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Poesie (Parini)/I. Opere drammatiche/III. Iside salvata

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III. Iside salvata

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III

ISIDE SALVATA

Componimento drammatico.

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ARGOMENTO

Erano presso al fine le solennitá fatte celebrare da Iside reina dell’Egitto per l’apoteosi d’Osiride, giá suo illustre sposo, e grande benefattore de’ popoli. Oro, lor figliuolo, si allestiva alla partenza per condurre la sorella in isposa al re d’Etiopia, quando Tifone, orribile mostro e domestico nemico, riconosciuto nella mitologia egiziana per lo principio cattivo, dopo altre stragi fatte nel reai palagio, turba tutte le funzioni, assale improvvisamente la reina, e ne minaccia la vita. Tutto il popolo è in costernazione; ciascuno teme per gli giorni dell’amata sovrana, s’intraprendono sacrifizi, e s’offrono vittime agli altari per la salute di lei. Tutte le forze di Apollo, potente amico della casa reale, per domare quel mostro, riescono inutili: onde Oro offre se medesimo vittima dell’amor figliale per placare la crudeltá di Tifone e salvare la vita alla madre. In cosí orribile frangente compare Osiride dal cielo, difende la sposa, abbatte il mostro, e assicura la felicitá dell’Egitto. La piú grande e piú importante parte del fatto ha fondamento nell’antichissima favola degli egiziani. Qualche poche circostanze sono supplite, attenendosi al verosimile. V. Erodoto, Diodoro siculo, Plutarco, ecc.

INTERLOCUTORI

Iside.
Oro.
Apollo.
Ermete.

L’azione è nella reggia di Menú.

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PARTE PRIMA

Iside, Oro.

Iside. Si, figlio, ai sommi dèi

non è sopra la terra
chi piú debba di me.
Oro. Madre, né il cielo
quaggiú trovar potria
chi piú divoto del tuo cor gli sia,
Iside. Chi è ch’oggi s’assida
sovra i troni del mondo, e meco possa
contender di fortuna? Intorno al soglio
mi s’aggira di figli
amabile corona. Io veggo in essi
de’ bei paterni esempi
svolgersi ’l seme, e germogliar felice.
Oro. E della genitrice
emular la virtú li vedi ancora:
e apprendere da lei
come un sovran si renda
caro ai sudditi suoi, caro agli dèi.
Iside. Qual da ricco giardin le amate piante,
scelgo e le innesto altrove. Il sangue mio
orna d’Affrica i regni. In mille modi

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allontano la guerra,

e con aurati nodi
lego la pace e la trattengo in terra.
Oro. Pur oggi d’Etiopia
i messaggier van lieti. Impazienti
attendean questo di, che me per poco
dividesse da te. Vedranmi alfine
oggi Menfi lasciar, salir del Nilo
verso i fonti segreti,
e al talamo reai del lor sovrano
guidar la suora mia. Odi ’l romore
de’ festeggiami carri,
che apprestami al cammino. Odi le grida
delle turbe ministre. 11 suono ascolta
di tamburi e di sistri. E fauni e muse
ecco ai cantici loro, ecco ai lor salti
addestrando si vanno,
onde al lento cammin facciasi inganno.
Iside. Cosí marciar soleva
il benefico, il grande
tuo genitor. Cosí soleva Osiri
coll’arti della pace
i popoli domar. Cosí fu grato
all’indo, all’etiope, al greco, al trace.
Ah, di quell’alma grande
quanto parlar vorrei!
Se le virtú di lei
tutte saper pretendi,
chiedile a questo cor.
Chiedi alla pace, all’arti
i benefici suoi,
e su quell’orme poi
ad imitare apprendi
un tanto genitor.
Ma con piú fausti auspici
voi non potreste, o figli,

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involarvi da me. Questo è il piú lieto

il piú superbo di che mai splendesse
per me nel ciel.
Oro. Lo so, Iside, è questo
il fortunato giorno
che il mio padre, il tuo sposo, il grande Osiri
fia beato lassú. Giá dal concilio
dei giudici severi in ciel fu posto
altro dio fra gli dèi. Oggi si chiude
la gran pompa solenne. I primi tori
si sveneranno a lui. Del primo latte
gli spargerem l’altar. Dell’infinito
popolo a lui la temeraria mano
i colossi ergerá, che fra le nubi
penetreranno audaci:
che saran Io stupore
dell’etá piú lontane: e che faranno
il di lui nome eterno
al par del sole apportator dell’anno.
Iside. Ma il cor della sua sposa...
Oro. Ma il cor de’ figli suoi
sará il tempio maggior che nell’Egitto
abbia il nume d’Osiri.
Iside. II piú saldo colosso
dedicato al suo nume, amato figlio,
fieno i popoli suoi. Ei li congiunse,
stabili colle leggi.
Ei consiglio ed aita
diede a me sua compagna. Ah se felice,
oggi miro l’Egitto, io tutto il debbo
alla placida mente, al cor sublime
del tuo gran genitore, alle sue tante
pacifiche virtú.
Oro. Popol beato!
che da quest’ora avrai
due numi protettori, Osiri in cielo,

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Iside sulla terra. O cielo amico,

fa che l’un astro e l’altro
regni eterno in Egitto. Eterno influsso
di benèfici rai
sieda in entrambi, e possa
compagni aver, ma successor non mai.
Si, splendete, amici lumi,
si, girate eterni e chiari:
e da voi l’Egitto impari
la sua gran felicitá.
Ah, se voi, benigni numi,
sopra noi vegliate ognora,
no del popol che v’adora
il miglior non si vedrá.
Iside. Ecco Apollo ed Ermete, entrambi amici
giá del gran padre tuo. Quegli è sagace
indovin del futuro. A lui dell’erbe
tutto è noto il poter. Note son l’arti
di curar ne’ mortali
e l’animo e le membra. Ora possenti
strali pendongli al dorso,
or musici stromenti.
L’altro con me de’ sacri riti un giorno
i misteri trovò. Recheran forse
qualche nuova dal tempio.

Apollo, Ermete, e detti.

Apollo. Alma reina,

tutto è pronto nel tempio. I sacerdoti
non attendon che te.
Ermete. Del grande Osiri
vola per ogni bocca il nome amato.
Miri per ogni lato
il popolo festoso

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le gran piazze inondar. De’ loro alberghi

adornano le porte
vaghi serti e ghirlande. I messaggieri
dell’etiope signor superba pompa
fan della corte loro.
Mille destrieri e mille
conducono i lor carri, ed offron nuovo
spettacolo all’Egitto. Oggi agli onori
del novo dio congiunte anco vedranno
le nozze della figlia,
che a te in virtú come in beltá somiglia.
Che piacere nel cor d’un regnante
è vedere d’un popolo amante
variarsi gli effetti d’amor.
Come cetra, che all’altra s’accordi,
ei sospira, se il vede in tormento.
Si rallegra, se il mira contento;
e risponde coi moti del cor.
Apollo. Odo i lieti clamori
del popolo affollato, odo i mugiti
de’ rossi eletti tauri,
che giá si guidan coronati all’ara.
Affréttati, o regina,
e alla pompa solenne or ti prepara.
Iside. Parto, e, come le membra,
il cor, la mente adornerò del pari;
cosí, sposo adorato,
degni entreranno a’ tuoi celesti altari.

Ermete, Oro, Apollo.

Ermete. O gran pietade!

Oro. Oh lieto giorno!
Apollo. Ah faccia

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il ciel pietoso, che a si bella aurora

segua placido il di, la sera il chiuda
lieta e felice.
Ermete. Ahimè! cotesti auguri
a me sembrano, amico,
effetti del timore, anzi che moti
d’un’alma che ridondi
di soverchio piacer.
Oro. Non mi turbate
con aerei sospetti i bei momenti
di questo allegro di. Folle mortale!
immaginando vai
col desire inquieto
i piacer che non hai:
ma li possiedi appena,
che col vano timor li cangi in pena.
Ermete. So che dal cielo Apollo
i piú gran doni ottenne. I suoi presagi
non falliron giammai.
Oro. Error del volgo
è che da mente umana
si penétri ’l futuro.
Apollo. Eppure il saggio
delle presenti cose
meglio vede e confronta
le diverse cagioni, il corso e il fine.
Quindi la norma ei prende
de’ suoi giudizi, e l’avvenire intende.
Oro. Ma fabbricar che giova un mal presente
prevedendo i futuri?
Apollo. Un’alma forte
non si fabbrica ii mai quando ii prevede.
Ad evitarlo impara,
o indebolirlo almeno: o si prepara
intrepida a soffrir.
Ermete. Se a te presenti
son le cose avvenir, di’, che paventi?

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Apollo. Tutto pavento, e gelo.

Veggo che il ciel s’imbruna,
che le tempeste aduna,
e inorridir mi fa.
Fulmina irato il cielo.
Vicin sento il fragore.
Chi mai di quel furore
la vittima sará?
Ermete. Qual’è il mal, che minacci?
Oro. Oh dio! spiegati almeno.
Apollo. Odimi in pace.
Sai che fiero nemico
della casa reai sia ’l mostro orrendo,
il malvagio principio, il tristo genio,
Tifone alfine?
Oro. Il so purtroppo.
Apollo. E sai
di che orribili stragi
queste stanze beate empiè costui?
e quai cadute sono
vittime preziose innanzi a lui?
Oro. Ahimè! ne porto ancora
nel piú vivo del cor le piaghe impresse.
Apollo. Volgi or la mente al glorioso stato
della tua genitrice.
Mira come per lei reso è felice
un popol, che l’adora. Odi ’l suo nome
volar per ogni parte. A lei congiunti
con lunga serie di famosa prole
ecco i troni del mondo. A lei davanti
paventano i nemici. Ognuno esalta,
ama ognuno ed ammira
le tante sue virtú. Risplende in lei
la pietá per gli dèi. Somma giustizia
con somma umanitá. Celesti leggi
detta ai popoli suoi. Al suo favore,

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quasi novello fiore

cui la rugiada asperge, e studi ed arti
novo acquistan vigore. Ella sui campi
semina l’agio, e semina con lui
l’alma feconditá. Nelle cittadi
sparge l’industria: e in libertá modesta
fra le onorate gare
la trattien, la fomenta. Il Nilo esulta
di si magnanim’opre.
Sovra il collo si reca
il benefico limo:
urta superbo l’onda,
e il felice terren bagna e feconda.
Oro. Oh cara madre! oh come
dolci d’un figlio al core
sonan gli encomi tuoi. Ma qual veleno
tu da cotanto bene elicer tenti,
augure di sventure?
Apollo. È troppo grande
tanta felicitá: Soffrirla in pace
il perfido Tifone
non potrebbe, o signor. Sai quante volte
nel maggior colmo delle sue grandezze
sparse d’orror funesto
la tua casa reai. Credimi, ei tenta
oggi gli ultimi sforzi. Osiri in cielo,
l’Egitto fortunato, Isi contenta,
son tanti acuti sproni
alla sua crudeltá.
Oro. Dunque si cerchi
d’eludere i suoi colpi.
Apollo. E questo è il fine
de’ pronostici miei. Garrulo vate
io non sono di mali
per turbare i mortali. Io li prevengo
perché s’armin prudenti, e faccian fronte

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al destiti che minaccia.

Oro. Ecco la madre.
Come fra tante cure,
come sorride in quell’amabil volto
un fior di giovinezza! In uno inspira
riverenza ed amor. Siede in que’ lumi
la grandezza dell’alma; e piover quindi
sembrano i benefici.
Non oscuriamo, amici,
colle nostre dubbiezze
il seren di quel volto; e di quell’alma
non turbiamo la calma.

Iside e detti.

Iside. Eccomi pronta

a discender nel tempio. In questa pompa
10vi discesi, o figlio,
11di delle mie nozze. In quest’ancora
Osiride, il mio sposo,
rivedrammi dal cielo. Allor compagna
d’Osiride vi scesi,
or supplice e cliente. Allor l’amai,
oggi l’adorerò. Quel ch’ai mio core,
quel che ne’ labbri miei
esaggerava amore
oggi vero sará. Chiamarti adesso
con questo labbro istesso,
Osiride, degg’io,
mio nume, idolo mio. Tu, saggio Ermete,
tu m’accompagna.
Ermete. Io sarò teco.
Iside. Ad altri,
che ai sacerdoti e a noi
non è d’entrar permesso

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nel segreto recesso. Oh dio, mi balza

il cor nel petto. Un sacro orror m’investe,
mi ricerca le fibre.
Apollo. (Ab quei moti del cor, quel sacro orrore
che presagi son mai?)
Oro. (Ahimè, che fia?
Tutto mi fa temer.)
Iside. L’estrema gioia
ne sará la cagione. Oh quanto è dolce,
quanto è soave, o figlio,
dividere i pensieri
fra il popolo e gli dèi. Consiglio e forza
pria da questi implorar, perché felice
il popol sia; far che sia tale, e poi
renderne grazie a lor. Noi siam fra il cielo
mediatori e la terra. Al popol scende
per nostra man de’ numi
la pietá, la giustizia. Oh qual contento,
quante ferme speranze
oggi porto nel tempio, oggi che sei,
Osiride adorato, un degli dèi.
Se piansi del fato
la forza nemica,
che a me ti rapi;
o sposo adorato,
quest’alma lo dica
che tanto soffri.
Ma tutta quest’alma
si cangia d’aspetto.
Contento e diletto
diventan le pene,
vedendo il mio bene
felice cosí.

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Oro, Apollo.

Oro. Che turbolenti affetti

mi si destano in sen! Veggio i perigli,
e penetrar non posso,
se minaccin la madre, oppure i figli.
Atollo. Prence, non disperar. Spesso il Destino
arma i fulmini suoi.
Par che sopra di noi
tutte voglia avventar Pire del cielo.
Ma que’ fulmini poi
noi veggiam declinare,
e scaricarsi alfine
sui despoti infecondi, e sopra il mare.
Lascia al popolo ignaro
l’inefficace tema, e noi stiarn pronti
a trovarci un riparo.
Oro. E qual riparo,
e quale schermo opporre al crudo mostro,
che col fiato avvelena, e tutto è armato
delle forze d’A verno?
Apollo. Or non confidi
tu punto in questi dardi,
che mi pendono al tergo? E non rammenti
qual de’ fiori e dell’erbe
io far usi portenti? Ogni mia forza
metterò in opra; e del mio sangue istesso
lascerò, per salvarvi, il suolo impresso.
Oro. Lodo, amico, il tuo zelo. Assai mi fido
delle promesse tue. Ma pur confine
serba il potere umano.
Sai quante volte, oh dio!
Tifon ci offese, e l’assalisti in vano.
Apollo. Tenti l’uom ciò che puote, e poi del cielo
s’abbandoni al soccorso.

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Oro. Ah si, l’Egitto

abbastanza è difeso. Il padre mio
10protegge dal ciel: qui lo sostiene
d’Iside la virtude. Il padre dio
sosterrá dell’Egitto
11sostegno migliore,
la mia madre mortai. Per lei saranno
del popolo l’amore
e i comun voti ardenti
il fato istesso a disarmar possenti.
Alfin, se pure è fisso
che una vittima grande
dall’Egitto vogliate, o sommi dèi,
si, toglietevi pure
qualunque è mai piú cara
cosa a me di me stesso.
Ecco, cedovi adesso
questo cor, questo petto.
Voi fatelo ricetto
d’ogni strazio e tormento,
ma sia salva la madre, e son contento.

Ermete, Oro, Apollo.

Ermete. Ah la tua madre...

Oro. E che mai rechi, Ermete,
improvviso cosí?
Ermete. Iside... oh dio...
in periglio mortale...
Si scendeva nel tempio...
Ah quel mostro infernale
l’assale... Il pianto, i gridi
del popolo... Sen fugge
alle sue stanze... Il mostro...
Salva la madre, o figlio!

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Oro. Ah soccorso, eterni dèi!

Volo, o madre, al tuo periglio.
Tu vedrai nel cor d’un figlio
quel che possa la pietá.
Ma che spero... e che potrei
solo... inerme... al fiero incanto?
Ma si vada. I preghi, o il pianto,
o il mio cor lo domerá.


fine della parte prima.

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PARTE SECONDA

Ermete.

Cosí, barbari dèi, cosí vi piace

sempre in novi perigli e in novi mali
agitar turbolenti
i poveri mortali! E tal prendete
cura di noi che i grandi esempi in terra
dileguate in un punto? E minacciate
sempre di nova e piú fatai sventura
chi del popolo è padre, e chi ’l consiglia,
chi l’ama, chi ’l difende,
e chi piú sulla terra a voi somiglia?
Ma dove ahi mi trasporti,
forsennato dolor? Frattanto, oh dio!
le regina infelice
giace preda del mostro. In van tentai,
debil vegliardo, entro a la folla aneli’ io
del popol penetrar che a lei dintorno
piagne, grida, sospira. E perché mai,
s’altro non posso, d’ammirar m’è tolto
presso al crudel periglio
la pietá della madre e il cor del figlio?

Aria.

[Qui a mezza pagina s’interrompe l’autografo per riprendere poi
alla pagina seguente. Nota dell’editore.]

PARTE SECONDA

Ermete.

Infelice regina! Ah forse in questo

in questo punto, oh dio!
cedi, vittima illustre, a quel si crudo

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e si avverso gli egizi orrido mostro,

giá per cotante stragi
spaventevole, infame. In van tentai,
debil vegliardo, entro a la folla anch’io
del popol penetrar che a lei dintorno
piagne, grida e sospira. E perché mai,
s’altro non posso, almeno...