Novelle (Sercambi)/NOTE/Nota biobibliografica La vita e le opere di Giovanni Sercambi/IV. Le Novelle

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Nota biobibliografica La vita e le opere di Giovanni Sercambi - IV. Le Novelle

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IV. LE NOVELLE


Il Sercambi diede inizio alla raccolta delle sue novelle verso i primi anni del xv secolo. Nell’Introduzione egli immagina che una brigata lucchese si fosse riunita nella chiesa di Santa Maria del Corso, nel febbraio del 1374, per decidere di iniziare un viaggio attraverso l’Italia allontanandosi da Lucca per sfuggire alla peste che vi infuriava. Ma questa data, come abbiamo cercato di dimostrare altrove1, non può esser presa come terminus a quo per la datazione delle Novelle, essendo parte della struttura, e come tale fittizia e romanzesca. [p. 780 modifica]

Nel 1374, infatti, la peste era cessata a Lucca giá da un anno, e si era sparsa nelle vicine città toscane. In quell’anno, anzi, Lucca era considerata come luogo immunizzato, tanto che, come assicura il Tommasi2, molti abitanti delle vicine città si indussero a cercare scampo proprio dentro le sue mura. Il Sercambi registra puntualmente nelle Croniche la data del flagello, durato dal settembre del 1371 all’ottobre del 13733. Anche, perciò, a voler credere che la brigata delle Novelle fosse partita da Lucca quando la peste stava per cessare, non si potrebbe invero spiegare come mai essa visiti per prime ben diciassette città toscane in cui sappiamo che il morbo infuriava proprio in quell’anno.

Fittizio non è solamente il riferimento alla peste, ma anche quello relativo al luogo di riunione della brigata. La chiesa di Santa Maria del Corso, infatti, nella quale il Sercambi immagina che la brigata si fosse riunita decidendo di intraprendere il viaggio per la penisola, nell’anno 1374 non esisteva più, in quanto, trovandosi fuori del secondo perimetro delle mura lucchesi, era stata distrutta nel 1341, durante il lungo assedio pisano4.

Si trovano tuttavia nel testo delle Novelle elementi sufficienti ad accertare la data di composizione della raccolta. E vorremmo qui cominciare prima di tutto coll’indicare alcuni riferimenti storici contenuti nelle novelle o nei prologhi. La novella n. lxxxx ha inizio con la frase: «Al tempo del marchese Alberto d’Este marchese di Ferrara»; non vi possono esser dubbi che si tratti qui di Alberto v d’Este, morto nel 1393; e poiché la frase lascia supporre che un certo numero di anni fosse già trascorso al momento della narrazione, la data di composizione della novella potrebbe essere spinta almeno verso la fine del secolo. Un dato ancora più importante ci viene offerto dalla novella lxxxiiii, nella quale è menzionato il grave delitto di cui si macchiò il capitano dei [p. 781 modifica]Visconti messer Stanghelino da Palù, che, per averla trovata in flagrante adulterio, uccise la moglie con i quattro figliuoli.

Messer Stanghelino, o Stangalino, da Palù viene menzionato nelle Croniche come uno dei capitani della compagnia del conte Giovanni da Barbiano, assoldata dai fuorusciti lucchesi per marciare contro Lucca nel giugno del 13965. La storia di messer Stanghelino viene posta dal Sercambi «innel tempo che messer Bernabò signoregiava gran parte della Lumbardia», ed il capitano scopre la moglie in adulterio tornando a casa improvvisamente, «essendo alquanti mesi che [...] non era innelle suoi parti stato». Quest’ultimo particolare, anche se anticipato al tempo di messer Bernabò, morto nel 1385, ci pare contenere un’allusione alle assenze di messer Stanghelino impegnato a servire ora una parte ora l’altra, e insieme una velenosa insinuazione contro i fuorusciti lucchesi che assoldavano simili capitani. Per cui la novella ci sembra dovette esser scritta qualche anno dopo il 1396; anzi molti anni dopo, se il Sercambi sente il bisogno di insistere sulle apposizioni: «Innel tempo che messer Bernabò signoregiava gran parte della Lumbardia, era uno cavalieri suo cortigiano nomato messer Stanghelino da Palù», le quali lasciano supporre che il nome del capitano cominciava a svanire dalla memoria dei lucchesi a cui erano indirizzate le novelle.

Nella cornice della raccolta troviamo poi alcuni elementi che valgono a suffragare queste induzioni: come già rilevato dal Renier6, l’itinerario seguito dalla brigata è modellato su quello di Solino nel libro iii del Dittamondo di Fazio degli Uberti7. Questa parte del poema si [p. 782 modifica]trova trascritta anche nelle Croniche, inserita fra gli avvenimenti dell’anno 1398. Il Sercambi, come gli stesso dichiara, in attesa di ulteriori sviluppi degli avvenimenti, si dà a copiare quella parte del poema, cosa che fa sospettare che egli ne fosse venuto a conoscenza solo intorno a quel periodo; nessun’altra citazione dal Dittamondo si trova prima di quella data nelle Croniche, ma tutte le altre si incontrano solo in anni successivi al 1398. Lo stesso dicasi per i prestiti dal Soldanieri: nelle Croniche troviamo ben venti fra canzoni, componimenti vari o brani di componimenti appartenenti al Soldanieri: nessuno di essi si legge prima dell’anno 1398.

Esaminando poi il viaggio della brigata delle Novelle, si noterà come esso assomigli molto da vicino ad un pellegrinaggio: nelle apostrofi introduttive, l’autore si rivolge, tra gli altri, a banchieri, mercanti, pubblici magistrati, servi, giudici, monaci e monache, preti e financo re e signori di città. A meno che quelle apostrofi non si ritengano rivolte ad un uditorio immaginario e generico, bisogna pensare che tali professioni e mestieri fossero veramente rappresentati nella brigata8. È evidente inoltre il carattere moralmente esemplare delle attività della brigata: ogni sera, prima o dopo la cena, l’autore o i religiosi sono pregati di dire una moralità; secondo quanto vien detto nell’Introduzione, i sacerdoti che fanno parte della brigata sono tenuti a dir la messa quotidiana a cui deve partecipare tutta la brigata; la sera poi i religiosi devono recitare «tutte l’ore e compieta»; sembra che di sabato sia prescritta l’astinenza, anche dalle danze e canzoni; molte sono le chiese visitate lungo il viaggio (solo a Roma sono sette); prima della partenza da Lucca il preposto chiede a tutti i partecipanti una solenne promessa di castità, che viene subito fatta; il fine stesso del viaggio, poi, è, come afferma Aluisi prima di venire eletto preposto, quello «di fuggire la morte dell’anima, la quale è piú d’averne cura che lo corpo», e di «pigliare la via di Dio e’ suoi comandamenti».

Ci sembra che tutti questi caratteri e precetti siano riconducibili ad un fatto di cronaca che ebbe grande risonanza sul finire del secolo xiv e che colpì l’attenzione e l’immaginazione del Sercambi al punto da dedicare ad esso ben settanta pagine della prima parte delle Croniche: i pel[p. 783 modifica]legrinaggi della congregazione dei «Bianchi»9. Pare che nei primi mesi del 1399, ad un contadino della Provenza fosse apparso un angelo, che gli consegnò un libro da portarsi al papa a Roma, ordinandogli inoltre di esortare gli uomini a vestirsi di bianco ed andare per il mondo a predicare pace e penitenza. Il contadino narrò la sua visione al vescovo di Marsiglia, il quale, assieme agli altri prelati della città, prese l’abito bianco dando inizio ai pellegrinaggi. Ai primi di maggio dello stesso anno un gruppetto di questi «Bianchi» era a Genova; di là il movimento si propagò rapidamente in quasi tutte le cittá dell’Italia settentrionale.

Sercambi ci offre dettagliate testimonianze di molte fra le innumerevoli processioni che in quell’anno ebbero luogo in Toscana. Fra l’agosto ed il settembre, tre di queste processioni mossero da Lucca visitando «ciptà, chastella, ville et luoghi devoti» della regione, fra cui Firenze, Pistoia, Pisa, suscitando ovunque entusiasmo religioso e causando impressionanti miracoli. La principale di queste processioni lucchesi ebbe inizio la domenica del io agosto nella chiesa di San Romano, dove si erano radunati i pellegrini, ed ebbe termine il 21 dello stesso mese, nella chiesa di San Martino. Ad essa presero parte, dice il cronista, «più di 1500 tra homini et donne delle maggiori, belle et ricche, e simile delli homini», che formavano «la terza parte dell’onore et bene di Lucca». E continua: «Et parve divino miracolo che donne d’onesta e buona vita e donne di persone da bene, come macte uscivano di fuori non curando di lassare padre, mariti o vero figliuoli, caldo né faticha, a seguire lo crocifizo».

Tutti erano infatti liberi di seguire la processione che durava nove giorni, durante i quali erano tenuti ad osservare strettamente alcuni precetti. Era prescritto che i penitenti vestissero l’abito bianco col cappuccio, che essi «non dormino di nocte in alcuna terra murata potendo star seguri di fuori», che «le donne stiano di per sé dalli homini», che «non si debbia mangiare charne, e vivere chasto tanto quanto dura la loro processione»; era inoltre prescritto il digiuno il sabato, e l’astinenza dalla mercanzia e dal lavoro in generale.

Fra i penitenti vi furono signori e castellani: il Sercambi segnala esplicitamente Guccio di Cortona, che aveva preso l’abito bianco in seguito ad un miracolo. Si sa tuttavia che della processione più importante, cui abbiamo sopra accennato, fecero parte anche Bartolomeo [p. 784 modifica]Sercambi, fratello dello scrittore, e Paolo Guinigi, che l’anno dopo sarebbe divenuto signore di Lucca10.

Le processioni dei «Bianchi» ebbero termine nella prima metà di settembre dell’anno 1399; verso la fine dello stesso mese, a Lucca scoppiava la peste11.

È difficile credere che si tratti qui di coincidenze casuali: il Sercambi modellò il viaggio della sua brigata sulle processioni dei penitenti «Bianchi» attraverso la Toscana, ampliando l’itinerario sulla scorta di Solino e prendendo spunto dal fatto di cronaca immediatamente successivo ai pellegrinaggi, cioè la peste, per la forte attrazione esercitata dal Decameron. Lo scrittore collocò l’inizio del viaggio nell’anno 1374 perché questa data era ormai abbastanza remota dalla memoria dei contemporanei da permettergli di rendere più verisimile lo strano viaggio della brigata. Che dieci giovani si ritirino coi servi in una villa appartata per sfuggire la tragica visione della peste, poteva passare facilmente inosservato; il viaggio invece di una brigata così numerosa come quella immaginata dal Sercambi, che va in giro per quant’è lunga la penisola a raccontar novelle, non poteva passare inosservato, anche se la verisimiglianza di esso si appoggiava, oltre al resto, all’esodo di molta gente da una città colpita dalla peste.

Bisogna infine ricordare che nell’Introduzione il preposto affida all’autore (e cioè al narratore, che è poi, come si rileva dall’acrostico dell’Introduzione, lo stesso Sercambi) un preciso mandato:

A colui il quale sen’cagione ha di molte ingiurie sostenute, et a lui senza colpa sono state fatte, comando che in questo nostro viaggio debbia esser autore e fattore di questo libro e di quello che ogni dì li comanderò.

L’autore, dunque, non veniva solo affidato l’incarico di narrare le novelle, ma anche quello di «fare il libro», di raccogliere cioè in volume le varie esperienze ed il vario materiale offerto dal viaggio; di tenere insomma una specie di giornale. Mandato che giustifica l’inclusione di poesie, della descrizione del viaggio, ecc. Esso dimostra inoltre che il Sercambi, nell’accingersi a raccogliere le sue novelle, si riconosceva già scrittore di cronache, cosa che non avrebbe potuto fare se avesse iniziato la raccolta nel 1374, quando cioè gli eventi che aveva registrato a cominciare dal 1368 [p. 785 modifica]riempivano solo poche carte. L’allusione poi alle ingiurie sostenute innocentemente non si adatta ad un giovane di ventisei anni, ma piuttosto ad un uomo già maturo e navigato.

Ci sembra perciò evidente che la raccolta delle Novelle non potè essere inziata prima dell’anno 1399 o 140012. È appunto di quest’anno la decisione del Sercambi di voler porre termine alle Croniche e non procedere più oltre13. Decisione che potrebbe esser stata causata dal desiderio di dedicarsi a raccogliere le sue novelle.

Nella prima parte delle Croniche, che, come abbiamo già detto, giunge fino all’anno 1400, non si trova inclusa nessuna novella. Nella seconda parte invece egli ne include, come esempi morali indirizzati a signori e governanti, ben quattordici, dodici delle quali corrispondono ad altrettante della nostra raccolta14. Crediamo che l’esame delle varianti (incluse qui nell ’Apparato) mostri in modo inequivocabile la dipendenza della redazione delle Croniche dall’archetipo del codice Trivulziano 193. Ma quel che preme rilevare qui è che le prime quattro novelle incluse nelle Croniche (e cioè i nn. lxxiiii, cxxxim, cxxxvii e cxxxviii della nostra raccolta) sono inserite fra gli avvenimenti del biennio 1400-1401, compresi nelle prime diciotto carte del codice. Anche supponendo che le novelle fossero state aggiunte al momento della trascrizione degli appunti nel codice, non si andrebbe molto al di là del 1402-1403, dato il costume del Sercambi di mettere in bella copia il materiale raccolto nei quaderni un anno circa dopo la registrazione dei fatti narrati.

Ma è dunque possibile che il Sercambi, avendo iniziato la raccolta nel 1400, fosse giunto in due soli anni al n. cxxxvim? Possibilissimo. [p. 786 modifica]Preferiamo però credere che egli avesse già scritte molte delle novelle in forma sciolta e che in seguito, prendendo spunto ed ispirazione dalle processioni dei «Bianchi», dalla peste, dalle sue letture e dalle nuove circostanze politiche che si erano intanto verificate in Lucca, avesse deciso di raccoglierle insieme in una cornice simile a quella del Decameron. Questa supposizione troverebbe fermo appoggio nel fatto che in più di un caso egli dispone le novelle in gruppetti a seconda del loro argomento: quelle, ad esempio, attinenti alla storia romana (dal n. xli al n. l), quelle riguardanti Venezia e i suoi costumi (n. cxxv-cxxx), quelle che avevano per argomento imprese di ladri e briganti (dal n. xviii al xxiii, mentre la brigata passa per la Maremma, e dal n. lxxxiiii al n. lxxxxii mentre si attraversa l’Italia meridionale).

Vi sono però alcuni altri elementi nella struttura delle Novelle di cui va reso conto. Dei partecipanti a questo viaggio lungo la penisola conosciamo, per sua esplicita dichiarazione, solo il nome dell’autore, il Sercambi stesso. Ma chi si nasconde fra i membri della brigata?

Bisogna riconoscere intanto che questo viaggio attraverso l’Italia di una brigata che fugge la peste è certo alquanto suggestivo, e persino nel facile quanto inevitabile accostamento ad altri schemi novellistici medievali o prerinascimentali riesce a mantenere un tono di novità e di originalità. D’altro canto non si può fare a meno di consentire con quelli che, come il Di Francia15, rilevano che l’espediente di far narrare le novelle sempre dalla stessa persona risulta in una certa monotonia di ritmo, specialmente quando si ricordi la mobilità suggerita dall’alternarsi dei dieci narratori del Decameron o quella degli strani e vivaci pellegrini dei Canterbury Tales del Chaucer.

Ed infatti, i due soli personaggi delle Novelle sono l’autore ed il preposto: tutti gli altri partecipanti al viaggio rimangono assolutamente in ombra e appaiono solo attraverso la funzione che viene loro assegnata nei servizi «logistici», e mai comunque individualmente: vediamo cioè dei cantarelli o delle cantarelle che suonano o cantano o danzano allietando la brigata, dei religiosi che recitano le moralità per ammaestrare la compagnia, o i servitori che hanno l’incombenza di servire i pasti, o dei barcaioli che appaiono qualche rara volta. Per il resto l’azione è ristretta ai rapporti fra il preposto e l’autore.

All’autore incombe il ruolo di narrare le novelle, di recitare qualche volta una moralità e quello di enunciare il senso esemplare del racconto. Quest’ultimo ruolo è forse quello dove egli mostra più libertà di inizia[p. 787 modifica]tiva, giacché tale espediente gli offre l’opportunità di sottolineare il valore dell’amicizia o i pericoli che covano le vecchie inimicizie, di esercitare una certa critica dei costumi insistendo su certi vizi o su certe debolezze. Per il resto, l’autore si mostra completamente sottomesso al preposto in un’acquiescenza assoluta condivisa da tutti gli altri membri della brigata.

Il preposto è il vero fonte dell’azione: egli stabilisce l’ora della partenza, la direzione del viaggio, in quante tappe esso si compirà, l’ora della cena e quella del riposo o della danza o del sollazzo; invita i religiosi a recitare le moralità, i cantarelli a cantare o suonare, impone all’autore di narrare la sua novella, suggerendone in qualche caso persino l’argomento. La brigata è attenta ai suoi comandi ed ai suoi desideri; viene notato financo quando egli si astiene dal ridere assieme al resto della comitiva: ogni sua reazione o commento al racconto è puntualmente registrato.

La vita della brigata sembra avere i caratteri della vita di una città del Quattrocento, dove tutto si svolge attorno alla venerata persona del signore e tutto dipende dalla sua volontà. Sercambi, che si era assunto il ruolo di consigliere politico dei Guinigi e di cronista della loro signoria, si assume anche quello di narratore e poeta ufficiale. Per cui si intende come lo schema offerto dalla occasione del viaggio diventi man mano più composito e complesso, passando da caratteri piuttosto semplici modellati sulla vita di un popolo acquiescente a quelli più elaborati di una corte che vive in grazia ed opulenza intorno al suo signore.

L’eco di quella vita si sente nella disposizione della poesia morale accanto alla ballata ed al madrigale, dell’esempio morale che pur scaturisce dalla novella erotica smussandone gli spigoli. Quell’eco si sente nell’estensione stessa e nella ricchezza della lingua del Sercambi, che con timbro personalissimo trascorre dall’accento vernacolare del dialogo realistico ai toni allusivi di intonazione dotta che dovevano esser compresi a volo dall’uditorio borghese gravitante attorno ad una corte di origine mercantilesca che si era scoperta delle ambizioni di mecenatismo.

Un uditorio dal gusto soprattutto buontempone e salace (certamente lontano dalle raffinatezze delle corti che sarebbero fiorite decenni più tardi) che poteva apprezzare l’ammiccante narrativa sercambiana fondata specialmente sul nudo e crudo commercio del sesso e della furbizia, che ha scandalizzato ed offeso i benpensanti dell’Otto e Novecento. Sercambi ha certamente la mano pesante; bisogna tuttavia domandarsi se egli in fondo non sia stato la vittima di un tiro birbone, anzi di un vero [p. 788 modifica]tradimento perpetrato dagli editori (non escluso il presente) che con tanta diligenza si sono accaniti ad imbandire ad un pubblico sempre più vasto una raccolta forse destinata ad un circolo per uomini soli che si riunivano in cerca di un onesto passatempo durante lunghe e noiose serate. Può ben darsi che il Sercambi si trovi nell’imbarazzante situazione in cui si troverebbe una onorata signora il cui diario segreto venisse improvvisamente trafugato e pubblicato a sua insaputa. Sappiamo che in una lista di libri in possesso dello scrittore compilata dopo la sua morte16 viene annotato «Un libro di nouelle fece Johanni», che rappresenta quasi certamente l’autografo. Ma non sappiamo se esso fosse stato rilegato e curato come i due volumi delle Croniche per apparire degnamente nella biblioteca del Guinigi, se fosse stato curato in modo da essere almeno destinato alla lettura di amici, o se invece avesse una veste ed una destinazione più private.

Il mondo che ritrae il Sercambi è, per molti aspetti, quello comune alla novellistica del Tre e Quattrocento: ma non ingentilito dalle istituzioni borghesi e mercantili com’è quello del Boccaccio, e neppure da quel tepore domestico che traspira dal Trecentonovelle. Il mondo del Sercambi poggia su una brutalità nuda, disincantata, da cui ci si riscatta solo mediante la violenza, o mediante la furbizia, anch’essa una specie di violenza più sottile. In esso perfino l’amore non ha tenerezze. Il solo sentimento che riscaldi questo mondo è quello dell’amicizia, anche se intesa in modo pragmaticamente politico. L’atteggiamento del narratore nei riguardi di questo mondo è quello pessimista e smaliziato del consumato politicante realista per il quale la vita ha ormai svelato i suoi trucchi. Da ciò l’ironia ammiccante che traspare dietro il personaggio o l’episodio e che discretamente sostiene e guida passo passo il racconto, e che irrompe attraverso quegli improvvisi epifonemi mediante i quali il Sercambi entra direttamente nella vicenda ed interloquisce col personaggio17. Una ironia che dissolve in anticipo qualunque attrattiva ideale che gli offriva la tradizione illustre18, o la porta a un grado di tensione che sfiora l’intonazione parodistica19. [p. 789 modifica]

Questo rifiutarsi agli allettamenti della tradizione illustre lascia libera la sintassi del Sercambi novelliere di fondarsi, in modo ancor più massiccio di quella del cronista, sui moduli della narrazione parlata, in cui lente ed involute gradazioni paratattiche avvicinano progressivamente all’azione in cui culmina il periodo. Una struttura paraipotattica chiaramente distinta in due livelli gerarchici: quello degli elementi accessori della narrazione, serrati nell’implicita gerundiva o participiale a carattere ellittico e ridondante, e quello degli elementi primari, allineati nell’esplicita su cui poggia e si riposa tutto il periodo. Ne risulta una costruzione dal ritmo rallentato, in cui sembra che ogni particolare debba essere assaporato per sé, e quel tipico tono di suspense che si forma nell’attesa dell’azione principale imminente.

Una simile costruzione, estesa dal periodo sintattico all’episodio narrativo, permette al Sercambi di valicare i limiti e le strettoie dell’aneddoto e giungere ad una forma di racconto abbastanza complesso, in cui lasciti e prestiti eterogenei vengono fusi insieme fino a ritrovare una singolare omogeneità20.

La fedeltà al parlato rende, inoltre, possibile al Sercambi quella genuina intonazione del dialogo che quasi sempre riesce da sola a rivelare il personaggio ed a costruirne la coerenza interna. La novellistica ci offre pochi esempi di un dialogo così felicemente verace come quello che troviamo, per citare un esempio, nella novella cvi, in cui la ricostruzione dei movimenti interni ed esterni del racconto viene quasi esclusivamente affidata alle battute ed ai timbri delle voci.

Ma la vocazione del Sercambi ad essere l’interprete della vita lucchese agli inizi del xv secolo è visibile non solo negli elementi che abbiamo brevemente indicati, ma ancor più nel suo mondo novellistico.

Sercambi è, dopo il Boccaccio, il novelliere più ricco di motivi. Ricchezza che non gli proviene tanto dal modo in cui ha saputo profittare delle sue fonti21, quanto piuttosto da una curiosità per il tipo ed il per[p. 790 modifica]sonaggio, per l’uomo insomma, derivante a sua volta da quel realismo che già formava la base delle sue convinzioni politiche. I racconti più validi del Sercambi non sono certo quelli che si svolgono nel breve giro

[p. 791 modifica]dell’aneddoto o quelli imitati dalla tradizione più illustre, e neppure quelli dove le sue tendenze realistiche lo portano verso compiacimenti di natura crudamente erotica: i suoi migliori racconti sono quelli che aderiscono più profondamente alla convinzione (che era già pienamente umanistica) che l’uomo foggia il suo destino a dispetto delle circostanze e dominandole. La parte più originale e vera del suo mondo si ritrova nelle novelle in cui riesce a far vivere la leggenda, così vera a quel tempo, del povero pastorello che con la forza del suo ingegno, sfruttando «politicamente» le circostanze, diventa condottiero di eserciti e signore di città. Pincaruolo, Malagigi devoto di san Martino, Paulo figlio di Taddeo, Calidonia, il Nibbio sono di questa pasta. Tutti, più o meno, con la faccia di popolani lucchesi; e chi non ce l’aveva, come il Nibbio che era nato figlio di re, se l’era fatta prima di mettersi sulla strada della fortuna.

Non si tratta però di leggenda nel senso di fiaba (ed ecco perché non ci piace parlare di fiabesco nei riguardi del Sercambi) ma in quello di esempio, di mito; in quel partire verso il mondo alla ricerca della fortuna è forse il segno del lucchese che andava a Parigi, a Bruges, a Londra a tentare la sua fortuna; o forse quello dello stesso Guinigi, o dello stesso Sercambi.

  1. Si v. il nostro art. Per la datazione delle Novelle del S., in «GSLI», cxli (1964), fasc. 436, pp. 548-56, anche per ragguagli sulle datazioni della raccolta precedentemente proposte.
  2. Tommasi, Sommario della stor. di Lucca cit., pp. 251-53, e, per i documenti, p. 261, n. 7.
  3. Cron., i, 206-08. Il Tommasi (op. cit., p. 251) rimprovera al S. di aver registrato la peste con un anticipo di due anni (al 1371), senza avvedersi che, secondo le Cron., essa invece dura dal sett. del 1371 all’ott. 1373. La contraddizione fra la data della peste delle Novelle e quella registrata nelle Croniche venne giá rilevata dal Lòhmann (Die Rahmenerzáhlung des «Decameron»; ihre Quellen u. Nachwirkungen, Halle, Niemeyer, 1935, p. 125, n. 1), il quale suppose un errore da parte dell’amanuense, che avrebbe scambiato il 1374 con il 1384, anno in cui cessava un’altra peste (cfr. Cron., i, 242-43), e che perciò potrebbe assumersi (anche a causa della vicinanza a questa data dei riferimenti a Bernabò Visconti contenuti nelle novelle n. vi e lxxxii) come terminus a quo della raccolta.
  4. Cfr. G. Bindoli, Le prime e le seconde mura di Lucca, in «Atti della R. Acc. lucch. di Sc., Lett. ed Arti», n.s., i, Lucca, Giusti, 1931, pp. 322, n. 5. Per notizie sulla chiesa cfr. l’indice dei nomi in questo volume.
  5. Cfr. Cron., i, 322.
  6. Pref. alle Novelle inedite di G. S. cit., p. lvii, n. 1.
  7. Con una certa libertà durante il passaggio della brigata per la Toscana, della quale il S. aveva una conoscenza piú o meno diretta, mentre l’itmerario è seguito alla lettera da Roma in giù fino a Reggio, e su per la costa ionica ed adriatica, non senza esitazioni ed incongruenze. Fazio, ad esempio, menziona la città «la qual fu dieta già Partenopea» (Ditt., iii, 1, 44, e cfr. Cron., ii, 85, v. 53): S. la crede diversa da Napoli e vi dirige la brigata, procedendo verso Napoli solo tre giorni dopo, attraverso Arpi e L’Aquila. Altre incongruenze sono di ordine cronologico: il S. conduce la brigata da Firenze a Siena in due giornate, ma questo tempo è sufficiente anche per coprire il tratto da Benevento a Reggio Calabria, ed una sola giornata per il tratto di viaggio che da Squillace (Squillati) va a Taranto (che nel testo, a causa di un errore di lettura dell’autore, diventa Forati). Strano sembra poi l’itinerario che conduce la brigata da Cesena a Cervia, a Bertinoro e finalmente a Ravenna, e ancor più strano un viaggio per acqua che da Bologna porta ad una localitá chiamata Lungellino (o Lugellino) e da qui a Torre della Fossa (per l’ordine delle tappe nell’itinerario della brigata, cfr. l’indice dei nomi in questo volume alla voce viaggio). Il viaggio della brigata attraverso tutta la penisola ha la durata complessiva (se i nostri calcoli non sono errati) di centoventiquattro giorni; bisogna tuttavia tener presente che la brigata si ferma dieci giorni a Roma, cinque a Napoli e due a Bologna, e che in alcune giornate vengono narrate due, e qualche volta più, novelle.
  8. Il senso morale del racconto non solo è accennato alla fine della novella, ma viene di solito enunciato dai versi del prologo. Ciò appare in modo evidente in trentasei prologhi, ed in quindici altri si potrebbe trovare una connessione fra i versi ed il racconto. Il significato morale è poi esplicitamente annunciato dall’autore nell’apostrofe con cui di solito ha termine il prologo.
  9. Cron., ii, 302-71. I documenti e le testimonianze riguardanti le processioni dei «Bianchi» a Lucca si possono vedere nel voi. di T. Bini, Storia della sacra effige, chiesa e compagnia del SS. Crocifisso de’ Bianchi, Lucca, Giusti, 1855.
  10. V. lo studio cit. del Bini, pp. 23-24, ed inoltre p. 85 per la registrazione del giuramento del Guinigi sulla sua testimonianza, e p. 88 per quello di Bartolomeo Sercambi.
  11. Cron. ii, 296-97.
  12. Sarebbe utile qui menzionare che questa nuova collocazione cronologica delle Novelle risolve un’altra questione: se il Chaucer, cioè, scrivendo i Canterbury Tales fosse a conoscenza della raccolta o del progetto del S. Cosa impossibile, dato che l’autore inglese, com’è noto, finiva di scrivere la sua raccolta nel 1385-87. Per la questione, comunque, si v.: M. Landau, Beitráge z. Gesch. d. Ital. «Novelle», Wien, Rosner, 1875, p. 47 n. 1; H. B. Hinkley, Notes on Chaucer, a Commentary on the Prolog and Six «Cant. Tales», Northampton, The Nonotuk Press, 1907, pp. 2-3; K. Young, The Plan of the «Canterbury Tales», in Annivers, Papers by Colleagues and Pupils of G. L. Kittredge, Boston, Ginn, 1913, p. 417n.; R. A. Pratt, Chaucer’s «Shipman’s Tale» and S., in «Modern Langu. Notes», lv (1940), 142-45; R. A. Pratt - K. Young, The Literary Framework of the «Cant. Tales», in Sources and Analogues of Chaucer’s «Canterbury Tales», ed. by W. A. Bryan and G. Dempster, New York, The Huinanities Press, 1958, pp. 31-32; J. Spargo, The «Shipman’s Tale», ibid., pp. 439-46.
  13. Cfr. le dichiarazioni dello stesso S., in Cron., ii, 427.
  14. Corrispondono, nell’ordine in cui appaiono nelle Cron., ai nn.: lxxiiii, cxxxixti, cxxxvii, cxxxviiii, lv, cxvi, cxviii, cxxiiii, lxi, culi, cxxxvi, xlviiii. Della redazione delle Cron. diamo tutte le varianti nell’Apparato critico che qui segue alla Nota filologica.
  15. La novellistica (voll. 8 e 9 della «Storia dei gen. lett.»), Milano, Vallardi, 1924, i, 229.
  16. Cfr. qui sopra, p. 762, n. 1.
  17. Valgano due esempi: «O Passavanti, che pensi poter tornare in Barsellona a que’ denari: certo veruno ve ne troverai per te, però che Veglio n’avea pochi a consumare!» (nov. lxxxvi, pp. 374-75); «Ma che giova, o monna Appollonia, quello che ricolto avete, ché dapoi arete più freddo che di prima?» (nov. lxxvii, p. 339).
  18. Ad es.: «Avenne quello che Dante mette, che l’amore che al cuor gentile ratto s’aprende, tale amor al cuor d’uno aconciatore di cavalli s’aprese» (cfr. p. 456).
  19. Si legga, ad es., il dialogo fra Dianabella e Giacchetto all’inizio della nov. lxii.
  20. Si veda in proposito il nostro art., Le progressioni narrative nelle Novelle del S., in «Italica», xlii (1965), 218-23.
  21. Allorché questo sembrava assolutamente essenziale, si sono indicate per molte delle novelle del S. alcune fonti, che noi abbiamo annotate in apparato per comodità dello studioso. Non abbiamo creduto di dover andar oltre questo dovere di natura bibliografica, dato che un’analisi delle sospettate fonti, malgrado le affermazioni in contrario del Di Francia (La novellistica cit., i, 229 sgg.), conduce alla convinzione che il S. non si sia potuto servire di fonti scritte. Qualunque tentativo in questo senso (si v. per la bibliografia il cap. seguente) non ha mai approdato a risultati soddisfacenti. Noi propendiamo invece a credere che molti motivi novellistici siano giunti al S. dalla tradizione orale piuttosto che scritta. Ben diverso è il caso dei prestiti dal Boccaccio, che, come aveva già rilevato il Di Francia, sono ben 24, e cioè:
    Novelle: Decameron:
    x
    xcviiii
    ii, 5
    xxxii viii, 1
    liii i, 9
    lviiii i, 10
    lxxxii ii, 2
    lxxxvi ii, 3
    xciii ii, 4
    c iii, 1
    ciiii iii, 2
    cvii iii, 3
    cxi
    cxvii
    iii, 4
    cxxi vi, 1
    cxxvi
    cxxviii
    iii, 8
    cxlvi vi, 3
    cxxxv iv, 9
    cxxxviii vii, 2
    cxli iii, 10
    cxliii vii, 4
    cxlviii v, 4
    cli vii, 3
    cliii x, 10


    Una simile tavola fu anche pubbl. da A. Chiari, nello studio sulla Fortuna del Boccaccio, in Quest, e corr. di stor. letter., Milano, Marzorati, 1949, iii, p. 299; essa però dà solo ventitré novelle, non includendo la nov. n. xxxii, che sembra esser stata confusa con quelle nn. cxxviii e cxlvi). Questi prestiti diretti (per i quali non sapremmo con certezza indicare tuttavia il cod. utilizzato dal S.) si possono classificare in tre gruppi: novelle cioè che il S. trascrive quasi alla lettera (come la famosa nov. di Griselda, Dec. x, 10, che appare anche nelle Cron., ma anche quelle tratte dal Dec. iii, 1; iii, 10; v, 4; vi, 1; vi, 3; vii, 2; vii, 3; vii, 4. Tuttavia, in due di esse, nn. cxxxvm e cxliii — rispettivamente derivate dal Dec. vii, 2 e vii, 4 — , la moglie infedele viene punita e sfregiata nella prima, uccisa nella seconda) limitandosi a riassumere qualche dettaglio; altre che egli riassume tenendosi in tutti i dettagli molto vicino all’originale (quelle tratte dal Dec. ii, 2; ii, 4; ii, 5 — prima parte della nov. di Andreuccio — ; iii, 2; iii, 3; iii, 8); altre ancora che il S. elabora con una certa libertà pur mantenendosi fedele al modello nell’impianto generale (quelle tratte dal Dec. i, 9; i, 10; iii, 4 e viii, 1). Bisogna aggiungere, infine, un gruppetto di tre nov. che il S. elabora con una certa indipendenza (quelle che corrispondono al Dec. ii, 3; ii, 5 e iv, 9): ad es., la nov. del re d’Inghilterra (Dec. ii, 3) si stenta a riconoscerla nella nuova forma che assume nelle Novelle, dove l’impianto generale, i luoghi ed gli incidenti minori sono completamente diversi dall’originale. Nella nov. cxxxv, corrispondente a quella di Guglielmo Rossiglione (Dec., iv, 9), il marito fa mangiare alla moglie non già il cuore, ma la faccia dell’amante che lei aveva tanto ammirata; tutto il dialogo e l’azione, centrati intorno a questo particolare, conducono alla cruenta conclusione con terribile logicità.