche a soli otto nell’estate quando l’aria mefitica impedisce che si pratichino le gallerie sotterranee.

Assai semplice è il congegno che serve ad alzare i tinozzi dai pozzi (fig. 12), ed ho creduto di disegnarne una figura per l’applicazione che se ne può fare ad una infinità di casi, sia in riguardo alle varie proporzioni delle sue parti che in riguardo al sistema di unione de’ suoi pezzi, a cui si giunse a poco poco a forza di pratica. Esso consta di una gran ruota a tamburo del diametro interno di metri 5,00 e della larghezza pure interna di metri 1,10, entro cui camminano due uomini adatti ora in una direzione ora in un’altra procurando col loro peso la potenza motrice. A questa ruota è unito un asse con testa quadra di metri 0,40 di lato, lungo metri 3,00, sorretto alle estremità da due perni di acciajo che basano sopra cuscinetti di ottone, in mezzo a cui per la tratta di metri 1,90 che corrisponde al foro del pozzo è assicurato un cilindro di legno del diametro di metri 0,75, sul quale passata dapprima per quattro o cinque giri la corda la si svolge da un capo mentre la si avvolge dall’altro abbassando un tinozzo e rialzandone un altro, e percorrendo così parte del cilindro stesso a norma della profondità del pozzo e della grossezza della corda stessa. La corda poi è di canape delle fabbriche mantovane, del diametro di poco più di quattro centimetri, e consta di tre corde minori, ognuna delle quali è formata di circa novanta fili. La si immerge prima d’adoperarla nella sugna bollente, e la si ugne di tratto in tratto con del sego o del sapone.

La macchina a vapore che si sta surrogando a detti congegni ai due pozzi (fig. 14, 15) aperti nel 1851 è ad alta pressione con cilindro orizzontale del diametro di metri 0,23, e del corso di un mezzo metro senza espansione variabile, e rappresenta la forza di sei cavalli. Essa riceve il vapore di una caldaja semplice con un solo bollitore che si alimenta coi frantumi semi-stagionati della cava. In capo allo stantuffo che va e viene è direttamente applicata una manivella che serve a tramutare il moto da rettilineo in circolare, e la quale insiste in un albero robusto di ferro munito di un poderoso volante e portante una piccola ruota dentata. Questa trasmette il moto dimezzandone la velocità ad altra ruota dentata a doppio diametro, sul prolungamento del cui asse sono disposti due tamburi di legno di forma leggermente conica del diametro di metri 2,00 che servono per avvolgervi le corde scendenti alternativamente nei due pozzi. Da questi tamburi poi le corde stesse passano sopra grandi girelle di legno del diametro di metri 1,00, portate da cavallettoni di legno, donde cadono a perpendicolo nei pozzi; in modo che mentre un recipiente scende vuoto in un pozzo, un altro sale carico [p. 16 modifica]dall’altro pozzo, e mentre nel fondo di un pozzo si carica, alla superficie dell’altro si discarica. La velocità precalcolata della corda si ritenne sufficiente di mezzo metro al secondo, e le pulsazioni dello stantuffo furono regolate in ragione di sessanta al minuto primo. Una piccola tromba pesca dalla vicina Romna l’aqua occorrente per alimentare la gran caldaja, e ve la spinge all’uopo. La semplice mossa d’una manetta poi basta a far cambiare direzione di moto alla macchina ed anche arrestarla; ai qual uopo concorre eziandio un potente freno applicato al volante che si fa agire colla pressione del piede mediante un giuoco di leve, il tutto ad un segnale del sorvegliante che sta in fondo alla cava.

I nuovi recipienti per alzare il fossile consistono (figura 15) in cassoni di legno robustamente ferrati di forma quadra, della lunghezza massima di metri 1,80, della larghezza di metri 1,20, e dell’altezza di metri 0,60, portati da quattro ruote di legno del diametro di metri 0,35, e grosse metri 0,10, con orlo da poter scorrere sopra piccole ruotaje di ferro. Essi sono spinti sopra una piattaforma formata da quattro travi intelajate, due delle quali portano le accennate ruotaje, e regolando la lunghezza delle funi si abbassano nei pozzi a tale profondità da riescire col loro labbro superiore a livello della soglia delle gallerie. Ivi una specie di ponticello a ribalta si abbassa sopra dei medesimi, sicchè i carriuolanti possano versarvi entro direttamente il fossile a pezzi, e la manovra del carico succeda speditissima. Ad un segnale di campanella la piattaforma si alza, e giunta all’altezza della superficie si tira fuori il recipiente carico sopra altre tratte di ruotaje fisse al suolo, spingendovi contemporaneamente sopra altro recipiente vuoto che sta pronto dalla banda opposta. E così il servizio procede con una semplicità, una speditezza ed un ordine soddisfacentissimo.

Il servizio dell’esaurimento dell’aqua venne sistemato coll’uso dei secchioni, giacchè lo sviluppo dell’aria mefitica che alza nella calda stagione i suoi micidiali miasmi fin quasi al labbro superiore dei pozzi, ne presentava un ostacolo insormontabile all’applicazione delle trombe. Dovendo esse infatti pescare alla profondità dei 35 ai 60 metri, ed occorrendo perciò di applicare il corpo del meccanismo, ossia gli stantuffi ed i cilindri, giù nel basso dei pozzi, ne veniva la conseguenza di non poterlo ispezionare, nè ugnere, e tanto meno riparare nei casi frequenti di guasti nell’estate, epoca nella quale continua pure la necessità di tenerle di tratto in tratto in azione continuando le filtrazioni. I nostri secchioni, di cui vedesi il disegno (fig. 16), contengono poco meno di mezzo metro cubico d’aqua. Hanno il manico a guisa di staffa, applicata appena in su del centro di gravità dell’assieme con un anello al piede, tirando il quale col mezzo di un uncino si procura con tutta facilità il rovesciamento, e quindi il vuotamento quando sono alzati fuori della bocca del pozzo. Una valvula al fondo che si apre da sè, quando il secchione tocca l’aqua, e si chiude naturalmente pel peso dell’aqua stessa, quando viene alzato serve a facilitarne il riempimento. La manovra dei secchioni succede precisamente come quella dei cassoni del lignite, sicchè si possono a volontà alternare le operazioni secondo il bisogno all’uno e all’altro pozzo, o ad ambi i pozzi contemporaneamente del cavar fossile od aqua dalla miniera.

Col sussidio di questa nuova potenza poi non ci sarà impossibile di ritornare nelle vecchie cave quando avremo esaurite le presenti, vuotarle d’aqua, e tenerle asciutte per riprendervi i lavori, ed esaurire quei tesori che dovemmo abbandonarvi in causa delle intemperie di filtrazioni innanzi accennate. Ho calcolato che la lunghezza delle gallerie escavato nei cinque anni in cui si praticarono, ammonta a tremila metri. Supposte piene d’aqua nella larghezza di metri 2 e nell’altezza di metri 6, avremmo un cubo d’aqua di metri trentaseimila. Ma siccome veramente le gallerie non sono vuote che per metà, essendo pel resto ripiene degli scarti, delle terre, ecc., detto cubo d’aqua ridurrassi a soli diciottomila metri; per cui calcolata l’estrazione giornaliera di cubi centocinquanta che può ottenersi facilmente in dieci ore di lavoro, basteranno i quattro mesi estivi, epoca [p. 17 modifica]dell’aria mefitica a vuotare le vecchie escavazioni. Le filtrazioni poi che potessero avvenire per intemperie durante l’asciugamento si potranno vincere facilmente facendo in tali circostanze operar le macchine anche di notte.

Come ebbi già ad esprimere, la saldezza delle nostre gallerie è assai precaria. Le pareti sotto l’influenza del giro dell’aria esterna che si promuove sotterraneamente nella fredda stagione si sfaldano a strati e cadono. La sezione quindi va continuamente allargandosi, sicchè si rende sempre meno solido anche il tetto. Si provvide finora alla sicurezza del passo, ed alla conservazione delle vie principali sotterranee mediante puntellazioni della forma espressa nella fig. 17, le quali si andavano moltiplicando, rafforzando e cambiando man mano che se ne manifestava il bisogno. Ma bene spesso non bastavano all’uopo. La pressione laterale di mano in mano che le sfaldature andavano penetrando nel masso si faceva così poderosa da non potervi supplire coi puntelli, e bisognava abbandonare nel terzo anno al più le vecchie vie per procurarsene delle nuove, al quale uopo si predispone il piano dei lavori in modo da lasciarne la possibilità d’esecuzione col loro progresso. Il caso, o meglio il bisogno di ammucchiare sotterraneamente del combustibile per iscorta, ne suggerì un sistema che credo prezzo dell’opera di far conoscere, sia per la sua efficacia, sia pel poco suo costo. Desso è il seguente. Si puntellano nel primo anno le nuove gallerie nel consueto modo, e si disarmano sui finir della campagna in modo da lasciare che durante l’interruzione estiva le pareti si sfoglino e cadano allargandosi il vano delle gallerie. Al ricominciar della nuova campagna dopo la prima metà di settembre, si raccolgono e si utilizzano le spoglie formando contro le pareti una specie di muratura a secco (fig. 18) con pezzi di lignite grossamente squadrati, la quale viene per di dietro riempita di terra e frantumi, come indica la figura. Tolto a questo modo il masso naturale dal contatto immediato dell’aria, si conserva mirabilmente per molti anni senza sfaldature, e così nel mentre stesso che si provvede alla solidità ed alla sicurezza delle gallerie, si formano magazzini di deposito di lignite già tagliato che si riprende di mano in mano che nel lavorare in ritirata vengono le gallerie stesse abbandonate. Or volge il quarto anno che si adottò questo sistema, e la prova ne riescì finora felicissima, e con grande risparmio di spesa per la molto minore quantità di legname di puntellazione necessaria.

Assai incerta è la spesa pel consumo dell’olio, pel quale si preferisce quello di ravizzone d’Ungheria purificato, e ciò dipende massimamente dalla distanza dei siti di lavoro dallo sbocco e dalla qualità dell’aria nelle cave; poichè quanto essa è più pura si abbrucia minor quantità d’olio con maggiore effetto, tenendosi il lucignolo più sottile e viceversa. Ad ogni modo si può tener per medio il consumo dai trenta ai quaranta quintali per anno, o meglio per campagna. Ogni tagliatore ha una lucerna propria. Altre minori si appendono fisse nelle gallerie maestre ai risvolti per far lume ai carrettini. Esse, come indica la fig. 19, sono costrutte in ferro con bocchello di rame, come meno facile a consumarsi, e sono chiuse con una molla che costringe il lucignolo in modo da non disperdere facilmente il liquido benchè si volessero capovolgere. Non occorre munirle del congegno di Davy perchè nelle nostre cave non si sviluppa alcun’aria infiammabile; se non tal fiata ed in pochissima quantità. Sono come bollicelle che sprigionansi fischiando dalle pareti dove trovansi racchiuse in qualche piccola cavernosità del masso. I iavoranti se ne accorgono e le veggono ondeggiar nell’aria come piccoli globi di nebbia, e si piaciono ad accenderle seguitandole colla fiamma per avere il divertimento della lieve detonazione che ne nasce con un leggero lampo.

La temperatura nelle gallerie mantiensi pressochè costante in tutte le stagioni dell’anno fra i 10 ed i 16 gradi di Réaumur; cosicchè d’inverno alcuni lavoranti vi riposerebbero volentieri la notte se per titoli di salute e di sicurezza loro non se lo impedisse. Dessa però varia assai dall’una all’altra parte dei lavori. Quando due pozzi sono posti fra loro in comunicazione per via sotterranea, si stabilisce una corrente d’aria dall’uno all’altro tanto [p. 18 modifica]più forte e violenta quanto maggiore è la diversità di temperatura fra l’aria esterna e le cave. Il più alto assorbe l’aria fredda dell’atmosfera congelando talvolta l’aqua che scola lungo le pareti, ed il più basso emette l’aria calda ed umida delle gallerie con una specie di denso fumo, cosicchè nel cuor dell’inverno si chiude possibilmente la comunicazione dei due pozzi con delle porte onde impedire che si spengano i lucignoli, si degradino troppo prestamente le gallerie, e soffrano troppo freddo gli operaj che stanno vicini allo sbocco delle gallerie nel pozzo assorbente.

Il principale nemico però di queste escavazioni è l’aria mefitica che si sviluppa da quel processo di fermentazione che ancora continua lentamente nelle materie combustibili, e che emettendo una quantità d’acido carbonico e di azoto, ed assorbendo quel poco di ossigeno che si trova nell’ambiente riesce per sua natura irrespirabile. Finchè la temperatura esterna è assai più fredda dell’interna, la differenza di densità dell’aria richiamando nelle sotteranee gallerie, come vedemmo, dell’aria esteriore, promuove una corrente che basta ad alimentare la respirazione degli uomini e l’accensione dei lucignoli, almeno fino ad una certa distanza della bocca dei pozzi, maggiore se il buco discende, e minore se si trova in ascesa. Ma quando coll’avvicinarsi della stagione estiva, massime nelle giornate nuvolose, la differenza fra le due temperature non è molto sensibile, cessa affatto quella corrente d’aria, ed è duopo abbandonare i lavori, dapprima nelle sole ore meridiane, e coll’aumentare del caldo dell’atmosfera anche nelle più fresche dopo mezzanotte. Sicchè per quattro buoni mesi dell’anno bisogna sospendere i lavori sotterranei, non essendo pervenuti ancora a vincere l’aria asfissiante con mezzi artificiali. Ho accennato alla canna di cammino o d’appello lasciata di fianco ad uno dei pozzi. Questa terminava superiormente sotto la griglia di un focolare che alimentavasi con legna minuta, che dava molta fiamma, e che terminava in un alto fumajuolo, e da basso venne protratto un tubo di legno impeciato per entro la galleria maestra fin contro il sito dei lavori. Il suo effetto fu di qualche vantaggio nel primo anno quando poche e poco profonde erano le gallerie, e quindi minore lo spazio da espurgare, ma riescì pressochè nullo, nel secondo anno, e fu abbandonato. Cosicchè nell’estate si procede coi pochi lavoratori che non si distaccano dalla miniera per attendere ai lavori campestri, a coltivare qualche cavo a giorno che si va discoprendo a grande spesa prossimo alla superficie del suolo presso l’estremità del bacino.

Ai filandieri, ai fabbricatori e tintori di panno, ed agli altri stabilimenti industriali della provincia Bergamasca che consumano sei buoni settimi del nostro combustibile, lo si suole spedire verde, vale a dire appena estratto dalle cave. Il vantaggio che ad essi ne deriva dall’avere pezzi grossi che essi riducono poi alle dimensioni convenienti ed adattate ai loro fornelli, e dalle minori perdite nel carico e scarico e lungo il viaggio, compensa loro abbondantemente ed il magazzinaggio e la maggiore spesa di trasporto dipendente dal materiale in causa della molta umidità che ancora contiene. I consumatori lontani però, quelli della città e provincia Milanese, quei del Cremonese e del Bresciano che ne fanno un discreto consumo, il quale va annualmente aumentandosi, lo rilevano più volontieri stagionato, poichè per essi la spesa del trasporto diventa un elemento riflessibile che giunge ad equiparar talvolta quello del valore del fossile alla cava. Molti consumatori d’altronde, benchè vicini, sia perchè mancanti di comodità di portici dove raccoglierla al coperto, sia perchè ne hanno mal calcolata la quantità a loro occorrente all’atto della commissione, sia per cresciuti impegni di filatura, lo ricercano stagionato per poterlo adoperare subito. Si calcola ad un ottavo circa del totale il combustibile che si vende stagionato, richiedendosi per una buona stagionatura un anno intero di tempo. A tale uopo si costruiscono dei grandi porticati della larghezza di circa nove metri, chiusi da ogni lato di robuste griglie onde il sole ed i venti non operino l’essiccamento con troppa rapidità, il che nuocerebbe assai al fossile, sfogliandolo e rendendolo quindi friabile con grave perdita in frantumi e polvere. Sotto queste grandi tettoje si formano tante cataste di quattro metri per circa due di base [p. 19 modifica]nell’altezza di circa quattro metri, che riescono del peso all’atto dell’accatastamento di mille cinquecento pesi bergamaschi cadauna (circa quintali 120). Queste si tengono distanti fra di loro circa cent. 50 in modo che l’aria vi circoli possibilmente libera. Dapprima se ne consuma la cima che stagiona più facilmente, operazione che dicesi schiumatura, indi si ributtano i fondi che dopo uno o due mesi trovansi all’ordine.

La cava Botta prima del 1843 vendeva il suo combustibile verde in sito a cento dieci lire bergamasche per ogni mille pesi (circa una lira austriaca al quintale) e ne consumava per termine medio 400 mila pesi all’anno (32 mila quintali). Dacchè la società Biraghi aprì la sua cava, il prezzo venne portato a settantacinque lire bergamasche ogni mille pesi (circa cent. 70 al quintale), e nel primo anno il consumo si raddoppiò. Ridotto dappoi a sole lire 55 al % (cent. 50 al quintale), il consumo complessivo ammontò d’un tratto a quasi un milione e mezzo di pesi (120 mila quintali) fra ambedue le cave. Ma l’esperienza mostrò che si lavorava in perdita, per cui venne alzato il prezzo a lire 56 aust. al mille pesi (ªL. 0,70 al quint.), e la consumazione oscillando in diminuzione negli anni 1848-49, ora venne portata a quasi due milioni e mezzo di pesi (200 mila quintali). Stagionato, per aver riguardo alla perdita in peso di quasi il 38 per cento, alla spesa di condotta in magazzino, di accatastamento ec., ed alla perdita in frantumi, si vende a plateali lire 120 al mille (aust. L. 1,09 al quintale.)

Per aumentare lo smercio del combustibile tentammo nei primi tempi la cottura dei mattoni, e quei fornaciaj si valgono tuttavia volentieri dei frantumi non commerciabili per una preventiva essiccazione delle formelle; ma per la cottura antepongono ancora la fiamma viva della legna minuta. Tentammo pure la carbonizzazione col consueto mezzo della soffocazione a mucchi oblunghi e conici. Quantunque l’operazione siasi eseguita colla massima cura e colla sperabile riescita, e quantunque le esperienze siensi più volte ripetute con lignite a diversa stagionatura, e più o meno formata o matura, il prodotto risultò sempre a scheggie in piccoli pezzi, con molta polvere e quindi difficilmente applicabile ed agli usi domestici perchè richiede griglie troppo fitte, ed alle fucine perchè viene disperso facilmente dal soffio del mantice. La sua potenza calorifera però supera quella del carbone di legna, e facilmente ammollisce il ferro e lo brucia se il fabbro non è abbastanza oculato di ritirarlo in tempo. Però col metodo della distillazione si ottiene un carbone abbastanza intero, ed io ne ho veduti dei saggi preparati colle storte del coke riesciti perfettamente. E certamente che ove una compagnia volesse approfittare dell’opportunità di queste cave per illuminare a gas la vicina città di Bergamo, potrebbe contare un bel reddito sulla conversione del lignite in buon carbone.

Completerò questi cenni con una succinta descrizione dei metodi geodetici adottati per tenere in evidenza i lavori ed il loro continuo progredimento in relazione alla superficie superiore delle campagne, tanto in riguardo al piano orizzontale che al piano verticale, importantissima ed essenziale precauzione onde utilizzare possibilmente dell’area utile ed evitare i pericoli d’incontrare le gallerie abbandonate, le quali riempionsi ordinariamente d’aqua che irruendo nelle nuove potrebbero portarvi dei gravissimi danni. Prima mia cura innanzi intraprendere i lavori sotterranei fu la esecuzione di un rilievo planimetrico possibilmente esatto nella scala di 1/1000 delle campagne superiori sotto delle quali si intendeva di lavorare, colla indicazione di tutte le divisioni di proprietà in quei luoghi straordinariamente sminuzzate. Tale rilievo suddiviso indi in riparti a norma degli scavi che si andavano ad intraprendere venne ridisegnato in doppia scala per riportarvi tutti gli andamenti sotterranei appoggiati all’ago magnetico, e corretti dacchè si posero in comunicazione due bocche, posciache allora non un punto solo ed una linea, che negli ordinarj istrumenti per la piccolezza del disco della bussola può essere alquanto incerta, ma due punti si avevano bene determinati ai quali basare la rete dei rilievi sotterranei.

L’istrumento adottato come il più spedito e di più facile uso è il grafometro con piatto suddiviso a mezzi gradi, munito di [p. 20 modifica]nonnio, e con bussola a cannocchiale, ed il traguardo appuntasi ad una lucerna che si ha cura di collocare nei punti di incrociamento di due gallerie, in quelli di deviazione, e negli altri tutti che si trova interessante di riportare nella planimetria. Questo istrumento munito anche di una bolla d’aria assicurata al cannocchiale serve eziandio per le livellazioni. Così possiamo conoscere con molta facilità non solo a qual punto si trovano i diversi lavori sotterranei per rispetto alle campagne sovraincumbenti, ma eziandio a quali profondità giacciano sotto il suolo superiore. Ogni mese si rilevano i progressi dei lavori che sul tipo generale vengono distinti a tinte diverse anno per anno; sicchè a colpo d’occhio si può concepire il principio, il procedimento e lo sviluppo dei lavori, e ragionando su quelle si può d’anno in anno e di mese in mese discorrere e determinare i lavori da imprendersi l’una campagna per l’altra, e quelli da effettuarsi pel loro migliore e più proficuo andamento.

[p. Tav.1 modifica]
Tav. I
Tav. I
[p. Tav.2 modifica]
Tav. II
Tav. II
[p. Tav.3 modifica]
Tav. III
Tav. III

Note

  1. Majroni da Ponte. Gio. Dizionario ortopedico della provincia Bergamasca, e Geologia della provincia Bergamasca.
    Amoretti Carlo. Della torba e del lignite.
    Brocchi. Memoria sul Lignite di Leffe, negli atti della Società Patriotica di Milano.
  2. Il professore Balsamo Crivelli vi distinse una qualità propria di noci, che chiamò col nome di iuglandites bergomensis Notizie naturali e civili della Lombardia, p 77. Il professore Massalungo vi distinse pure una pannocchia da pino consimile a quelle che trovansi nei terreni terziarj viennesi, e che classificò col nome di pinites Partschii, oltre due specie di noci chiamate da lui juglans Pilleana e juglans Milesiana Annali delle Scienze naturali di Bologna, 1852.