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Vita di Dante Alighieri

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Girolamo Tiraboschi

1834 Indice:Vita di Dante (Tiraboschi).djvu Biografie letteratura Vita di Dante Alighieri Intestazione 19 luglio 2011 100% Biografie


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VITA


DI DANTE ALIGHIERI


scritta dal cavaliere


GIROLAMO TIRABOSCHI.




Il nostro Poeta nacque in Firenze, nel 1265, di Alighiero degli Alighieri e di Bella, e fu detto Durante, benchè poscia per vezzo si dicesse comunemente Dante. Chi bramasse vedere altre cose quanto alla famiglia, e agli antenati di Dante, vegga le Memorie di Giuseppe Benvenuti già Pelli, sulla vita del medesimo; e solo qui basta dire che il detto Pelli, confutate le favolose o almeno non provate asserzioni del Boccaccio, del Villani, e di altri scrittori intorno agli antichissimi ascendenti di questo poeta, ne ha formato l’albero genealogico, da cui si raccoglie ch’ei discese da Cacciaguida e da Aldigiero ossia Aligiero di lui figliuolo nel secolo XII, dal quale poi la famiglia fu detta degli Alighieri, nome, come affermasi dal [p. 2 modifica]Boccaccio e da Benvenuto da Imola (Comment. in Comoed. Dant. Vol.I. Antiquit. Ital. p. 1036), tratto dalla famiglia della moglie di Cacciaguida, ch’era degli Alighieri di Ferrara, come si accenna dal medesimo Dante nel canto XV del Paradiso. Nè il Pelli si contentò di scrivere soltanto degli antenati, ma scrisse anche di tutti i discendenti di Dante, la cui famiglia pruova essere finita in Ginevra figlia di Pietro, maritata l’anno 1549 nel conte Marcantonio Sarego Veronese.

Presso il sullodato Pelli si veggano parimenti le pruove dell’innamoramento di Dante con Bice ossia Beatrice figlia di Folco Portinari, cominciato mentre ambedue erano in età di circa dieci anni, e durato fino alla morte di essa, seguita nel 1290, perciocchè comunque io non creda, che l’amor di Dante fosse sol misterioso, e che sotto nome di Beatrice intender solo si debba, come altri han pensato, la Sapienza, o la Teologia, è certo però, come confessa il medesimo sig. Pelli, che Dante nelle sue opere, e nella sua Commedia singolarmente, ha parlato di questo suo amore in termini così enimmatici, e che sembrano spesso gli uni agli altri contrari, ch’è quasi impossibile l’adattarli tutti nè al senso allegorico nè [p. 3 modifica]al letterale. Non giova dunque il volere indagare ciò ch’è avvolto fra tenebre troppo folte, l’aggirarsi fra le quali sarebbe nojosa al pari che inutil fatica.

Se Dante ne’ primi suoi anni fu innamorato, ei seppe congiunger all’amore l’applicazione agli studi delle gravi scienze non meno che dell’amena letteratura. Brunetto Latini gli fu maestro, ed egli era uomo a poterlo istruir negli studi d’ogni maniera, e molto ancora potè giovargli l’amicizia che con lui ebbe Guido Cavalcanti. Il Pelli non fa menzione di alcun viaggio, che Dante facesse per motivo di studio ne’ primi anni della sua gioventù, e solo accenna (§.14.) il recarsi ch’ei fece, mentre era esule, secondo Mario Filelfo, alle scuole di Cremona e di Napoli, e, secondo Giovanni Villani, a quelle di Bologna e di Parigi. Anche il Boccaccio il conduce a Bologna e a Padova in tempo d’esilio. Ma parmi degno di riflessione ciò che Benvenuto da Imola narra, cioè che ancor giovane e prima dell’esilio egli andossene alle università di Bologna e di Padova, e poi, essendo esule, a quella di Parigi: Quum Auctor iste in viridiori ætate vacasset Philosophiæ naturali et morali in Florentia, Bononia, et Padua, in matura ætate jam exul dedit se sacræ Theologiæ [p. 4 modifica]Parisiis (loc. cit.). E riguardo a Bologna, altrove così ha Benvenuto. Auctor notaverat istum actum, quum esset juvenis Bononiæ in studio (ib. p. 1135. E vuolsi avvertire che, benchè il Villani sia più antico, e perciò più autorevole di Benvenuto, questi però, essendo stato, come egli stesso ci dice (ib. pag. 1083.), per dieci anni in Bologna, ed avendo ivi letta pubblicamente la Commedia di Dante, doveva di ciò essere meglio istruito che non il Villani e il Boccaccio. Inoltre lo stesso Benvenuto ci narra altrove (ib. p. 1085), che Dante conobbe in Bologna il miniatore Oderigi da Gubbio. Or questi era già morto, come abbiamo provato (St. della Lett. It. t. 4. p. 469.), l’anno 1300, innanzi all’esilio di Dante e convien dire perciò, che Dante prima del detto anno fosse stato in Bologna. Ella è però cosa strana, che autori vissuti nel secolo stesso di Dante, quai sono il Boccaccio, il Villani, e Benvenuto da Imola, sien tanto discordi ne’ lor racconti. Ma qualunque fosse il luogo, in cui Dante attese agli studi, è certo ch’ei coltivolli con successo soprammodo felice, come le opere da lui scritte ci manifestano. Da se medesimo apprese le leggi della poesia italiana, come egli stesso ci accenna (Vita nuova t. 4. dell’Op. ed. Zatta p. 7.); ma la sua [p. 5 modifica]amicizia col Cavalcanti, col Latini, e con altri poeti di quell’età, dovette recargli non poco ajuto. La sua Commedia ci mostra, quanto studio avesse egli fatto nella filosofia, quale allora insegnavasi, e nella teologia. Amò anche Dante le arti liberali, e ne è pruova l’amicizia da lui avuta col mentovato Oderigi, e ancor col celebre Giotto (Benven. l. c.); anzi, come afferma il medesimo Benvenuto (ib. p. 1147.), essendo egli di sua natura assai malinconico, per sollevarsi dalla tristezza godeva assai del suono e del canto, ed era grande amico de’ più celebri musici e sonatori che fossero in Firenze, e singolarmente di un certo Casella, musico ivi allora pregiato assai, e da lui rammentato con lode nella sua Commedia (Purg. c. 2. v. 88. ec.) Il sig. Pelli (§.8.) si sforza di persuaderci che Dante sapesse di greco, e ciò pure avea già affermato monsig. Girolamo Gradenigo (Lettera intorno agl’Italiani, ec.) Ma questo secondo scrittore poscia modestamente ritrattò il suo parere (Della Letterat. greco-ital. c.10.) mosso principalmente dall’autorità di Giannozzo Manetti, ch’espressamente nega tal lode a Dante, e da più altre ragioni che egli stesamente viene allegando. E certo le pruove che il Pelli ne adduce, cioè il nominar che Dante fa spesso Omero ed altri poeti greci, e l’usar [p. 6 modifica]pure sovente di parole greche, non mi sembran bastevoli a dimostrare ch’ei sapesse di greco; poichè de’ primi ei potea parlare per fama, e potea aver trovate le seconde presso altri scrittori. Francesco da Buti, che nello stesso secolo XIV comentò Dante, racconta (V. Mem. della Vita di Dante. §.8.) che questi essendo ancor giovane si fece frate nell’Ordine de’ Minori, ma che prima di farne la professione, ne depose l’abito; la qual circostanza però non si accenna da verun altro scrittore della Vita di Dante.

Mentre in tal maniera coltivava Dante il fervido e penetrante ingegno, di cui la natura aveagli fatto dono, ei volle ancora servir la patria coll’armi, e trovossi a due battaglie, una contro gli Aretini nel 1289, l’altra nel 1290 contro i Pisani (ib.), e nell’anno seguente prese in sua moglie Gemma di Manetto de’ Donati (ib.§.9). Leonardo Bruni, nella sua sua Vita di Dante, dice generalmente, che fu adoperato nella Repubblica assai. Le quali parole più ampiamente si spiegano da Mario Filelfo, citato dal Pelli (ib.), col dire ch’ei sostenne in nome de’ Fiorentini quattordici ambasciate, cioè a’ Sanesi per regolamento de’ confini, a’ Perugini per liberare alcuni suoi concittadini che ivi eran prigioni, a’ Veneziani per istringer con essi alleanza, al re di [p. 7 modifica]Napoli pel medesimo fine, al marchese di Este in occasione di nozze, da cui dice il Filelfo ch’ei fu onorato sopra tutti gli altri ambasciadori, a’ Genovesi per regolamento de’ confini, di nuovo al re di Napoli per la liberazione di Vanne Barducci da lui dannato a morte, quattro volte a Bonifacio VIII, due volte al re d’Ungheria, e una volta al re di Francia; in tutte le quali ambasciate aggiunge il Filelfo, ch’egli ottenne quanto bramava, trattone nella quarta al Pontefice Bonifacio, poichè, mentre in essa era occupato, fu, come vedremo, dannato all’esilio. Se tutte queste ambasciate sostenne Dante a nome dei Fiorentini, come il Filelfo accenna, converrà dire, che altro ei non facesse, che viaggiar di continuo, perciocchè ei fu esiliato, come vedremo, l’anno 1302 in età di 37 anni, nè mai riconciliossi co’ Fiorentini, e quindi convien porre tutte queste ambasciate negli anni che ne precedon l’esilio, cominciandole da quel tempo in cui Dante poteva esser creduto opportuno a trattar negozi, il quale spazio di tempo ognun vede quanto sia breve e ristretto. Per altra parte niuno de’ più antichi scrittori della Vita di Dante ha parlato di tali ambasciate, se se ne tragga qualcheduna, di cui or ora ragioneremo, nè in tante memorie della città di Firenze, in [p. 8 modifica]questi ultimi tempi dissotterrate, non se ne trova, ch’io sappia, menzione alcuna; e l’autorità del Filelfo, scrittore di quasi due secoli posteriore a Dante, non è abbastanza valevole ad assicurarcene. Le due sole ambasciate fatte al re di Napoli sembran le meno improbabili. Poichè il distinto ragguaglio, ch’egli ne dà, e l’orazione, che allor tuttora esisteva da Dante fatta per la seconda, sembra che ce ne facciano certa fede. Or chi fu egli il re di Napoli, a cui Dante fu inviato due volte dalla sua patria? A mio parere ei non potè esser Roberto; poichè questi non salì al trono che l’anno 1309, e Dante cacciato dalla patria in esilio fin dall’anno 1300 non più vi fece ritorno. Ei dunque fu probabilmente Carlo II, e forse la prima ambasciata di Dante a questo Sovrano fu all’anno 1295, in cui ei venne in Firenze, e vi fu ricevuto a gran festa. Nella qual occasione, come narra Benvenuto da Imola, Dante avea allora 25 anni di età; ma poichè è certo, ch’ei nacque nel 1265, convien quì riconoscere un errore de’ copisti, e credere, che Benvenuto scrivesse 30 anni. Dell’altra ambasciata non abbiamo notizia nè congettura alcuna; ma se il Filelfo ci ha detto il vero, è verisimile, ch’ella avvenisse in uno degli anni seguenti, che precederono l’esilio di Dante. [p. 9 modifica]Troviamo inoltre ch’ei fu nel numero dei Priori in Firenze da’ 15 di giugno a’ 15 di agosto del 1300 (Mem. di Dante. §.10.). Questo onorevole impiego fu fatale a Dante, perciocchè essendosi allor progettato di mandare in Firenze Carlo di Valois conte d’Angiò per acchetare le domestiche turbolenze, onde quella città era agitata e sconvolta, Dante, essendo allora Priore, opinò che tal venuta fosse per riuscir funesta alla patria, e dovesse perciò impedirsi. Ma essendo riuscito a’ partigiani di Carlo di condurlo a Firenze, il partito de’ Bianchi fu da lui cacciato fuor di città; e Dante, che allora era ambasciadore a Bonifacio VIII con più altri, a’ 27 di gennajo del 1302 fu condennato a una multa di 8000 lire, e due anni d’esilio, e, quando ei non pagasse la somma imposta, si ordinò che ne fossero sequestrati i beni, come in fatti avvenne; di che veggasi una più stesa narrazione confermata da autentici monumenti presso il lodato moderno scrittore della Vita di Dante (ib.). Ei fa ancora menzione di un’altra sentenza fulminata contro Dante a’ 10 di marzo dello stesso anno, e ne parla come di semplice conferma della prima sentenza. Ma ella, a dir vero, fu assai più severa; poichè in essa Dante, e più altri, se per lor mala sorte cadessero nelle [p. 10 modifica]mani del Comun di Firenze, furon condennati ad essere arsi vivi. Di questa circostanza e di questo monumento, sconosciuto finora ad ogni altro scrittore della Vita di Dante, io son debitore alla singolar gentilezza dell’eruditissimo conte Lodovico Savioli senatore Bolognese, che avendolo scoperto nell’archivio della Comunità di Firenze l’anno 1772 ne fece trarre autentica copia, e io credo di far cosa grata a’ miei lettori publicando in piè di pagina questo pregevolissimo monumento1. Se Dante fosse veramente [p. 11 modifica]reo delle baratterie che gli vengono apposte, non è sì facile a definire. Io credo che in quei tempi di turbolenze e di dissensioni fosse assai frequente l’apporre falsi delitti, e che [p. 12 modifica]questi facilmente e volentieri si credessero da coloro che voleano sfogare il lor mal talento contro i loro nimici. Egli è però questo l’unico monumento, ch’io sappia, in cui si veda a tal delitto assegnata tal pena; ed esso ci pruova il furore, con cui i due contrari partiti andavano lacerando l’un l’altro.

Ove si andasse Dante aggirando nel tempo del suo esilio, è cosa difficile a stabilir con certezza. Quelle parole ch’ei pone in bocca di Cacciaguida nel predirgli, che questi fa le sventure che dovea incontrare:


Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ’n su la scala porta il santo uccello.


han fatto credere ad alcuni ch’ei tosto se ne andasse alla corte degli Scaligeri in Verona. Ma è certo che Dante per qualche tempo non abbandonò la Toscana, finchè i Bianchi si poterono lusingare di rimetter piede in Firenze, cosa più volte da essi tentata, ma sempre in vano. Ei fu dapprima in Arezzo, come narra Leonardo Bruni, ed ivi conobbe Bosone da Gubbio, da cui fu poscia alloggiato, come fra poco diremo; ed è probabile che l’anno 1304 egli entrasse [p. 13 modifica]a parte dell’improvviso assalto che i Bianchi, benchè con infelice successo, diedero a Firenze. È certo inoltre che l’anno 1306 egli era in Padova e l’anno 1307 nella Lunigiana presso il marchese Morello Malaspina; di che il sig. Pelli reca incontrastabili pruove, tratte quanto al primo soggiorno da uno stromento che si conserva in Padova, e quanto al secondo da’ versi stessi di Dante (ib. §. 11.). Ciò però dee intendersi, come altrove abbiamo mostrato (St. della Lett. Ital. l. 1. c. 2. n. 6.), in questo senso che Dante dopo aver soggiornato per qualche tempo in Arezzo, andasse a stabilirsi in Verona l’anno 1304, cioè due anni dopo l’intima fattagli dell’esilio, e che da Verona passasse poscia talvolta per qualche particolare motivo or a Padova, or nella Lunigiana.

Noi abbiam pur riferito (St. della Lett. Ital. l.1.) gli onori che dagli Scaligeri ei ricevette, benchè l’umor capriccioso che lo dominava, gli desse anche occasione di qualche disgusto. Il Boccaccio ragiona in modo che ci potrebbe far credere, che si pensasse ivi di conferirgli l’onore della corona d’alloro, dicendo ch’egli non l’ebbe solo, perchè era risoluto di non volerla se non in patria (De Geneal. Deor. l. 15 c. 6.). Ma di questa circostanza niun altro ci ha [p. 14 modifica]lasciata memoria. Verona però non fu sede stabile del nostro Poeta. Il Boccaccio lo conduce in giro in Casentino, in Lunigiana, ne’ monti presso Urbino, a Bologna, a Padova e a Parigi. Altri luoghi da lui abitati si annoveran da altri, e sembra che non potendosi disputare della patria di Dante, come si fa di quella di Omero, molte città d’Italia invece contendan tra loro per la gloria di aver data in certo modo la nascita alla Divina Commedia da lui composta. Firenze vuole ch’ei già ne avesse composti i primi sette canti, quando fu esiliato, e ne reca in pruova l’autorità del Boccaccio e di Benvenuto, e alcuni passi del medesimo Dante. Il marchese Maffei vuole che alla sua Verona concedasi il vanto, che ivi principalmente Dante si occupasse scrivendola. Un’iscrizione nella torre de’ conti Falcucci di Gubbio ci assicura che in quella città, ove, come sembra indicarci un sonetto da lui scritto a Bosone, abitò qualche tempo presso questo illustre cittadino, ei ne compose gran parte; e un’altra iscrizione, posta nel monastero di s. Croce di Fonte Avellana nel territorio della stessa città, afferma lo stesso di quel monastero, ove anche al presente si mostrano le camere di Dante. Altri danno per patria a questo poema la città d’Udine [p. 15 modifica]e il castello di Tolmino nel Friuli, altri la città di Ravenna; delle quali diverse opinioni si veggan le pruove presso il più volte lodato sig. Giuseppe Pelli; e vuolsi aggiungere inoltre, che il cav. Giuseppe Valeriano Vannetti pretende, che nella Valle Lagarina nel territorio di Trento Dante scrivesse parte della Commedia e altre poesie, come egli fa a provare in una lettera pubblicata dal Zatta (Op. di Dante t. 4. par. 2.). Io mi guarderò bene dall’entrare nello esame di tutte quelle sentenze, e dirò solo che a me sembra probabile ciò che pure sembra probabile al sig. Pelli, che Dante cominciasse il poema innanzi all’esilio, e il compisse innanzi alla morte di Arrigo, seguita nel 1313, altrimente, com’egli dice, non si vedrebbono negli ultimi canti di esso le speranze, che Dante formava nella venuta di quell’Imperadore in Italia (Parad. c. xxx. v. 133 ec.).

Egli sperava al certo che la discesa d’Arrigo potesse aprirgli la via di ritornare a Firenze. Perciò, oltre una lettera scritta a’ re, a’ principi italiani e a’ senatori di Roma, per disporli a ricevere favorevolmente Arrigo, che dall’ab. Lazzari è stata posta in luce (Miscell. Coll. Rom. t. 1. p. 139.), un’altra ne scrisse al medesimo Imperadore l’anno 1311, ch’è stata publicata [p. 16 modifica]dal Doni (Prose antiche di Dante ec.), esortandolo a volger l’armi contro Firenze, e da essa ancora raccogliesi che Dante era stato personalmente ad inchinarsi ad Arrigo. E questi infatti era contro dei Fiorentini fortemente sdegnato; ma i poco felici successi ch’egli ebbe in Italia, e poi la morte che lo sorprese nel 1313, non gli permisero di eseguire i suoi disegni; e l’unico frutto che Dante n’ebbe, fu il perdere ogni speranza di rimetter piede in Firenze. Il sig. Pelli differisce (§. 13.) al 1315 la confermazione della sentenza di esilio contro di lui pronunciata; ma l’ab. Mehus accenna una carta (Vita Ambr. Camald. p. 182.) del 1311, in cui si dichiara che Dante era irremissibilmente escluso dalla sua patria. E allora è probabile ch’ei se ne andasse a Parigi, non già ambasciadore de’ Fiorentini, come dice il Filelfo, ma per desiderio di passare utilmente il tempo, e di sempre più istruirsi in quella università. Questo viaggio di Dante rammentasi da Giovanni Villani, come abbiam detto, da Benvenuto da Imola (l. c. p. 1164), da Filippo Villani (Ap. Mehus. l. c. pag. 167) e dal Boccaccio (Vita di Dante et Geneal. Deor. l. 14 c. 11.), il quale aggiugne che in quel luminoso teatro ei sostenne publicamente una disputa su varie [p. 17 modifica]quistioni teologiche. Un’altra disputa filosofica ei tenne nel 1320 in Verona, se pur non è un’impostura un libretto stampato in Venezia nel 1508, di cui parlano Apostolo Zeno (Lettere t.2.p.304) e il Pelli (§.14. 18), e che ha questo titolo: Quæstio florulenta ac perulitis de duobus Elementis Aquæ et Terræ tractans, nuper reperta, quæ olim Mantuæ auspicata, Veronæ vero disputata et decisa, ac manu propria scripta a Dante Florentino Poeta Clarissimo, quæ diligenter et accurate correcta fuit per Rev. Magistrum Joan. Benedictum Moncettum de Castilione Aretino Regentem Patavinum Ordinis Eremitarum Divi Augustini Sacræque Theologiæ Doctorem excellentissimum. L’ultima stanza di Dante fu la città di Ravenna a cui egli recossi sul finir de’ suoi giorni, invitato da Guido Novello da Polenta coltivatore insieme e splendido protettore de’ buoni studi, come dice il Boccaccio. Fra le prose di Dante, pubblicate dal Doni, avvi una lunga lettera da lui scritta al suddetto Guido, da cui egli era stato inviato l’anno 1313 a Veneza ambasciadore al nuovo doge, nella qual lettera, di Venezia e de’ Veneziani ei parla con insofferibil disprezzo. Ma che una tal lettera e in conseguenza anche una tale ambasciata che ad essa sola si appoggia, sia una impostura del [p. 18 modifica]Doni, era già stato avvertito dal canon. Biscioni nel ristampare ch’ei fece le medesime Prose, e si è lungamente provato dal Doge Foscarini (Letterat. venez. p. 319 ec.), e più fortemente ancora dal p. degli Agostini (Scritt. venez. t. 1. pref. p. 17 ec.) il quale inoltre confuta a lungo le accuse che l’autor della lettera dà a’ Veneziani. Più verisimile è un’altra ambasciata di Dante ai medesimi, che si narra da Giannozzo Manetti nella Vita ch’egli ne scrisse, dicendo che essendo in guerra i Veneziani con Guido, questi il mandò ad essi ambasciadore per ottenere la pace; che Dante avendo perciò più volte richiesta pubblica udienza, questa per l’odio, di che i Veneziani ardevano contro di Guido, gli fu sempre negata; di che egli dolente e afflitto tornossene a Ravenna, e in poco tempo vi morì l’anno 1321. In somigliante maniera raccontano il fatto anche Filippo Villani e Domenico di Bandino d’Arezzo (Ap. Mehus l. c. p. 167. 170), e si accenna ancora da Giovanni Villani, il quale così narra la morte di Dante: “Nel detto anno 1321 del mese di Settembre il dì di Santa Croce morì il grande e valente poeta Dante Alighieri di Firenze nella Città di Ravenna in Romagna essendo tornato d’ambasceria da Vinegia in servigio de’ Signori da [p. 19 modifica]«Polenta, con cui dimorava.»(l. 9. c. 133).

Queste parole del Villani ci danno l’epoca certa della morte di Dante, confermata con altre pruove dal sig. Pelli (Nuova Racc. d’Opusc. t. 17), il quale poscia ragiona dell’onorevol sepolcro che Guido da Polenta volea innalzargli, ma che, non avendolo egli potuto per la morte, da cui non molto dopo fu preso, gli fu poscia eretto l’anno 1483 da Bernardo Bembo pretor di Ravenna per la Repubblica di Venezia, e restaurato nel 1692 dal card. Domenico Maria Corsi legato di Romagna; intorno al qual monumento degna è d’essere letta una erudita dissertazione del conte Ippolito Gamba Ghiselli contro un supposto m. Lovillet, il quale avea preteso di togliere a Ravenna la gloria di posseder le ceneri del Poeta. Il Pelli reca ancora le diverse iscrizioni onde esso ne fu onorato; e narra le istanze più volte fatte dai Fiorentini, ma sempre inutilmente, per riaverne le ceneri; il disegno da essi formato, ma che non ebbe effetto, di ergergli un maestoso deposito, e l’onore che gli fu in Firenze renduto, con coronarne solennemente l’imagine nel tempio di s. Giovanni, come narra in una sua lettera il Ficino, il qual racconto però da altri si prende in senso allegorico; e finalmente ragiona (§. 16) delle [p. 20 modifica]medaglie in onor di esso battute, e delle statue a lui innalzate. Il Boccaccio ce lo descrive come uomo ne’ suoi costumi sommamente composto, cortese e civile. Al contrario Giovanni Villani ce ne fa un carattere alquanto diverso, e io recherò qui il passo in cui ne ragiona, perchè parmi il più acconcio a darcene una giusta idea (l. 9, c. 134). «Questi fu grande letterato quasi in ogni scienza, tutto fosse laico; fu sommo Poeta et Philosofo et Rettorico, perfetto tanto in dittare, et versificare, come in aringhiera parlare, nobilissimo dicitore, et in rima sommo con più pulito et bello stile, che mai fosse in nostra lingua infino al suo tempo et più innanzi. Fece in sua giovinezza el libro della Vita nuova di amore, et poi quando fu in esilio fece da 20 Canzoni morali et d’amore molto eccellenti, et infra l’altre fece tre Pistole, l’una mandl al reggimento di Firenze, dogliendosi del suo esilio senza colpa; l’altra mandò all’Imperadore Arrigo, quando era allo assedio di Brescia, riprendendolo della sua stanza, quasi profetizando; la terza a’ Cardinali Italiani, quando era la vacatione dopo la morte di Papa Clemente, acciò che s’accordassero a eleggere Papa Italiano; tutte in latino con alto dittato et con eccellenti sententie [p. 21 modifica]et autoritadi, le quali furono molto commendate da’ savi intenditori. Et fece la Comedia, ove in pulita rima, et con grandi questioni morali, naturali, astrologhe, philosophiche, et theologiche, et con belle comparationi et poetrie compose, et trattò in cento Capitoli ovvero Canti dell’essere et stato dell’Inferno et Purgatorio et Paradiso così altamente, come dire se ne possa, siccome per lo detto suo trattato si può vedere, et intendere, chi è di sottile intelletto. Bene si dilettò in quella Comedia di garrire, et esclamare a guisa di Poeta, forse in parte più che non convenia, ma forse il suo esilio li fece fare ancora la Monarchia, ove con alto latino trattò dello Officio del Papa e degl’Imperadori. Et cominciò uno Comento sopra 14 delle sopradette sue Canzoni morali volgarmente, il quale per la sopravvenuta morte non perfetto si trova, se non sopra le tre, la quale per quello, che si vede, grande et alta et bellissima opera ne riuscia, però che ornato appare d’alto dittato et di belle ragioni philosophiche et astrologiche. Altresì fece un libretto, che l’intitolò di Vulgari Eloquentia, ove promette fare quattro libri, ma non se ne trova se non due, forse per la affrettata sua fine, ove con forte et [p. 22 modifica]adorno Latino et belle ragioni riprova tutti i vulgari d’Italia. Questo Dante per suo sapere fu alquanto presuntuoso et schifo et isdegnoso, et quasi a guisa di Philosopho mal gratioso non bene sapeva conversare co’ Laici, ma per l’altre sue virtudi et scientia et valore di tanto Cittadino ne pare, che si convenga di darli perpetua memoria in questa nostra Cronica, con tutto che per le sue nobili opere lasciate a noi in iscritture facciasi di lui vero testimonio et honorabile fama alla nostra Citta.» La taccia d’uom troppo libero nel favellare e di costumi alquanto aspri e spiacevoli gli si appone ancora da Domenico d’Arezzo e da Secco Polentone (Ap. Mehus l. c. p. 169.175). Al qual carattere Benvenuto da Imola aggiugne (l. c. p.1209) quello di una singolar astrazione di mente, allorquando immergevasi nello studio, e ne reca in pruova ciò che gli avvenne in Siena, ove essendosi abbattuto a trovar nella bottega di uno speziale un libro da lui fin allora inutilmente cercato, appoggiato a un banco si pose a leggerlo con tale attenzione, che da nona sino a vespero si stette ivi immobile, senza punto avvedersi dell’immenso strepito che menava nella contigua strada un accompagnamento di nozze, che di colà venne a passare. [p. 23 modifica]Il Villani nel passo da me recato ci parla di quasi tutte l’opere che ci son rimaste di Dante. Io non farò che accennare le più importanti notizie intorno alle altre, per istendermi alquanto più su quella a cui sola egli è debitore del nome di cui gode tuttora fra’ dotti. La Vita nuova è una storia de’ giovanili suoi amori con Beatrice, frammischiata a diversi componimenti che per essa compose. Il Comento su quattordici sue canzoni, di cui parla il Villani, è quella opera che vien detta il Convivio, la qual però fu da lui lasciata imperfetta, poichè non comprende che tre sole canzoni col lor comento. Il libro de Monarchia fu da lui scritto in latino, e in esso prese a difendere i diritti imperiali, e scrisse perciò di essi e dell’autorità della Chiesa, come poteva aspettarsi da un Ghibellino, che dal contrario partito riconosceva il suo esilio e tutte le sue sventure. In latino pure egli scrisse i libri de Vulgari Eloquentia, i quali, essendo dapprima usciti alla luce solo nella lor traduzione italiana, furon creduti supposti a Dante; nè si riconobbero come opera di lui, se non quando ne fu pubblicato l’original latino in Parigi nel 1577. Abbiamo ancora di Dante la traduzione in versi italiani de’ Salmi Penitenziali, del Simbolo Apostolico, dell’Orazione Domenicale e [p. 24 modifica]di altri simili cose sacre; le quai poesie, troppo diverse della Divina Commedia, sono state di nuovo date alla luce dall’abate Quadrio l’anno 1752. Delle quali opere, e di alcune contese, a cui esse han data occasione, delle lettere scritte da Dante, delle poesie italiane e latine, e di una canzon provenzale che di lui abbiamo, veggansi le tante volte lodate Memorie del sig. Pelli (§. I7 e 18.); a cui però io debbo aggiugnere che le poesie sacre che vanno unite a’ Salmi Penitenziali tradotti da Dante, credonsi dal celebre Apostolo Zeno non gia di Dante, ma o di Antonio dal Beccaio Ferrarese, o di qualche altro poeta contemporaneo del Petrarca (Lettere t.1.p. 91.) Io passo senz’altro a dire del gran lavoro a cui egli volle dare il nome di Commedia. Essa è, come è noto ad ognuno, la descrizione di una visione, in cui finge di essere stato condotto a veder l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. E checchessia del tempo in cui ei la scrivesse, di che si è detto poc’anzi, è certo ch’ei finge di averla avuta l’anno 1300 dal lunedì santo fino al solenne giorno di Pasqua, come dai vari passi di essa raccogliesi chiaramente. Per qual ragione ei volesse così chiamare un’opera a cui pareva che tutt’altro titolo convenisse, si è lungamente e nojosamente disputato da molti. [p. 25 modifica]La più probabile origine di questo nome a me sembra quella che si adduce dal marchese Maffei, e prima di lui era stata recata da Torquato Tasso (V.Pelli §.17), cioè che avendo Dante distinti tre stili, il sublime da lui detto tragico, il mezzano ch’ei chiamò comico, e l’infimo ch’ei disse elegiaco, diede il titolo di Commedia al suo poema, perchè ei si prefisse di scriverlo nello stile di mezzo. Ma non così ne han giudicato i più saggi discernitori del bello e del sublime poetico, che han rimirato e rimiran tuttora la Commedia di Dante, come uno de’ più maravigliosi lavori che dall’umano ingegno si producesser giammai. Lasciamo stare l’erudizione per quei tempi vastissima, che vi s’incontra, per cui Dante è stato detto a ragione profondo teologo non meno che filosofo ingegnoso, poichè egli mostra di aver appreso quanto in quelle scienze poteasi allora apprendere, e consideriamo la Commedia di Dante solo in quanto ella è poesia. Io so che essa non è nè commedia, nè poema epico, nè alcun altro regolare componimento. E qual maraviglia s’essa non è ciò che Dante non ha voluto che fosse? So che vi si leggon sovente cose inverisimili e strane; che le imagini sono talvolta del tutto contro natura; ch’ei fa parlare Virgilio in [p. 26 modifica]modo cui certo ei non avrebbe tenuto; che molto vi ha di languido, e che di alcuni Canti appena si può sostener la lettura; che i versi hanno spesso un’insofferibil durezza, e che le rime non rare volte sono così sforzate e strane che di destano alle risa; che in somma Dante ha non pochi e non leggeri difetti che da niun uomo, il qual non sia privo di buon senso, potranno giammai scusarsi. Ma, in mezzo a tutti questi difetti, non possiamo a meno di non riconoscere in Dante tai pregi che sarebbe a bramare di vederli ne’nostri poeti più spesso che non si veggono. Una vivacissima fantasia, un ingegno acuto, uno stile a quando a quando sublime, patetico, energico che ti solleva e rapisce, imagini pittoresche, fortissime invettive, tratti teneri e passionati, ed altri somiglianti ornamenti onde è fregiato questo, o poema, o, comunque vogliam chiamarlo, lavoro poetico, sono un ben abbondante compenso de’ difetti e della macchie che in esso s’incontrano. E assai più chiaramente vedremo qual lode debbasi a Dante, se poniam mentre a’tempi in cui egli visse. Qual era stata fin allora la poesia italiana? Poco altro più che un semplice accozzamento di parole rimate con sentimenti per lo più languidi e freddi, e tutti comunemente [p. 27 modifica]d’amore, ovver precetti morali, ma esposti senza una scintilla di fuoco poetico. Dante fu il primo che ardisse di levarsi sublime, di cantar cose a cui niuno avea ardito rivolgersi, di animare la poesia e di parlare un linguaggio sin allora non conosciuto. Ammiriam dunque in lui ciò che anche al presente è più facile ammirar che imitare; e scusiamo in lui que’ difetti che debbonsi anzi attribuire al tempo in cui visse il poeta, che al poeta medesimo. Io non entrerò qui a rigettare i sogni del p. Arduino che pretese di togliere a Dante la gloria di questo lavoro (Mem. de Trèv. 1717, août), e se pur essi han bisogno di confutazione, ciò è stato già fatto dall’eruditissimo sig. marchese ab. Giuseppe Scarampi ora degnissimo vescovo di Vigevano (Innanzi al t. I. dell’ediz. di Dante in Ver. 1749). Solo non è da omettere che Dante avea cominciata quest’opera in versi latini, e oltre i tre primi versi che il Boccaccio ne recita nella Vita di lui, alcuni codici si conservano che ne hanno un numero anche maggiore (V. Pelli loc. cit. §. 17 p. 111 nota 3). Ma ei fu saggio in mutare consiglio; poichè verisimilmente egli avrebbe ottenuta fama minore assai scrivendo in latino, come è avvenuto al Petrarca.

Appena la Commedia di Dante fu [p. 28 modifica]publicata, ch’ella divenne tosto l’oggetto dell’ammirazione di tutta l’Italia. E ne son pruova non solo i moltissimi codici che ne abbiamo, scritti in quel secol medesimo, ma più ancora i comenti con cui molti presero ad illustrarla. E tra’ primi a farlo furono, come ben conveniva, Pietro e Jacopo figliuoli di Dante, delle cui fatiche sopra il poema del padre, che ancor si giacciono inedite, parlano il sig. Pelli (§.4) e l’ab. Mehus (Vita Ambr. camald. p. 180), il qual secondo scrittore accenna ancora (Ib. e p. 137) i Comenti di Accorso de’ Bonfantini Francescano, di Micchino da Mezzano canonico di Ravenna, di un anonimo che scrivea nel 1334, e di più altri spositori di Dante in questo secol medesimo. Giovanni Visconti arcivescovo e signor di Milano circa l’anno 1350 radunò sei de’ più dotti uomini che fossero in Italia, due teologi, due filosofi e due di patria Fiorentini, e commise loro che un ampio comento scrivessero sulla Commedia di Dante, di cui al presente conservasi copia nella Biblioteca Laurenziana in Firenze (Mehus loc. cit.). Chi fossero questi comentatori, non è ben certo; ma il Mehus paragonando il comento che Jacopo dalla Lana in questo medesimo secolo scrisse su Dante, e che vedesi anche alle stampe, e le Chiose sullo [p. 29 modifica]stesso poeta attribuite al Petrarca, che nella citata biblioteca si trovano, ne congettura che amendue fosser tra quelli, che vennero in tal lavoro impiegati. L’ab. de Sade però si crede ben fondato a pensare (Mém. de Petr. t.3.p.515.), che il Petrarca non iscrivesse comento alcuno su Dante. Il fondamento, a cui egli si appoggia, è una lettera del Petrarca al Boccaccio, che trovasi nell’edizione delle Lettere di questo poeta, fatta in Ginevra l’anno 1601, in cui egli si duole di esser creduto invidioso della fama di Dante. Ei veramente non nomina mai questo poeta, ma, a parere dell’ab. de Sade, parla in tal modo ch’è evidente che parla di Dante. Ei dunque, rispondendo al Boccaccio che lodato avea questo poeta, gli dice ch’egli è ben giusto ch’ei si mostri grato a colui, ch’è stato la prima guida ne’ suoi studi; che ben dovute sono le lodi di cui l’onora; ch’esse sono assai più pregevoli degli applausi del volgo; e che egli stesso con colui si congiunge a lodar quel poeta volgare nello stile, ma nobilissimo ne’ pensieri. Quindi si duole di ciò che spargeasi, ch’ei fosse invidioso del gran nome di cui quegli godeva; dice ch’ei non l’avea veduto che una volta sola essendo fanciullo, o a dir meglio, che una volta gli era stato mostrato a dito; che quegli [p. 30 modifica]avea vissuto con suo padre e con suo avolo, più vecchio del primo, più giovane del secondo; e che suo padre e quel poeta erano stati nel medesimo giorno espulsi dalla lor patria. Poscia confessa, ch’ei non erasi guari curato di averne le poesie, non perchè non le avesse in gran pregio, ma perchè essendosi allor dato a verseggiar volgarmente, temeva di divenir copiatore, se avesse lette le altrui poesie, e avea risoluto di formarsi uno stile che fosse tutto suo proprio e originale. Siegue indi a replicare mille proteste ch’ei non ne è punto invidioso, che stima e apprezza moltissimo quel poeta, e che gli spiace anzi il vederne i versi sì sconciamente sfigurati da coloro che per le vie gli andavano canticchiando. Nel qual parlare però osserva l’ab. de Sade, che vedesi un non so che di sforzato, per cui quanto più il Petrarca si studia di persuaderci che ei non era punto invidioso, anzi che toglierlo, ci accresce il sospetto ch’ei veramente il fosse alquanto; e da ciò ne ricava il medesimo autore, che non è punto probabile che il Petrarca si facesse a scrivere comenti su Dante. Dopo aver recata quasi interamente questa lunghissima lettera, l’ab. de Sade si volge agl’Italiani, e si maraviglia che niuno tra essi abbia fatta di essa menzione, e con un amaro [p. 31 modifica]insulto conchiude:il faut avouer, qu’il y a dans votre littérature des choses singulières, et tout-à-fait inconcevables (p.514). A me sembra però, ch’ei non avesse a maravigliarsi cotanto che gl’Italiani non avesser parlato di questa lettera che non si trova che nella edizione assai rara del 1601, e in cui Dante non è espressamente nominato. Io non ho veduta questa edizione, nè posso perciò giudicare se questa lettera sia veramente secondo lo stil del Petrarca, poichè lo scrittor francese non ce l’ha data che in francese. Ma io confesso che incontro in essa qualche difficoltà, la quale vedrei volentieri sciolta dall’ab. de Sade. Io lascio da parte una contraddizione in cui cade il Petrarca, s’egli è autor della lettera, poichè dopo aver detto che i suoi proprj versi italiani sono abbandonati al popolo, il quale gli sfigura cantandoli, poco appresso dice ch’ei non invidia a Dante gli applausi del volgo, de’ quali gode di essere privo con Virgilio e con Omero. Lascio quel vantarsi ch’ei fa di aver voluto essere scrittor originale, il che non mi pare proprio del pensar del Petrarca ch’è sempre modesto nel parlar di se stesso. Ma due errori io trovo in questa lettera, i quali non so persuadermi che si potessero commettere dal Petrarca. Si dice in essa che il padre del [p. 32 modifica]Petrarca e Dante furono nel medesimo giorno cacciati da Firenze. Or i monumenti autentici, citati dal Pelli, mostrano, che Dante fu esiliato a’ 27 di Gennajo del 1302, e il padre del Petrarca, come confessa lo stesso ab. de Sade (t. I. p. 136) non fu condennato che a’ 20 d’Ottobre dello stesso anno. Più grave ancora è il secondo. In questa lettera si dice che il padre del Petrarca era più giovin di Dante. Or checchè ne dica l’ab. de Sade (ib. p. 12 54 ec.), è certo ch’egli era più vecchio. Pruova convincentissima ne è una lettera del Petrarca a Guido da Settimo, scritta, come confessa lo stesso ab. de Sade (t. 2. p. 671), l’anno 1361, poichè in essa fa menzione del tremuoto ch’ei sentì in Verona vent’anni addietro, che fu appunto nel 1347. Or il Petrarca narra in questa lettera un viaggio che egli con suo padre, con un zio paterno di Guido e con Guido medesimo avea fatto al Fonte di Sorga, mentre egli insieme con Guido studiavan gramatica: in illo surgentis aevi flore .... quem grammaticorum in stramine ..... egimus (t. 10. Senil. ep. 2.): il che si dee riferire circa all’anno 1316 in cui il Petrarca contava dodici anni di età. Questi aggiunge che suo padre e il zio di Guido avevano a quel tempo quell’età a un di presso che aveano al presente [p. 33 modifica]egli e Guido; e come il Petrarca nato nel 1304 contava, mentre scriveva tal lettera, cioè nel 1367, sessantatre anni d’età, così è evidente che verso il 1316 il padre del Petrarca avea egli pure circa sessantatre anni, mentre Dante nato nel 1265 appena avea passati i cinquanta. Come dunque potea scrivere il Petrarca, che suo padre era più giovin di Dante? È egli possibile che l’ab. de Sade, osservator sì minuto dell’opere del Petrarca, non abbia a ciò posto mente? Nè io perciò ardisco decidere che la riferita lettera sia supposta; ma desidero solo che l’ab. de Sade sia alquanto più ritenuto nell’insultare agli Italiani, perchè non abbian parlato di una lettera, della cui sincerità essi potean dubitare non senza qualche ragione. Ma rimettiamoci in sentiero, e torniamo a’ comenatori di Dante. Già abbiamo parlato della traduzione che Alberigo da Rosciate fece in lingua latina del Comento di Jacopo dalla Lana, cui anche stese ed ampliò maggiormente. Il Boccaccio ancora, Benvenuto da Imola, Francesco da Buti scrissero in questo secolo dichiarazioni e comenti; ma questi appartengono a un’altra classe d’interpreti de’ quali ora ragioneremo.

Era sì grande il concetto in cui aveasi Dante, che si credè opportuno l’aprire in Firenze [p. 34 modifica]una cattedra in cui questo autore si spiegasse a comun vantaggio publicamente. Ne fu fatto decreto a’ 9 di Agosto del 1373, e il Boccaccio essendo stato a ciò destinato coll’annuo stipendio di 100 fiorini (Manni Stor. del Decameron. par. I. c. 29), egli a’ 3 d’Ottobre dell’anno medesimo nella chiesa di s. Stefano presso il Ponte Vecchio, cominciò a tenere le sue lezioni; all’occasion delle quali egli scrisse il suo Comento su Dante, ch’è poi stato stampato, e di cui parla, oltre il conte Mazzucchelli, anche l’ab. Mehus (l. c. p. 181). Il decreto era stato fatto sol per un anno; ma l’applauso che cotai lezioni ottenevano, fece che dopo la morte del Boccaccio, avvenuta l’anno 1375, alcuni altri fossero nominati a tal cattedra; e il canon. Salvino Salvini, che eruditamente ha raccolto ciò che a questo argomento appartiene (Fasti Cons. dell’Accad. Fior. pref. p. 12), nomina Antonio Piovano che leggeva Dante nel 1381, e Filippo Villani già da noi nominato fra gli storici di questo secolo, che fu a ciò destinato nel 1401. Bologna imitò presto l’esempio di Firenze, e Benvenuto de’ Rambaldi da Imola, da noi nominato più volte, vi fu chiamato a legger Dante, e dieci anni vi si trattenne, come poc’anzi si è detto; alla qual lettura noi dobbiamo l’ampio Comento [p. 35 modifica]che su quest’autore egli scrisse, di cui il Muratori ha dati alla luce que’ tratti (Antiq. Ital. t.I.) che giovano ad illustrare la storia. Da un di essi sembra raccogliersi ch’ei lo scrivesse nel 1389, perciocchè, parlando del Campidoglio, dice (ib.p. 1070):Sed proh dolor! istud sumptuosum opus destructum et prostratum est de anno præsenti 1389 per populum Romanum. E così veramente si legge nel codice MS. che ne ha questa Biblioteca Estense. Ma l’ab. Mehus riflette (p.182), che in un codice della Laurenziana si legge MCCCLXXIX, e così veramente mi sembra che debba leggersi, poichè in quest’anno i Romani espugnarono il Campidoglio occupato fin allora de’ fautori dell’antipapa Clemente. É certo però, ch’ei vi leggeva Dante fino dal 1375, poichè ei dice che avendo scoperto un grave disordine in quella università in MCCCLXXV, dum essem Bononiæ, et legerem istum librum (l.cit.p. 1063), ne diede avviso al cardinal di Bourges legato, il quale in quest’anno appunto ebbe il governo di Bologna (Ghirardacci t.2 p.333). Ei dedicò il suo Comento al marchese Niccolò II d’Este, da cui dice di essere stato consigliato a distenderlo e a publicarlo. Anche in Pisa fu istituita la lettura di Dante, ed essa fu data, circa il 1385 a Francesco di Bartolo da [p. 36 modifica]Buti, di cui e del Comento ch’egli pure scrisse su Dante, e di qualche altra operetta da lui composta, veggasi il conte Mazzucchelli (Scritt. ital. t.2. par.4.p. 2468), e gli altri scrittori da lui citati. In Venezia ancora leggevasi in questo secolo Dante da Gabriello Squaro Veronese, come prova il p. degli Agostini (Scritt. Venez. t. I. pref. pag. 27). Finalmente nel Catalogo, da noi mentovato più volte, de’professori dell’università di Piacenza, all’anno 1399 veggiam assegnato lo stipendio mensuale di L.5.6.8. M. Philippo de Regio legenti Dantem et Auctores (Script. rer. ital. vol.20 p.940). Altri al tempo medesimo presero a tradurre Dante in versi latini; e il primo fu Matteo Ronto Monaco Olivetano, del quale ragioneremo fra’ poeti latini del secolo seguente a cui appartiene. Egli è vero però, che tutte queste fatiche, con cui a que’ tempi cercossi di rischiarar Dante, non produsser gran frutto. In vece di occuparsi in rilevarne le bellezze poetiche, in illustrarne i passi più oscuri, in dichiarare le storie che vi si trovano solo accennate, la maggior parte degl’interpreti gittavano il tempo nel ricercarne le allegorie e i misteri. Ogni parola di Dante credeasi che racchiudesse qualche profondo arcano, e perciò i comentatori poneano tutto il loro studio nel penetrar dentro [p. 37 modifica]a quella pretesa caligine, e nel ridurre il senso mistico al letterale. E chi sa quanti pensieri hanno essi attribuiti a Dante, che a lui non erano mai passati pel capo! Ma checchessia del successo delle loro fatiche, l’ardore con cui le intrapresero, ci fa vedere quanta fosse in questo secol la brama di venirsi instruendo, e in quanto pregio si avessero i buoni studi, o quelli almeno, che allora credevansi buoni.




Note

  1. Nos Cante de Gabriellibus de Eugubio Potestas Civitatis Florentie infrascriptam condemnationis summam damus et proferimus in hunc modum.
    Dominum Andream de Gherardinis.
    Dominum Lapum Salterelli Judicem.
    Dominum Palmerium de Altovitis.
    Dominum Donatum Albertum de Sextu Porte Domus.
    Lapum Dominici de Sextu Ultrarni.
    Lapum Blondum de Sextu Sancti Petri majoris.
    Gherardinum Diodati Populi S. Martini Episcopi.
    Cursum Domini Alberti Ristori.
    Junctam de Biffolis.
    Lippum Becchi.
    Dantem Allighierii.
    Orlanduccium Orlandi.
    Ser Simonem Guidalotti de Sextu Ultrarni.
    Ser Ghuccium Medicum de Sextu Porte Domus.
    Guidonem Brunum de Falconeriis de Sextu S. Petri.
    Contra quos processimus, et per inquisitionem ex nostro Officio et Curie nostre factam super eo et ex eo quod ad aures nostras et ipsius Curie nostre pervenerit fama publica precedente, quod cum ipsi et eorum quilibet nomine et occasione baracteriarum iniquarum, extorsionum, et illicitorum lucrorum fuerint condemnati, ut in ipsis condemnationibus docetur apertius, condemnationes easdem ipsi vel eorum aliquis termino assignato non solverint. Qui omnes et singuli per nuntium Comunis Florentie citati et requisiti fuerunt legiptime, ut certo termino jam elapso mandatis nostris parituri venire deberent, et se a premissa inquisitione protinus excusarent. Qui non venientes per Clarum Clarissimi publicum Bapnitorem posuisse in bapnum Comunis Florentie subscriterunt (ita) in quod incurrentes eosdem absentis (ita) contumacia innodavit, ut hec omnia nostre Curie latius acta tenent. Ipsos et ipsorum quemlibet ideo habitos ex ipsorum contumacia pro confessis, secundum jura statutorum et ordinamentorum Communis et populi Civitatis Florentie, et ex vigore nostri arbitrii, et omni modo et jure, quibus melius possumus, ut si quis predictorum ullo tempore in fortiam dicti Communis pervenerit, talis perveniens igne comburatur sic quod moriatur, in hiis scriptis sententialiter condemnamus.
    Lata, pronuntiata, et promulgata fuit dicta condemnationis summa per dictum Cantem Potestatem predictum pro tribunali sedentem in Consilio Generali Civitatis Florentie, et lectum per me Bonorum Notarium supradictum sub anno Domini milesimo tercentesimo secundo Indictione XV, tempore Domini Bonifatii Pape octavi die decimo mensis Martii presentibus testibus Ser Masio de Eugubio, Ser Bernardo de Camerino Notariis dicti Domini Potestatis, et pluribus aliis in eodem Consilio existentibus.