Come un sogno/V

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V

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IV VI
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V.

Ero lì, mogio in apparenza e confuso, come volevano le buone creanze, ma nel cuore mi trillava uno spirito nuovo, giocondo e vispo come uno scricciolo nella siepe. Dio buono, ed ero io, proprio io? Non era un sogno ciò ch’io vedevo? Quella donna che pur dianzi dovevo credere mi fosse fuggita dagli occhi, come fanno le visioni del mattino, per lasciarci tutto il giorno negli sterili rimpianti della ingrata realtà, quella donna bella, elegante, cortese, piena di tutte le lusinghe, di tutte le malie che c’innamorano, incise o miniate su d’una [p. 113 modifica] pagina d’albo, facendoci disperare di poter trovar mai in natura que’ miracoli d’arte, non m’era altrimenti fuggita dagli occhi, mi stava daccanto, su d’una via di paese sconosciuto ad entrambi, e la sua vita, per uno spazio di tempo che nessuno dei due avrebbe potuto determinare, si collegava alla mia. Chi, ne’ miei panni, non si sarebbe inebriato dalla improvvisa allegrezza? E chi, con ipocrisia non dissimile da quella dell’avaro che cela tra le grinze del volto umiliato la profonda felicità del suo cuore, non sarebbe rimasto lì, mogio e confuso, a pigliarsi la rammanzina da quelle labbra che spiravano aria da baci?

— Orbene, — soggiunse ella, dopo un istante di pausa, — e adesso che avete? Debbo io farvi animo, suggerirvi io le parole? In verità, sarebbe il mondo alla rovescia. —

Io ben vedevo, pensando tra me, come fosse delicata la nostra condizione, e come il [p. 114 modifica] meglio sarebbe stato di mettere in salvo con una felice scappata il giusto riserbo della donna. Una celia urbana, una gretola, che togliesse gli animi nostri da quello stato per ambedue gelosissimo, avrebbe anche salvato me dal ridicolo. Ma sì, trovarla! Io, pur volendo venirne a capo, nè sapendo uscire dal grave, annaspai, come fo adesso, raccontando la cosa.

— Signora, — le dissi, con aria compunta, — voi fate bene a ridere. Che altro potreste fare, vedendo la mia confusione? Mi brulica qui dentro un mondo di cose nuove, strane, profonde, e non trovo parole per significarne la millesima parte. Signora mia, perdonate; io penso che, se ci fosse giustizia nell’ordine di natura, scambio d’esser qui ritti, l’uno in faccia all’altro, in una via polverosa, voi dovreste essere su d’una nuvola, ed io ginocchioni in atto di adorarvi. [p. 115 modifica]

— Ma senza quelle due valigie alle mani! — notò ella, ridendo.

— Certamente! — risposi, dando a mia volta in uno scoppio di risa.

La gretola era trovata, ed io m’affrettai a farne profitto.

— Vedete; — soggiunsi; — potrei edificarvi un tempio, qui, proprio nel luogo della vostra apparizione, e appendervi sull’altare, a memoria eterna del più felice tra tutti i viaggi che innamorato facesse mai, due valigie d’argento.

— Nostra Signora del buon viaggio! — diss’ella, proseguendo la celia.

— No, del felice arrivo! Se a voi non fosse venuta la buona e misericordiosa ispirazione di scendere, io, ve lo giuro, avrei dato del capo in quei sassi. Ma via, bando alla tristezza, e poichè il tempio è ancora di là da venire, cerchiamo un albergo, una [p. 116 modifica] locanda, un tugurio, da posare queste valigie che vi hanno fatto rider di me. Or ora incontreremo il messere....

— Ah si! — esclamò ella, smettendo a un tratto di ridere. — Lo avevo dimenticato. — Un fischio acuto e il brontolio della vaporiera, seguiti tosto da un fragore di ruote, annunziavano la partenza del treno. Io mi volsi per vedere se il mio uomo ci tenesse dietro.

Ma la via era deserta. E poichè dal luogo in cui stavamo si vedeva anche il cancello della stazione, io potei sincerarmi che l’amico ciliegia non era rimasto colà.

Ricordando allora che egli aveva detto di avere a Grottamare una villa, pensai che doveva esser pratico dei luoghi e aver pigliato qualche altra via per entrare in paese.

— Sarà andato innanzi; — conchiusi ad [p. 117 modifica] alta voce. — Vi avverto intanto, mia bella signora, che voi siete mia moglie. Per le apparenze, — mi affrettai a soggiungere, notando un moto naturalissimo di sorpresa «sotto i due neri sottilissimi archi» delle sue sopracciglia; — per le apparenze, intendiamoci, non già, come direbbe un curiale, negli utili. Senza questa finzione, come si spiegherebbe la vostra discesa con questo indegno quanto avventurato mortale? Noi dunque, con vostra licenza, siamo marito e moglie. A me piace il fumare, e voi non potete patire il fumo. Perciò eravamo separati, e saremmo rimasti così fino a Bologna. Senonchè, voi, trovandovi sola con uno screanzato alla stazione di Foggia, eravate discesa dallo scompartimento, amando meglio entrare nel mio fumatoio, che rimanere esposta agl’incensi grossolani di un adoratore insolente. Va bene così? [p. 118 modifica]

— Non è male inventato; — rispose ella, nicchiando. — Ma che bisogno c’è egli d’un vincolo così stretto? Vostra cugina.... mi sembra....

— No, non basterebbe, — interruppi. — Un cugino! che vi pare? Un cugino è sempre più o meno sospetto. Almeno, lo dicono nelle commedie; e ciò fa ridere l’uditorio, che pare la intenda in tal guisa. Rispettiamo le debolezze umane, signora; rinunziamo a questa sorte di parentela; stringiamo il vincolo, se non vi dispiace; è un omaggio alle apparenze, e non altro. Una moglie ha sempre il diritto, se non per avventura il dovere, di seguire il marito. —

Ella sorrise e non disse più altro. La mia causa era vinta.

Proseguivamo intanto la via verso l’interno del paese. Un ragazzetto ci stava guardando con tanto d’occhi dall’angolo d’una siepe. Io [p. 119 modifica] lo chiamai, per dargli a portar le valigie. Dopo quella canzonatura di madonna, non mi garbava più molto di far la figura del port'ampolle.

— Dimmi su; — cominciai, per pigliar lingua da lui; — è passato qualcheduno di qua? Non hai veduto nessuno?

— Sissignore, — mi rispose, — il postino colle lettere.

— Ma altri?

— Non so; intendete forse parlare del medico?

— O medico, o flebotomo, parlo d’un signore alto, tarchiato, colle guance barbute e una berretta scozzese in capo. —

La berretta scozzese ricondusse sull’orma il mio cicerone, che alle prime indicazioni era rimasto un po’ sconcertato.

— Nossignore, — mi disse egli sollecito, — il medico non porta berretta. — [p. 120 modifica]

Mi avvidi allora che non avrei cavato più altro da quella rapa, e diedi un altro giro al mio interrogatorio.

— Non c’è dalla stazione una scorciatoia per entrare in paese? —

Il ragazzo si fermò sui due piedi, guardandomi con un’aria melensa, che mi diede una gran voglia di ridere. Mi trattenni, per non metterlo in soggezione del tutto.

— Ti domando, — ripigliai, — se questa è l’unica via per andare dalla strada ferrata al paese, o se si può passare anche da un’altra parte.

— Dall’altra parte della strada ferrata?

— Eh, no, best.... voglio dire da questa. Ci passano tutti, da questa?

— Sicuro, che ci passano! — gridò il ragazzo, a cui pareva di rilevare un gran punto.

Io ero ad un pelo di dar la pazienza a [p. 121 modifica] tutti i diavoli. La mia compagna di viaggio mi chetò con un gesto.

— Non sareste un buon giudice istruttore; — mi notò ella brevemente.

— Ve l’ho già detto, signora; con gli uomini non me la faccio.

— Andiamo, proverò io; — soggiunse ella volgendosi al ragazzo; — come ti chiami?

— Cesarino.

— È un bel nome. Dovevo immaginarmelo che ti chiamavi così, con quegli occhi accorti che hai.

— Adulatrice! — diss’io, a mezza voce, come un personaggio da tragedia.

Il ragazzo, intanto, faceva bocca da ridere; gradiva il lustro, come un potente della terra. La signora, che m’aveva udito, alzò scherzosamente le spalle, come per dirmi: zitto là, voi buono a nulla. E proseguì, volgendo il discorso al ragazzo: [p. 122 modifica]

— Dimmi su, vengono molti dalla ferrovia in paese?

— Oh sì.... qualche volta.

— E da dove passano, quando escono da quel cancello laggiù?

— Per di qua.

— E dianzi non è passato nessuno, prima o dopo del postino e del medico!

— Nessuno.

— Vedete; — soggiunse ella, volgendosi a me con aria di trionfo. — Basta far le dimande in ordine, una dopo l’altra.

— Sì, e guardare intanto la gente coi vostri occhi divini, che caverebbero le parole di bocca ad un mutolo. —

Ella mi rispose con un moto delle labbra che voleva parere una smorfia, ma che io avrei tolto volentieri per un invito ai baci. Fu un lampo, s’intende, ed ella si rimise tosto sul grave. [p. 123 modifica]

— Ma è strano, sapete! — ripigliai, tornando al nostro argomento. — Che sia ancora alla stazione? Sì, non può essere altrimenti. Avrà pensato a far tornare indietro il suo bagaglio. A proposito, anche i nostri viaggiano, e a Bologna non ci sarà nessuno per ritirarli. Che vi pare? Si manda un telegramma per riaverli indietro.... anzi no, per farli rimanere in custodia? Datemi, di grazia, il vostro riscontro, perchè io pigli nota del numero. —

La mia compagna trasse fuori un piccolo taccuino di cuoio di Russia e vi prese il foglietto volante che io le avevo domandato. Vidi il numero corrispondente a quello che doveva essere appiccicato al suo bagaglio, e vidi altresì indicato il luogo di partenza, che era la stazione di Brindisi. La mia bella sconosciuta veniva dunque dal mare?

Feci le visite di non aver letto altro che il [p. 124 modifica] numero. Ella, forse, dal canto suo, non badò più che tanto alla possibilità che quella carta offrisse materia alle mie indagini curiose, e ripose il foglietto, del quale io più non avevo bisogno.

— Mi aspettate pochi minuti? — le dissi. — Messer Cesarino vi terrà compagnia.

— Oh sì! — gridò egli, con una sollecitudine che mi diede un miglior concetto del suo buon gusto, che io non avessi della sua svegliatezza di mente. Ma già, a cui non piacciono le belle donne? e a cui, foss’anco una talpa, non aguzzano un tratto l’ingegno?

— Vi seguiremo a piccoli passi; — soggiunse ella; — spicciatevi.

— Ne dubitate? — diss’io di rimando. — Donna di poca fede, io corro, io volo. —

Difatti, col passo del dio Mercurio, come l’ha ideato il Giambologna, mi avviai alla stazione. In quattro salti fui al cancello. [p. 125 modifica]

Non c’era nessun forestiero là dentro; nessuno era smontato con quella corsa, tranne noi due, e gli addetti alla stazione almanaccavano ancora intorno alla stravaganza dei due inglesi che avevano preso i biglietti per Bologna e si fermavano a Grottamare. Io, per mostrarmi degno del titolo, che metteva in pace i curiosi, stetti in gota contegna e cincischiai l’italiano. Indicato poscia il numero d’ordine dei nostri bagagli, chiesi che si mandassero indietro dalla stazione di Bologna. Volevo dire di farli tenere in custodia; la lingua in quella vece mi tradì, facendo segreto accordo col cuore. Al cervello rimaneva l’incarico di aggiustare la marachella di quei due.

— Ecco per la spesa del telegramma; — diss’io, pagando; — ce li facciano venir qua, se è possibile, in giornata. Di grazia, c’è una locanda a Grottamare? [p. 126 modifica]

— Inglesi; lo dicevo io; inglesi! — dovette pensare in cuor suo il guardiano, che stava lì presso in orecchi.

— Sissignore; — mi rispose il telegrafista; — troveranno il Nettuno.

— Mitologia! — esclamai.

— Già, Nettuno, divinità acquatica; — notò egli, ridendo. — Difatti, il vino non è il forte di quella locanda.

— Neanche il mio; — ripigliai; — potremo dunque farcela insieme: sempre che l’acqua del vostro Nettuno non sia troppo.... salata. —

Il telegrafista mi gabellò l’arguzia con una risata di cortesia. Feci un inchino, cincischiai qualche altra parola di commiato e tornai sulla strada, incontro alla mia compagna di viaggio.

Quant’era bella, eterno Iddio, con quella sua rosea figura tutta illuminata dal sole! [p. 127 modifica] Ho già detto che poche bellezze avrebbero resistito, come la sua, ai crudi lumi del giorno, segnatamente dopo una notte vegliata. Aggiungerò che io non ne vidi mai una uscir così lieta e trionfante dalla prova del sole. Un secentista avrebbe detto che Febo era invaghito di lei e le sdilinquiva i raggi sul volto; io non lo dissi, ma pensai alla bellezza di certe sante, a cui non nuoce punto, anzi, aggiunge splendore l’aureola. E bella di una bellezza nuova, più soave, più intima, la faceva allora a’ miei occhi una cert’aria di sollecitudine affettuosa con cui mi venne incontro, studiando il passo, a mala pena mi vide apparir sulla strada.

— Nessuno? — mi chiese ella, con ansia.

— Nessuno! — risposi, stringendomi nelle spalle. — Io non ne capisco un ette. Che si sia addormentato e non abbia udito gridar Grottamare? [p. 128 modifica]

Ella si era tutta rasserenata alla mia prima parola, e i suoi begli occhi luccicavano di contentezza.

— Eh via, lo credete? — mi disse. — Io penso che vi siete già troppo scomodato per lui. Il meglio che ci resta a fare è di ridere della sua millanteria senza esito.

— Oh no, siate certa che s’è addormentato. Appena si sveglia, metto pegno che esce fuori dei gangheri. Verrà con un’altra corsa, non dubitate. Era troppo inviperito, e con ragione; — soggiunsi, guardando la mia bella compagna. — È impossibile che sia altrimenti.

— Ah, ah, il nemico degli uomini, si mette ora a difenderli? — gridò ella, tutta contenta di cogliermi in fallo.

— Signora, — balbettai, — consentitemi di rispettare il mio avversario fino a stassera. — [p. 129 modifica]

Cavai l’orario di tasca, e corsi cogli occhi alla pagina dov’era segnata la linea di Bologna per Brindisi.

— Un treno partirà da Bologna al tocco, — ripigliai; — egli potrà dunque esser qua alle dieci di sera. Fino a quell’ora, vi prego, aspettiamolo.

— E aspettiamolo; non è così? — soggiunse ella, con un accento malizioso.

— La conseguenza mi par naturale; — risposi, chinando umilmente le ciglia.

Avevo dato quel giro al discorso e fatta la mia proposta di attendere, senza meditarci su, senza secondi fini, quasi senza coscienza di ciò che mi usciva dalle labbra. Certo le mie parole miravano a guadagnar tempo; ma, nel pronunziarle, io non avevo neppure un concetto delle mie intenzioni. E tuttavia, come farlo intendere a lei? Come persuaderla di quel fatto tanto vero da non [p. 130 modifica] parer verisimile, che il cuore umano ha certe rughe riposte, che neppur esso conosce, e che là dietro si ascondono e crescono sentimenti ribelli, o stranieri a noi, che balzano fuori di repente e ci consigliano e ci costringono ad operare, prima ancora che noi ci accorgiamo di averli ospitati e nutriti?

Non potendo significarle tutto ciò, reputai più acconcio di cercare una gretola.

— Venite dunque; — ripigliai; — c’è qui in paese una locanda del Nettuno.

— Ah! sapete già questo!

— Sì, ho pigliato lingua laggiù, da quegli ufficiali della strada ferrata. Faremo colazione, m’immagino....

— Anch’io ho pigliato lingua; — mi disse ella, con accento impresso di sottile ironia. — Cesarino, che qui vedete, è il figlio d’una buona vedova, che abita in quella casa laggiù. — (E mi additava, così dicendo, una [p. 131 modifica] bicocca che sporgeva fuori dagli alberi di una vigna lì presso). — C’è latte e pane in quella casa, e l’orlo ha quattro bei peschi, carichi di frutti, che la è una vera benedizione del cielo. Cesarino lo dice, e non mi par uomo da inventarselo. Come vedete di qui, sarà un asciolvere pastorale. Dafni e Cloe, per l’invidia, se ne avranno a morder le labbra.

— Avete ragione. E per bellezza e per ingegno sottile, Cloe vi sta indietro un duemil’anni di strada.

— Con che aria lo dite! Mi fareste il muso perchè v’ho preparato una colazione sotto la pergola, in mezzo alla pace dei campi?

— Nossignora; con voi sotto una pergola e sopra le nevi del’Imalaia; in mezzo alla pace di questi campi, e in mezzo alle arene del Sahara.

— Correte troppo!

— È il mio difetto, signora. [p. 132 modifica]

— Emendatevi, ve ne prego. Ne avete l’obbligo, — soggiunse ella prontamente, — se lo ravvisate un difetto. —

Ero colto, vinto al mio giuoco: però chinai la testa, in atto di chi si rassegna e promette.

— Del resto, — proseguì la mia arguta compagna, — ringraziatemi. Vi ho trovato un luogo tranquillo per riposare, senza mestieri di andare tanto lontano. Il Sahara! L’Imalaia! Che vi pare? Queste gite sono belle e care nei libri, colla incisione a riscontro. Andiamo dunque all’òasi vicina, qui, in terra di cristiani. Cesarino, va innanzi, per insegnarci la strada. —

Cesarino obbedì; svoltato l’angolo della siepe, davanti a cui lo avevamo veduto la prima volta, entrò per una carraia ne’ campi. Noi lo seguimmo; ella di buon passo ed ilare in volto; io di mala voglia e stizzito.

Che cosa avevo nell’animo? Ero forse [p. 133 modifica] scontento della scelta fatta da lei? O della malizia con cui pareva aver penetrati i miei disegni, innanzi che io medesimo mi accorgessi di averne alcuno? O della sua serenità, del suo umore giocondo, mentre io ero preoccupato e malinconico, siccome è debito d’ogni innamorato nel primo stadio del suo male? Non lo so; ci doveva essere un pochino di tutte queste cose, nella mia aria imbronciata.

Ora, in quella che andavo innanzi, chiuso in quella musoneria, che è la più sciocca e la meno utile tra le forme esteriori dell’animo, sentii una mano entrare sotto il mio braccio, lì presso alla piegatura del gomito, e dopo la mano un braccio morbido, che, scorrendomi contro il costato, mi diede come una scossa elettrica dal capo alle piante.

— Siete in collera? — mi disse una voce argentina.

— Nossignora, — risposi; — pensavo. [p. 134 modifica]

— E a che?

— A un dilemma. O voi, con ciò che avete fatto, pensavate una cosa, od un’altra. Nel primo caso, ne sarei proprio offeso nella mia lealtà; nel secondo, sarei l’uomo più felice della terra.

— Bene! e chi vi proibisce di credere nel secondo?

— Signora mia, dice il proverbio: pensa la peggio, e l’indovinerai.

— Lasciate da banda i proverbi. Cè n’è per tutti gli umori. Pensiamo al meglio; il peggio s’ha a veder poi. Dopo tutto, — soggiunse, dandomi una stratta leggiera al braccio, con una dimestichezza che mi andò proprio all’anima, — non c’è secondi fini in quello che ho fatto. Non amo il vostro Nettuno, io!

— E perchè?

— Me lo dimandate? Un albergo rustico, [p. 135 modifica] cioè una stamberga male in arnese, con tutto il lurido della campagna, e senza il suo bello, quel bello che fa perdonar tante cose e dimenticarne tante altre.

— Difatti, senza la pergola....

— E senza la pace dei campi.

— Quand’è così, mia signora, non dico più nulla.

— Il vostro fronte si rasserena....

— E il mio cuore si apre ad un inno di lode. Oh donne, come siete migliori di noi! —

Ero uscito in questo epifonema, vecchio (s’ha a confessarlo) come la barba di Caino, perchè mi pareva di aver capito un mondo di cose. Infatti che avrei dovuto pensare, il giorno dopo, di una donna, la quale, conosciuta poche ore prima, fosse venuta meco al Nettuno?