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Poesie (Parini)/I. Opere drammatiche/II. Ascanio in Alba

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II. Ascanio in Alba

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I. Abbozzi - 2. Abbozzo dell'Ascanio in Alba I. Opere drammatiche - III. Iside salvata

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II

ASCANIO IN ALBA

festa teatrale
da rappresentarsi in musica
per le felicissime nozze
delle ll. aa. rr.
IL SERENISSIMO FERDINANDO ARCIDUCA D’AUSTRIA
e la
serenissima MARIA BEATRICE D’ESTE
principessa di modena

Semper ad Æneadas placido pulcherrima vultu
respíce, totque tuas, diva, tuere nurus,
Ovid., Fast., lib. 4.


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AI LETTORI

È noto che Ascanio, celebre figliuolo (l’Enea, andò, per ragioni di Stato, ad abitare in una deliziosa contrada dell’antico Lazio; vi edificò una citta, a cui diede il nome d’Alba; vi prese moglie; vi governò un popolo, e diede origine agli Albani. E pur noto che Ercole viaggiò, e dimorò per alcun tempo in quelle vicinanze. Su questi e simili fondamenti storici e poetici si dá luogo alla favola allegorica della seguente rappresentazione.

L’azione segue in una parte della campagna, dove poi fu Alba.

PERSONAGGI

Venere.
Ascanio.
Silvia, ninfa del sangue d’Èrcole.
Aceste, sacerdote.
Fauno, uno de’ principali pastori.
Cori di geni, di pastori, di pastorelle.

Compositore della musica: il signor cavaliere Amedeo Wolfango Mozart, maestro della musica di camera di S. A. reverendissima il principe ed arcivescovo di Salisburgo.
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PARTE PRIMA

Area spaziosa, destinata alle solenni adunanze pastorali, limitata da una corona d’altissime e fronzute querce, che vagamente distribuite alT intorno conciliano un’ombra freschissima e sacra. Veggonsi, lungo la serie degli alberi, verdi rialzamenti di terreno, presentati dalla natura, e in varia forma inclinati dall’arte per uso di sedervi con graziosa irregolaritá i pastori. Nel mezzo sorge un altare agreste, in cui vedesi scolpito i’animal prodigioso, da cui si dice che pigliasse il nome la cittá d’Alba. Dagl’intervalli che s’aprono fra un albero e l’altro, si domina una deliziosa e ridente campagna, sparsa di qualche capanna, e cinta in mediocre distanza d’amene colline, onde scendono copiosi e limpidi rivi. L’orizzonte va a terminare in azzurrissime montagne, le cui cime si perdono in un cielo purissimo e sereno.

SCENA I

Venere in atto di scender dal suo carro. Ascanio a lato di esso. Le Grazie e quantitá di Geni che cantano e danzano accompagnando la dea. Scesa questa, il carro velato da una legger nuvoletta si dilegua per l’aria.
Coro di Geni.   Di te piú amabile,

               né dea maggiore,
               celeste Venere,
               no non si dá.
Parte del Coro.   Tu sei de gli uomini,
               o dea, l’amore:
               di te sua gloria
               il ciel si fa.

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Parte del Coro.   Se gode un popolo

               del tuo favore,
               piú dolce imperio
               cercar non sa.
Coro.   Con fren si placido
          reggi ogni core,
          che piú non bramasi
          la libertá.
Venere. Geni, Grazie ed Amori. (al suo séguito, che si ritira nell’indietro della scena, disponendosi vagamente)
fermate il piè, tacete;
frenate, sospendete,
fide colombe, il volo:
questo è il sacro al mio nume amico suolo.
Ecco, Ascanio, mia speme, ecco le piagge
che visitammo insieme
il tuo gran padre ed io. Quel tempo ancora
con piacer mi rammento. Anco i presagi
parvero disegnar che un giorno fòra
del mio favore oggetto
questo popolo eletto. In quell’altare
  (accennando l’altare)
vedi la belva incisa
che d’insolite lane ornata il tergo
a noi comparve. Il grand’Enea lo pose
per memoria del fatto: e quindi il nome
prenderá la cittá ch’oggi da noi
avrá illustre principio. Io fin d’allora
qui de le grazie mie prodiga sono
al popolo felice: e qui ’l mio core
fa sovente ritorno
da la beata sfera ove soggiorno.
Ma qui presente ognora
con la mia deitá regnar non posso:
tu qui regna in mia vece. Il grande, il pio,
il tuo buon genitor, che d’Ilio venne

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a le sponde latine, or vive in cielo,

altro dio fra gli dèi:
e soave mia cura oggi tu sei.
Ascanio. Madre, che tal ti piace
esser da me chiamata, anzi che dea,
quanto ti deggio mai!
Venere. Giá quattro volte, il sai,
condusse il sol su questi verdi colli
il pomifero autunno,
da che al popolo amico il don promisi
de la cara mia stirpe. Ognuno attende,
ognun brama vederti: all’are intorno
ognun supplice cade: e il bel momento
affretta ognun con cento voti e cento.
          L’ombra de’ rami tuoi
               l’amico suolo aspetta.
               Vivi, mia pianta eletta:
               degna sarai di me.
          Giá questo cor comprende
               quel che sarai di poi;
               giá di sue cure intende
               l’opra lodarsi in te.
Ascanio. Ma la ninfa gentil che il seme onora
d’Èrcole invitto?... Ah di’... la sposa mia,
Silvia, Silvia dov’è? Tanto di lei
tu parlasti al mio cor; tanto la fama
n’empie sua tromba; e tanto bene aspetta
da le mie nozze il mondo...
Venere.   Amata prole,
pria che s’asconda il sole,
sposo sarai de la piú saggia ninfa
che di sangue divin nascesse mai.
Giá su i raggi dell’alba in sonno apparvi
ad Aceste custode
de la vergine illustre. Egli giá scende
dal sacro albergo: e nf nnnofo felice,

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e a la ninfa tuo bene

del fausto annuncio apportator qui viene.
Ascanio. Ah, cara madre!... dimmi...
Dunque vicina è l’ora?...
Ma chi sa, s’ella m’ami?
Venere.   Ella ti adora.
Ascanio. Se mai piú non mi vide!
Venere.   A lei son note
le tue sembianze.
Ascanio.   E come?
Venere. Amor, per cenno mio,
ordí nobile inganno.
Ascanio.   E che mai fece?
Venere. Volge il quart’anno omai,
che de la ninfa a lato
Amor veglia in tua vece. Ei le tue forme
veste a punto qual te. Tali le gote,
tai le labbra e le luci, e tai le chiome,
tali il suon de le voci. A punto come
l’una all’altra colomba
del mio carro somiglia,
tale Amor ti somiglia.
Ascanio.   E quale, o dea,
presso all’amata ninfa
è l’ufficio d’Amore?
Venere.   In sonno a lei
misto tra’ lievi sogni appare ognora.
Te stesso a lei dipigne: e tal ne ingombra
la giovinetta mente,
che te, vegliando ancora,
la vaga fantasia sempre ha presente.
Ascanio. Che leggiadro prodigio
tu mi sveli, o gran dea! Ma che piú tardo
Voliam dunque a la ninfa. A’ piedi suoi
giurar vo’ la mia fé...
Venere.   Solo tu devi

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ire in traccia di lei;

me chiaman altre cure:
non è solo un mortai caro a gli dèi.
Ascanio. Si, le dirò ch’io sono
Ascanio tuo; che questo cor l’adora,
che di celeste diva
stirpe son io...
Venere. No, non scoprirti ancora,
Ascanio. O ciel! perché?
Venere. Ti fida.
Vedila pur; ma taci
chi tu sei, d’onde vieni, e chi ti guida.
Ascanio. Che silenzio crudel!
Venere. Dimmi, non brami,
veder con gli occhi tuoi fino a qual segno
Silvia t’adori? a qual sublime arrivi
la sua virtú? quanto sia degno oggetto
d’amor, di meraviglia, e di rispetto?
Questa dunque è la via.
Ascanio. Dunque s’adempia,
o madre, il tuo voler. Giuro celarmi
fin che piace al tuo nume.
Venere. Ah vieni, o figlio,
vieni al mio seno. A quella docil mente,
a quel tenero core, a quel rispetto
che nutrí per gli dèi, ti riconosco
prole piú degna ognora
e del padre e di me. Qui fra momenti
mi rivedrai. De la tua sposa in tanto
cauto ricerca: ammira
come di bei costumi
a te per tempo ordisce
la sua felicitá, come con lei
ne la mirabil opra
e l’arte e la natura e il ciel s’adopra.
(in atto di partire)

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Coro. Di te piú amabile

né dea maggiore,
celeste Venere,
no non si dá. (parie Venere seguita dal coro,
che canta e le danza intorno)
Con fren si placido
reggi ogni core,
che piú non bramasi
la libertá.

SCENA II

Ascanio.

Che oscura legge, o dea,

è mai questa per me! Mi desti in seno
tu le fiamme innocenti: i giusti affetti
solleciti, fomenti: e poi tu stessa
nel piú lucido corso il mio destino
improvviso sospendi?...
Ah, dal mio cor qual sacrificio attendi?...
Folle! che mai vaneggio?
So che m’ama la dea: mi fido a lei.
Deh! perdonami, o madre, i dubbi miei.
Ma la ninfa dov’è? Tra queste rive
chi m’addita il mio bene? Ah si, cor mio,
lo scoprirem ben noi. Dove in un volto
tutti apparir de la virtú vedrai
i piú limpidi rai: dove congiunte
facile maestá, grave dolcezza,
ingenua sicurezza,
e celeste pudore; ove in due lumi
tu vedrai sfolgorar d’un’alta mente
le grazie delicate e il genio ardente,
lá vedrai la tua sposa. A te il diranno

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i palpiti soavi, i moti tuoi:

ah si, cor mio, la scoprirem ben noi.
Cara, lontano ancora
la tua virtú m’accese:
al tuo bel nome allora
appresi a sospirar.
In van ti celi, o cara:
quella virtú si rara
ne la modestia istessa
piú luminosa appar.

SCENA III

Ascanio, Fauno, Coro di Pastori.

Coro. Venga de’ sommi eroi,

venga il crescente onor.
Piú non s’involi a noi:
qui lo incateni Amor.
Ascanio. Ma qual canto risona? (ritirandosi in disparte)
Qual turba di pastor mi veggio intorno?
Fauno. Qui dove il loco e l’arte (non badando ad Ascanio)
apre comodo spazio
a i solenni concili, al sacro rito,
qui venite, o pastori. li giorno è questo
sacro a la nostra diva. AI suo bel nome,
non a Bacco e a Vertunno,
render grazie sogliamo
presso al cader del fortunato autunno.
Il ministro del cielo, il saggio Aceste
sembra che tardi. In gran pensieri avvolto
pur dianzi il vidi. A lui splendea ridente
d’un’insolita gioia il sacro volto.

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Forse il dono promesso è a noi vicino:

forse la dea pietosa
del fido popol suo compie il destino.
Coro. Venga de’ sommi eroi,
venga il crescente onor.
Piú non s’involi a noi:
qui lo incateni Amor. (Il coro siede lungo la
serie degli alberi, disponendosi vagamente)
Fauno. (volgendosi ad Ascanio)
Ma tu chi sei, che ignoto
qui t’aggiri fra noi? Quel tuo sembiante
pur mi fa sovvenir, quando alcun dio
tra i mortali discende. E qual desio
ti conduce fra noi?
Ascanio. (accostandosi a Fauno) Stranier son io.
Qua vaghezza mi guida
di visitare i vostri colli ameni,
i puri stagni, e per il verde piano
queste vostre feconde acque correnti.
Tra voi, beate gemi,
fama è nel Lazio, che natura amica
tutti raccolga i beni
che coll’altre divide.
Fauno. Ah piú deggiamo
al favor d’una diva: e non giá quale
irreverente il volgo
talor sogna gli dèi, ma qual è in cielo
alma figlia di Giove. Il suo sorriso,
dall’amoroso cerchio, onde ne guarda,
questo suol rasserena. Ella que’ beni,
che natura ne diè, cura, difende,
gli addolcisce, gli aumenta. In questi campi
semina l’agio, e seco
l’alma feconditá. Ne le capanne
guida l’industria; e in libertá modesta
la trattien, la fomenta. II suo favore

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è la nostra rugiada: e i lumi suoi

pari all’occhio del sol sono per noi.
Se il labbro piú non dice,
non giudicarlo ingrato.
Chi a tanto bene è nato
sa ben quanto è felice,
ma poi spiegar noi sa.
Quando a gli amici tuoi
torni sul patrio lido,
vivi, e racconta poi:
— Ho visto il dolce nido
de la primiera etá. —
Ascanio. (Quanto soavi al core
de la tua stirpe, o dea,
sonan mai queste lodi!)
Fauno. (guardando da un lato nell’interno della scena. Il coro si alza,
e si avanza)
Ecco, pastori,
ecco lento dal colle
il venerando Aceste; al par con lui
ecco scende la ninfa...
Ascanio. Oh ciel, qual ninfa?
Parla, dimmi, o pastor...
Fauno. Silvia, d’Alcide
chiara stirpe divina.
Ascanio. (Ahimè! cor mio,
frena gl’impeti tuoi;
l’adorata mia sposa ecco vicina.)
Fauno. accennando ad Ascanio, il quale pure sta attentamente guardando
dallo stesso lato)
Mira, o stranier, come il bel passo move
maestosa e gentile: a le seguaci
come umana sorride,
come tra lor divide
i guardi e le parole. In que’ begli atti
non par che scolta sia

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l’altezza del pensiero, e di quell’alma

la soave armonia?
Ascanio. (È vero, è vero.
Piú resister non so. Se qui l’attendo,
scopro l’arcano, e al giuramento io manco.
Partasi ornai.)
Fauno. Garzone, a te non lice
qui rimaner, ché la modesta Silvia
non vorria testimon de’ suoi pensieri
un ignoto straniere. E se desio
d’ammirarla vicino, e al patrio suolo
fama portar de’ pregi suoi t’accese,
(accennando il coro de’ Pastori)
lá confuso ti cela.
Ascanio. S’adempia il tuo voler, pastor cortese. (si ritira, e si suppone confuso fra il coro. Il coro s’avanza da un lato alla volta di Aceste e di Silvia.)

SCENA IV

Ascanio, Fauno, Coro, Aceste, Silvia,
con seguito di pastorelle.

Coro.   Hai di Diana il core,

               di Pallade la mente.
               Sei dell’erculea gente,
               saggia donzella, il fior.
Parte del Coro.   I vaghi studi e Parti
               son tuo diletto e vanto:
               e delle Muse al canto
               presti l’orecchio ancor.
Coro.   Sei dell’erculea gente,
               saggia donzella, il fior.

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Parte del Coro.   Ha nel tuo core il nido

               ogni virtú piú bella:
               ma la modestia è quella
               che vi risplende ognor.
Coro.   Hai di Diana il core,
               di Pallade la mente;
               sei dell’erculea gente,
               saggia donzella, il fior.
Aceste. Oh generosa diva,
oh delizia de gli uomini, oh del cielo
ornamento e splendor! che piú potea
questo suol fortunato
aspettarsi da te? Qual piú ti resta,
fido popol devoto,
per la sua deitá preghiera o voto?
Ogni cosa è compiuta.
Dell’indigete Enea
la sospirata prole
vostra sará pria che tramonti il sole.
Coro. Venga de’ sommi eroi,
venga il crescente onor.
Piú non s’involi a noi:
qui lo incateni Amor.
Aceste. Di propria man la dea
a voi la donerá. Né basta ancora.
Qui novella cittá sorger vedrete
de la diva e del figlio opra sublime.
Questi poveri alberghi,
queste capanne anguste
fieno eccelsi palagi e moli auguste.
Altre dell’ampie moli
saran sacre a le Muse: altre custodi
de le prische memorie a i di venturi:
altre a i miseri asilo:
altre freno a gli audaci: altre tormento
a la progenie rea del mostro orrendo

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che giá infamia e spavento

fu de’ boschi aventini,
e periglio funesto a noi vicini.
Coro. Venga de’ sommi eroi,
venga il crescente onor.
Piú non s’involi a noi:
qui lo incateni Amor.
Aceste. Oh mia gloria, oh mia cura, oh amato pegno (rivolto a Silvia)
de la stirpe d’Alcide, oh Silvia mia!
Oggi sposa sarai. Oggi d’Ascanio
il conforto sarai, l’amor, la speme:
ambi di questo suolo
la delizia e il piacer sarete insieme.
Per la gioia in questo seno
l’alma, oh Dio! balzar mi sento.
All’eccesso del contento
no, resistere non sa.
Silvia cara, amici miei,
se con me felici siete,
ah venite, dividete
il piacer che in cor mi sta.
Silvia. (Misera! che farò?) Narrami, Aceste,
onde sai tutto ciò?
Aceste. La dea me ’l disse.
Silvia. Quando?
Aceste. Non bene ancora
si tignevan le rose
de la passata aurora.
Silvia. E che t’impose?
Aceste. D’avvertirne te stessa,
d’avvertirne i pastori: e poi disparve,
versando dal bel crin divini odori.
Silvia. (Ah! che far piú non so. Taccio?... mi scopro?...)
Aceste. (Ma la ninfa si turba...
Numi! che sará mai?...)
Silvia. (No, che non lice

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in simil uopo all’anime innocenti

celar gli affetti loro). Odimi, Aceste...
Aceste. Cieli! Che dir mi vuol?
Qual duol ti opprime in si felice istante?
Silvia. Padre... oh numi!... die pena!... io sono amante.
Aceste. (Ahimè! respiro alfine.)
E ti affanni per ciò? Non è d’amore
degno il tuo sposo? O credi
colpa l’amarlo?
Silvia. Anzi, qual nume, o padre,
10rispetto e l’onoro. I pregi suoi
tutti ho fissi nell’alma. Ognun favella
di sue virtú. Chi caro a Marte il chiama,
chi diletto d’Urania, e chi l’appella
de le Muse sostegno:
chi n’esalta la mano, e chi l’ingegno.
Del suo gran padre in lui
11magnanimo cor chi dice impresso;
chi de la dea celeste
l’immensa caritá trasfusa in esso.
Si, ma d’un altro amore
sento la fiamma in petto:
e l’innocente affetto
solo a regnar non è.
Aceste. Ah no, Silvia, t’inganni,
innocente che sei! Giá per lung’uso
io piú di te la tua virtú conosco.
Spiega il tuo core, o figlia,
e al tuo fido custode or ti consiglia.
Silvia. Odi, Aceste, e stupisci. Il di volgea,
che la mia fe’ donai
d’esser sposa d’Ascanio all’alma dea.
Mille immagini liete,
che avean color da quel felice giorno
venian volando alla mia mente intorno.
Ed ella in dolce sonno

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s’obliava innocente in preda a loro;

quand’ecco, oh cielo! a me, non so se desta,
ma desta si, poi che su gli occhi ancora
ho non men che nel cor quel vago oggetto,
apparve un giovanetto. Il biondo crine
sul tergo gli volava; e mista al giglio
ne la guancia vezzosa
gli fioriva la rosa: il vago ciglio...
Padre, non piú, perdona.
L’indiscreto pensier, parlando ancora,
va dietro a le lusinghe
dell’immagin gentil, che lo innamora.
Aceste. (Che amabile candor!) Segui; che avvenne?
Silvia. Ah! da quel giorno il lusinghier sembiante
regnò nel petto mio; di sé m’accese;
i miei pensieri ei solo
tutti occupar pretese: i sonni miei
di sé solo ingombrò. Da un lato Ascanio,
la cui sembianza ignota,
ma la virtú m’è nota,
meraviglia e rispetto al cor m’inspira:
dall’altro poi l’imaginato oggetto
tenerezza ed amor mi desta in petto.
Aceste. No, figlia, non temer. Senti la mano
de la pietosa dea. Questa bell’opra
opra è di lei.
Silvia. Che dici?
Come? parla, che fia?
Aceste. Piacque a la diva
di stringere il bel nodo: in ogni guisa
vi dispone il tuo core, e in sen ti pinge
le sembianze d’Ascanio.
Silvia. E come il sai?
Aceste. In cor mi parla un sentimento ignoto,
la tua virtú me ’l dice, e m’assicura
il favor de la dea.

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Silvia. Numi! chi fia

piú di me fortunata? Oh Ascanio, oh sposo!
Dunque per te, mio bene,
l’amoroso desio
si raddoppia cosí dentro al cor mio?
Amo adunque il mio sposo
quando un bel volto adoro? Amo lui stesso
quando mille virtú pregio ed onoro?
Come è felice stato
quello d’un’alma fida
ove innocenza annida,
e non condanna amor!
Del viver suo beato
sempre contenta è l’alma:
e sempre in dolce calma
va sospirando il cor.
Aceste. Silvia, mira che il sole ornai s’avanza
oltre il meriggio. È tempo
che si prepari ognuno
ad accoglier la dea. Su via, pastori,
a coronarci andiam di frondi e fiori:
tu con altri pastor, Fauno, raccogli
vaghi rami e ghirlande; e qui le reca
onde sia il loco adorno
quanto si può per noi. Tu ancor prepara
parte de’ cari frutti, onde sull’ara
con le odorate gomme ardan votivo
sagrificio a la dea che a noi il dona.
Se questo di è festivo
ogni anno al suo gran nome, or che si deve,
quando si fausta a noi
reca il maggior de’ benefici suoi?
Coro. Venga de’ sommi eroi
venga il crescente onor.
Piú non s’involi a noi:
qui lo incateni Amor.
(partono tutti fuorché Ascanio)

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SCENA V

Ascanio, e poi Venere e Coro di Geni.

Ascanio. Cielo! che vidi mai! quale innocenza,

quale amor, qual virtú! Come non corsi
al piè di Silvia, a palesarmi a lei?
Ah questa volta, o dea, quanto penoso
l’ubbidirti mi fu! Vieni e disciogli (Venere sopraggiunge
questo freno crudele... col coro de’ geni)
Venere. Eccomi, o figlio.
Ascanio. Lascia, lascia ch’io voli
ove il ridente fato
mi rapisce, mi vuol. Quel dolce aspetto,
quel candor, quella fé, quanto rispetto
m’inspirano nell’alma, e quanti, oh dio,
quanti mantici sono al mio desio!
Ah di si nobil alma
quanto parlar vorrei!
Se le virtú di lei
tutte saper pretendi,
chiedile a questo cor.
Solo un momento in calma
lasciami, o diva, e poi
di tanti pregi suoi
potrò parlarti allor.
Venere. Un’altra prova a te mirar conviene
de la virtú di Silvia. Ancor per poco
soffri, mia speme. Appena
qui fia ia pasturai turba raccolta,
che di mia gloria avvolta
comparir mi vedrá. Restano, o figlio,
restano ancor pochi momenti, e poi...
Ascanio. Da un core impaziente
che non pretendi, o dea! Ma sia che vuoi.

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Venere. (accennando da un lato) Lá dove sale il colle,

fin che torni quaggiú Silvia, il tuo bene,
ricovrianci per ora. In questo piano
de la nova cittá le prime moli
sorgano intanto, e de’ ministri miei
l’opra vi sudi. Auspici noi dall’alto
dominerem su l’opra: e qua tornando
la pastoral famiglia
n’avrá insieme conforto e meraviglia.
Olá, geni miei fidi,
de le celesti forze
raccogliete il valor. Qui del mio sangue
sorga il felice nido; e d’Alba il nome
suoni famoso poi di lido in lido.
E tu, mio germe, intanto
a mirar t’apparecchia in quel bel core
di virtude il trionfo, e quel d’amore.
Al chiaror di que’ bei rai,
se l’amor fomenta l’ali,
ad amar tutti i mortali
il tuo cor solleverá.
Cosí poi famoso andrai
degli dèi tra i chiari figli;
cosí fia che tu somigli
a la mia divinitá.
Coro. Di te piú amabile
né dea maggiore,
celeste Venere,
no non si dá.
Con fren si placido
reggi ogni core,
che piú non bramasi
la libertá.

Molti pastori e pastorelle, secondo l’antecedente comando d’Aceste, vengono per ornar solennemente il luogo di ghirlande e di fiori. Ma [p. 28 modifica]mentre questi si accingono all’opera, ecco che compariscono le Grazie accompagnate da una quantitá di geni e di ninfe celesti in atto di meditare qualche grande intrapresa. I pastori rimangono a tale veduta estremamente sorpresi: se non che, incoraggiti dalla gentilezza di quelle persone celesti, tornano all’incominciato lavoro. Ma assai piú grande rinasce in essi la meraviglia, quando, ad un cenno delle Grazie e dei geni, veggono improvvisamente cambiarsi i tronchi degli alberi, che stanno adornando di ghirlande, in altrettante colonne, le quali formano di mano in mano un sodo, vago e ricco d’ordine d’architettura, con cui dassi principio all’edificazione d’Alba, e si promette un felice cambiamento al paese. Questi accidenti, congiunti con gli atti d’ammirazione, di riconoscenza, di tenerezza, di concordia fra le celesti e le umane persone, fanno la base del breve ballo, che lega l’anteriore con la seguente parte della rappresentazione.
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PARTE SECONDA

SCENA I

Silvia, Coro di Pastorelle.

Star lontana non so, compagne ninfe,

da questo amico loco.
Ah qui vedrò fra poco
l’adorato mio sposo e l’alma dea,
che di sua luce pura
questi lidi beati orna e ricrea.
Ma ciel! Che veggio mai! Mirate, amiche,
come risplende intorno
di scolti marmi e di colonne eccelse
il sacro loco intorno. Ah senza fallo
questo è divin lavoro. 11 tempo e l’opra
de’ mortali non basta a tanta impresa.
Sento, sento la mano
de la propizia dea. L’origin questa
è dell’alma cittá, che a noi promisequesta
è mirabil prova
de la venuta sua. Fra pochi istanti
de le felici amanti
la piú lieta sarò. Giá dall’occaso
il sol mi guarda; e pare
piú lucido che mai scender nel mare.
Spiega il desio le piume;
vola il mio core e geme;
ma solo con la speme;
poi mi ritorna al sen.

[p. 30 modifica]
Vieni col mio bel nume

al fine, o mio desio:
dimmi una volta, oh dio!
ecco l’amato ben.
(siede da un lato colle pastorelle intorno)
Coro. Giá l’ore sen volano,
giá viene il tuo bene.
Fra dolci catene
quell’alma vivrá, (il Coro siede)

SCENA II

Silvia, Coro di Pastorelle, Ascanio.

Ascanio. (non vedendo Silvia, da sé)

Cerco di loco in loco
la mia Silvia fedele: e pur non lice
questo amante cor mio svelare a lei;
ché me ’l vieta la diva.
Adorata mia sposa, ah dove sei?
Lascia, lascia che possa
questo mio cor, che de’ tuoi inerti è pieno,
celato ammirator vederti al meno, (vedendo Silvia, da sé)
Ma non è Silvia quella
che lá si posa su quel verde seggio,
con le sue ninfe a lato?... Io non m’inganno.
Certo è il mio bene, è desso.
Numi? che fo?... m’appresso?...
Silvia. (vedendo Ascanio, da sé)
Oh ciel! che miro?...
Quegli è il garzon di cui scolpita ho in seno
l’imagin viva...
Ascanio. Ah! se potessi almeno
scoprirmi a lei...
Silvia. Cosí m’appare in sogno...

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cosí l’ha ognor presente

nel dolce imaginar questa mia mente.
Che fia?... Sogno?... o son desta?...
Ascanio. Oh madre, oh diva!
Qual via crudel di tormentarmi è questa?
Silvia. No, piú sogno non è: quello è il sembiante
che da gran tempo adoro...
Ascanio è dunque?... o pur son d’altri amante?...
Dubito ancor...
Ascanio. La ninfa
agitata mi par... Mi riconosce,
ma scoprirsi non osa.
Silvia. Ah si il mio bene,
il mio sposo tu sei.
(alzandosi, e facendo qualche passo verso Ascanio)
Ascanio. Cieli! s’accosta:
come potrò non palesarmi a lei!
Silvia. (s’arresta)
Imprudente, che fo? Spontanea, e sola
appressarmi vogl’io? Seco non veggio
la dea che il guida... Egli di me non chiede..,
Meco Aceste non è... Dove t’avanzi
trasportato dal core, incauto piede?
Ingannarmi potrei...

SCENA III

Silvia, Ascanio, Coro di Pastorelle, Fauno.

Fauno. Silvia, Silvia, ove sei?

Silvia. (accostandosi a Fauno) Fauno, che brami?
Fauno. (a Silvia)
Io di te cerco, o ninfa, e a te pur vengo
giovanetto straniere.
(ad Ascanio che si accosta dall’altro lato)

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Silvia. (Egli è stranier, qual sembra: ah certo è desso,

certo è lo sposo mio), (a Fauno) Pastor favella.
Fauno. (a Silvia, scostandosi Ascanio)
A te Aceste m’invia: di te chiedea:
qui condurti ei volea. Di giá si sente
la gran diva presente. In ogni loco
sparge la sua virtú. Vedi quell’opra
che mirabil s’innalza? I geni suoi
la crearon pur dianzi. Io e i pastori
ne vedemmo il lavoro,
mentre qua recavan ghirlande e fiori.
Ciò narrammo ad Aceste: ed egli a noi
meraviglie novelle
ne mostrò d’ogni parte. Oh se vedessi!
Silvia, sul sacro albergo
ove seco dimori, una gran luce
piove e sfavilla intorno, e par che rieda
pria di morir verso l’aurora il giorno.
Tutto il pendio del colle
onde qua giú si scende,
di fior vernali e di novelli germi
tutto si copre. Per la via risplende
un ignoto elemento
di rutile vivissime scintille,
onde aperto si vede
che volò su quel suolo il divin piede.
Ma troppo tardo ornai.
Silvia. (Quanto ti deggio,
amabil deitá!)
Fauno. Volo ad Aceste:
dirò che piú di lui
fu sollecito amore... (a Silvia, accennando di partire)
Ascanio. (accostandosi a Fauno)
Ed a me ancora
non volevi parlar, gentil pastore?
Fauno. Ah, quasi l’obliai, (ad Ascanio) Garzon, mi scusa.

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In di cosí ridente

l’eccesso del piacer turba la mente.
Ad Aceste narrai
come qui ti conobbi, e ti lasciai.
Ascanio. E che per ciò?
Fauno. Sorrise
lampeggiando di gioia il sacro veglio.
Levò le mani al cielo, e palpitando:
— Sento, — mi disse, — un non inteso affetto
tutto agitarmi il petto...—
Silvia. (Oh caro sposo!
Non ne dubito piú.)
Fauno. — Vanne, — soggiunse, —
cerca de lo straniere. —
Silvia. (Il saggio Aceste
nell’indovina mente
tutto sa, tutto vede, e tutto sente!)
Ascanio. Che vuol dunque da me?
Fauno. Per me ti prega
che rimanga tra noi fin che si sveli
a noi la nostra dea. Vuol che tu sia
de’ favori di lei,
de’ felici imenei, del nostro bene
nuncio fedele a le rimote arene.
Silvia. (Oh me infelice! Aceste
dunque noi crede Ascanio!)
Ascanio. (Ahimè, che dico?
Oh dura legge!)
Fauno. (ad Ascanio) E che rispondi al fine?
Ascanio. Che ubbidirò... che del felice sposo
ammirerò il destin...
Silvia. (Misera! Oh numi!
Dunque Ascanio non è. Che fiero colpo!
Che fulmine improvviso!) (si ritira e si siede abbattuta
fra le ninfe verso il fondo della scena)
Ascanio. Alfin, pastore,
di’ che l’attendo.

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Fauno. Ed io

tosto men volo ad affrettarlo. Addio.
Dal tuo gentil sembiante
risplende un’alma grande:
e quel chiaror, che spande,
quasi adorar ti fa.
Se mai divieni amante,
felice la donzella,
che a fiamma cosí bella
allor s’accenderá, (parte)

SCENA IV

Silvia, Coro di Pastorelle, Ascanio.

Ascanio. (guardando a Silvia)

Ahimè! Che veggio mai?
Silvia colá si giace
pallida, semiviva
a le sue ninfe in braccio. Intendo, oh dio!
Arde del volto mio: e non mi crede
il suo promesso Ascanio.
La virtude e l’amore
fanno atroce battaglia in quel bel core.
E dal penoso inganno
liberarla non posso... Agli occhi suoi
s’involi almen questo affannoso oggetto
fin che venga la dea. Colá mi celo:
e non lontan da lei
udrò le sue parole,
pascerò nel suo volto i guardi miei.
Al mio ben mi veggio avanti,
del suo cor sento la pena,
e la legge ancor mi frena.
Ah si rompa il crudo laccio,
abbastanza il cor soffri.

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Se pietá dell’alme amanti,

o gran diva, il sen ti move,
non voler fra tante prove
agitarle ognor cosí, (si ritira dalla scena)
Silvia. Ferma, aspetta, ove vai? dove t’involi?
(accorrendo ad Ascanio, e poi trattenendosi)
Perché fuggi cosí! Numi! che fo?...
Dove trascorro, ahimè!... Come s’oblia
la mia virtú!... Si, si risolva alfine.
Rompasi alfin questo fallace incanto.
Perché, perché mi vanto
prole de’ numi, e una sognata imago
travia quel cor che al sol dovere è sacro,
e sacro a la virtú?... Ma non vid’io
le sembianze adorate
pur or con gli occhi miei?... No, non importa.
Sol d’Ascanio son io. Da lor si fugga.
Se il ciel cosí mi prova,
miri la mia vittoria... E se il mio sposo
fosse quel ch’or vid’io?... Ah mi lusingo!
Perché in si dolce istante
non palesarsi a me? perché mentirsi,
e straziarmi cosí?... No, mi seduce
l’ingannato mio core... E s’anco ei fosse,
vegga, che so lui stesso
sacrificare a lui,
e l’amato sembiante ai merti sui.
Ah si corra ad Aceste:
involiamci di qui. Grande qual sono
stirpe de’ numi al comun ben mi deggio.
Fuor che l’alma d’Ascanio altro non veggio.
Infelici affetti miei,
sol per voi sospiro, e peno.
Innocente è questo seno:
noi venite a tormentar.

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Deh quest’alma, eterni dèi,

mi rendete alfin qual’era.
Piú l’immagin lusinghiera
non mi torni ad agitar.
Ascanio. Anima grande, ah lascia,
lascia, oh dio! che al tuo piè... (accorrendo a Silvia)
Silvia. Vanne. A’ miei lumi
(partendo risoluta)
ti nascondi per sempre. Io son d’Ascanio. (parte)
Coro. Che strano evento
turba la vergine
in questo di!
No non lasciamola
dove si rapida
fugge cosí, (partono)

SCENA V

Ascanio.

Ahi, la crudel come scoccato dardo

s’involò dal mio sguardo! Incauto, ed io
quasi di fé mancai.
Chi a tante prove, o dea,
d’amore e di virtú regger potea?
Di si gran dono, o madre,
ricco mi fai, che piú non può mortale
desiar dagli dèi: e vuoi ch’io senta
tutto il valor del dono. Ah! si, mia Silvia,,
troppo, troppo maggiore
sei de la fama. Ora i tuoi pregi intendo:
or la ricchezza mia tutta comprendo
Torna, mio bene, ascolta:
il tuo fedel son io:
amami pur, ben mio;
no non t’inganna amor.

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Quella che in seno accolta

serbi virtú si rara,
a gareggiar prepara
coll’innocente cor. (si ritira in disparte)

SCENA VI

Ascanio, Silvia, Aceste, Fauno, Coro di Pastori,
e di Pastorelle, poi Venere e Coro di Geni.

Coro. Venga de’ sommi eroi,

venga il crescente onor.
Piú non s’involi a noi:
qui lo incateni Amor.
Aceste. (a Silvia, che tiene graziosamente per la mano)
Che strana meraviglia
del tuo cor mi narrasti, amata figlia!
Ma pur non so temer. Serba i costumi
che serbasti finora. Il ciel di noi
spesso fa prova: e dai contrasti illustri
onde agitata sei,
quella virtú ne desta
che i mortali trasforma in semidei.
Sento che il cor mi dice
che paventar non dèi:
ma penetrar non lice
dentro all’ascoso vel.
Sai, che innocente sei,
sai, che dal ciel dipendi:
lieta la sorte attendi
che ti prescrive il ciel.
Silvia. Si, padre, alfin si taccia
ogn’altro affetto in seno.
Segua che vuol, purché il dover si faccia.
Aceste. (ai pastori, che raccolti intorno all’ara, v’ardono gl’incensi)
Su, felici pastori, ai riti vostri

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date principio; e la pietosa dea

invocate con gl’inni.
Coro. Scendi, celeste Venere,
e del tuo amore in segno
lasciane il caro pegno
che sospirammo ognor.
Silvia. Ma s’allontani almen dagli occhi miei
quel periglioso oggetto. Il vedi? (accennando Ascanio)
Aceste. (guardando Ascanio) Il veggio.
Parmi simile a un dio.
Ascanio (Silvia mi guarda:
che contrasto crudeli)
Aceste. No, cara figlia,
no, non temer. Segui la grande impresa,
vedi che il fumo ascende, e l’ara è accesa.
Osservate, o pastori.
(cominciano a scender delle nuvole sopra l’ara)
Ecco scende la dea. Tra quelle nubi
si nasconde la dea. Oh Silvia mia,
meco all’ara ti volgi: e voi, pastori,
de le preghiere ardenti
rinnovate i clamori.
Coro. No, non possiamo vivere
in piú felice regno.
Ma senza il caro pegno
non siam contenti ancor.
Aceste. Ecco, ingombran l’altare
(le nubi si spandono innanzi all’ara)
le fauste nubi intorno. Ecco la luce
(si veggono uscir raggi di luce dalle nuvole)
de la diva presente, ecco traspare.
Coro. Scendi, celeste Venere,
e del tuo amore in segno
lasciane il caro pegno
che sospirammo ognor.
Aceste. Invoca, o figlia, invoca

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il favor della diva:

chiedi lo sposo tuo.
Silvia. Svélati, o dea,
scopri alla fin quell’adorato aspetto
al tuo popol diletto. Omai contento
rendi questo cor mio.
(Si squarciano le nuvole. Si vede Venere assisa sul suo carro.
Nello stesso tempo escono di dietro alle nuvole le Grazie e
i geni, che con vaga disposizione si spargono per la scena).
Ascanio. (Or felice son io. Questo è il momento.)
(si va avvicinando a Silvia)
Silvia. Oh diva!
Ascanio Oh sorte! (Si accosta di piú)
Aceste. Oh giorno!
Silvia. (ad Ascanio, che si accosta) Ah mi persegui,
imagine crudele, insino all’ara?
Dove è il mio sposo, o diva?
(risolutamente guardando Venere, e colla mano facendosi
velo agli occhi per non veder Ascanio)
Venere. (accennando, e pigliando per una mano Ascanio, il presenta
a Silvia) Eccolo, o cara,
Silvia. (volgendosi ad Ascanio)
Oh cielo! E perché mai
nasconderti cosí?
Ascanio. (a Silvia) Tutto saprai.
Silvia. (Accorrendo ad Ascanio)
Ali caro sposo, oh dio!
Ascanio. (accorrendo a Silvia)
Vieni al mio sen, ben mio.
Silvia. (Ad Aceste)
Ah ch’io lo credo a pena!
Forse m’inganno ancora?
Aceste. (a Silvia)
Frena il timor, deh! frena:
e la gran diva adora.
Ascanio. Che bel piacere io sento
in si beato di!

[p. 40 modifica]
Aceste. De la virtú il cimento

premian gli dèi cosí, (a Silvia e ad Ascanio)
Silvia. Numi! che bel momento!
Come in si bel contento
il mio timor fini!
Aceste. De la virtú il cimento
premian gli dèi cosí.

Ascanio. (abbracciandosi
rispettosamente)
Ah cara sposa, oh dio!
Silvia. Ah caro sposo, oh dio!
Ascanio.
Silvia.
Aceste
(a tre) Piú sacro nodo in terra,
piú dolce amor non è.
Quanto, pietosa dea,
quanto dobbiamo a te!
Venere. Eccovi al fin di vostre pene, o figli.

Or godete beati
l’una nel cor dell’altro ampia mercede
de la vostra virtú, (a Silvia) Mi piacque, o cara,
prevenire il tuo core. Indi la fama,
quindi Amore operò. Volli ad Ascanio
cosí de la sua sposa
la fortezza, il candor, l’amor, la fede,
mostrar su gli occhi suoi. Scossi un momento
quel tuo bel core; e ne volar scintille
di celeste virtude a mille a mille.
Ma voi soli felici
esser giá non dovete.
La stirpe degli dèi, piú ch’ai suo bene,
pensa all’altrui.
(ad Ascanio) Apprendi, o figlio, apprendi
quanto è beata sorte
far beati i mortali. In questo piano
tu l’edificio illustre
stendi della cittá. La gente d’Alba
sia famosa per te. De le mie leggi
tempra il soave freno:
ministra il giusto: il popol mio proteggi.

[p. 41 modifica]
In avvenir due numi

abbia in vece d’un sol; te qui presente;
me, che lontana ancora
qua col pensier ritornerò sovente.
Ascanio. Che bel piacer io sento
in si beato di!
Silvia. Numi! che bel momento!
Come in si bel contento
il mio timor fini!

Ascanio.
Silvia.
Aceste
(a tre) Piú sacro nodo in terra,
piú dolce amor non è.
Quanto, pietosa dea,
quanto dobbiamo a te!
Venere. Ah chi nodi piú forti

ha del mio core in questi amati lidi?
I figli e le consorti, il popol mio...
Silvia. O diva!
Ascanio, Oh madre!
Venere. Addio, miei figli, addio.
Aceste. Ferma, pietosa dea, fermati. Almeno
lascia che rompa il freno
al cor riconoscente un popol fido.
Io son, pietosa dea,
interprete di lui. Questo tuo pegno,
(accennando Ascanio, e abbracciandolo rispettosamente)
fidalo pure a noi. Vieni; tu sei
nostro amor, nostro ben, nostro sostegno.
Adoreremo in lui
(a Venere, la quale sparisce; chiudendosi ed alzandosi le nu
volel
l’imagine di te: di te, che spargi
su i felici mortali
puro amor, pura gioia; di te, che leghi
con amorosi nodi
i popoli tra lor; che in sen d’amore
dai fomento a la pace, e di quest’orbe

[p. 42 modifica]
stabilisci le sorti, e l’ampio mare

tranquillizzi e la terra. Ah nel tuo sangue,
d’eroi, di semidei sempre fecondo,
si propaghi il tuo core;
e la stirpe d’Enea occupi il mondo.
Coro. Alma dea, tutto il mondo governa;
ché felice la terra sará.
La tua stirpe propaghisi eterna;
ché felici saranno l’etá.