Poesie (Parini)/III. Il Giorno, secondo l'ultima redazione/I. Il Mattino, secondo il ms. ambr. IV 3-4
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I
IL MATTINO
(Secondo la lezione del manoscritto Ambrosiano, IV, 3-4)
Sorge il mattino in compagnia dell’alba
dinanzi al sol, che di poi grande appare
su l’estremo orizzonte a render lieti
gli animali e le piante e i campi e Tonde.
5Allora il buon villan sorge dal caro
letto cui la fedel moglie e i minori
suoi figlioletti intiepidir la notte;
poi sul dorso portando i sacri arnesi
che prima ritrovò Cerere o Pale,
10move seguendo i lenti bovi, e scote
lungo il picciol sentier da i curvi rami
fresca rugiada che di gemme al paro
la nascente del sol luce rifrange.
Allora sorge il fabbro, e la sonante
15officina riapre, e all’opre torna
l’altro di non perfette, o se di chiave
ardua e ferrati ingegni all’inquieto
ricco Parche assecura, o se d’argento
e d’oro incider vuol gioielli e vasi
20per ornamento a nova sposa o a mense.
Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,
qual istrice pungente, irti i capelli
al suon di mie parole? Ah, il tuo mattino,
signor, questo non è. Tu col cadente
25sol non sedesti a parca cena, e al lume
dell’incerto crepuscolo non gisti
ieri a posar, qual nei tuguri suoi
entro a rigide coltri il vulgo vile.
A voi, celeste prole, a voi, concilio
30almo di semidei, altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
per novo calle a me guidarvi è d’uopo.
Tu tra le veglie e le canore scene
e il patetico gioco oltre piú assai
35producesti la notte; e stanco alfine,
in aureo cocchio, col fragor di calde
precipitose rote e il calpestio
di volanti corsier, lunge agitasti
il queto aere notturno, e le tenèbre
40con fiaccole superbe intorno apristi,
siccome allor che il siculo terreno,
da l’uno a l’altro mar rimbombar féo
Pluto col carro a cui splendeano innanzi
le tede de le Furie anguicrinite.
45Tal ritornasti a i gran palagi, e quivi
cari conforti a te porgea la mensa
cui ricoprien pruriginosi cibi
e licor lieti di francesi colli
e d’ispani e di toschi, o l’ungarese
50bottiglia a cui di verdi ellere Bromio
concedette corona e disse: — Or siedi
de le mense regina. — Al fine il Sonno
ti sprimacciò di propria man le coltrici
molle cedenti, ove te accolto il fido
55servo calò le ombrifere cortine;
e a te soavemente i lumi chiuse
il gallo che li suole aprire altrui.
Dritto è però che a te gli stanchi sensi
dai tenaci papaveri Morfèo
60prima non solva, che giá grande il giorno
fra gli spiragli penetrar contenda
de le dorate imposte, e la parete
pingano a stento in alcun lato i rai
del sol ch’eccelso a te pende sul capo.
65Or qui principio le leggiadre cure
denno aver del tuo giorno; e quindi io deggio
sciorre il mio legno, e co’ precetti miei
te ad alte imprese ammaestrar cantando.
Giá i valetti gentili udir lo squillo
70de’ penduli metalli, a cui da lunge
moto improvviso la tua destra impresse;
e corser pronti a spalancar gli opposti
schermi a la luce, e rigidi osserváro,
che con tua pena non osasse Febo
75entrar diretto a saettarte i lumi.
Ergi dunque il bel fianco, e si ti appoggia
alli origlier che lenti degradando
all’omero ti fan molle sostegno;
e coll’indice destro lieve lieve
80sovra gli occhi trascorri, e ne dilegua
quel che riman de la cimmeria nebbia;
poi de’ labbri formando un picciol arco,
dolce a vedersi, tacito sbadiglia.
Ahi se te in si vezzoso atto mirasse
85il duro capitan, quando tra l’arme
sgangherando la bocca un grido innalza
lacerator di ben costrutti orecchi,
s’ei te mirasse allor, certo vergogna
avria di sé, piú che Minerva il giorno
90che, di flauto sonando, al fonte scorse
il turpe aspetto de le guance enfiate.
Ma il damigel ben pettinato i crini
ecco s’innoltra, e con sommessi accenti
chiede qual piú de le bevande usate
95sorbir tu goda in preziosa tazza.
Indiche merci son tazza e bevande;
scegli qual piú desii. S’oggi a te giova
porger dolci a lo stomaco fomenti,
onde con legge il naturai calore
100v’arda temprato, e al digerir ti vaglia,
tu il cioccolatte eleggi, onde tributo
ti diè il guatimalese, o il caribèo
che di barbare penne avvolto ha il crine:
ma se noiosa ipocondria ti opprime,
105o troppo intorno a le divine membra
adipe cresce, de’ tuoi labbri onora
la nettarea bevanda ove abbronzato
arde e fumica il grano a te d’Aleppo
giunto e da Moca che di mille navi
110popolata mai sempre insuperbisce.
Certo fu d’uopo che da i prischi seggi
uscisse un regno, e con audaci vele,
fra straniere procelle e novi mostri
e teme e rischi ed inumane fami,
115superasse i confin per tanta etade
inviolati ancora; e ben fu dritto
se bizzarro e Cortese umano sangue
piú non stimar quel ch’oltre l’oceáno
scorrea le umane membra; e se tonando
120e fulminando alfin spietatamente
balzaron giú da i grandi aviti troni
re messicani e generosi Incassi,
poi che nuove cosí venner delizie,
o gemma de gli eroi, al tuo palato.
125Cessi’l cielo però che, in quel momento
che le scelte bevande a sorbir prendi,
servo indiscreto a te improvviso annunci
o il villano sartor che non ben pago
d’aver teco diviso i ricchi drappi
130oso sia ancor con polizza infinita
fastidirti la mente; o di lugubri
panni ravvolto il garrulo forense
cui de’ paterni tuoi campi e tesori
il periglio s’affida; o il tuo castaido
135che giá con l’alba a la cittá discese,
bianco di gelo mattutin la chioma.
Cosí zotica pompa i tuoi maggiori
al di nascente si vedean dintorno:
ma tu, gran prole, in cui si féo scendendo
140e piú mobile il senso e piú gentile,
ah sul primo tornar de’ lievi spirti
aH’uficio diurno, ah non ferirli
d’imagini si sconce! Or come i detti
di costor soffrirai barbari e rudi;
145come il penoso articolar di voci
smarrite, titubanti al tuo cospetto;
e, tra l’obliquo profondar d’inchini,
del calzar polveroso in su i tapeti
le impresse orme indecenti? Ahimè, che fatto
150il salutar licore agro e indigesto
ne le viscere tue, te allor faria
e in casa e fuori e nel teatro e al corso
ruttar plebeiamente il giorno intero!
Non fia che attenda giá ch’altri lo annunci,
155gradito ognor benché improvviso, il dolce
mastro che il tuo bel piè come a lui piace
guida e corregge. Egli all’entrar s’arresti
ritto sul limitare; indi elevando
ambe le spalle, qual testudo, il collo
160contragga alquanto; e ad un medesmo tempo
il mento inchini, e con l’estrema falda
del piumato cappello il labbro tocchi.
E non men di costui facile al letto
del mio signor t’innoltra, o tu che addestri
165a modular con la flessibil voce
soavi canti, e tu che insegni altrui
come vibrar con maestrevol arco
sul cavo legno armoniose fila.
Né la squisita a terminar corona
170che segga intorno a te, manchi, o signore,
il precettor del tenero idioma
che da la Senna, de le Grazie madre,
pur ora a sparger di celeste ambrosia
venne all’Italia nauseata i labbri.
175All’apparir di lui l’itale voci
tronche cedano il campo al lor tiranno;
e a la nova inefabil melodia
de’ sovrumani accenti, odio ti nasca
piú grande in sen contro a le bocche impure
180ch’osan macchiarse ancor di quel sermone
onde in Vaichiusa fu lodata e pianta
giá la bella francese, e i culti campi
all’orecchio de i re cantati furo
lungo il fonte gentil da le bell’acque.
185Or te questa, o signor, leggiadra schiera
al novo di trattenga; e di tue voglie
irresolute ancora or quegli or questi
con piaeevol discorso il vano adempia,
mentre tu chiedi lor tra i lenti sorsi
190dell’ardente bevanda a qual cantore
nel vicin verno si dará la palma
sovra le scene; e s’egli è il ver che rieda
l’astuta Frine che ben cento folli
milordi rimandò nudi al Tamigi;
195o se il brillante danzator Narcisso
torni pur anco ad agghiacciare i petti
de’ palpitanti italici mariti.
Cosí poi che gran pezzo a i novi albori
del tuo mattin teco scherzato fia,
200non senza aver da te rimosso in prima
l’ipocrita Pudore e quella schifa
che le accigliate gelide matrone
chiaman Modestia, alfine o a lor talento,
o da te congedati escan costoro.
205Doman quindi potrai, o l’altro forse
giorno, a i precetti lor porgere orecchio,
se a’ bei momenti tuoi cure minori
porranno assedio. A voi, divina schiatta,
piú assai che a noi mortali il ciel concesse
210domabile midollo entro al cerèbro,
si che breve lavoro unir vi puote
ampio tesor d’ogni scienza ed arte.
Il vulgo intanto, a cui non lice il velo,
aprir de’ venerabili misteri,
215fie pago assai, poi che vedrá sovente
ire o tornar dal tuo palagio i primi
d’arte maestri, e con aperte fauci
stupefatto berá le tue sentenze.
Ma giá vegg’io che le oziose lane
220premer non sai piú lungamente: e in vano
te l’ignavo tepor lusinga e molce,
però che te piú gloriosi affanni
aspettan l’ore ad illustrar del giorno.
O voi dunque del primo ordine servi,
225che di nobil signor ministri al fianco
siete incontaminati, or dunque voi
al mio divino Achille, al mio Rinaldo
l’armi apprestate. Ed ecco in un baleno
i damigelli a’ cenni tuoi star pronti.
230Giá ferve il gran lavoro. Altri ti veste
la serica zimarra, ove bei fregi
diramatisi chinesi; altri, se il chiede
piú la stagione, a te le membra copre
di stese inftno al piè tiepide pelli;
235questi al fianco ti cinge il bianco lino
che sciorinato poi cada e difenda
i calzonetti; e quei, d’alto curvando
il cristallino rostro, in su le mani
ti versa onde odorate, e da le mani
240in limpido bacin sotto le accoglie;
quale il sapon del redivivo muschio
olezzante all’intorno, e qual ti porge
il macinato di quell’arbor frutto
che a Rodope fu giá vaga donzella,
245e piagne in van sotto mutate spoglie
Demofoonte ancor Demofoonte;
un di soavi essenze intrisa spugna
onde tergere i denti, e l’altro appresta
onde imbiancar le guance util licore.
250Assai signore, a te pensasti: or volgi
l’alta mente per poco ad altri obbietti
non men degni di te. Sai che compagna
con cui partir de la giornata illustre
i travagli e le glorie il ciel destina
255al giovane signore. Impallidisci?
Ahi, non parlo di nozze: antiquo e vieto
dottor sarei, se cosí folle io dessi
a te consiglio. Di tant’alte doti
giá non orni cosí lo spirto e i membri,
260perché in mezzo a la fulgida carriera
tu il tuo corso interrompa, e fuora uscendo
di cotesto a ragion detto «bel mondo»,
in tra i severi di famiglia padri
relegato ti giacci, a nodi avvinto
265di giorno in giorno piú noiosi, e fatto
ignobil fabbro de la razza umana.
D’altra parte il marito ahi quanto spiace,
e lo stomaco move a i delicati
del vostr’orbe felice abitatori,
270qualor de’ semplicetti avoli nostri
portar osa in ridevole trionfo
la rimbambita Fé’, la Pudicizia,
severi nomi! E qual non suole a forza
entro a’ melati petti eccitar bile
275quando i computi vili del castaido,
le vendemmie, i ricolti, i pedagoghi
di que’ si dolci suoi bambini altrui
gongolando ricorda; e non vergogna
di mischiar cotai fole a peregrini
280subbietti, a nuove del dir forme, a sciolti
da volgar fren concetti, onde s’avviva
de’ begli spirti il conversar sublime.
Non però tu senza compagna andrai;
ché tra le fide altrui giovani spose
285una te n’offre inviolabil rito
del bel mondo onde sei parte si cara.
Tempo fu giá che il pargoletto Amore
dato era in guardia al suo fratello Imene;
tanto la madre lor temea che il cieco
290incauto nume perigliando gisse
misero e solo per oblique vie,
e che, bersaglio a gl’indiscreti colpi
di senza guida e senza freno arciere,
immaturo al suo fin corresse il seme
295uman che nato è a dominar la terra.
Quindi la prole mal secura all’altra
in cura dato avea, si lor dicendo:
— Ite, o figli, del par; tu piú possente
il dardo scocca, e tu piú cauto il reggi
300a certa meta. — Cosí ognor congiunta
iva la dolce coppia, e in un sol regno
e d’un nodo comun l’alme strignea.
Allora fu che il sol mai sempre uniti
vedea un pastore ed una pastorella
305starsi al prato, a la selva, al colle, al fonte;
e la suora di lui vedeali poi
uniti ancor nel talamo beato,
ch’ambo gli amici numi a piene mani
gareggiando spargean di gigli e rose.
310Ma che non puote, anco in divini petti,
se mai s’accende, ambizion d’impero?
Crebber l’ali ad Amor, crebbe l’ardire,
onde a brev’aere prima, indi securo
a vie maggior fidossi, e fiero alfine
315entrò nell’alto, e il grande arco crollando
e il capo, risonar fece a quel moto
il duro acciar che a tergo la faretra
gli empie, e gridò: — Solo regnar vogl’io. —
Disse, e volto a la madre: — Amore adunque,
320il piú possente infra gli dèi, il primo
di Citerèa figliuol, ricever leggi,
e dal minor german ricever leggi,
vile alunno, anzi servo? Or dunque Amore
non oserá fuor ch’una unica volta
325fiedere un’alma, come questo schifo
da me pur chiede? E non potrò giammai,
da poi ch’io strinsi un laccio, anco disciorlo
a mio talento, e, se m’aggrada, un altro
strignerne ancora? E lascerò pur ch’egli
330di suoi unguenti impece a me i miei dardi,
perché men velenosi e men crudeli
scendano a i petti? Or via, perché non togli
a me da le mie man quest’arco e queste
armi da le mie spalle, e ignudo lasci
335quasi rifiuto de gli dei Cupido?
Oh, il bel viver che fia quando tu solo
regni in mio loco! Oh il bel vederti, lasso!
studiarti a torre da le languid’alme
la stanchezza e il fastidio, e spander gelo
340di foco in vece! Or, genitrice, intendi:
vaglio, e vo’ regnar solo. A tuo piacere
tra noi parti l’impero, ond’io con teco
abbia omai pace, e in compagnia d’Imene
me non veggan mai piú le umane genti. —
345Amor qui tacque, e, minaccioso in atto,
parve all’idalia dea chieder risposta.
Ella tenta placarlo, e preghi e pianti
sparge, ma in van; tal ch’a i due figli volta
con questo dir pose al contender fine:
350— Poi che nulla tra voi pace esser puote,
si dividano i regni: e perché l’uno
sia dall’altro fratello ognor disgiunto,
sien diversi tra voi e il tempo e l’opra.
Tu che, di strali altero, a fren non cedi,
355Palme ferisci, e tutto il giorno impera;
e tu che di fior placidi hai corona,
le salme accoppia, e con l’ardente face
regna la notte. — Or quindi, almo signore,
venne il rito gentil, che ai freddi sposi
360le tenebre concede, e de le spose
le caste membra: e a voi, beata gente
e di piú nobil mondo, il cor di queste
e il dominio del di largo destina.
Dunque ascolta i miei detti, e meco apprendi
365quai tu deggia il mattin cure a la bella
che spontanea o pregata a te si diede
in tua dama quel di lieto che a fida
carta, né senza testimoni, furo
a vicenda commessi i patti santi,
370e le condizion del caro nodo.
Giá la dama gentile i vaghi rai
al novo giorno aperse; e suo primiero
pensier fu dove teco ir piú convenga
a vegliar questa sera, e gravemente
375consultò con lo sposo a lei vicino,
o a baciarle la man pur dianzi ammesso.
Ora è tempo, o signor, che il fido servo
e il piú accorto tra’ tuoi voli al palagio
di lei, chiedendo se tranquilli sonni
380dormio la notte, e se d’immagin liete
le fu Morfeo cortese. È ver che ieri
al partir l’ammirasti in viso tinta
di freschissime rose; e piú che mai
viva e snella balzar teco dal cocchio,
385e la vigile tua mano per vezzo
ricusar sorridendo, allor che l’ampie
scale salí del maritale albergo;
ma ciò non basti ad acquetarti, e mai
non obliar si giusti ufici. Ahi quanti
390geni malvagi fra horror notturno
godono uscire ed empier di perigli
la placida quiete de’ viventi!
Poria, tolgalo il cielo, il picciol cane,
con latrato improvviso i cari sogni
395troncar de la tua dama, ond’ella, scossa
da súbito capriccio, a rannicchiarse
astretta fosse, di sudor gelato
e la fronte bagnando e il guancial molle.
Anco poria colui che si de’ tristi
400come de’ lieti sogni è genitore,
crearle in mente, di nemiche idee
in un congiunte, orribile chimera,
tal che agitata e in ansioso affanno
gridar tentasse, e non però potesse
405aprire a i gridi tra le fauci il varco.
Sovente ancor de la passata sera
la perduta nel gioco aurea moneta,
non men che al cavalier, suole a la dama
lunga vigilia cagionar: talora
410nobile invidia de la bella amica
vagheggiata da molti, e talor breve
gelosia n’è cagione. A questo aggiugni
gl’importuni mariti, i quai nel capo
ravvolgendosi ancor le viete usanze,
415poi che cessero ad altri il giorno, quasi
aggian fatto gran cosa, aman d’Imene
con superstizion serbare i dritti,
e dell’ombra notturna essere tiranni,
ahi con qual noia de le caste spose
420ch’indi preveggon fra non molto il fiore
di lor fresca beltade a sé rapito.
Mentre che il fido messaggier sen rieda,
magnanimo signor, giá non starai
ozioso però. Nel campo amato
425pur in questo momento il buon cultore
suda, e incallisce al vomere la mano,
lieto che i suoi sudor ti fruttin poi
dorati cocchi e pellegrine mense.
Ora per te l’industre artier sta fiso
430allo scarpello, all’asce, al subbio, all’ago;
ed ora in tuo favor contende o veglia
il ministro di Temi. Ecco, te pure
la tavoletta or chiama; ivi i bei pregi
de la natura accrescerai con l’arte,
435ond’oggi, uscendo, del beante aspetto
beneficar potrai le genti, e grato
ricompensar di sue fatiche il mondo.
Ogni cosa è giá pronta. All’un de’ lati
440crepitar s’odon le fiammanti brage
ove si scalda industrioso e vario
di ferri arnese a moderar del fronte
gl’indocili capei. Stuolo d’Amori
invisibil sul foco agita i vanni,
445e per entro vi soffia, alto gonfiando
ambe le gote. Altri di lor v’appressa
pauroso la destra, e prestamente
ne rapisce un de’ ferri; altri rapito
tenta com’arda, in su l’estrema cima
450sospendendol dell’ala, e cauto attende
pur se la piuma si contragga o fumé;
altri un altro ne scote, e de le ceneri
filigginose il ripulisce e terge.
Tali a le vampe dell’etnea fucina,
455sorridente la madre, i vaghi Amori
eran ministri all’ingegnoso fabbro:
e sotto a i colpi del martel frattanto
l’elmo sorgea del fondator latino.
All’altro lato con la man rosata
460Como e di fiori inghirlandato il crine
i bissi scopre ove di idali arredi
almo tesor la tavoletta espone.
Ivi e nappi eleganti e di canori
cigni morbide piume; ivi raccolti
465di lucide odorate onde vapori;
ivi di polvi fuggitive al tatto
color diversi o ad imitar d’ApoIlo
l’aurato biondo o il biondo cenerino
che de le sacre Muse in su le spalle
470casca ondeggiando tenero e gentile.
Che se a nobil eroe le fresche labbra
repentino spirar di rigid’aura
offese alquanto, v’è stemprato il seme
de la fredda cucurbita; e se mai
475pallidetto ei si scorga, è pronto all’uopo
arcano a gli altri eroi vago cinabro.
Né quando a un semideo spuntar sul volto
pustula temeraria osa pur fosse,
multiforme di nèi copia vi manca,
480ond’ei l’asconda in sul momento, ed esca
piú periglioso a saettar co i guardi
le belle inavvedute, a guerrier pari
che, giá poste le bende a la ferita,
piú glorioso e furibondo insieme
485sbaragliando le schiere entra nel folto.
Ma giá velocemente il mio signore
tre volte e quattro il gabinetto scorse
col crin disciolto e su gli omeri sparso,
quale a Cuma solea l’orribil maga
490quando, agitata dal possente nume,
vaticinar s’udia. Cosí dal capo
evaporar lasciò de gli oli sparsi
il nocivo fermento, e de le polvi
che roder gli porien la molle cute,
495o d’atroci emicranie a lui lo spirto
trafigger lungamente. Or ecco avvolto
tutto in candidi lini a la grand’opra
e piú grave del di s’appresta, e siede.
Nembo d’intorno a lui vola d’odori
500che a le varie manteche ama rapire
l’aura vagante lungo i vasi ugnendo
le leggerissim’ale di farfalla:
e lo speglio patente a lui dinanzi
altero sembra di raccòr nel seno
505l’imagin diva: e stassi a gli occhi suoi
severo esplorator de la tua mano,
o di bel crin volubile architetto.
O di bel crin volubile architetto,
tu pria chiedi all’eroe qual piú gli aggrade
510spargere al crin, se i gelsomini o il biondo
fior d’arancio piuttosto, o la giunchiglia,
o l’ambra preziosa agli avi nostri.
Ma se la sposa altrui, cara all’eroe,
del talamo nuzial si lagna, e scosse
515pur or da lungo peso i casti lombi,
ah fuggi allor tutti gli odori, ah fuggi;
ché micidial potresti a un sol momento
piú vite insidiar: semplici sieno
i tuoi balsami allor: né oprarli ardisci
520pria che di lor deciso aggian le nari
del mio signore e tuo. Pon mano poi
al pettin liscio, e con l’ottuso dente
lieve solca le chiome; indi animoso
le turba, e le scompiglia; e alfin da quella
525alta confusion traggi e dispiega,
opra di tua gran mente, ordin superbo.
Io breve a te parlai; ma il tuo lavoro
breve non fia però; né al termin giunto
prima sará, che da’ piú strani eventi
530s’involva o tronchi all’alta impresa il filo.
Fisa i guardi a lo speglio; e lá sovente
il mio signor vedrai morder le labbra
impaziente, ed arrossir nel volto.
Sovente ancor, se men dell’uso esperta
535parrá tua destra, del convulso piede
udrai lo scalpitar breve e frequente,
non senza un tronco articolar di voce
che condanni e minacci. Anco t’aspetta
veder talvolta il cavalier sublime
540furiando agitarsi, e destra e manca
porsi a la chioma, e dissipar con l’ugne
lo studio di molt’ore in un momento.
Che piú? Se per tuo male un di vaghezza
d’accordar ti prendesse al suo sembiante
545gli edifici del capo, e non curassi
ricever leggi da colui che venne
pur ier di Francia, ahi quale atroce folgore,
meschino! allor ti penderla sul capo?
Tu allor l’eroe vedresti ergers’in piedi,
550e per gli occhi versando ira e dispetto,
mille strazi imprecarti; e scender fino
ad usurpar le infami voci al vulgo
per farti onta maggiore; e di bastone
il tergo minacciarti; e violento
555rovesciare ogni cosa, al suol spargendo
rotti cristalli e calamistri e vasi
e pettini ad un tempo. In simil guisa,
se del tonante all’ara o de la dea
che ricovrò dal Nilo il turpe phallo,
560tauro spezzava i raddoppiati nodi
e libero fuggia, vedeansi a terra
cader tripodi, tazze, bende, scuri,
litui, coltelli, e d’orridi mugiti
commosse rimbombar le arcate volte,
565e d’ogni lato astanti e sacerdoti
pallidi all’urto e all’impeto involarse
del feroce animai, che pria si queto
giá di fior cinto, e sotto a la man sacra
umiliava le dorate corna.
570Tu non pertanto coraggioso e forte
dura, e ti serba a la miglior fortuna.
Quasi foco di paglia è foco d’ira
in nobil petto. Il tuo signor vedrai
mansuefatto a te chieder perdono,
575e sollevarti oltr’ogni altro mortale
con preghi e scuse a niun altro concesse;
tal che securo sacerdote a lui
immolerai lui stesso, e pria d’ognaltro
larga otterrai del tuo lavor mercede.
580Or, signore, a te riedo. Ah non sia colpa
dinanzi a te, s’io travviai col verso
breve parlando ad un mortai cui degni
tu degli arcani tuoi. Sai che a sua voglia
questi ogni di volge e governa i capi
585de’ semidei piú chiari: e le matrone,
che da i sublimi cocchi alto disdegnano
chinar lo sguardo a la pedestre turba,
non disdegnan sovente entrar con lui
in festevoli motti, allor ch’esposti
590a la sua man sono i ridenti avori
del bel collo e del crin l’aureo volume.
Però m’odi benigno, or ch’io t’apprendo
l’ore a passar piú graziose, intanto
che il pettin creator doni a le chiome
595leggiadra o almen non piú veduta forma.
Breve libro elegante a te dinanzi
tra gli arnesi vedrai, che l’arte aduna
per disputare a la natura il vanto
del renderti si caro a gli occhi altrui.
600Ei ti lusingherá forse con liscia
purpurea pelle onde vestito avrai lo
o mauritano conciatore o siro;
e d’oro fregi delicati, e vago
mutabile color, che il collo imite
605de la colomba, v’avrá sparso intorno
squisito legator batavo o franco;
e forse incisa con venereo stile
vi fia serie d’imagini interposta,
lavor che vince la materia, e donde
610fia che nel cor ti si ridesti e viva
la stanca di piaceri ottusa voglia.
Or tu il libro gentil con lenta mano
togli, e non senza sbadigliare un poco
aprilo a caso, o pur lá dove il parta
615tra l’uno e l’altro foglio indice nastro.
O della Francia Proteo multiforme,
scrittor troppo biasmato e troppo a torto
lodato ancor, che sai con novi modi
imbandir ne’ tuoi scritti eterno cibo
620a i semplici palati, e se’ maestro
di color che a sé fmgon di sapere;
tu appresta al mio signor leggiadri studi
con quella tua fanciulla all’anglo infesta,
onde l’Enrico tuo vinto è d’assai,
625l’Enrico tuo, che in vano abbatter tenta
l’italian Goffredo, ardito scoglio
contro a la Senna d’ogni vanto altera.
Tu de la Francia onor, tu in mille scritti
celebrata da’ tuoi novella Aspasia,
630Taide novella a i facili sapienti
de la gallica Atene, i tuoi precetti
tu pur detta al mio eroe: e a lui non meno
pasci l’alto pensier tu che all’Italia,
poi che rapirle i tuoi l’oro e le gemme,
635invidiasti il fedo loto ancora
onde macchiato è il certaldese, o l’altro
per cui va si famoso il pazzo conte.
Questi, o signore, i tuoi studiati autori
fieno e mill’altri che guidáro in Francia
640i bendati sultani, i regi persi
e le peregrinanti arabe dame;
o che, con penna liberale, a i cani
ragion donáro e a i barbari sedili,
e dièr feste e conviti e liete scene
645a i polli ed alle gru d’amor maestre.
O pascol degno d’anima sublime!
oh chiara, oh nobil mente! A te ben dritto
è che s’incurvi riverente il vulgo,
e gli oracoli attenda. Or chi fie dunque
650si temerario che in suo cor ti beffe
qualor, partendo da si gravi studi,
del tuo paese l’ignoranza accusi,
e tenti aprir col tuo felice raggio
la gotica caliggine che annosa
655siede su gli occhi a le misere genti?
Cosí non mai ti venga estranea cura
questi a troncar si preziosi istanti
in cui del pari e a la dorata chioma
splendor dai novo ed al celeste ingegno.
660Non pertanto avverrá che tu sospenda
quindi a poco il versar de’ libri amati,
e che ad altro ti volga. A te quest’ora
condurrá il merciaiol che in patria or torna
pronto inventor di lusinghiere fole,
665e liberal di forastieri nomi
a merci che non mai varcáro i monti.
Tu a lui credi ogni detto. E chi vuoi ch’ose
unqua mentire ad un tuo pari in faccia?
Ei fia che venda, se a te piace, o cambi
670mille fregi e lavori a cui la moda
di viver concedette un giorno intero
tra le folte d’inezie illustri tasche:
poi lieto se n’andrá, con l una mano
pesante di molt’oro; e in cor gioiendo,
675spregerá le bestemmie imprecatrici
e il gittato lavoro e i vani passi
del calzolar diserto e del drappiere,
e dirá lor: — Ben degna pena avete,
o troppo ancor religiosi servi
680de la Necessitade, antiqua, è vero,
madre e donna dell ’arti, or nondimeno
fatta cenciosa e vile. Al suo possente
arnabil vincitor v’era assai meglio,
o miseri, ubbidire. 11 Lusso, il Lusso
685oggi sol puote dal ferace corno
versar su l’arti a lui vassalle applausi
e non contesi mai premi e ricchezze. —
L’ore fien queste ancor che a te ne veglia
il delicato miniator di belle,
690che de la corte d’Amatunta uscio
stipendiato ministro, atto a gli affari
sollecitar dell’amorosa diva.
Or tu l’affretta impaziente e sprona,
si che a te porga il desiato avorio
695che de le amate forme impresso ride;
sia che il pennel cortese ivi dispieghi
l’alme sembianze del tuo viso, ond’aggia
tacito pasco allor che te non vede
la pudica d’altrui sposa a te cara;
700sia che di lei medesma al vivo esprima
il vago aspetto; o, se ti piace, ancora
d’altra beltá furtiva a te presenti
con piú largo confin le amiche membra.
Doman fie poi che la concessa imago
705entro arnese gentil per te si chiuda
con opposto cristallo, ove tu faccia
sovente paragon di tua beltade
con la bella de la tua dama; o a i guardi
degl’invidi la tolga e in sen l’asconda
710segace tabacchiera; o a te riluca
sul minor dito in fra le gemme e l’oro;
o de le grazie del tuo viso desti
soavi rimembranze al braccio avvolta
dell’altrui fida sposa a cui se’ caro.
715Ed ecco alfin che a le tue luci appare
l’artificio compiuto. Or cauto osserva
se bene il simulato al ver s’adegue,
vie piú rigido assai se il tuo sembiante
esprimer denno i colorati punti
720che l’arte ivi dispose. Or brune troppo
a te parran le guance; or fia ch’ecceda
mal frenata la bocca; or qual conviene
a camuso etiope il naso fia.
Anco sovente d’accusar ti piaccia
725il dipintor che non atteggi ardito
l’agili membra e il dignitoso busto,
o che mal tra le leggi a la tua forma
dia contorno o la posi o la panneggi.
È ver, che tu del grande di Crotone
730non conosci la scola, e mai tua destra
non abbassossi a la volgar matita,
che fu nell’altra etá cara a’ tuoi pari,
cui non gustate ancora eran piú dolci
e piú nobili cure, a te serbate.
735Ma che non puote quel d’ogni scienza
gusto trionfator che all’ordin vostro
in vece di maestro il ciel concesse,
e d’onde a voi coniò le altere menti
acciò che possan dell’uman confine
740oltrepassar la paludosa nebbia,
e d’etere piú puro abitatrici,
non fallibili scórre il vero e il bello?
Però qual piú ti par loda o riprendi
non men fermo d’allor che a scranna siedi
745Raffael giudicando, o l’altro egregio
che del gran nome suo l’Adige onora;
e a le tavole ignote i noti nomi
grave comparti di color che primi
furo nell’arte. Ah, s ’ al tri è si procace
750ch’osi rider di te, costui pavente
l’augusta maestá del tuo cospetto:
si volga a la parete; e mentre cerca
por freno in van col morder de le labbra
a lo scrosciar de le importune risa
755che scoppian da’ precordi, violenta
convulsione a lui deforme il volto,
e lo affoghi aspra tosse; e lo punisca
di sua temeritá. Ma tu non pensa
ch’altri ardisca di te rider giammai;
760e mai sempre imperterrito decidi.
Or giunta è al fin del dotto pettin l’opra,
e il maestro elegante intorno spande
da la man scossa polveroso nembo,
onde a te innanzi tempo il crine imbianchi.
765D’orribil piato risonar s’udio
giá la corte d’Amore. I tardi vegli
grinzuti osar co’ giovani nipoti
contendere di grado in faccia al soglio
del comune lor dio. Rise la fresca
770gioventude animosa, e d’agri motti
libera punse la senil baldanza.
Gran tumulto nascea; se non che Amore
ch’ogni diseguaglianza odia in sua corte,
a spegner mosse i perigliosi sdegni:
775e a quei che militando incanutirò,
suoi servi, apprese a simular con arte
i duo bei fior che in giovanile gota
educa e nudre di sua man natura:
indi fe’ cenno, e in un balen fúr visti
780mille alati ministri alto volando
scoter lor piume, onde fioccò leggera
candida polve che a posar poi venne
su le giovani chiome; e in bianco volse
il biondo e il nero e l’odiato rosso.
785L’occhio cosí nell’amorosa reggia
piú non distinse le due opposte etadi,
e solo vi restò giudice il tatto.
Tu pertanto, o signor, tu che se’ il primo
fregio ed onor dell’acidalio regno
790i sacri usi ne serba. Ecco che sparsa
giá da provvida man, la bianca polve
in piccolo stanzin con l’aere pugna,
e de gli atomi suoi tutto riempie
egualmente divisa. Or ti fa core,
795e in seno a quella vorticosa nebbia
animoso ti avventa. Oh bravo! oh forte!
Tale il grand’avo tuo tra il fumo e il foco
orribile di Marte, furiando
gittossi allor che i palpitanti lari
800de la patria difese, e ruppe e in fuga
mise l’oste feroce. Ei nondimeno
fuligginoso il volto, e d’atro sangue
asperso e di sudore, e co’ capelli
stracciati ed irti de la mischia uscio,
805spettacol fero a i cittadini istessi
per sua man salvi; ove tu, assai piú vago
e leggiadro a vederse, in bianca spoglia
scenderai quindi a poco a bear gli occhi
de la cara tua patria, a cui dell’avo
810il forte braccio e il viso almo, celeste
del nipote dovean portar salute.
Non vedi omai qual con solerte mano
rechin di vesti a te pubblico arredo
i damigelli tuoi? Rodano e Senna
815le tesserono a gara, e qui cucille
opulento sartor cui su lo scudo
serpe intrecciato a forbici eleganti
il titol di monsú; né sol dá leggi
a la materia la stagion diverse,
820ma qual piú si conviene al giorno e all’ora
vari sono il lavoro e la ricchezza.
Vieni, o fior de gli eroi, vieni; e qual suole
nel piú dubbio de’ casi alto monarca
avanti al trono suo convocar lento
825di satrapi concilio a cui nell’ampia
calvizie de la fronte il senno appare;
tal di limpidi spegli a un cerchio in mezzo
grave t’assidi, e lor sentenza ascolta.
Un giacendo al tuo piè mostri qual deggia
830liscia e piana salir su per le gambe
la docil calza: un sia presente al volto,
un dietro al capo: e la percossa luce
quinci e quindi tornando, a un tempo solo
tutto al giudizio de’ tuoi guardi esponga
835l’apparato dell’arte. Intanto i servi
a te sudino intorno; e qual, piegate
le ginocchia in sul suol, prono ti stringa
il molle piè di lucidi fermagli;
e qual del biondo crin, che i nodi eccede
840su le schiene ondeggiando, in negro velo
i tesori raccoglia; e qual giá pronto
venga spiegando la nettarea veste.
Fortunato garzone, a cui la moda
in fioriti canestri e di vermiglia
845seta coperti preparò tal copia
d’ornamenti e di pompe! Ella pur ieri
a te dono ne féo. La notte intera
faticaron per te cent’aghi e cento;
e di percossi e ripercossi ferri
850per le tacite case andò il rimbombo:
ma non invan, poi che di novo fasto
oggi superbo nel bel mondo andrai;
e per entro l’invidia e lo stupore
passerai de’ tuoi pari, eguale a un dio,
855folto bisbiglio sollevando intorno.
Figlie della Memoria, inclite suore,
che invocate scendendo i feri nomi
de le squadre diverse e de gli eroi
annoveraste a i grandi che cantaro
860Achille, Enea e il non minor Buglione,
or m’è d’uopo di voi. Tropp’ardua impresa,
e insuperabil senza vostr’aita,
fia ricordare al mio signor di quanti
leggiadri arnesi graverá sue vesti
865pria che di sé nel mondo esca a far pompa.
Ma qual di tanti e si leggiadri arnesi
si felice sará che innanzi a gli altri,
signor, venga a formar tua nobil soma?
Tutti importati del pari. Ecco l’astuccio
870di pelli rilucenti ornato e d’oro
sdegnar la turba, e gli occhi tuoi primiero
occupar di sua mole. Esso a cent’usi
opportuno si vanta, e ad esso in grembo
atta a gli orecchi, a i denti, a i peli, all’ugne
875vien forbita famiglia. A i primi onori
seco s’affretta d’odorifer’onda
pieno cristal, che a la tua vita in forse
doni conforto allor che il vulgo ardisca
troppo accosto vibrar da la vii salma
880fastidiosi effluvi a le tue nari.
Xé men pronto di quello e all’uopo stesso
l’imitante un cuscin purpureo drappo
reca turgido il sen d’erbe odorate,
che l’aprica montagna in tuo favore
8S5 al possente meriggio educa e scalda.
Ecco vien poi da cristallina rupe
tolto nobil vasello. Indi traluce
prezioso confetto, ove a gli aromi
stimolanti s’uni l’ambra o la terra
890che il Giappon manda a profumar de’ grandi
l’etereo fiato, o quel che il caramano
fa gemer latte dall’inciso capo
de’ papaveri suoi; perché, se mai
non ben felice amor l’alma t’attrista,
895lene serpendo per li membri acquete
a te gli spirti, e ne la mente induca
lieta stupiditá, che mille adune
imagin dolci e al tuo desio conformi.
A tanto arredo il cannocchial succeda
900e la chiusa tra l’oro anglica lente.
Quel notturno favor ti presti allora
che al teatro t’assidi, e t’avvicini
o i pie’ leggeri o le canore labbra
da la scena remota, o con maligno
905guardo dell’al te vai logge spiando
le abitate tenèbre, o miri altronde
gli ognor nascenti e moribondi amori
de le tenere dame, onde s’appresti
all’eloquenza tua nel di venturo
910lunga e grave materia. A te la lente
nel giorno assista, e de gli sguardi tuoi
economa presieda, e si li parta,
che il mirato da te vada superbo,
né i malvisti accusane osin giammai.
915La lente ancor su l’occhio tuo sedendo
irrefragabil giudice condanni
o approvi di Palladio i muri e gii archi
o di Tizian le tele: essa a le vesti,
a i libri, a i volti feminili applauda
920severa o li dispregi. E chi dei senso
comun si privo fui che insorger osi
contro al sentenziar de la tua lente?
Non per questa però sdegna, o signore,
giunto a lo speglio, in gallico sermone
925il vezzoso giornal; non le notate
eburnee tavolette, a guardar preste
tuoi sublimi pensier fin ch’abbian luce
doman tra i belli spirti; e non isdegna
la picciola guaina ove al tuo cenno
930mille ognora stan pronti argentei spilli.
Oh quante volte a cavalier sagace
ho vedut’io le man render beate
uno apprestato a tempo unico spillo!
Ma dove, ahi dove inonorato e solo
935lasci ’l coltello a cui l’oro e l’acciaro
donar gemina lama, e a cui la madre
de la gemma piú bella d’Anfitrite
diè manico elegante, onde il colore
con dolce variar l’iride imita?
940Verrá il tempo verrá, che ne’ superbi
convivi ognaltro avanzerai per fama
d’esimio trinciatore, e i plausi e i gridi
de’ tuoi gran pari ecciterai, qualora
pollo o fagian, con le forcine in alto
945sospeso, a un colpo il priverai dell’anca
mirabilmente. Or qual piú resta omai
onde colmar tue tasche inclito ingombro?
Ecco a molti colori oro distinto,
ecco nobil testuggine su cui
950voluttuose imagini lo sguardo
invitan de gli eroi. Copia squisita
di fumido rapè quivi è serbata
e di Spagna oleoso, onde lontana
pur come suol fastidioso insetto
955da te fugga la noia. Ecco che smaglia
cupido a te di circondar le dita
vivo splendor di preziose anella.
Ami la pietra ove si stanno ignude
sculte le Grazie, e che il giudeo ti fece
960creder opra d’argivi allor ch’ei chiese
tanto tesoro, e d’erudito il nome
ti comparti prostrandosi a’ tuoi piedi?
Vuoi tu i lieti rubini? O piú t’aggrada
sceglier quest’oggi l’indico adamante
965lá dove il lusso incantata costrinse
la fatica e il sudor di cento buoi
che pria vagando per le tue campagne
facean sotto a i lor piè nascere i beni?
Prendi o tutti o qual vuoi; ma l’aureo cerchio
970che sculto intorno è d’amorosi motti
ognor teco si vegga, e il minor dito
premati alquanto, e sovvenir ti faccia
dell’altrui fida sposa a cui se’ caro.
Vengano alfin degli orioi gemmati,
975venga il duplice pondo; e a te de l’ore
che all’alte imprese dispensar conviene
faccia rigida prova. Ohimè che vago
arsenal minutissimo di cose
ciondola quindi, e ripercosso insieme
980molce con soavissimo tintinno !
Ma v’hai tu il meglio? Ah! si, che i miei precetti
sagace prevenisti. Ecco risplende
chiuso in breve cristallo il dolce pegno
di fortunato amor: lungi, o profani,
985ché a voi tant’oltre penetrar non lice.
Compiuto è il gran lavoro. Odi, signore,
sonar giá intorno la ferrata zampa
de’ superbi corsier, che irrequieti
ne’ grand’atri sospinge, arretra e volge
990la disciplina dell’ardito auriga.
Sorgi, e t’appresta a render baldi e lieti
del tuo nobile incarco i bruti ancora.
Ma a possente signor scender non lice
da le stanze superne infin che al gelo
995o al meriggio non abbia il cocchier stanco
durato un pezzo, onde l’uom servo intenda
per quanto immensa via natura il parta
dal suo signore. Or dunque i miei precetti
io seguirò; ché varie al tuo mattino
1000portar dee cure il variar de’ giorni.
Tu dolce intanto prenderai solazzo
ad agitar fra le tranquille dita
dell’oriolo i ciondoli vezzosi.
Signore, al ciel non è cosa piú cara
1005di tua salute; e troppo a noi mortali
è il viver de’ tuoi pari util tesoro.
Uopo è talor che da gli egregi affanni
t’allevi alquanto, e con pietosa mano
il leso per gran tempo arco radente,
1010Tu dunque allor che placida mattina
vestita riderá d’un bel sereno
esci pedestre, e le abbattute membra
all’aura salutar snoda e rinfranca.
Di nobil cuoio a te la gamba calzi
1015purpureo stivaletto, onde giammai
non profanin tuo piè la polve e il limo
che l’uom calpesta. A te s’avvolga intorno
veste leggiadra che sul fianco sciolta
sventoli andando, e le formose braccia
1020stringa in maniche anguste, a cui vermiglio
o cilestro ermesino orni gli estremi.
Del bel color che l’elitropio tigne
o pur d’oriental candido bisso
voluminosa benda indi a te fasci
1025la snella gola. E il crin... Ma il crin, signore,
forma non abbia ancor da la man dotta
dell’artefice suo; che troppo fòra,
ahi troppo grave error lasciar tant’opra
de le licenziose aure in balia.
lo 30 Né senz’arte però vada negletto
su gli omeri a cader; ma, o che natura
a te il nodrisca, o che da ignote fronti
il piú famoso parrucchier lo involi
e lo adatti al tuo capo, in sul tuo capo
1035ripiegato l’afferri e lo sospenda
con testugginei denti il pettin curvo.
Ampio cappello alfin che il disco agguagli
del gran lume febeo tutto ti copra,
e allo sguardo profan tuo nume asconda.
1040Poi che cosi le belle membra ornate
con artifici negligenti avrai,
esci soletto a respirar talora
i mattutini fiati; e lieve canna
brandendo con la man, quasi baleno
1045le vie trascorri, e premi ed urta il vulgo
che s’oppone al tuo corso. In altra guisa
fòra colpa l’uscir; però che andriéno
mal dal vulgo distinti i primi eroi.
Tal giorno ancora, o d’ogni giorno forse
1050fien qualch’ore serbate al molle ferro
che i peli a te rigermoglianti a pena
d’in su la guancia miete; e par che invidi
ch’altri fuor che sé solo indaghi e scopra
unqua il tuo sesso. Arrogo a questo il giorno
1055che di lavacro uni versai convienti
terger le vaghe membra. E ver che allora
d’esser mortai dubiterai; ma innalza
tu allor la mente a i grandi aviti onori
che fino a te per secoli cotanti
1060misti scesero al chiaro altero sangue,
e il pensier ubbioso al par di nebbia
per lo vasto vedrai aere smarrirsi
a i raggi de la gloria onde t’investi,
e di te pago sorgerai qual pria
1063gran semidèo che a sé solo somiglia.
Fama è cosi che il di quinto le fate
loro salma immortai vedean coprirsi
giá d’orribil scaglie, e in feda serpe
volta strisciar sul suolo, a sé facendo
1070de le inarcate spire impeto e forza;
ma il primo sol le rivedea piú belle
far beati gli amanti, e a un volger d’occhi
mescere a voglia lor la terra e il mare.
Assai l’auriga bestemmiò finora
1075i tuoi nobili indugi; assai la terra
calpestáro i cavalli. Or via veloce
reca, o servo gentil, reca il cappello
ch’ornan fulgidi nodi: e tu frattanto,
fero genio di Marte, a guardar posto
1080de la stirpe de’ numi il caro fianco,
al mio giovan eroe cigni la spada;
corta e lieve non giá, ma, qual richiede
la stagion bellicosa, al suol cadente,
e di triplice taglio armata e d’else
1085immane. Quanto esser può mai sublime
l’annoda pure, onde la impugni all’uopo
la destra furibonda in un momento.
Né disdegnar con le sanguigne dita
di ripulire ed ordinar quel nastro
1090onde l’else è superbo. Industre studio
è di candida mano. Al mio signore
dianzi donollo e gliel appese al brando
l’altrui fida consorte a lui si cara.
Tal del famoso Artú vide la corte
1095le infiammate d’amor donzelle ardite
ornar di piume e di purpuree fasce
i fatati guerrier; si che poi lieti
correan mortale ad incontrar periglio
in selve orrende fra i giganti e i mostri.
1100Volgi, o invitto campion, volgi tu pure
il generoso piè dove la bella
e de gli eguali tuoi scelto drappello
sbadigliando t’aspetta all’alte mense.
Vieni, e godendo, nell’uscire, il lungo
1105ordin superbo di tue stanze ammira.
Or giá siamo all’estreme: alza i bei lumi
a le pendenti tavole vetuste
che a te degli avi tuoi serbano ancora
gli atti e le forme. Quei che in duro dante
ino strigne le membra, e cui si grande ingombra
traforato collar le grandi spalle,
fu di macchine autor; cinse d’invitte
mura i penati; e da le nere torri
signoreggiando il mar, verso le aduste
1115spiagge la predatrice Africa spinse.
Vedi quel magro a cui canuto e raro
pende il crin da la nuca, e l’altro a cui
su la guancia pienotta e sopra il mento
serpe triplice pelo? Ambo s’adornano
1120di toga magistral cadente a i piedi:
l’uno a Temi fu sacro: entro a’ licei
la gioventú pellegrinando ei trasse
a gli oracoli suoi; indi sedette
nel senato de’ padri; e le disperse
1125leggi raccolte, ne fe’ parte al mondo:
l’altro sacro ad Igeia. Non odi ancora,
presso a un secol di vita, il buon vegliardo
di lui narrar quel che da’ padri suoi
nonagenari udi, com’ei spargesse
1130su la plebe infelice oro e salute,
pari a Febo suo nume? Ecco quel grande
a cui si fosco parruccon s’innalza
sopra la fronte spaziosa; e scende
di minuti botton serie infinita
1135lungo la veste. Ridi? Ei novi aperse
studi a la patria; ei di perenne aita
i miseri dotò; portici e vie
stese per la cittade; e da gli ombrosi
lor lontani recessi a lei dedusse
1140le pure onde salubri, e ne’quadrivi
e in mezzo a gli ampli fòri alto le fece
salir scherzando a rinfrescar la state,
madre di morbi popolari. Oh come
ardi a tal vista di beato orgoglio,
1145magnanimo garzoni Folle! A cui parlo?
Ei giá piú non m’ascolta: odiò que’ ceffi
il suo sguardo gentil: noia lui prese
di si vieti racconti: e giá s’affretta
giú per le scale impaziente. Addio,
1150de gli uomini delizia, e di tua stirpe
e de la patria tua gloria e sostegno.
Ecco che umili in bipartita schiera
t’accolgono i tuoi servi: altri giá pronto
via se ne corre ad annunciare al mondo
1155che tu vieni a bearlo; altri a le braccia
timido ti sostien, mentre il dorato
cocchio tu sali, e tacito e severo
sur un canto ti sdrai. Apriti, o vulgo,
e cedi il passo al trono ove s’asside
1160il mio signore. Ahi, te meschin, s’ei perde
un sol per te de’ preziosi istanti!
Temi il non mai da legge o verga o fune
domabile cocchier; temi le rote
che giá piú volte le tue membra in giro
1165avvolser seco, e del tuo impuro sangue
corser macchiate, e il suol di lunga striscia,
spettacol miserabile! segnáro.