Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. I/Capo XII

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Capo XII.

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CAPO DUODECIMO.


(1606 giugno). E intanto dagli Stati di Milano e del pontefice e di Mantova, che per vario confine circuivano la Repubblica, il fanatismo curiale e il genio rubellante dei gesuiti spargevano nello Stato veneto libercoli, cartelli, scritture volanti: e dai pulpiti apertamente, e dai confessionali insidiosamente discorrevano le parole, che Venezia era Ginevra; che i matrimoni, poichè tra gente scomunicata, erano concubinati; i contratti, nulli; il governo, illegittimo; la ribellione, lecita; i vincoli di famiglia, spenti. Il gesuita Gondi predicando in Bologna il dì della Pasqua disse: «Vi è una città lontana da qui cento e non so che miglia, nella quale sono diece mila Ebrei, diece mila scismatici e venti mila meretrici con buon numero di eretici e assai malandrini. Voi tutti che siete presenti, vi prego a pregare per quella città». A Parma parlavano di Venezia, scrive in una sua lettera il celebre storico Davila, come di una terra di luterani, anzi di Sciti. A Brescia fu sparso un libello che incominciava: «Generazione di vipere, canaglia scomunicata, che diavolo vi ha fatto la reverendissima compagnia di Gesù, lume di tutto il mondo?» In una chiesa di Mantova i due gesuiti Stadera e Gagliardi impegnarono una disputa d’ingiurie contro Venezia, tanto scandalosa, che il duca gli bandì [p. 233 modifica]in sul momento. Alle feroci parole succedevano opere corrispondenti: mandavano emissari e spie e subornatori, scrivevano alle loro penitenti che negassero il debito ai mariti, agli allievi che disobbedissero i genitori: e in questa infausta contesa è il maggior torto della corte di Roma di avere licenziato simili orrori, colla speranza che sconvolto l’ordine pubblico e tumultuanti i sudditi Venezia sarebbe obbligata a sottomettersi: speranza colpevole, imperciocchè, prescindendo da tutte le opinioni, associare la religione al delitto è peccato enorme, inespiabile.

Ma nello Stato veneto tutto era tranquillo, nè mancavano i predicatori, per lo più frati audaci; tra i quali si fece distinguere un Padre Fulgenzio Manfredi francescano, che predicò in Venezia con molta veemenza contro l’interdetto e la Corte. E innumerevoli furono gli scrittori, perocchè chiunque sapeva bene o male menare la penna volle entrare in lizza, onde convenne al governo, a prevenire che o la foga o la inesperienza facessero trascorrere oltre i termini, instituire apposita censura di sei teologi e tre giureconsulti per esaminare i libri, e due senatori per approvarli. Primi fra gli esaminatori e capi di quel consiglio censorio erano Frà Paolo e Pietro Antonio Ribetti arcidiacono e vicario generale di Venezia.

Il sistema del governo veneto era di attenersi ai termini di pura difesa, e però non lasciò libertà ai predicatori se non dopo che altri predicatori parlarono contro di lui; e non la lasciò a’ scrittori, se non dopo che i Romani scrissero contro Venezia. [p. 234 modifica]Infatti era uscita a Roma, per ordine del papa e diffusa per tutta l’Italia, una scrittura di Scipione Gobelucci che giustificava il procedere di Paolo V contro la Repubblica, e un’altra in foglio volante uscita da Milano, benchè senza data, e sparsa nel Bergamasco, piena d’ingiurie contro i Veneziani e di massime atroci sugli effetti civili delle scomuniche. Si volle rispondere al primo con una esatta informazione della lite, esponendo in ben ragionato volume i diritti della Repubblica e la nullità dell’interdetto. Ma Frà Paolo non amando comparire pubblicamente nella contesa e pretestando la sua imperizia nello scrivere italiano, preferì di farne egli lo schizzo e nel resto affidarne la cura a Giambattista Leoni, scrittore leggiadro, già segretario del cardinal Comendone ed allora agente del duca d’Urbino presso la Repubblica. Il quale, retore più che filosofo, e ignaro della materia che aveva per le mani, diluì la forza de’ raziocini colla leccatura delle parole, e il suo lavoro riuscì languido e snervato: con tutto questo non mancò di piacere, ebbe spaccio e fu tradotto in altre lingue.

A rispondere alla seconda scrittura Frà Paolo ricorse a un ripiego. Tradusse dal latino e pubblicò col testo a fronte due brevissimi trattati del celebre Giovanni Gerson, teologo e cancelliere di Parigi, famoso per dottrina e santità di costumi e per essere stato ambasciatore di Francia al concilio di Costanza dove adoperò fervidamente a ristabilire la pace della Chiesa turbata dai papi. Il primo contiene dodici considerazioni sulla potestà delle chiavi mistiche de’ pontefici, e quali sono i modi con cui [p. 235 modifica]si disprezzano e per cui s’incorre nella scomunica. Il Gerson decide essere semplicità ed ignoranza, oppure malizia da Fariseo riputare che il papa sia un Dio, e che abbia ogni potestà in cielo ed in terra; che non è disprezzo l’opposizione fatta a lui quando abusa notoriamente della sua potestà; che in tali casi il disprezzo delle chiavi è dalla parte sua e le scomuniche sono violenze contro cui la legge naturale insegna di resistere; e che talvolta il sopportarle sarebbe una pazienza da asino, e un timore da lepre e da sciocco. L’altro è un esame, se la sentenza del pastore, eziandio ingiusta, sia da temersi. Questa proposizione che è decisa affermativamente da San Gregorio papa, viene impugnata dal teologo parigino che la chiama erronea nella fede e nei costumi, e mostra quanto sia contraria alla ragione, incompatibile colla giustizia e sovversiva di ogni diritto naturale o pubblico, secondo i quali, dic’egli, l’iniquità tirannica si può temere, ma non si dee osservare; anzi si dee disprezzare e perseguitare.

Queste due brevissime scritture, piene di sodezza e di pietà e così opportune che parevano scritte di bel proposito per l’occasione corrente, furono stampate in Venezia ma senza nome di luogo e di stampatore, e il traduttore nella prefazione si finse uomo di Parigi, il che non bastò a coprirlo.

Ed altro opuscoletto apparve senza nome di autore e di stampatore o data di luogo, ed era una lettera ai curati del dominio veneto, col titolo: Risposta d’un dottore in teologia ad una lettera scrittagli da un reverendo suo amico sopra il Breve di censure della santità di Paolo V pubblicate contro [p. 236 modifica]li signori Veneziani e sopra la nullità di dette censure, cavata dalla Sacra Scrittura, dalli Santi Padri e da altri cattolici dottori. Contiene otto proposizioni che si succedono naturalmente, e discussate con molta dottrina e bell’ordine d’idee, benchè non al tutto sciolte dagli impacci delle mal fondate teorie de’ canonisti di quel tempo: dice in sostanza, che i principi secolari, e così anco il papa come principe temporale, hanno la loro autorità da Dio; che Gesù Cristo in terra non ha mai esercitato alcuna potestà temporale; che per conseguenza non potè averla trasmessa a San Pietro e a’ suoi successori; che l’autorità delle metaforiche chiavi è meramente spirituale; che le esenzioni de’ cherici benchè da alcuni siano credute di jure divino, tuttavia l’opinione che sono di jure umano è la migliore e la più conforme alla storia, alla Scrittura e alla dottrina dei Padri della Chiesa; che dunque non pecca la Repubblica se fa leggi sopra i beni ecclesiastici e punisce le loro persone colte in delitto; che se il papa a ciò si oppone e fulmina scomuniche ed interdetti, quella sentenza è nulla e da non osservarsi; e in ultimo spiega le parole di S. Gregorio papa, doversi temere la sentenza del pastore giusta o ingiusta che sia, e mostra che non fanno al caso presente. Autore di questa lettera era Giovanni Marsilio prete e teologo napolitano, nemico a’ gesuiti, all’ordine de’ quali appartenne ne’ suoi primi anni. Ebbe molta voga, e appunto per questo, come anco per l’intrinseco suo merito, trovò numerosi impugnatori. Ma la confutazione più decisiva fu un decreto del Sant’Officio di Roma, del 25 giugno che [p. 237 modifica]la proibì, e con essa tutte le altre scritture non ancora stampate, siccome contenenti proposizioni eretiche, erronee, scandalose, offendenti le orecchie pie: riuniti tutti questi epiteti in globo coll’avverbio rispettivamente così che non si sapeva che cosa s’intendessero, e quali fossero le proposizioni dannate. E quel dannare le opere non ancora stampate fece giustamente ridere Frà Paolo, il quale diceva celiando: «Se ci fosse venuto in mente di usare il capo XIII della epistola ai Romani e mettervi per titolo Diritti della Repubblica Veneta, per un bizzarro decreto dell’Inquisizione San Paolo diventava autore di proposizioni eretiche, erronee, scandalose, ecc.»

(1606 luglio). Non si ardì fare lo stesso del Gerson per la riputazione di cui godeva da 200 anni, ma rilevandosi quale fosse l’intenzione di chi lo aveva tradotto, il papa diede commissione al cardinal Bellarmino di confutare tanto esso che la lettera delle otto proposizioni. E allora non fu veduto senza stupore che il Gerson, autore ortodossissimo, fosse da quel cardinale, dopo averlo chiamato dottore di molta scienza e pietà, tacciato acerbamente di sospetto, anzi chiaramente erroneo, il che in termini un po’ più laconici vuol dire eretico. Il vescovo Bossuet non potè frenare la sua indignazione.

Non voglio preterire l’occasione di far conoscere una tra le molte annotazioni a penna scritte in margine di un esemplare delle storie di Andrea Morosini che io possiedo, la quale traduco letteralmente dal latino. Alle parole del Morosini ove dice: «Il Senato, udito il consiglio d’uomini sapientissimi [p. 238 modifica]nella giurisprudenza, nel diritto canonico e nella teologia, protestò essere quell’anatema indebito, irrito, nullo:» l’anonimo chiosatore scrive in margine queste benevoli espressioni: «Quasi tutti quei consultori erano insigni per apostasia o per ateismo, ovvero infami per altri gravissimi delitti; perchè banditi altrove e rifuggiti a Venezia colsero occasione per vomitare impudentemente contro il vicario di Cristo il veneno che sorbirono dai ricettacoli de’ Veneziani. Vi erano ancora quei sette frati (se ne togli uno o due che erano preti) antesignano dei quali era quel Paolo Servita che con scaltrita ipocrisia si era acquistata la benevolenza di tutto il Senato, e che disse ogni pazzia contro il pontefice; e nemmanco si astenne dalle opinioni dannate per difendere alla meglio che poteva la causa della Repubblica».

Non volle essere da meno il Bellarmino, che nella sua risposta taccia il Sarpi di falsario, ipocrita, ignorante, maligno, adulatore luterano, calvinista, uomo che odia la luce, che si nasconde, che ha vergogna a palesare il suo nome e quello dello stampatore perchè sa quante falsità ed errori siano nell’opuscolo da lui pubblicato: ingiurie fuor di proposito e poco atte a conciliarsi la fiducia del pubblico, ed anco disonorevoli a chi le scriveva. O il Bellarmino conosceva il traduttore del Gerson, ed ei parlava contro sua coscienza, avendo sempre portata opinione onorevolissima di Frà Paolo; e in appresso, vergognando il passato, fece ogni tentativo per riconciliarselo: ma qui ricordo per anticipazione che emendò que’ fanatici sfoghi con tratti [p. 239 modifica]generosi, di cui dirò a suo luogo. O non lo conosceva, e non era decenza lo svillaneggiare un ignoto che poteva essere o spregevole o rispettabile; molto più che la carità cristiana vuole che anco gli errori del nostro prossimo siano presi in buona parte, e si creda, fino a migliori prove, che egli parli per convincimento e non per malignità.

Era poi anco male scelto quel proverbio dell’Evangelio con cui incomincia la sua risposta: Qui male agit, odit lucem, essendo poi obbligato a ritorcerlo contro sè stesso quando pubblicò varie altre operette o con nome finto o senza nome, e per meglio nascondersi anco con falsa data di luogo; aggiungendo per giustificarsi che i canoni della Chiesa (non so poi quali) proibivano a personaggio del suo grado di mettere il proprio nome in fronte ad un libro. Offendeva parimente la propria causa, stantechè più altri o anonimi o pseudonimi erano già usciti in campo e tuttodì uscivano a scrivere dell’interdetto. Quelli della sua compagnia, voglio dire i gesuiti, diedero tutti un nome falso.

(1606 sett.) Frà Paolo, offeso in parte così delicata, si vide, suo malgrado, costretto a mettere da parte tutti i riguardi, a levare la celata e gettarsi nella lite colle mani e coi piedi; e a difendere le dottrine di Gerson e i suoi propri principii pubblicò nel mese di settembre l’Apologia per le opposizioni fatte dall’illustrissimo e reverendissimo cardinale Bellarmino a’ trattati e alle risoluzioni di Giovanni Gerson sopra la validità delle scomuniche. Per la quale senza che vi fossero ingiurie, il Bellarmino non ne restò in capitale. Pure volle far replica. [p. 240 modifica]

Intanto un esercito di scrittori dall’una e dall’altra parte diluviava libri grossi e piccioli, buoni e cattivi, sotto tutte le forme, epistolare, in dialogo, in prosa, in verso, serii, burleschi, in italiano, in latino, in francese, in spagnuolo e in tedesco; si traducevano, si facevano correre di mano in mano, si leggevano, si dimenticavano. Dalla parte di Venezia oltre una turba di scrittori mediocri, stavano i più dotti giureconsulti d’Europa, fra i quali nominerò il celebre Menocchio presidente del senato di Milano, Cesare Brancadori torinese, tutti i dottori in legge della università di Padova, Leschassier e Servin avvocati del parlamento a Parigi, Pithou altro giureconsulto francese, Edmondo Richer dottore della Sorbona, il dotto Casaubono, Eningo Harnisch giureconsulto di Alberstadt, Nicolò Vignier, l’opera del quale smodata e non consenziente ai principii ortodossi da cui la Repubblica non voleva uscire, fu proscritta dal Senato. E veramente per quanta cautela prendesse, non fu sempre possibile d’impedire la foga de’ scrittori acciocchè non prorompesse oltre i debiti confini, e in Vicenza fu persino affisso un invito a’ popoli di staccarsi dalla comunione cattolica. Cercato l’autore di quella e di altre simili scritture, mai se ne ebbe indizio: Frà Paolo lo crede un artifizio de’ Curiali medesimi onde timorare le coscienze, o impaurire il governo d’una rivoluzione religiosa.

Fra gli scritti veneziani che ebbero maggior voga, fu quello del senatore Antonio Quirini intitolato Avviso delle ragioni della Repubblica di Venezia intorno alle difficoltà che le sono promosse da papa [p. 241 modifica]Paolo V, uscito sul finire di agosto, di stile robusto, e dove, tralasciate le dispute sottili, viene con ragioni di fatto, popolari e incalzanti dimostrando l’invalidità dell’interdetto. Il libro piacque sì fattamente ed ebbe tanto riscontro nel pubblico, che molti oppositori si credettero in dovere d’impugnarlo. Altro scrittore benemerito alla Repubblica fu Marcantonio Capello d’Este, Minor Conventuale, che pubblicò varii libri senza entrare in polemica particolare; e ancor più Giovanni Marsilio, il quale entrò anonimo in campo colla lettera che ho sopra detto. Attaccato dal Bellarmino apertamente, dal Possevino e da altri sotto visiera, si difese da gagliardo con varie scritture piene di dottrina, ma dove tralasciando la logica dei fatti e le prove della storia e attaccandosi invece alle autorità spesso contraditorie de’ canonisti, lascia molti mezzi a’ suoi avversari di addentarlo.

Dalla parte del pontefice erano generalmente frati e cortegiani, ma fuori della schiera volgare sorgevano il cardinale Colonna che scrisse latinamente una sentenza contro i vescovi della repubblica veneta che non osservavano l’interdetto, minacciandoli di castighi in questo mondo e nell’altro; il cardinale Baronio che indiresse alla Repubblica una esortazione latina, tradotta anco in italiano, piena d’ingiurie; frate Antonio Bovio carmelitano che pubblicò confutazioni in buon numero, e in premio fu fatto vescovo di Molfetta; il celebre gesuita Antonio Possevino che sempre in maschera scrisse ingiurie senza fine; ma più di tutti il cardinale Bellarmino scrisse, rispose, confutò, ora assalitore, ora [p. 242 modifica]assalito e infine talmente sbattuto che preso ad imprestito dal suo cappellano, nome, patria e grado, chiamandosi Matteo Torti sacerdote e teologo di Pavia, ed esaurita la suppellettile delle sottigliezze si sfogò colle invettive, talchè meritossi il rimprovero che fece agli altri: qui male agit odit lucem. E scopo di tutti gli odii essendo Frà Paolo, perciò contro di lui fu dai papali diretto il maggior cumulo d’ingiurie: furono calunniati i motivi per cui aspirò all’episcopato, e furono mentiti quelli per cui ne fu escluso; furono imputate a lui le lunghe discordie del suo Ordine, fomentate, dicevano, perchè ambiva il generalato; furono a colpa ricordati i ridicoli processi intentatigli da quattro o cinque frati ignoranti; fu accusato di materialismo e di propensione dichiarata all’eresia di Calvino, e di odio alla filosofia di Aristotele; fu chiamato fautore di eretici, apostata, indegno del nome di religioso, piuttosto empio che ateo; e la frenesia de’ Curiali andò tant’oltre da rimproverargli la sua nascita plebea, la qual pure aveva così poca somiglianza coll’interdetto; e infine un cattivo poeta bolognese gli sparò incontro una salva di epigrammi latini.

Ma il Sarpi senza offendersi delle altrui contumelie che non è debito d’uomo onesto di farne conto di rispondervi, senza prender di mira alcuno scrittore in particolare, e lasciata la polemica che, a forza di emetter nuove questioni, finisce a far perdere di vista la primaria, stando sul preciso suo argomento, pubblicò le Considerazioni sulle censure di Paolo V contra la repubblica di Venezia, lavoro perfetto nel suo genere, sparso di rara [p. 243 modifica]erudizione e sostenuto da una dialettica incalzante, dove dopo una nitida esegesi dello stato della questione esamina a fondo il diritto che ha ogni principe di giudicare gli ecclesiastici, di assoggettarli alle sue leggi, di obbligarli a tributo, e l’obbligo negli ecclesiastici di starvi sottomessi e di contribuire: indi esamina la vera natura delle scomuniche quale sia il loro valore, e deduce i suoi argomenti dalla storia della Chiesa, dalle leggi de’ principi, e dalla autorità dei Santi Padri. Fioccarono le risposte, tra le quali non essendo da disprezzarsi quella del Bovio già accennato, Frà Paolo non avendo tempo di far replica, nè incumbenzò Frà Fulgenzio a cui somministrò i materiali e ne rivide il lavoro, così che si può dir suo.

A ragione Frà Paolo si vantava di essere stato il primo in Italia che abbia sostenuta e provata questa luminosa verità, che il clero non fu mai emancipato dalla soggezione del principe, sì solamente da quella de’ magistrati; ed essere una chimera la pretesa che le esenzioni fossero di diritto divino, mentre erano neppure un diritto umano, ma semplici concessioni che potevano dal concedente essere modificate o distrutte.

Ma poichè i Curiali battevano forte sulla validità ed importanza delle censure e sulla empietà de’ Veneziani a non osservarle, bisognò venire ad opera la più ardita che fino a quei tempi si fosse ancora intrapresa. Alle scomuniche papali si era sino allora opposto o l’appellazione di un papa ad altro papa meglio informato, o dal papa al concilio, o proteste, o la forza, senza che alcuno si ardisse mai [p. 244 modifica]di chiamarle a più severo esame, e trovare un punto di diritto, e non solamente di fatto, onde impugnarle. Gli studi che faceva il Sarpi lo condussero a questa felice conseguenza; ma non volendo arrischiarsi solo in un’impresa del massimo pericolo, gli furono aggiunti altri teologi, cioè l’arcidiacono Ribetti e il Capello già nominati, Frà Bernardo Giordano francescano, Frà Michel Angelo Bonicelli Minore Osservante, Frà Camillo di Venezia agostiniano, e Frà Fulgenzio servita; i quali pubblicarono a nome comune (comechè opera del Sarpi) il famoso Trattato dell’Interdetto, diventato da poi il modello di quanto fu scritto dai futuri intorno a simile materia. Avendo dovuto adattarsi alle maniere de’ teologi, questo argomento non è trattato da Frà Paolo con quel metodo discorsivo che si ravvisa negli altri suoi scritti; dove dalle idee madri scaturiscono per una successione naturale e continua le conseguenze e le dimostrazioni, e vi sono anco alcune superfluità che si sarebbono potuto omettere. Ma forse era necessario quel metodo scolastico onde far rilevare di prima vista i punti che voleansi difendere, o determinare sovra essi l’attenzione del lettore.

Contiene dicianove proposizioni per le quali si prova coll’autorità della storia, delle Scritture e del diritto canonico, che il precetto del superiore, quand’anco pontefice, non obbliga se non è pubblicato e intimato nelle debite forme; che l’interdetto non lo fu e conseguentemente non importa obbligazione alcuna ed è nullo per sè. Oltre a ciò, che il precetto del papa, dal quale si vegga poterne derivar scandalo o perturbazione nella Chiesa, non si [p. 245 modifica]debbe eseguire; tale essere l’interdetto che frutterebbe pericoli, scandali e mali infiniti, cui primo debito di ogni cristiano si è di cansare. Quindi essere dottrina de’ teologi che il timor giusto scusa dalla obbedienza di ogni legge umana, ancorchè legittima ed obbligatoria: questo essere il caso del clero veneziano che incorrerebbe, osservando l’interdetto, pericolo di roba, libertà e vita, non pure per sè, ma eziandio pei congiunti.

La potestà del pontefice non essere sconfinata, ma ristretta alla sola utilità della Chiesa ed ha per regola la legge divina. Questa è opinione inconcussa, laddove l’altra che non sia soggetta a’ canoni ed a’ concili è contradetta od indecisa. E però il cristiano non è in obbligo di obbedirgli se non in quello che è conforme alla legge divina. Che la potestà al pontefice essendo data ad edificazione e non a distruzione, s’egli fulmina scomunica o interdetto per causa ingiusta, sono quelli pure ingiusti, e nulli; sono abusi di autorità, contro i quali il principe deve opporsi, molto più che l’interdetto è censura nuova nella Chiesa e più atta a far male che a far bene.

Queste dottrine ora volgari, erano per quei tempi affatto nuove, o per lo meno recondite ed inosservate; ma raccolte in libro di esigua mole, ed esposte in istile chiaro e con fino giudizio e corroborate dalle più rispettabili autorità, produssero un effetto mirabile nei popoli che parvero ridestarsi da un profondo sonno.

Il trattato dell’interdetto fu veduto a Roma con una specie di spavento. Il cardinale Bellarmino ebbe [p. 246 modifica]ordine d’impugnarlo, altri assai fecero lo stesso, e dalla importanza che vi attaccarono i Romani può arguirsi la sensazione che fece su loro. Ma le confutazioni furono così povere di raziocini e così infelici, che i Veneziani le stimarono neppur degne di una risposta. Ed essendo i governi naturalmente inclinati a favorire la causa veneziana che era causa propria di ciascuno, e ad assai teologi spiacendo la soverchia distesa che i Romanisti davano alla autorità del papa, la circolazione dei libri romani trovava ostacoli in più luoghi, mentre libera e piena, e accolti a festa erano quasi ovunque quelli dei Veneti. In Spagna un Discorso contro due trattati intorno alle censure fulminate da Paolo V contro Venezia, del P. Soza francescano, fu dalla Inquisizione proibito, e obbligato l’autore a ritirarne gli esemplari. A Milano il residente veneto citato al Sant’Offizio e pregato dall’inquisitore il conte de Fuentes a dargli mano forte, nè questi si curò di servirlo, nè quello di obbedire, e la spregiata prepotenza inquisitoriale era un documento dei pensieri de’ popoli.

Bene se ne accorsero a Roma, dove il Sant’Offizio, veduta l’impotenza delle ragioni opposte a’ Veneziani, pensò di poter frenare il pericolo proibendo, con decreto del 30 settembre, il Trattato dell’Interdetto, le Considerazioni, l’Avviso e tutte le altre scritture stampate e da stamparsi, pena le più terribili scomuniche e la vendetta del Sant’Offizio, il che fece ridere il pubblico, e conchiudere che la Curia aveva torto. [p. 247 modifica]

Ricordando ciò che scrisse Frà Paolo in occasione dell’interdetto, non fo qui parola di un libro che ebbe molta voga oltremonti e fu anco tradotto in francese col titolo Diritto dei Sovrani difesi contro le scomuniche e gli interdetti de’ papi: e in italiano ha per titolo Consolazione della mente, ecc.; perchè non è di Frà Paolo, come dimostrerò nell’Appendice Bibliografica. Per ora basti averlo accennato.

Qui appresso abbiamo vedute alcune delle massime de’ Veneziani, dirò le altre per poi metterle a confronto con quelle de’ papalisti: e se il lettore non troverà nuove le prime, perocchè ora sono diventate principii di diritto comune, bene sarà sorpreso per le seconde; e più ancora quando sappia che le massime dei Veneziani erano a quei tempi riputate a Roma eresie, e le opposte articoli di fede.

Iddio, dice Frà Paolo, ha costituito due governi nel mondo, supremi, indipendenti a vicenda. L’uno spirituale, è il ministero ecclesiastico; l’altro temporale, è il governo politico. Il primo affidò agli apostoli e loro successori, l’altro ai principi, in tal forma che non possano quelli intromettersi in ciò che a questi si appartiene. Il papa adunque, capo del governo spirituale, non ha potestà nelle leggi de’ principi sopra le cose temporali, nè può privarli degli Stati, nè liberare i sudditi dalla soggezione. La dottrina opposta d’interdire i regni, destituire i re, concitare i sudditi a ribellione, quando il principe si trovi a lite col papa, è dottrina sediziosa e sacrilega, contraria alle Scritture e all’esempio di Cristo e de’ Santi. Le esenzioni dei cherici o sono [p. 248 modifica]concesse dal principe, ed esso ha tuttavia la facoltà di abrogarle; o dal pontefice, e queste non sono ricevute in alcuni luoghi, in altri solamente in parte, e valgono all’avvenante del beneplacito di chi le riceve, o finchè non tornino pregiudicievoli alla quiete e ben pubblico.

L’infallibilità del papa, continua il Sarpi, è una dottrina incerta, nella quale gl’istessi dottori della Curia non sono bene d’accordo: chi la pone in una cosa, chi in un’altra. L’autorità di sciogliere e di legare s’intende purchè non travii del retto, comandando Iddio che segua non l’arbitrio, ma il merito e la giustizia della causa. E però nelle controversie del pontefice coi principi, se quello fulmina censure, è lecito a questi di certificarsi col consiglio di persone dotte se sono giuste o ingiuste, e nell’ultimo caso impedirne l’esecuzione conservando nondimeno la debita reverenza alla Chiesa. Comunque sia, le scomuniche contro ai supremi dello Stato o contro le moltitudini sono, secondo Sant’Agostino, perniciose e sacrileghe. L’obbedienza cieca, invenzione de’ gesuiti, ignota alla Chiesa e ai buoni teologi, leva l’essenziale della virtù che è operare per certa cognizione ed elezione, espone a pericolo di offender Dio, non iscusa l’ingannato dal principe spirituale, ed è partoritrice di sedizioni.

I pontificii spacciavano massime affatto opposte, e così esorbitanti che forse più d’un lettore stenterà a crederle; ma sappia a mia giustificazione che le ho estratte parola per parola dai loro libri, e se a verificarle non ama rivoltarne molti, non ha che a percorrere il breve opuscolo del Bellarmino contro [p. 249 modifica]i trattati di Giovanni Gerson, ed ivi solo in poche pagine ne troverà buon numero.

Cristo, dicevano i Curiali, ebbe dal Padre pienissima potestà su tutta la Chiesa, la quale Cristo rinunciò in mano di Pietro e suoi successori; quindi non si può senza eresia appellare dal papa al concilio. Donde ne segue ch’egli ha facoltà di abrogare tutti i canoni vecchi e nuovi: e siccome l’Evangelio è dettato da Gesù Cristo e il papa ha la stessa potestà di lui, ne proviene ancora che il papa ha la potestà di dispensare dall’Evangelio. Infatti questa sua potestà è universale, sconfinata, e tanto grande che pochi arrivano a capirla. Basti dire che è vicario di Dio; anzi non è gran peccato il dire che sia Dio, o per lo meno si può benissimo stimarlo Dio in terra; e invece il disprezzarlo è una sorte d’idolatria. È massima cattolica il dire che si appartiene a lui il riprendere qualsivoglia principe repubblica, e se non obbediscono, obbligarli colle censure, deporli e sciogliere i sudditi dal giuramento. Veramente egli ha per fine il bene spirituale delle anime, e non s’impaccia nel governo de’ principi temporali; ma se abusano della loro autorità in danno delle anime o dei popoli o della cristianità, allora ha diritto di metterci le mani e di costringerli a far quello che stima giusto: e chi non crede questo, non è cattolico.

Oltre a ciò il papa, caso che sia utile o necessario, può per diritto divino disporre dei regni e degli imperii, di cui è il padrone, e darli a chi gli piace. E se un principe non obbedisse a ciò che comanda il papa, i sudditi non devono più obbedire [p. 250 modifica]al principe; ma rivoltarsi, fargli guerra, usare con lui le insidie ed anco ammazzarlo, perchè il papa ha da Dio una giurisdizione assoluta e illimitata di governare il popolo cristiano; ed è per questo che ha ricevuto le due spade, una per lo spirituale, l’altra pel temporale, onde a lui si compete anco il diritto di perseguitare e punire di morte i ribelli. Anzi la Santa Romana Chiesa essendo visibile, è per le cose temporali che precipuamente manifesta la sua grandezza; e ridurla al solo spirituale, come gli avversari pretendono, è ridurla a niente. Questa doppia potestà è derivata al papa da Gesù Cristo medesimo, il quale vivendo a questo mondo fu non pure profeta e mediatore, ma vero principe temporale; i magi lo adorarono non come Messia, ma come re mondano; come re lo riconobbero gli Ebrei più volte, ed egli stesso fece più volte azioni da re: che se rispose a Pilato, il suo regno non essere di questo mondo, fu una risposta equivoca per ingannare quel preside e impedirgli un maggior peccato; ovvero parlò come uomo che stando per morire più non si cura delle cose terrene. Fatto è che il papa ebbe da lui la duplice potestà che è sopra detta, e negargliela, è una eresia.

L’autorità dei principi è tutta umana, derivata o dal consenso de’ popoli o dal diritto di guerra, e più o meno limitata; quella invece del pontefice è tutta divina, non soggetta a restrizioni o convenzioni di alcuna sorte. Egli è monarca nella Chiesa, giudice supremo del mondo; il suo tribunale è tribunale di Dio; le sue leggi non ammettono eccezione od appello; e se giuste od ingiuste, tocca a lui solo [p. 251 modifica]a giudicarne. È vero che se egli abusasse scandalosamente della sua potestà non dovrebbe essere obbedito; ma il solo supporre questo abuso, è una ingiuria enorme, un artifizio degli eretici, una malignità insegnata dal diavolo.

I preti a petto de’ laici sono Iddii; i principi non hanno alcuna autorità su di loro; sono esenti da ogni legge e giurisdizione umana. Possono bene, se vogliono, ubbidire alle leggi dei principi, purchè non sia contro agli interessi del sommo pontefice. Per esempio se il principe comanda che il grano si comperi o si venda a tal prezzo, possono bene, se a loro piace, uniformarsi; ma se non torna a loro il conto possono vendere o comperare a quel prezzo che loro accomoda, nè per questo è lecito di richiederli in giudizio. Infine tutte le persone ecclesiastiche e i loro beni e possessi, sono cose di Dio, sacre, inviolabili; non riconoscono nè devono obbedire altro giudice o padrone che il vicario di Dio; i privilegi e le esenzioni loro sono di diritto divino, ed è peccato mortale a dubitarne.

Volle provvidenza divina che Frà Paolo fosse un eretico, altrimenti bel guadagno faceva l’Europa se avessero potuto prevalere questi articoli di fede.

Esposte le massime delle due parti giovi ancora notare il metodo di ragionare seguito dai Veneziani e dai Romani. I primi, e particolarmente Frà Paolo, partono da principii inconcussi, non escono mai dall’argomento, si astengono dalle questioni inutili e dalle ingiurie, non danno retta alle personalità e neppure curano difendersi dalle accuse private di che gli gravano gli avversari; discutono con calma, [p. 252 modifica]e sempre colla logica dei fatti alla mano; procedono da una conseguenza all’altra fino alle ultime conclusioni. Gli altri perdono il tempo e lo fanno perdere, con somma noia, ai lettori, nel pedanteggiare sottilmente il significato di parole frasi dei loro avversari, che pure è chiarissimo, non perchè importi al discorso, ma per genio di sofisticheria; fanno cento distinzioni puerili, prorompono in vane declamazioni, non isdegnano le personalità, poco uso fanno della storia, e si affissano a petizioni di principio, cioè ad ammettere per dimostrato quello appunto che è controverso; onde vagano incerti, e scoprendo i propri lati deboli, lasciano tutti i beneficii della vittoria agli avversari. I Veneziani appoggiati a principii sicuri, diretti da una mente sola, vanno dritto per filo; sono tra loro uniformi, e l’uno conferma le ragioni dell’altro. I papalisti, essendo tante le menti quante le teste, senza principii stabili, non avendo altra base che l’arbitrio e i suggerimenti di un esaltato fanatismo, si contraddicono a vicenda: uno mette per certa una cosa, l’altro dice che è dubbia; l’uno si serve di un argomento cui l’altro confessa essere falso; l’uno adduce un fatto e l’ha per positivo, l’altro conviene che è favoloso o incerto. I Veneziani nelle loro risposte riferiscono stesamente le parole degli avversari, non dissimulano le difficoltà, rischiarano con rigorosa critica i fatti; e citando le autorità, ne narrano il caso, le circostanze, il modo, l’origine. I Curiali invece non scelgono degli opponenti che ciò che fa per loro, le difficoltà le causano, non fanno caso delle conseguenze e citano le autorità senza [p. 253 modifica]regola di tempi e piuttosto per abbagliare che per provare, curando neppure se siano a proposito: adducono atti apocrifi e falsificano i testi, di che convinti poi dagli avversari si trovano confusi; oppongono alle Sacre Scritture le Decretali de’ papi, agli antichi Padri, i moderni dottori; discorrendo per vie viziose lasciano alla critica un vasto campo di censura, e alla ragione un non difficile trionfo.

Dalla differenza degli scrittori ne nasceva un’altra di agire nei due governi: a Roma proibivano i libri de’ Veneziani, pena la scomunica, il carcere; a Venezia lasciavano girare tutti quelli dei Curiali, e pareva che il governo, come che tanto sospettoso, si compiacesse che il popolo ne facesse paragone.

Tale è la lotta perpetua tra la verità e l’errore. Fintanto che la ragione terrà la sua sede nell’intelletto umano, e che gli uomini non saranno imbecilli al segno di credere tutto che loro si dà ad intendere, sarà pur mestieri a qualunque sociale edifizio che sorge su fondamenti erronei di comprimere con ogni maniera l’ufficio della ragione, cioè d’impedire all’intelletto di speculare sulla natura e l’origine delle cose. Eterno delirio della prepotenza! ma il tempo rinovando con infaticabile vicenda la condizione e gli accidenti del mondo, impelle al pensiero parte del suo moto, gli dà una forza contro la quale non vi è opposizione che valga, fa come una fiamma che comunicandosi continuamente dalla generazione che tramonta a quella che sorge sempre più si amplifica e risplende. Questa fiamma è ciò che modernamente si chiama progresso: invano si oppongono sforzi a sforzi per reprimerlo od [p. 254 modifica]arrestarlo; chè i figli salgono sulle spalle dei loro padri, e sulle spalle di quelli salgono altri figliuoli ancora, di maniera che ogni generazione vede più longinquo dell’antecedente. A tal che tutte le instituzioni stazionarie, corrotte dal vizio della propria immobilità, si riducono in diretta o quasi diretta opposizione collo stato sempre rinovantesi dello spirito umano.

Tale fu il destino del papato. La sua storia è la parte più bella e più luminosa della storia moderna, ed abbraccia per così dire tutta la patria degli uomini. Per lungo tempo fu il solo propugnacolo contro la prepotenza della spada; l’Italia gli è debitrice di molte miserie, ma ancora di molta gloria; e l’attuale incivilimento de’ popoli, del primo e precipuo suo impulso.

Ma non che seguitasse questo moto progressivo, fece sforzi per reprimerlo quando non tornò più utile, e per farlo rimbalzare indietro, e per circoscrivere confini alla attuosità del pensiero, e per corrompere la morale dei popoli e regnare all’ombra dell’ignoranza e del mal costume. Errori funesti! imperocchè le grandi rivoluzioni non sono opera umana, ma l’effetto di viziose instituzioni che reagendo contro lo spirito pubblico ne sconcertano l’armonia; sono l’effetto delle leggi istesse della natura, che, disordinate dalla forza imbecille degli uomini, cercano di riguadagnare il primitivo loro equilibrio. E da tale disordine ebbero appunto origine le innovazioni di Lutero contro a’ papi: i quali si sostennero non emendando gli abusi, ma ricorrendo a nuove fraudi, e adulando l’orgoglio e l’avidità [p. 255 modifica]del clero, e gl’interessi e le ambizioni sempre mutabili dei principi. Nè si avviddero che il tempo, il quale tutto consuma tranne la verità, avrebbe pure tarlate le basi erronee della loro possanza, e che logorato l’incantesimo che la rendeva portentosa o necessaria, e sedato il bollore degli odii religiosi, e condotti gli uomini a pensieri più miti e più socievoli, principi e popoli fastiditi ugualmente dal giogo sacerdotale, oppressore, capriccioso ed avido, avrebbero desiderato di vendicarsi a libertà.

Forse questo tempo non era ancora maturo nel 1606; ma i pontificati turbolenti e feroci di Paolo III, di Paolo IV, di Pio V, di Sisto V, i disordini della corte di Roma, le guerre civili e fanatiche fomentate da quella, e le altre suscitate dall’ambizione e dall’avarizia del nipotismo romano, la durezza con cui quasi tutti i pontefici del XVI secolo fecero uso della loro autorità temporale, e gli attentati contro l’autorità temporale, avevano a poco a poco suscitato uno spirito di opposizione alla corte di Roma. A rinformare il quale contribuiva lo spirito guerriero del secolo inclinato a libertà; il fastidio della preponderanza spagnuola che tendeva a servitù e a intenebrare il mondo colla ignoranza e colla superstizione; la stampa, libera oltremonti; lo studio della storia, della giurisprudenza, e della critica ravvivato; le discussioni religiose in tutta l’Europa, e più utilmente le discussioni parlamentarie in Francia sui diritti del principato e i privilegi della Chiesa Gallicana; e se non vi era peranco una disposizione decisa a confinare ne’ giusti suoi termini il papato, fu per lo meno udita con infinito [p. 256 modifica]piacere e da tutti sommamente applaudita la resistenza de’ Veneziani.

(1606 sett). La Curia, sbalordita da successi così contrari alla sua aspettazione, si appigliò alle consuete sue armi. Fra quanti combattevano i nuovi suoi dogmi, niuno era pel suo sapere, pel suo carattere, per l’influenza, per la inusitata infrangibile qualità degli argomenti usati da lui, più temuto di Frà Paolo, come niun altro era più esaltato. Gli uomini di ambi i partiti si accordavano a crederlo la ruota maestra di quel gran motivo. Frà Paolo adunque fu citato al tribunale del Sant’uffizio. In un paese dove chi si tiene l’autorità, dice di esercitarla per diritto divino, è ben giusto che debba violare tutte le formalità legali prescritte dalle leggi umane. Era già una mostruosità che la Curia dovesse farsi giudice in causa propria; ne era un’altra che il cardinale Bellarmino antagonista di Frà Paolo, e in conseguenza parte interessata, siedesse come giudice nel tribunale inquisitorio, ma persino la citatoria, che gl’inquisitori medesimi sapevano infruttuosa e ridicola e in cui potevano, senza nocumento, ostentare le sembianze della giustizia, vollero che apparisse sotto le forme arbitrarie del dispotismo. Frà Paolo, senza essere udito o difeso, senza essere nemmanco ammonito o richiesto, è giudicato e condannato dal Sant’Offizio; dopo di che viene citato: il pretesto, perchè possa difendersi; ma, poichè la sentenza era già pronunciata e non è uso di Roma di rittrarne alcuna mai, il vero è che lo volevano tirar là, per impiccarlo. [p. 257 modifica]

(1606 ott.). Ma per un singolare contrapposto di opinioni, intanto che l’Inquisizione romana con decreto del 20 settembre condannava alle fiamme i libri di Frà Paolo e che i divoti inquisitori nutrivano anco la speranza di abbruciar l’autore; il Senato quasi per far dispetto a Roma, con altro decreto dei 28 pure settembre, inalzava con lodi il merito del medesimo, e lo gratificava di premii. E l’Inquisizione di bel nuovo, a sfogo impotente di vendetta, lo citava con altro decreto del 30 ottobre a comparire in persona, fra 24 giorni, sotto pena di scomunica latæ sententiæ infamia perpetua e privazione di ogni ufficio e dignità, per avere sostenuto e provato che la repubblica di San Marco ha ragione, e il successore di San Pietro, torto; il che è un’eresia. Tal è la sostanza. Il decreto del Senato diceva: «Continuando il rev. P. Maestro Paolo da Venezia a prestare con singolar valore quell’ottimo servizio ond’egli fra tutti con le sue scritture piene di profonda dottrina sostenta con validissimi fondamenti le potentissime e validissime ragioni nella causa che ha di presente la Repubblica colla corte di Roma, anteponendo il servizio e la soddisfazione pubblica a qualsivoglia suo particolare e importante rispetto, è perciò giusto e degno della munificenza del Senato il dargli modo con che possa assicurare la sua vita da ogni pericolo, e sovvenire a’ suoi bisogni, benchè non ne faccia alcuna instanza, ma si mostri alieno da qualsivoglia ricognizione. Tal è la sua modestia e così grande il suo desiderio che ha di far conoscere che nessuna pretensione di premio, ma sola [p. 258 modifica]devozione verso la Repubblica e la giustizia della causa lo movono ad adoperarsi con tanto studio e fatica»: e conchiudeva che ai 200 ducati di stipendio già assegnatili, altri 200 fossero aggiunti, sì che 400 ne avesse.

(1606 nov.). È chiaro che Frà Paolo anco senza questi luminosi attestati di patrocinio non si sarebbe mai curato di obbedire al Sant’Officio, e però con un manifesto latino del 25 novembre, di stile modesto e rispettoso, rispose: Che veramente egli era desideroso di mostrarsi a loro obbediente e giustificare la sua fede; ma che i suoi libri essendo stati condannati contro le regole stabilite dai canoni di sentir prima l’autore, ed anco con formole generiche di contener cose temerarie, calunniose, scandalose, sediziose, scismatiche, eretiche, senza precisar quali (tal che nella oscurità dei termini restava incerto se tutte quelle macule fossero da per tutto o solo in qualche parte) e pronunciata sentenza definitiva: era irregolare e diventava inutile il citarlo a difendersi, molto più che non sapeva gli articoli su cui si fondava l’accusa; che d’altronde non poteva riconoscere quel tribunale, stantechè vi sedesse il cardinal Bellarmino il quale per aver scritto contro lui era parte interessata; che siccome essi dicevano di non poter venire sicuramente a Venezia per far eseguire la loro sentenza, così neppur egli poteva stimar sicuro di andare a difendersi a Roma; tanto più che in quei momenti non erano abbastanza calmi gli spiriti e confondevano troppi interessi in un solo per poter giudicare imparzialmente di lui; e infine che essendo egli a’ stipendi della Repubblica, [p. 259 modifica]non poteva abbandonare il suo posto senza permissione del principe, in quel punto non così facile ad ottenersi; che del resto si dichiarava buon cattolico, e che voleva vivere e morir tale; che i suoi sentimenti non potevano essere meglio conosciuti che a Roma dove era stato tanti anni, e da essi medesimi che lo conoscevano ed avevano prove della sua obbedienza ed attaccamento alla fede: gli pregava adunque a voler prendere in considerazione questi suoi motivi, e a non procedere ingiustamente contro di lui; ma nell’opposto caso protestava in faccia a Dio, e che terrebbe per nulla e di nissuno effetto la loro sentenza.

Gli Inquisitori sentirono la forza di queste ragioni, e quantunque per servire al loro scopo avessero desiderato sentenziarlo eretico e contumace, ebbero paura che il Sarpi a vendetta non facesse qualche mal tiro alla Corte, e non rinovasse in Italia ciò che Lutero aveva fatto in Germania: ricordando che il frate agostiniano si era appunto versato agli estremi per la condannazione di Leone X. Imperciò si contentarono di proseguire una diligente ricerca dei suoi libri e farli abbruciare: segno, diceva il Boccalini, che erano buoni.

Lo stesso riguardo non ebbero per Giovanni Marsilio e pel francescano Frà Fulgenzio, i quali, citati e non comparsi, furono scomunicati. È ben vero che e’ risposero non colla modestia e pacatezza del Sarpi, ma superbamente, in ispecie il secondo.

Non è che i cardinali inquisitori, e nemmeno il papa, credessero a quelle immaginarie eresie; ma [p. 260 modifica]era un pretesto per intimidire Frà Paolo, o almeno renderlo odioso, privarlo della confidenza del governo, farlo sospetto ai deboli, ingenerar scrupoli ne’ superstiziosi e obbligare lui medesimo a desistere. E considerando la diserzione di lui come il bellissimo e più compiuto trionfo a cui potessero aspirare, misero in moto tutte le macchine per allucinarlo. Fu spedito a Venezia a bella posta un Olandese il quale frequentando la casa dei Secchini, dove, come ho detto, andava Frà Paolo, aveva incumbenza di spiarlo e tentarlo sotto mano; il Padre Ferrari, generale dei Serviti, ricevette amplissime facoltà; furono adoperati gli emissari del nunzio restati a Venezia; gli fu fatto scrivere da varii, principalmente dal cardinal d’Ascoli; e infine andando Francesco de Castro a Venezia ambasciatore straordinario del re di Spagna, gli fu attaccato dietro un codazzo di preti di cui alcuni erano incaricati di trattare secretamente col Sarpi: mitre, cappelli rossi, onori, promesse, speranze, nulla fu pretermesso. Ma la Curia aveva a fare con uomo tenacissimo, disinteressato, e non meno scaltro. Per quante astuzie adoperassero, e i preti ne sanno molte, lo trovarono sempre irremovibile. Sola risposta ch’egli dava era questa: Difendo una causa giusta.