Scherzi morali/L'album

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Dedica delle dediche La sordità
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L’ALBUM


ALLE DONNE

DEDICA


Donnette care, a voi dedicar voglio
     Questo, qualunque sia scherzo morale.
     Di non darvi dippiù meco mi doglio,
     Nè di meglio so far. Valga che vale.
     Se non isdegnerete d’accettarlo,
     A voi, subito, voglio dedicarlo.
Lo so, lo so, che mi perdonerete,
     Perchè conosco già da cima a fondo,
     Che un gentilino cor l’è quel che avete;
     Tanto raro a trovarsi in questo mondo,
     Quanto a contar nel ciel tutte le stelle,
     E a trovar fedeltà fra donne belle.
Ma già per me, nemmeno fra le brutte
     Ho potuto trovar compassione,
     Non che la fedeltà, che voglio in tutte,
     Senza farne qui alcuna eccezïone.
     A tante donne, amor feristi il cuore
     Per altri e non per me, tiranno amore!
Che sì, che c’è da perdere il cervello!
     Non esser mai, non esser mai riamato!
     È ver non son galante, non son bello,
     A pescar cuor di donne inusitato;
     Ma via, son forse gobbo, ovvero attratto?
     Ho insultato le donne? O che ho mai fatto?

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Non ci vedo un pochin? Ma ciò che fa
     Quando ci ho un cor, che vede da lontano,
     E che acceso d’amor pace non ha?
     Affè? che tardi è il mio lamento e vano,
     Se fin di presso al quinto lustro alcuna
     Donna m’amò c’è da sperar fortuna?
Sventurato son dunque nell’amore;
     M’odia qualunque sia donna a me cara:
     E apprestan tutte, ahimè! qual crepacuore!
     All’infelice cor sepolcro e bara,
     L’amo pur tuttavia, ma non men doglio,
     Che del ben fatto mai pentir mi soglio.
Tutto oblïam, ch’io vi perdono adesso,
     Non s’annida rancor dentro al mio petto;
     E il meglio è ben far pace col bel sesso;
     No, con nessuno voglio aver dispetto.
     Ma non vi chiedo amor con questa pace,
     Solo i versi accettar, se pur vi piace.

Catania 1 Giugno 1867.



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L’ALBUM


I.


Caro lettore, o leggitrice cara,
     Se gli occhi ce l’avete per mirare,
     Venite meco, ma non fate a gara.
     Avrete tutti il tempo d’osservare,
     I ritratti, che mostro, se volete,
     Per sempre trattener ve li potete.
Ma lasciate però, ch’io d’ognun dica
     Quel che mi pare, o quel che leggo in volto.
     La Musa mia sarà sempre pudica
     E nello scherzo, e nel parlar suo sciolto,
     Dopo d’avere un po’ scarabocchiato,
     D’altre forbici anch’io sarò tagliato.
Ma non credete, no, ch’io ben ritenga
     Che dal volto si possa giudicare.
     Oibò! credete che non mi sovvenga
     Esser matti color, che misurare
     Voglion le qualità d’un personaggio
     Dal volto bello, o dall’andar randaggio?
Io parlo, in verità, per parlar solo,
     Non per odio d’altrui, nè per disprezzo;
     Ma per toccar, così, quasi di volo,
     Un pochin di moral con altro mezzo;
     Per ridere un tantino in questo mondo,
     E per rimescolar ciò che va al fondo.
Ecco il primo ritratto. È un giovinetto
     Ben lungo, mingherlino e molto corto
     Di vista, come ancora d’intelletto.
     Non ha, non ha il meschin nessun conforto.
     Ognun dica di lui che che si sia.
     La prima pietra, che ho slanciata, è mia.

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Osservate or di poi, quel cavaliere,
     Che sul bel fianco posa l’una mano
     Ferma sul bastoncin per non cadere,
     Stringe con l’altra il ventre, e piano piano
     Par che dica: Fotografo fa presto,
     So no, buon Dio, morto davver qui resto.
Ammiratelo ben, per cortesia,
     Ei mostra ci vuol far di sua beltà.
     E nulla teme, chè in fotografia
     Vuol pur dal centro uscir di gravità,
     Purchè piaccia alle donne, o brutte, o belle
     O maritale, o vedore, o zitelle.
Or quest’altro ammirar qui vi conviene
     Sull’una gamba ei l’altro piè riposa,
     E l’accarezza, e per benin lo tiene
     Con movenza gentile e schizzinosa,
     Chiaro non dico ben, se error non prendo,
     Che col piè consigliar puole occorrendo?
Questi nel suo dolor giace sepolto.
     Apre quegli la bocca a un bel sorriso
     V’è chi si mostra disadorno e incolto,
     E chi mostrar si vuol quasi un Narciso,
     Chi alla sedia si tien, chi al piedestallo,
     Chi rannicchiato, chi in azion di ballo.
Ehi! giovinotti miei, ma a che cercate
     Tanta diversità d’atteggiamenti?
     A che sì lungamente studiate?
     Forse per divenir gran sapienti?
     S’egli è così, in men ch’io non vel dica,
     Che l’universo e Iddio vi benedica.
Per la galanteria tutto soffrite?
     La scienza o la virtù vi fa dispetto?
     E se si tratta.... or voi già mi capite,
     Per la patria soffrire, andate a letto:
     E di là poi, con nauseanti sali,
     Correggete gli error dei generali.

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Ma vi par che vi sia donna sì grulla,
     Avesse pur disio d’aver marito,
     Che mai del ben vorrà a chi pensa al nulla?
     Oh! credetelo a me, che son perito:
     Acquistate virtù, scienza e denari,
     Ecco i pregi, che gli uomini fan rari.
— No, no, diranno i saggi certamente,
     Sol si cerchi virtù, scienza e non oro —
     Oh! lasciateli dir liberamente,
     Solo scienza virtù cerchino a coro
     I saggi tutti, io vo’ sul tavolino,
     Tra gli altri libri, il libro del quattrino.
Nè ciò vi scandalizzi, amici cari,
     Scandalizzar vi deve invece, al certo.
     Vedere in povertà gli uomini rari,
     E, privo d’ogni premio, il vero merlo.
     Ma più scandalizzarvi ancor potria
     Chi pel guadagno la virtude oblia.
Senza malvagità, colpa non è
     Cercar dell’oro, e averne in quantità.
     Non lo sapete voi meglio di me
     Che il danaro dà gran celebrità?
     Dunque perchè cercar non lo dovrò,
     Se per esso ogni pregio acquisterò?
Badate, veh! che la so lunga anch’io,
     E so frenare ognor le passioni.
     No, che ardito non è quel desir mio:
     Io voglio cento mila milioni......
     Di lire, ben s’intende, e non già d’altro.
     Aggiungo ciò per chi vuol far lo scaltro.
Bisogna andar con moderazione,
     Desiderar voglio solo una volta,
     Perchè lo so che questa passione
     Mai si accontenta, e nessun freno ascolta;
     Se il mio desir dovrà realizzarsi,
     Almen non ci sarà da disperarsi.

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In una volta avrò così il mio tutto,
     Guiderdon, pel bramar poco, a me degno.
     Della speranza al periglioso flutto
     Non fiderò mai più questo mio legno.
     E, con l’esempio, ben gridar saprò:
     Infelice colui, che assai bramò.
Non temete però, quel ch’io diventi.
     Gonfiando di ricchezze e d’albagia,
     Gli amici dell’infanzia ed i parenti,
     Non scorderò, state in parola mia.
     Non son di quei, che coll’andar più in su
     Gli antichi amici non ravvisan più.
Oh! già mi par che, la fortuna stanca
     Di tante preci, il dono ha bello e pronto.
     — Ma che? Se mi vuoi dar carte di Banca
     Aggiunger ti conviene anche lo sconto.
     Toh! Toh! Che è? Dove tu corri, o Dea?
     Son contento.... dà qui... ahi! sorte rea! —
La sorte ambizioso, o tu, condanni,
     E non la sete, che ti brucia il labbro?
     A gran vol preparar vuoi sempre i vanni,
     E d’ogni danno tuo tu sol sei fabbro,
     Raffrena, oh! deh! raffrena il tuo disio,
     Chè, a chi vuol troppo, tutto nega Iddio.
Se far, donne, volete conoscenza
     D’ottava meraviglia a questo mondo,
     È d’uopo aver tantin di pazienza
     Dei miei versi soffrire il grave pondo;
     Ma sentirete cose affatto nuove,
     Andiam, senza preamboli, alle prove.
Donna, ragazze care, è il mio soggetto,
     E vuol che ognun l’appelli signorina;
     Mezzo secol d’età, e poco ho detto,
     Che supplir ci potrei qualche decina,
     E pretende che sia tra il numer’una
     Delle belle, che il mondo in sè raduna.

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La pittura vorrei farvi del viso,
     Mostrarvi l’acutezza del suo naso,
     Il fornicino dove sta il sorriso,
     L’acuto mento ver l’in su rimaso,
     Ma, per conoscer ben qual’ella sia,
     Guardate quà la sua fotografia.
Più grossa d’una botte delle grosse
     Chinarsi a stento può per un saluto,
     Eppur pretende far tutte le mosse
     D’un’uccellin, che il nido ha già perduto.
     Pretende, dico, far quel, che voi fate,
     Ma voi, che belle siete, inebriate.
Che far, donnette mie, che far poss’io,
     Se il ritratto, che ormai volli mostrare,
     Al vostro tocca anzi che al sesso mio?
     Eh! nulla! Non vi dia ciò da pensare,
     Anzi potete dire in pien consesso:
     Un mostro pur l’abbiam net nostro sesso!
Se parlate di canto, ella cantava,
     Però da qualche di tutto ha lasciato;
     Se sapete suonare, ella suonava,
     Ogni cosa oramai l’ha tediato;
     Ed indirettamente manifesta
     Chiaro che l’età sua non è più questa.
Or se di chi che sia fra voi partate,
     Ella sempre vuol dir, nè mai si tace;
     La corda più sonora voi tọccate,
     La sua scienza maggior vi svolge in pace,
     Se dei suoi frizzi parla e del suo brio,
     Si resta a bocca aperta, in fè di Dio.
Vince nel perorare ogni oratore,
     S’agita tutta, urla, v’afferra e grida,
     Alza le mani in alto a far terrore,
     E quasi quasi par che li vi uccida,
     E se vi cava gli occhi non le cale,
     Sarà quello soltanto il meno male.

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Che garbo è questo, olà, signora mia,
     Di favellar con gli altri, e mai zıttire;
     Sempre sempre dir mal di chi che sia;
     Baciar davanti, e dietro poi ferire;
     Saper dovreste bene a quell’età,
     Che in buona compagnia ciò non si fa.
Eccovi or quà, taluni giovanotti,
     A cui mangiar pur nel ritratto piace.
     Son quelli là, galanti zerbinotti,
     Più l’un che l’altro al giuoco pertinace.
     O ragazze, vi guardi Iddio, che domini
     Nel vostro cor l’affetto per quest’uomini!
No, no, che non v’inganno, giovanette,
     Parlo per vostro ben, ve ne dò fede.
     Eh! certe cose chiare vanno dette;
     Chi m’ascolta suo ben fa, se mi crede.
     Un marito goloso, o giuocatore,
     Amar non vi può mai di vero amore.
La donna idolatrata esser le piace,
     Perchè di falso amor giammai ci amò.
     È ver, ve n’è qualcuna un po’ fallace,
     Ma chi mai senza colpa si trovò?
     (V’ho difeso, ma intanto dir vi voglio,
     Donne, che vi vorrei con meno orgoglio;
Con maniere gentili e più garbate,
     Qual si confanno al vostro gentil sesso,
     Così essendo, davver che innamorate!
     Ma già tutte così voi siete adesso,
     Per costanza e virtude ognor preclare,
     Ma qualcuna potrebbe traviare.)
Guardin che bizzarria! L’è un’uom pietoso,
     Che vuol dare soccorso al meschinello
     Nel ritratto, e non sa quel generoso
     Che in segreto s’ajuta il poverello,
     Perchè spesso, quel dar con umiltà
     D’orgoglio è vel, manto di vanità.

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Eccovi adesso una gentil bambina
     Cara, leggiadra e bella in veritate,
     Con due dita mantien la testolina
     Pel mento, e già mi par che l’ascoltiate:
     «Chi m’impalma farà la gran conquista,
     E un’alma bella ed un bel viso acquista.»
O giovinetta mia, che cosa dite?
     Non lo sapete voi che non è più
     Quel tempo dell’amor, delle ferite
     Del cor, che s’invaghiva di virtù?
     Oh! questo, proprio questo è il gran progresso:
     Si richiede la dote e nulla appresso.
Ma che? Vi siete tosto scoraggita?
     Animo, via, si troverà quel cuore,
     In cui la dote non può far ferita;
     Abbandonale, su, quel mal’umore,
     Non è sempre così come v’ho detto,
     Io sento per la dote un gran dispetto.
Ma se pur la ci sia non ne ho dolore,
     Il sal rende gustosa ogni vivanda.
     Che! che! tornale già col mal’umore?
     Ah! no, la dote sia messa da banda,
     Cerchiam virtù, la sola bella dote,
     Che mai, quaggiù, perder giammai si puote.
Eppur la si può perder qualche volta.
     Non la perde colui, che pien d’orgoglio
     Crede d’averla tutta in se raccolta?
     Non la perde colui...... ma che dir voglio?
     L’ho persa anch’io, che predicar voleva
     Il ben..... Ma pria di perderla l’aveva?
Un bel ritratto è questo, in verità,
     Di chi vuol esser lieto tutto dì;
     Col riso rallegrar l’umanità,
     L’è cosa bella, ognun far dee così.
     Se invecchiar non volete il vostro cor,
     Allontanate il pianto ed il dolor.

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Musa, se pur t’aggrada, or m’acconsenti
     Che quel labbro favelli al por del mio.
     Deh! gl’infondi la voce, e parlar tenti,
     Qualche scherzo d’udir nudro disio.
     Favella già......... A scortesia non usa
     Rendo le grazie a te diletta Musa.
“Qualche facezia, o qualche scioccheria,
     “A farvi allegri, raccontar vi voglio,
     “Ma perdonate la rozzezza mia,
     Che di ben favellare altrui non soglio.„
     Dì, o sferza pur senz’essere mordace,
     Il sozzo scherzo è quel, che non mi piace.
“In lauto pranzo un dì sedea d’allato
     “A lieta verginella un giovinetto,
     “Il qual con tutto ardire, a pieno fiato
     “Disse: Donna, per voi brucio d’affetto,
     “Conforțate il mio cor, ditemi — t’amo —
     “Che nulla più vi chieggo, e più non bramo.
“Or volete saper come rispose
     “All’ardito garzon, la vergin mia?
     “(Donnette, oh! non si fanno certe cose,
     “Che rimbrottarvi al caso ognun potria)
     “Per un gran schiaffo alzò la bella mano
     “A punire un signor così villano.
“Allor si fa più ardito il giovinetto,
     “E rende la guanciata a chi gli è allato
     “Con un sorriso, e senza alcun dispetto
     “Avverso il crudo e ineluttabil fato,
     “Dicendo: Avanti sempre a poco a poco,
     “La signorina ha cominciato il giuoco.
“Entrato in una chiesa un contadino
     “Ad udir la parola del Signore,
     “Mentre piangevan tutti, un suo vicino
     “Gli disse: Chè non piangi di dolore?
     “Ed egli a lui tutto modesto e pio:
     “Non son della parrocchia, signor mio.

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“Parlando troppo un dì Sofia gridò:
     “Ahimè! la lingua mi son morsa, ahimè!
     “No, crederlo giammai non lo potrò,
     “Un caustico signor, disse, perché
     “Pria di dirmi d’averla morsicata
     “Vi sareste ben tosto avvelenata!
“Altero un giorno al suo rival diceva
     “Con orgoglio maggior, che non l’usato,
     “Un tal, che insieme a quel concorso aveva
     “Ad essere in bel posto collocato,
     “E che con basso intrigo e avvilimento
     “Pergiunse ad appagar tosto l’intento:
— “Ad aver quest’onor valse il sol merto,
     “Non feci, amico mio, nemmeno un passo. —
     “Non istare a dir più, lo credo, certo!
     “Rispose l’altro, tanto! non far chiasso,
     “Quand'è talun di forma serpentina
     “Striscia, striscia mai sempre e non cammina.
“Un Ministro rivolto a un tal Bonino,
     “Eh! disse, voi famelici, che ambite
     “Ad aver per mia mano un posticino,
     “M’amate sol, finchè di me sentite
     “Bisogno, e quando sazii ve ne andate,
     “Buona notte, di me più non pensate.
— “Che sì, che s’è ingannata l’Eccellenza
     “Vostra, con un sorriso allor risponde
     “Bonin, che la sa lunga, in confidenza
     “Con voci le vo’ dir chiare e rotonde:
     “Io sempre l’amerò, contento stia,
     “Chè dopo il pasto ho più fame, che pria. —
“Eh! davver, ce ne aveva delle belle
     “Diogen dal famoso lanternino.
     “(Zitte, ascoltate, o care mie zitelle,
     “Chè poi debbo parlarvi all’orecchino.
     “Ciò che giovar vi puote, io ve lo dico,
     “Perché v’amo, e vi son fedele amico.)

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“Un dì nei giuochi pubblici d’Atene
     “Mostrossi un goffo tiratore d’arco,
     “Pien di baldanza tal, qual si rinviene
     “In chi sen va d’ogni sciocchezza carco;
     “E Diogene allor venne a sedere
     “Giusto alla meta, ove tendea l’arciere.
“Ma un tale a domandar si fece ordito,
     “Perchè era andato a mettersi colà,
     “Amico, per non essere ferito,
     “Rispose a lui con tuon di gravità.
     “Che ve ne pare, o care mie zitelle?
     “Eh! Diogen ce ne aveva delle belle.
“Dunque ragazze......„ Che cosa hai? Su, via,
     Prosiegui a favellar, non t’arrestare,
     Mi piace udir, tel dico io fedo mia,
     Lo scherzo del modesto poetare.
     Ma giacchè la favella t’è mancata,
     Addio, a rivederci un’altra fiata.
Dal bello inchino, il bel signor guardate,
     Dall’aplomb distinguè, dal passo bello;
     Che grazia, che movenze delicate,
     Che bel crine lucente e ricciutello!
     Oh! vergini, giù gli occhi, chè l’amore
     Potrebbe appiccicarsi al vostro cuore.
Andiam per un pochin, Musa diletta,
     Insieme tutti quanti qui noi siamo,
     Allo stanzin serbato alla teletta.
     Di veder quel signor là dentro io bramo.
     D’un vel ci coprì, resterem noi muti,
     Sicchè vedendo non sarem veduti.
Toh! Toh! certo passata è la terz’ora,
     Che davanti allo specchio ei resta attento.
     Or prova un gesto, indi un saluto ancora,
     Ora accelera il passo, or va più lento,
     Quà l’inchino misura, e là lo sguardo,
     Quinci presto è a seder, quindi più tardo.

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L’una ripiglia ed or l’altra gentile
     Movenza, ed a far ben tenta ogni via
     S’unqua lo speglio, precettor sottile,
     Maggior grazia gli chieda e leggiadria;
     Alfin così composto ed attillato
     Uccella, ed il bel sesso è impaniato.
Diletta Musa mia, togli quel velo,
     Chè restar più nascosto or non mi cale.
     Di rimbrottar quel bell’imbusto aneto,
     Che alla strada d’onor dato ha il suo vale
     Oh! spendi, incauto, spendi meglio l’ora
     A render bella la tua mente e il core.
Da voi, ragazze mie, gran che attendiamo,
     Se le grazie d’amor date ai più degni.
     Non un sorriso, non un dolce — t’amo —
     A chi dell’imitar quell’uom non sdegni,
     Ed allora vedremo a poco, a poco,
     Della virtude acceso il nobil foco.
D’una matrona l’è quest’altro aspetto.
     Ell’è scollata, seminudo ha il braccio,
     E molli posa sol due dita in petto
     Bianco qual neve... e che? Lo dico, o taccio?
     È bianco già, ma ben può darsi, in vero,
     Che d’un tizzone assai fosse più nero.
Parmi ch’ella dicesse: Eccole qui!
     Ma basta, e la mia frase perdonate,
     Ell’o scappata fuori, e sia così;
     Ah! deh! per carità non mi sgridate!
     Si vada innanzi.... sarò più pudico....
     E questo in verità col cor vel dico.
Ma che volete voi, cari signori,
     Una donna vecchiona o da dozzina,
     Che ardisce ancor cercare nuovi allori
     Nel cimento d’amor, caspiterina!
     Non volete che spinga un chi che sia
     A levar la sua voce con la mia?

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Pensate pur signora, a quel che fate,
     Pensate che bambini ce ne avete,
     E questa è la moral, che a loro date?
     Questa è la scuola, in cui li crescerete?
     Vergognatevi adunque, e in poi sin d’ora
     Pensate ai bambolini, o mia signora.
Osservate quell’uom dall’alta testa,
     Vivo lo sguardo e d’ogni grazia adorno?
     “Applaudite, signore, e fate festa,
     “Giovanette venite a me d’intorno,
     “Un bel giovane sono, e non ho pari,
     “L’eleganza da me ciascun l’impari.
“Per grazia niun mi vince nella danza,
     “Leggiero più che Archestrato son io,
     “E chi mai può nudrir qualche speranza
     “Di primeggiar d’accanto al fianco mio?
     “Oh! felice colei, che sente in coro
     “Degna fiamma per me d’immenso amore.„
Bravo il mio giovanotto, che orgoglioso
     Va del bel piede e del suo bello aspetto.
     In verità lo sguardo alzar non oso,
     Certo ti muoverei sdegno e dispetto.
     No, che non tocca a me, vil creatura,
     Ammirare un gioiello di natura.
Mascheroni, un pochin svegliati e mira,
     Che il giovinotto mio vuole ballare,
     Attento, su, metti da canto l’ira,
     Ogni odio per la scienza è da lasciare.
     Del tuo compasso il gran valor si scema,
     Risolvono le gambe ogni problema.
Michelangelo, Dante e Raffaello,
     Alberti, Casa, Volta e Galileo,
     Passavanti, Canova e Macchiavello,
     Vinci, Bellini e Fra Bartolomeo,
     Dotti d’ogni cittade e d’ogni età,
     Per la scienza soffrire è vanità.

[p. 19 modifica]

Non voglio più saper di Geometria,
     Nè d’Algebra, o di Calcolo Integrale,
     Le spese ci si perdon per la via,
     Vien subito il color sentimentale,
     E per sentirsi dir: Che sapiente!
     Perdere la beltà? Eh! vi par niente?
Non ne voglio più circoli e settori,
     Non segmenti, o poligoni stellati,
     Sfere, circoli massimi e minori,
     Poli, polari e punti coniugati,
     Lasciate ch’io lo dica in vostra pace:
     L’ausonia figura a me sol piace.
Vadan le biblioteche alla malora,
     Non voglio studiar più architettura,
     I libri sono vasi di Pandora,
     Che aprire ben ci san la sepoltura.
     Così dovrà far meco ogni mortale,
     Bruciar financo i libri di morale.
Non è tempo più d’esser virtuosi,
     Leone, Ambrogio, Acàcia e Zaccaria,
     Che di tante virtù siete famosi,
     Saggi tutti bisogna cambiar via,
     Con le leggi del nuovo Galateo,
     Chi perdona l’offesa è un gran babbeo.
Là, là, con la pistola, o con la spada,
     Il vincere, o il morir, sia solo un ponto....
     (E virgola, o due punti, se v’aggrada,
     Chè il periodo al suo fin non è ancor giunto)
     Abbia il torto chi muor, ragion chi resta.
     Ecco la gran filosofia, l’è questa.
Tale che vai dicendo nel tuo cuore?
     “Se di beneficar si manca un dì,
     “Giorno di lutto è quello e di dolore?„
     No, no, non è ben giusto il dir così.
     Perduto vuoi tu dir gli è sol quel giorno,
     Che al fido speglio ir non ten puoi d’intorno.

[p. 20 modifica]

O bavaresi donne generose,
     Quando Corrado terzo Imperatore
     Alla vostra Baviera assedio pose,
     E vi permise, salvo ben l’onore,
     D’uscir voi solo dalle gran castella
     (Vedete che rispetto alla gonnella)
Con quello, che portar voi potevate,
     Perchè con tanto ardir, che non ha pari,
     Nelle storie presenti, o trapassate,
     I mariti, gli oggetti a voi più cari,
     Sugli omeri portaste a salvamento,
     Non curando guastar l’abbigliamento?
Che sciocchezza! Lasciate ch’io vel dica,
     I mariti portare in sulle spalle?
     Per gli uomini soffrir tonta fatica,
     Che in fin dei conti, come le farfalle,
     Corrono in tutte l’erbe e in tutti i fiori.
     Gli spasimi a svelar dei loro cuori?
Teodoro, che squadra! oh! che livello!
     Non vedi quanto siamo disuguali?
     Sollevar l’un si vuol su questo e quello,
     Orgoglio e vanità regge i mortali.
     No, strumento non v’ha per livellarci,
     Se non vogliam dal vizio allontanarci.
Abbassa, abbassa, Erofilo, con cura
     Dagli occhi quella densa cataratta
     Ma con l’ingegno tuo, deh! deh! procura
     D’abbassar con la mano ancor più ratta,
     Quel vel, che ci fa benda all’intelletto.
     Oh! bisogno ne abbiam, bisogno stretto!
E Chappe mio, telegrafi tu inventi?
     Che razza di pensier t’è mai venuta?
     Robba nuova ti par quella, che tenti,
     Mostrare al mondo come sconosciuta?
     Telegrafi! telegrafi! ti pare!
     Le donne ne san molto in quell’affare.

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Giovambattista Dante, a che t’affanni
     Di metter l’ah, e andar sul Trasimeno?
     Per romperti una gamba? Oh! smetti i vanni,
     Di tante invenzion far si può a meno,
     Se forza non abbiam di cinguellare,
     Vuoi darci la fatica di volare?
Ma tutt’altro oramai lasciam da canto,
     Leggiadre donne, abbiam qui una donzella.
     “Negar nessun mel può, l’è sol mio vanto
     “Fra le donne più belle esser più bella.„
     Zitta, non favellar, giù l’albagia,
     Senti con umiltà la voce mia.
Non creder già ch’io ti farò un sermone;
     Ben poco su parlar, ma il ver ti dico;
     Di che superba vai, chieggo a ragione?
     Splendore di bellezza, è detto antico,
     È repente così, che viene a sera,
     Qual fior, che t’apparisce in primavera.
Io non cerco beltà, dice il Signore,
     Di corpo, ma beltà d’un’alma pura.
     E poi, ragazza mia, fiamma d’amore
     Che accese la beltà, lunga non dura.
     Ma l’amor per virtù non ha mai fine,
     E cerchi sempre, e mai trovi il confine.
Oh! questo è da guardarsi veramente;
     Tutti fissate qui l’attento sguardo:
     Ecco il signore dalla bella mente,
     Che per non esser nella scienza tardo,
     Per arricchir di conoscenze ognora
     Studiar nel ritratto e’ vuole ancora.
O filosofo mio, non l’abbi a sdegno,
     Se l’esser savio ognor, spesso è da matto.
     Come ti chiamerò, se l’alto ingegno
     Tenta mostrar financo nel ritratto?
     Chi molto senno in sè medesmo crede,
     Dell’intelletto il ben perde, in mia fede.

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Ascoltami un pochin, non ti crucciare,
     Chè lo stolto corretto esser non brama;
     Ma tu, che savio almen ti vuoi chiamare,
     Chi ti corregge dêi saper che t’ama.
     Se il tossico financo egli t’appresta,
     Gli è per vincere il mal, che ti molesta.
E quando senti nel tuo cor pungente
     La parola del buon correggitore,
     No, non istare a dubitar per niente
     Che infermo è il cor di qualche gran malore.
     E dove più l’affanno ti martella,
     Più forte è il mal, parte più inferma è quella.
Dimmi in sincerità, così tra noi,
     Fosti mai qualche volta innamorato?
     Filosofo oramai esser non puoi,
     Intendo di parlarti del passato.
     Ragazze, quando c’è filosofia
     Badate, veh! Cupido scappa via.
Se dunque amasti col più grande amore
     Qualche donzella, e poi (come sì spesso
     Si suol vestir di tante forme un core
     Tanto dall’un, quanto dall’altro sesso)
     L’abbandonasti, e quasi a suo dispetto
     Volgesti ad altro cor l’ardente affetto,
Ti ricorda, per caso se incontrata
     Indi l’avrai? Non ti sembrò men bella,
     Perchè dall’alto del tuo cor cascata
     Era oramai la povera donzella?
     Ma, ne’ giorni d’amor, quel suo bel viso
     Squarcio non fu per te di Paradiso?
Così chi di sè stesso s’innamora,
     Nel giudicar di sè va sempre errato.
     Ogni scienza, o virtù, mal s’assapora
     Da chi crede che tutto ha già apparato.
     Fra le virtù l’è vera quintessenza
     L’umiltate, e con lei va sapïenza.

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Oh! bella! veh! ma perchè mai ridete?
     Non vi par che sia giusto quel che dico?
     Non vi capisco!....Ma che cosa avete?
     Andiamo avanti, me ne curo un fico.
     Ho capito: è quel chiasso che si fa
     Quando s’intende dir la verità.
— Adagio un poco, direttor mio scaltro.
     Adagino, adagin, più lentamente.
     Non lasci alcun ritratto, ce n’è un’altro
     È il suo mi pare? E non vuol dirci niente? —
     Scusi, signor, che vuol, nessuno ha cuore
     Di recar a sè stesso alcun dolore.
Piace ad ognun svelar l’altrui difetto,
     E celare per ben gli errori suoi;
     Sicchè, se vi mostrai questo mio aspetto
     Al cominciar, vel ricordate voi?
     Non avea cor, le donne mie cortesi,
     Di render tante colpe a voi palesi.
Ve! sapete, che ognun da punir mai
     Gravi difetti in sè non ritrovò
     Io pel povero cor ne scorgo assai
     Ed all’orecchio un sol ve ne dirò.
     Quantunque, in vero, non è mia la colpa
     Donne, non voglio, oibó! cercar discolpa.
Dunque ve lo dirò: Quasi a sembrare
     Un’arca di dottrina e di saggezza,
     Nel ritratto ho voluto ammaestrare.
     Che cos’è questa, se non è stoltezza?
     Signori miei, lo so, ma il fatto è fatto,
     Non ci curiam vie più di quel ritratto.
Ma basta, che di me troppo parlai,
     E pur degli altri non vorrei più dire,
     Fermiamoci fin qui, chè tempo è ormai
     Lasciar la lingua per un po’ zittire.
     Rifrancatevi, ed io qui calmo aspetto
     Per ripigliare, un vostro gentil detto.

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II.


Or che vi sicte un poco riposati
     Dalle chiacchiere mie, dal duro verso,
     Andiamcene colà, dove fermati
     Ci siam, chè sempre danno è il tempo perso;
     Solo ancora un pochin soffrir dovrete,
     Altri pochi ritratti, e ve ne andrete.
Guardate, donne, qui primieramente.
     (Certe cose celar non ve le posso,
     Vi difendo fin dove veramente
     Dalla coscienza mia mi sento mosso.
     Che cosa ci ho da far se tutto a un tratto
     Ci vien dinanzi agli occhi un tal ritratto?)
Vedete? È una donnetta curiosa,
     Che guarda dal pertugio d’un’imposta,
     Zitta e tranquilla per sentir qual cosa,
     Che le si vuole rendere nascosta.
     Soffre, ma l’alta curiosità
     La fa tenace a rimaner colà.
L’e troppo brutta questa passione,
     Ragazze mie, le conseguenze ancora
     Più brutte son. Prestale attenzione
     Al mio parlare, e vi dirò, fin d’ora,
     Come talvolta torna a vostro danno
     Il non voler guarir d’un tal malanno.
In una certa causa criminale
     A svelar pel processo si veniva
     In pubblica udïenza, cosa tale,
     Che a sentirla il pudor ben ci soffriva:
     Ond’ebbe il presidente, molto accorto,
     A dir con garbo e ad alta voce: “Esorto

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“Le donne oneste, che qui fanno parte
     “Dell’uditorio, a tosto abbandonarci.„
     E niuna si movea, o a caso, o ad arte,
     Per curiosità volean restarci.
     Ma il presidente allor disse: “Oramai,
     “Giacchè le donne oneste allontanai,
“Uscieri a voi, quest’altre, che restaro
     “Fatele andar, chè qui non stanno bene.„
     Donnette, lo capisco, è molto amaro
     Il dovere soffrir coteste pene.
     Siate men curioso ed ostinate,
     Non sarete così rimproverate.
Se vi piace or saper chi questi sia,
     In breve vi dirò sua vila intera;
     Comincio dal mattin, poi, via via,
     Financo scenderò sino alla sera;
     Dove va, con chi pratica, e che fa,
     In pochi versi tutto avrete quà.
Si leva di buon’ora la mattina.
     (Di buon’ora vuol dir quasi alla mezza,
     Perchè levarsi all’ora mattutina
     È di colui, che vive in iscarsezza;
     Si distingue così l’uom d’alto rango,
     Come la perla in paragon del fango.).
Se non toccan le tre non va mai fuori,
     Nè pria di consultar ben la teletta.
     Cinto si mostra poi di quegli allori,
     Che a intrecciar con amor l’ozio s’affretta,
     E corre, come il dì declina e imbruna,
     Nel mondo dei galanti a far fortuna.
Or lo vediam di presso a una donzella,
     Ora andare di dietro a una signora.
     Chi conquistare vuol con la favella,
     E chi crede ferir col guardo ancora.
     Poi, per farsi mirar da chi nol vede,
     Vive scintille al sigaro richiede.

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Sulle piume dilette infin ritorna,
     Quand’è natura presso a risvegliarsi;
     Delle grazie del dì ella s’adorna,
     Mentre e’ languido viene a coricarsi
     Per ripeter doman quel, ch’oggi fe’.
     (Ma il doman, che comincia dalle tre.)
Se qualche prima donna nel paese
     Arriva, e sia di musica, o di prosa,
     Non andarla a incontrare è un crimenlese,
     E forse, forse una più brutta cosa;
     Quindi spiega i suoi vanni a un vol repente.
     “Che cos’hai?„ gli domandi: “Ho fretta, niente!
Risponde allor con affannosa lena:
     “Per arrivar già sta la compagnia,
     “Non trattenermi, non mi dar la pena
     “Di potere tardar, per cortesia.
     “Le prima donna è una bellezza vera,
     “La mi si raccomanda da Madera.„
E con l’ansia d’un vero e caldo amanto
     Corre, vola colà, ove il dovero
     Lo chiama a non mancare un sol istante.
     Sorte crudele più che le pantere!
     Con un metro di naso, aimė! restò,
     Perchè a tempo colà non arrivò.
Stanco ritorna e con le guancie gialle,
     Come quei, che testè gran pagamento
     Esasse di legnate in sulle spalle,
     Facendo ricevuta in sul momento;
     Ma di coraggio e’ non si perde, no,
     Se dietro a lui n’andiam vel mostrerò.
Zitti, sentiam ciò che a un’amico dice:
     “Addio, mio caro Boccincin, non sai
     “Che è giunta già tra noi la prima attrice?
     “La vidi in un sol punto, e l’adorai!
     “L’è cosa da far perdere il cervello!
     “Parbleu! che prima donna da cartello!

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“Oh! che pensando van questi babbei?
     “Che c’importa del busto di Bellini?
     “Mettiam giudizio, via, signor miei!
     “Che ne facciam del busto di Pacini?
     “Se scapita il paese è nostro vizio,
     “Il busto tocca a lei, mettiam giudizio!
“No, come questa viste non ne abbiamo,
     “E il meglio è ben di confessarlo chiaro,
     “Lo vuoi saper, giacchè tra in due qui siamo?
     (Che! che! ci son anch’io, non visto, o caro)
     “Sono stato con lei, l’ho accompagnata,
     “E subito di me s’è innamorata.
“Ah! ah! che gran fortuna, in veritate!
     “Non dirlo, veh! ad alcun, fammi il favore.
     “Mai sempre certe cose van celate,
     “Potrebbero recar del mal’umore.
     “Ma già con te posso dormir sicuro,
     “Ho confidato il mio segreto al muro.
“Se a forza non facea, colà sarei,
     “Colà tutt’ora a darle il gran contento
     “Di pascersi d’amor negli occhi miei.
     “Con tutto il cuore adesso me ne pento,
     “Scortese fui, si crederà tradita,
     “Chè profonda, davver, fu la ferita.
“Ma basta, lasciam star cotesti affanni.
     “Ha un padre un po’ vecchiotto, è su’ settanta,
     “Una madre di presso a’ quarant’anni,
     “Che ormai da qualche tempo più non canta,
     Perché son sette mesi e cinque dì
     Che incinta ell’è. Puote cantar così?„
Uh! uh! the cosa fate, o donzellette?
     Non vi piace restare ancora un poco
     Ad udir queste care novellette?
     Ma che? Del mio signor prendete giuoco?
     Oh! quanti, attorno, attorno ce ne avete
     Come quello, e fuggir non li sapete.

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Ebben, lasciamlo star si vada innanzi,
     Ma aggiunger voglio un’altra cosa sola,
     Che mi dimenticai di dir poc’anzi,
     Quantunque arrivò su fino alla gola.
     Siamo al teatro, il calcolo è ben fatto,
     Batton le nove, e termina il prim’atto.
È la beneficiata questa sera
     Di quella prima attrice sì famosa.
     Non sentite gli applausi, e la sincera
     Febbre di battiman, che non ha posa?
     Meglio è veder, che aver l’itinerario,
     Andiamcene lassù dietro il sipario.
E uno, e due, o tre, e dieci, e trenta,
     Eccoli tutti i caldi protettori;
     L’uno dall’altro svincolarsi tenta,
     Che gomitate! e non pestare i fiori,
     Che porta ognuno! che confusione
     Tra tante distintissime persone!
Son, le spalle de’ primi e de’ piccini,
     Punti d’appoggio a chi sen vien secondo,
     Per ispinger su’ fianchi i più vicini,
     E trovar modo a lasciar gli altri a fondo.
     Così fa ognun come una via più corta
     A raggiunger la soglia della porta.
Questi, che all’una man tiene il cappello,
     E affida all’altra il mazzolin sudato,
     È quel tale signor, gli è proprio quello,
     Che insiem più sopra abbiamo rincontrato.
     Guardate, veh! che gran combattimento!
     Non ondeggia così mar per gran vento.
Nè all’irto scoglio a infrangersi vien l’onda,
     Come al tornar di chi arrivò primiero;
     Ed ansia tale a guadagnar la sponda
     I marosi non han, quant’è, a dir vero,
     In tanta mollitudine il desire
     Di volere a quell’uscio pervenire.

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La natura non è così nemica
     Del vuoto, quanto son questi signori.
     Esagerazion la non è mica,
     Non è per isvegliare i buoni umori,
     Se libero si scorge un sol mattone
     Dura s’accende più l’aspra tenzone.
E grulli, e sciocchi fûr quegli antenati
     Vostri, che contendean così tra loro
     L’onor di consolar gli sventurati,
     E d’elargir pur essi ogni tesoro.
     Oh! sciocchi! oh! grulli! voi, sì voi, ben fate,
     Che delle prime attrici v’infiammate.
Oh oh! quel tal signor giunse alla porta,
     Quel signor di cui sopra abbiam parlato;
     Sta per entrare, o tu Musa, comporta
     Ch’io fossi in zanzaretta trasformato,
     E meco pur trasforma questi amici,
     Tutti, tutti, lettori e leggitrici.
Zizi! zizi! entriam, su via, zanzare,
     Là dentro al sospirato gabinetto.
     Eccola qui, non ravvisate, o care,
     La verginella da quel vago aspetto?
     Eccolo qui quel tale signorino,
     E uno, e due, e questo è il terzo inchino.
Oh! vedete gli attucci, ch’egli la
     Per presentare il mazzolin de’ fiori:
     State a vedere ancor, guardate là,
     Attenti, attenti, veh! dame e signuri,
     Un secondo presente a parte a parte
     Mostra, sfogliando le dorate carte.
Che cos’è? Che cos’è? Guardiamlo pure,
     Lasci veder quel coso prelibato,
     Di che parlar dovran le età future,
     Com’oggi noi parliamo del passato.
     Permio! qual è a veder cosa si strana?
     Di gran ceci dorati una collana?

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Zizi! zizi! mentr’egli rende il dono
     A lei punzecchierò quel bel visino,
     E in un tutte darem nel grato suono,
     Sì ch’egli, che è cotanto gentilino,
     Scacciar ei tenterà una per una,
     Qual fa la mamma al bambolino in cuna.
Uh! uh! come s’affanno, e si dimena
     A far che quel visin non sia toccato.....
     Ma già sento gridar: Fuori di scena.
     Al second’atto, su, che abbiam tardato.
     E noi ritornerem quali eravamo,
     Giacchè null’altro più veder possiamo.
Ecco un’altro ritratto. Lo vedete
     Quel giovin, che vuol farla da poëta?
     Un pochin di silenzio, e ben vedrete
     Come giunto è sì presto all’alta méta
     Di poëtar con grazia, e dar diletto.
     Conoscer lo volete? E un’Architetto.
Oh! va là, che ti frulla per la testa?
     Va a far de’ Cimiteri, se pur sai!
     Talia non dorme, no, mai sempre è desta,
     Ingannarla con ciance non potrai,
     Perchè sa ben chi sono i figli suoi,
     E che razza di versi, i versi tuoi.
Ma giacchè vuoi cantar, via, canta pure,
     Bada, bada però d’esser conciso,
     Nè robba mi cantar da sepolture,
     Perchè a genio mi va sempre il sorriso.
     Tienti la voce, su, favella adesso,
     Non abusar però del mio permesso.

     — Se condonar volete, signori, il verso mio,
Ho di cantar stasera grandissimo disio.
A ciò mi spinge il debito d’alta riconoscenza,
Vorrei ben far, ma dubito, che non ne avrò polenza,
Perdonerete unanimi, spero, l’audacia mia,

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Vati, signore e vergini piene di cortesia.
     Sono tre mesi circa che insiem tutte le sere
Ci riuniam, oeliando, per un pochin godere,
Ne’ primi giorni, in vero, ci si sofferse un po’,
Ma tosto venne il giubilo, e l’allegria tornò.
Rendo i dovuti encomi a tutte le signore,
Senza adular, le vergini lodo di tutto cuore,
E per la grazia ingenua, pel brio che ci àn mostrato
Per lunga pazienza d’avermi sopportato
Ne’ giuochi e nelle celie, che abbiam fatto sovente,
Perchè sono insoffribile, e non son buono a niente,
— (Oh! questo lo sapeva pria che l’avessi detto,
Qui teco son d’accordo, qui sì che ti rispetto.) —
E quell’irsuta bestia, l’uggiosa e brutta noja,
No, non potè mai vincere, o soffocar la gioja.
E quel livor, che mescersi tenta dov’è il sorriso,
Forza non ebbe, e cadde sempre da noi conquiso.
E la zizzania invano tentò scoccar la freccia,
Dov’è virtù quel ferro non potrà far mai breccia.
Sempre concordi, unanimi, fummo d’un sol pensiero,
Non entrò mai superbia, nessun fu mai qui altero;
Lieti, fra le brillanti danze, godemmo i dì,
In passeggiate e giuochi giammai non si soffrì.
Gli scherzi fûro ingenui, sol si pungea per dire,
Le compagnie sì amabili bisogna benedire.
E quell’amor, che rapido s’accende in ogni petto,
E che di poi attossica qual mai si sia diletto,
Qui messe un piede, e parvegli trovar terreno adatto,
Ma trovò spine, e subito s’allontanò più ratto.
Correr lo veggo il misero, lungi, più lungi ancora,
E lo discerno, o parmi ch’ei scelse altra dimora.
Se mi darete il tempo di mettermi gli occhiali,
Se tu prestar mi vuoi, Musa, le tue grand’ali,
Interrompendo un poco ciò, che già stava a dire.
Quel, ch’ora fa l’amore, io vi vo’ far sentire:
     Vicino ò ad urbanissima e vaga damigella,

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A cui conoscer fece d’esser, pur troppo, bella,
Afferra un tal pe’ baffi, e innanzi a lei l’inchina;
Un altro pe’ capegli a’ piè glielo trascina;
A chi piega il ginocchio, e a chi dà slancio e fiato
A dir: Sì, t’amo, credimi, d’amore sviscerato;
Un qui si strugge e lagrima, l’altro domanda affetto;
V’ha chi gioisce, e l’anima sente balzar dal petto;
E chi querelar sontesi, strappando le basette.
Oh! poverin, di platino è il cor delle donnette,
(Di quelle là già parlo, ma non di voi, o care,
Che siete tanto fervido e salde nell’amare.)
V’è chi appartato incrociasi ambo le braccia in seno,
La fronte, il guardo, il riso, tutto di rabbia è pieno;
Fra questi e quegli accendesi l’ira, e lo sdegno avanza,
È trista la catastrofe ove l’amore ha stanza.
     Oh! basta qui, tien l’ali, Musa diletta mia,
Le lenti giù, ritorno colà donde partia......
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Eh! eh! pipistrellaccio, ormai t’arresta
     D’un tanto cicalar basso e stentato.
     E brevità vuoi tu chiamar codesta?
     Il timban dell’orecchio m’hai sfondato.
     — Ebben, d’occasion quest’altro scherzo
     Ti leggerò, lasciando quello a mezzo. —

          “Sta mattina, o miei signori,
               “Giunsi al colmo dei dolori.
               “Ah! soffrii, soffrii cotanto,
               “Ch’ho diritto d’esser santo.
          “Voi sapete che nel giuoco
               “Nulla vinco, o vinco poco,
               “E perciò tutte le sere
               “Son battuto nel sedere;
               “Ma di ciò mi contentavo,
               “Chè d’amare un dì speravo.

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               “Ahi! la sorte cruda e ria
               “Volse in ben la stella mia.
               “Oh! che bene! il ben giammai
               “Senza mal nol ritrovai.
               “E difatti, se ier sera
               “Tanta gioja in me non era,
               “Non avria dovuto avere
               “Un sì grande dispiacere
               “Nell’udir gridarmi allato.
               “Poverino! a pieno fiato:
               “Non c’è scuse, senza liti
          — “Vogliam dolci e de’ squisiti. —
               “Della somma guadagnata
               “La mia lasca è già votata.
               “Quest’è nulla, o buon Iddio!
               “Ci ho rimesso anche del mio.
               “Chiunque, affé! s’accende d’ira
               “(Chi nol sa meglio di me?)
               “Se al guadagno d’una lira
               “Debba far pagarne tre.
               “Una sera ho guadagnato.
               “Ed ognun m’ha invidiato.
               “Mamma, mamma, ahi! che saria
               “S’ogni dì guadagneria?
               “Pranzi, cene e déjeunés
               “Certo allor verrian da me.
          “Giacchè i dolci ho già comprati,
               “Non mangiar, gli è tra i peccati.
               “Ma però quella signora
               “Che li chiese, aspetti ancora,
               “Debbo dirle all’orecchino:
               “Come, come, non c’è vino?
               “S’è mai vista una donzella,
               “Che a qualcun promessa sia,
               “Non ridire a questa e a quella
               “Con bell’aria d’allegria:

[p. 34 modifica]

          — “Oh! il mio sposo non ha pari,
               “Ha dei pregi immensi e rari,
               “Egli è in terra un’angioletto,
               “Non ha il minimo difetto? —
               “Senza l’occhio in fondo al cuore
               “Penetrar può mai l’amore?
               “Chiunque sia dama di moda
               “Danzar puote senza coda
               “(O dell’abito, o di quel
               “Bimbi e vecchi cicisbei?)
               “Così i dolci al tavolino
               “Non si metton senza vino.
               “Ecco il vin, beviam, beviamo,
               “E gli evviva a lei rendiamo.
               “Ma che vino? Ognun si lagna.
               “Ci dia meglio lo sciampagna,
               “Brava, or sì con verso onesto
               “Io dirò.... dirò, sol questo:
          “Lo richiesto, e mi si è dato,
               “Lo sciampagna prelibato.
               “Bêr potrò con allegria,
               “Chè altri al chiede, o così sia.
               “Che soffrire! che dolore!
               “Mi si squarcia in petto il cuore,
               “Mangiar debbo in allegria
               “Ciò che pago, e così sia.
          “E degli altri il verso onesto
               “Questo sol, dirà sol questo:
          “Com’è dolce, com’è caro,
               “Ciò che dà l’altrui denaro.
               “Su, mangiamo in allegria,
               “Chè altri paga, e così sia.
               “Che piacere! che piacere!
               “Non pagando il vin qui bere,
               “Su, beviamo in allegria,
               “Chè altri paga, e così sia.„

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Pover a me, non la finisci mai
     Quella lunga e nojosa tiritera!
     C’è da impazzar, se tu proseguirai,
     Mosca d’estate nata in primavera.
     State a veder che a ricantar s’affretta.....
     Basta così, basta così, fraschetta.
Ve’ come si contorce, e si sfigura,
     Quasi che un mal di stomaco l’avesse
     A trascinar ben presto in sepoltura,
     O che amaro boccon pena gli desse,
     Chè l’accento gorgoglia in sulla gola,
     E dal suo labbro con dolor s’invola.
Or quel gruppo osservate. È una brigata
     Di buoni amici, che in fotografia
     Far vogliono una bella cavalcata,
     E cantando star sempre in allegria.
     Son tutti trentadue presi in complesso
     Asini, cavalieri e nobil sesso.
Domando mille scuse, e perdonate
     Se l’ho confusi tutti quanti insieme.
     Le lenti son dal naso mio cascate,
     E non ci vedo ben, ma ciò che preme?
     Per ascoltar l’orecchio Iddio ci ha dato,
     Sento ragghiar..... non posso aver sbagliato?
Bravi i signori miei, così mi piace,
     Mischiar sempre al lavor qualche sollazzo,
     Ma un sollazzo però breve e fugace,
     Chè l’un l’altro è per me da dirsi pazzo:
     Chi mai sostar dal suo lavor non tenta,
     E chi di sollazzar mai si rallenta.
Ecco un’altro signor bizzarro o strano,
     Che le spalle ci mostra e non il viso.
     Poffaremmio! sfrondar voglio l’arcano,
     Che qui mi si nasconde, io non traviso,
     Mostrarci e’ vuole con un nuovo gergo
     Ch’egli ha due faccie e la più nota a tergo.

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Un padron col servo è questi quà.
     – Se a lungo, Egisto, restar vuoi con me,
     Ciò ch’io bramo imparar ti converrà
     Giurando d’ubbidir per la tua fè:
     Custodito per ben voglio il segreto,
     Ogni inutile spesa a far ti vieto.
Economia.... capisci?…... e segretezza!
     M’intendi bene? I miei desir son questi.
     E giacchè nel donare ho l’alma avvezza
     Sempre so premiar gli uomini onesti,
     Segretezza.... capisci?.... economia!
     E tanto sul questo mio cor desia. —
L’uno e l’altro a parlar già pronti sono,
     Gli ordini del padrone ascolterete,
     E quanto il servo ad ubbidir sia buono,
     Con vostra meraviglia apprenderete.
     Eh! von son ole, veh! non son capricci,
     Non dò a vera beltà calor posticci.
– Alla meridïana, Egisto mio,
     Vanne a veder se mezzanotte è data. —
     — Subito andrò, ma che veder poss’io
     So da un’ora la luna è tramontata?
     — L’abbia d’ingegno un pocolin d’acume! —
     Oh! che fa mai? Teco ti porta un lume.
La diman come subito ebbe visto
     Splendere il sol per le celesti vie:
     — Vanne alla posta, e non tardare, Egisto,
     Gridò, dovrai trovar lettere mie. —
     Tosto il servo fedel giunge alla posta,
     E con precauzion lento s’accosta:
— Ci son lettere quì pel mio padrone?
     — Questo vostro padron come si chiama? —
     — Uh! bella! veh! mi crede un babbione
     Capace d’appagare ogni sua brama?
     Le lettere mi dia, chè io ben non so
     Altrimenti, o signor, quel che farò. —

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Dopo un dibatter lungo alfin sen viene
     Al suo padron gridando: — Eh! signor mio,
     Di curiosità son tutte piene
     Quelle genti, o soffrir non li poss’io.
     Sapere a forza essi volean da me
     Il nome suo. Ma non l’ho detto, affè! —
– Su, su, va a dirlo pur sciocco che sei. —
     Così torna alla posta il servitore,
     In men che adesso dirvelo potrei,
     Le lettere a pigliar del suo signore,
     Dicendo chiaro e ad alla voce il nome,
     E facendo seguir dopo il cognome.
— Ciocco Scecchè centesimi quaranta. —
     — Per due lettere sol tanti quattrini? —
     — Ma che? Tornate dalla terra santa,
     O venite di là de beduïni? —
     — Ebben! gliene darò soltanto venti. —
     — Quaranta dico. — Eh! via, se ne contenti! —
— Oh! che cos’è? Qui non si scherza, amico. —
     Il mio padron vuol fatta economia. —
     — Del padron vostro me ne importa un fico. —
     — Gliene dò trenta... son pagate... via! —
     — La finite una volta colle buone,
     O la finisco io questa canzone? —
— Ebben, tutti quaranta eccoli quà.
     Mi faccia almen, di grazia, un sol piacere.
     Senta all’orecchio: Un’altra me la dà? —
     Ma subito che quegli ebbe a vedere
     Con chi aveva da far quella giornata
     Gli diede un po’ di carta ravvoltata.
Egisto allor torna con piè veloce,
     Di tanta economia bello e splendente,
     E con sonora, piena ed alta voce
     Narra il gran caso al suo signor repente.
     Ma visto che ’l padron gettò lontano
     Da sè quel foglio, già recato invano,

[p. 38 modifica]

Lo riprese, e fra sè disse all’istante:
     — Vo’ dar nuove di me a’ mie’ parenti,
     Son già le tante settimane e tante
     Che non ho scritto, così andran contenti. —
     E alla posta ben tosto ritornato,
     Nella buca quel foglio ebbe affidato.
Un po’ d’attenzïone or deh! prestate
     Tutti, che attorno ad ascoltar qui siete,
     Ecco un tal (non esagero, badate,
     Chè certo al par di me lo conoscete)
     Ecco un tal nel saper così profondo,
     Che al paragon cede ogni dotto al mondo.
Alcun non lascia a cui non dia di sciocco;
     Il disonesto oprar rimbrotta a un certo;
     Dà del ladro ad un’altro, e in breve tocco
     Rampogna un terzo pe ’l non visto serto;
     Tutto giorno così gridando va
     Per purgar d’ogni mal la società.
Attenti, attenti or qui, cari signori,
     Chè ’l ritratto l’è molto curioso:
     È un uom, che dorme su’ più grandi allori
     Degli avi suoi. Che sonno glorïoso!
     Quà libri, là medaglie.... attenti, o voi
     Dotti famosi ed odierni eroi.
E imparate a dormir sonni si belli,
     Che render ci san grandi e sovrumani,
     Leopardi qui dorme o Torricelli,
     E lì Cagnoli dorme e Spallanzani,
     Dormiam fra tante glorie a canto fermo.
     Vermo di gran carcame è nobil vermo.
Ma già vedo che tutte v’annojate,
     E soffrir non vi piace ’l verso mio.
     Basta così, donnette mie garbate,
     Basta così, a rivederci, addio,
     Ma pria d’andar niuna tra voi ritardi
     A perdonar Cecchino Rapisardi.