Filocolo (Laterza 1938)/Libro I

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Filocolo (Laterza 1938) Libro II
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IL FILOCOLO

DI MESSER GIOVANNI BOCCACCIO

nel quale si narra l’amore di florio e biancofiore

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LIBRO PRIMO

Mancate giá tanto le forze del valoroso popolo anticamente disceso del troiano Enea, che quasi al niente venute erano per lo maraviglioso valore di Giunone, la quale, la morte della pattuita Didone cartaginese non avendo voluto inulta dimenticare, e all’altre offese porre non debita dimenticanza, faccendo degli antichi peccati de’ padri sostenere a’ figliuoli aspra gravezza, possedendo la loro cittá, la cui virtú l’universe nazioni si sottomise, sentí che quasi nell’estreme parti dell’ausonico corno ancora un picciolo ramo dell’ingrata progenie era rimaso, il quale s’ingegnava di rinverdire le giá seccate radici del suo pedale. Commossa adunque la santa dea per le costui opere, propose di riducerlo a niente, abbattendo la infiammata sua superbia, come quella degli antecessori aveva altra volta abbattuta, con degno mezzo. E posti i risplendenti carri agli occhiuti uccelli, e davanti a sé mandata la figliuola di Taumante a significare la sua venuta, discese della somma altezza nel cospetto di colui che per lei teneva il santo uficio, e cosí disse: «O tu, il quale alla somma degnitá se’ indegno pervenuto, qual negligenza t’ha messo in non calere della prosperitá dei nostri avversarii? quale oscuritá t’ha gli occhi, che piú debbono vedere, occupati? lévati su: e perciò che a te è sconvenevole guidare l’arme di Marte, fa che incontanente sia da te chiamato chi con la nostra potenza abbatta le non vere frondi, che sopra l’inutile ramo dimorano, le cui radici giá è gran tempo furono secche, e in maniera che di loro mai piú [p. 4 modifica]ricordo non sia. Intra ’l ponente e i regni di Borea sono fruttifere selve, nelle quali io sento nato un valoroso giovane, disceso dell’antico sangue di colui che giá li tuoi antecessori liberò della canina rabbia de’ longobardi, loro rendendo vinti con piú altri nemici alla nostra potenza. Chiama costui, perciò che noi gli abbiamo quasi l’ultima parte delle nostre vittorie serbata, e sopra noi gli prometti valorose forze. Io farò li fauni e’ satiri e le ninfe graziose ne’ suoi affanni; Nettunno ed Eolo disiderano di servirmi; e Marte a’ miei prieghi vigorosamente l’aiuterá. E ’l nostro Giove è di tutte queste cose contento, perciò che ha preso isdegno, veggendo a gente portare per insegna quello uccello, nella cui forma giá molte volte si mostrò a’ mondani, che piú a’ sacrificii di Priapo intendono che a governare la figliuola di Astreo, loro debita sposa. Io ancora ti prometto di commuovere con le infernali furie un’altra volta gli abominevoli regni in suo servigio, come giá feci quando ne’ paesi italici entrò il santo uccello, la cui ruina non permisi allora, volendogli prestare tempo nel quale potendosi pentere meritasse perdono, e ancora perciò che sentiva che di lui dovea discendere l’edificatore di questo luogo pontificale. Adunque sollecita queste cose; e se ciò non farai, senza piú porgerti le mie forze io ti lascerò nelle sue mani». E detto questo, si partí, discendendo a’ tenebrosi regni di Plutone; e con lamentevole voce chiamata Aletto, disse: «A te conviene la seconda volta rivolgere le fedeli menti che discesero da colui, il quale tu non potesti altra volta per tua forza sí del tutto sturbare che negl’italici regni smisurate forze non prendesse: e ciò fu nel principio delle prosperitá; ma questo fia nell’ultima parte dell’avversitá, la quale ultima parte la loro fama spegnerá nel mondo». E questo detto, voltato il suo carro, tornò al cielo. Gli oscuri regni a cotale novella si dolsero, veggendo apertamente per quella la loro preda mancare: ma al volere della santa dea non si poteva resistere. Però Aletto, lasciati quelli, tornò agli altri, i quali ella giá a crudeli battaglie aveva commossi, e quivi gli animi de’ piú possenti impregnò di volontá iniqua contra al principale signore, mostrando loro come [p. 5 modifica]venereamente i loro matrimoniali letti avea violati; e quelli, pregni d’iniquo volere e d’ira mormorando, lasciò focosi, ritornando donde partita s’era. Il vicario di Giunone senza indugio chiamò il giovane dalla santa bocca eletto a’ suoi servigi, il quale allora signoreggiava la terra la quale siede allato alla mescolata acqua del Rodano e di Sorga, e a lui mostrò i larghi partiti promessigli dalla santa dea, se in tale servigio con le sue forze si mettesse, e ultimamente gli promise d’adornare la sua fronte di reale corona del fruttifero paese, se la maledetta pianta del tutto n’estirpasse.

Non fece il valoroso giovane disdetta a sí fatta impresa, ma disideroso di dare a sé e a’ suoi simile scanno, chente i predecessori aveano avuto, si mise con vigorose forze all’ammirabile impresa; e in brieve tempo con la sua forza e co’ promessi aiuti la recò a fine, posando il suo soglio negli addomandati regni, avendo annullati i nemici di Giunone con proterva morte; e quivi nuove progenie generate, stato per alquanto spazio, rendé l’anima a Dio. Quegli che dopo lui rimase successore nel reale trono, lasciò appresso di sé molti figliuoli: tra’ quali uno, nominato Ruberto, nella reale dignità constituito, rimase interamente con l’aiuto di Pallade reggendo ciò che da’ suoi predecessori gli fu lasciato. E avanti che alla reale eccellenzia pervenisse, costui, preso del piacere d’una gentilissima giovane dimorante nelle reali case, generò di lei una bellissima figliuola; e volendo di sé e della giovane donna serbare l’onore, con tacito stile, sotto nome appositivo d’altro padre, teneramente la nutricò, e lei nomò del nome di colei che in sé contenne la redenzione del misero perdimento che addivenne per l’ardito gusto della prima madre. Questa giovane come in tempo crescendo procedeva, cosí di mirabile bellezza s’adornava, patrizzando cosí ancora ne’ costumi come nell’altre cose che facea; e per le sue notabili bellezze e opere virtuose, piú volte fece pensare a molti che non d’uomo ma di Dio figliuola stata fosse. Avvenne che un giorno, la cui prima ora Saturno avea signoreggiata, essendo giá Febo co’ suoi cavalli al sedecimo grado del celestiale Montone pervenuto, e [p. 6 modifica]nel quale il glorioso partimento del figliuolo di Giove dagli spogliati regni di Plutone si celebrava, io, della presente opera componitore, mi trovai in un grazioso e bel tempio in Partenope, nominato da colui che per deificarsi sostenne che fosse fatto di lui sacrificio sopra la grata, e quivi con canto pieno di dolce melodia ascoltava l’uficio che in tale giorno si canta, celebrato da’ sacerdoti successori di colui che prima la corda cinse umilemente esaltando la povertade e quella seguendo. Ove io dimorando, e giá essendo, secondo che il mio intelletto stimava, la quarta ora del giorno sopra l’orientale orizzonte passata, apparve agli occhi miei la mirabile bellezza della prefata giovane, venuta in quello loco a udire quel che io attentamente udiva: la quale sí tosto com’io ebbi veduta, il cuore incominciò sí forte a tremare, che quasi quel tremore mi rispondeva per li menomi polsi del corpo smisuratamente; e non sappiendo per che, né ancora sentendo quello che egli giá s’imaginava che avvenire gli doveva per la nuova vista, incominciai a dire: «Oimè! o che è questo?»; e forte dubitava non altro accidente noioso fosse. Ma dopo alquanto spazio, rassicurato un poco, presi ardire, e intentivamente cominciai a rimirare ne’ begli occhi dell’adorna giovane; ne’ quali io vidi, dopo lungo guardare, Amore in abito tanto pietoso, che me, il quale lungamente a mia instanzia aveva risparmiato, fece tornare disideroso d’essergli per cosí bella donna soggetto. E non potendomi saziare di rimirare quella, cosí cominciai a dire:

«Valoroso Signore, alle cui forze non poterono resistere gl’iddii, io ti ringrazio, perciò che tu hai posta dinanzi agli occhi miei la mia beatitudine: e giá il freddo cuore, sentendo la dolcezza del tuo raggio, si comincia a riscaldare. Adunque io, il quale ho la tua signoria lungamente temendo fuggita, ora ti priego che tu, mediante la virtú de’ begli occhi ove sí pietoso dimori, entri in me con la tua deitade. Io non ti posso piú fuggire, né di fuggirti disidero, ma umile e divoto mi sottometto a’ tuoi piaceri». Io non aveva dette queste parole, che i lucenti occhi della bella donna scintillando guardarono [p. 7 modifica]i miei con acuta luce, per la quale una focosa saetta d’oro, al mio parere, vidi venire, e quella, per gli occhi miei passando, percosse sí forte il core del piacere della bella donna, che ritornando egli nel primo tremore ancora trema; e in esso entrata, v’accese una fiamma, secondo il mio avviso, inestinguibile, e di tanto valore, che ogni intendimento dell’anima rivolse a pensare delle maravigliose bellezze della vaga donna. Ma poi che di quindi con piagato core partito mi fui, e sospirato ebbi piú giorni per la nova percossa, pur pensando alla valorosa donna, avvenne che un giorno, non so come, la fortuna mi balestrò in un santo tempio dal prencipe de’ celestiali uccelli nominato, nel quale sacerdotesse di Diana, sotto bianchi veli, di neri vestimenti vestite, coltivavano tiepidi fochi, e divotamente laudavano il sommo Giove; lá dove io giungendo, con alquante di quelle vidi la graziosa donna del mio core stare con festevole e allegro ragionamento, nel quale io e alcuno compagno domesticamente accolti fummo. E venuti d’un ragionamento in altro, dopo molti, venimmo a parlare del valoroso giovane Florio, figliuolo di Felice grandissimo re di Spagna, recitando i suoi casi con amorose parole. Le quali udendo la gentilissima donna, senza comparazione le piacquero, e con amorevole atto verso me rivolta, lieta, cosí cominciò a parlare: «Certo grande ingiuria riceve la memoria degli amorosi giovani, pensando alla gran costanza de’ loro animi, i quali in uno volere per l’amorosa forza sempre furono fermi serbandosi ferma fede, a non essere con debita ricordanza la loro fama esaltata da’ versi d’alcun poeta, ma lasciata solamente ne’ favolosi parlari degli ignoranti. Ond’io, non meno vaga di poter dire che io sia stata cagione di rilevazione della loro fama che pietosa de’ loro casi, ti priego per quella virtú che fu negli occhi miei, il primo giorno che tu mi vedesti e a me per amorosa forza t’obbligasti, che tu t’affanni in comporre un picciolo libretto volgarmente parlando, nel quale il nascimento, l’innamoramento e gli accidenti de’ detti due, infino alla lor fine, interamente si contengano». E detto questo, si tacque. Io sentendo la dolcezza delle parole [p. 8 modifica]procedenti dalla graziosa bocca, e pensando che infine allora la nobilissima donna pregato non m’aveva, il suo priego in loco di comandamento mi reputai, prendendo per quello migliore speranza nel futuro de’ miei disii, e cosí risposi: «Valorosa donna, la dolcezza del vostro priego, a me espressissimo comandamento, mi stringe sí, che negare non posso di pigliare e questo e ogni maggiore affanno che a grado vi fosse, avvegna che a tanta cosa insofficiente mi senta; ma seguendo quel detto, che alle cose impossibili niuno è tenuto, secondo la mia possibilità, con la grazia di Colui che di tutto è donatore, farò che quel che detto avete sará fornito». Benignamente mi ringraziò, e io, costretto piú da ragione che da volontà, col piacere di lei di quel loco mi partii, e senza alcuno indugio cominciai a pensare di voler mettere ad esecuzione quello che promesso aveva. Ma perciò che, come di sopra è detto, insofficiente mi sento senza la tua grazia, o donatore di tutti i beni, ad impetrar quella quanto piú posso divoto corro, supplicandoti, con quella umiltà che piú possa fare i miei prieghi accettevoli, che a me, il quale ora nelle sante leggi de’ tuoi successori spendo il tempo mio, tu sostenga la non forte mano alla presente opera, acciò che ella non trascorra per troppa volontà senza alcun freno in cosa che fosse men degna esaltatrice del tuo onore, ma moderatamente in eterna laude del tuo nome la guida, o sommo Giove.

Adunque, o giovani, i quali avete la vela della barca della vaga mente dirizzata a’ venti che muovono dalle dorate penne ventilanti del giovane figliuolo di Citerea, negli amorosi pelaghi dimoranti, disiosi di pervenire a porto di salute con istudioso passo, io per la sua inestimabile potenza vi priego che divotamente prestiate alquanto alla presente opera l’intelletto, perciò che voi in essa troverete quanto la mobile fortuna abbia negli antichi amori date varie permutazioni e tempestose, ne’ quali poi con tranquillo mare s’è lieta rivolta a’ sostenitori; onde per questo potrete vedere voi soli non esser sostenitori primi dell’avverse cose, e fermamente credere di non dovere essere gli ultimi. Di che prendere potrete [p. 9 modifica]consolazione, se quello è vero: che a’ miseri sia sollazzo d’avere compagni nelle avversitá; e similmente ve ne seguirá speranza di guiderdone, la quale non verrá senza alleggiamento di pena. E voi giovinette amorose, le quali ne’ vostri petti dilicati portate l’ardenti fiamme d’amore piú occulte, porgete li vostri orecchi con non mutabile intendimento a’ nuovi versi: i quali non vi porgeranno i crudeli incendimenti dell’antica Troia, né le sanguinose battaglie di Farsaglia, le quali nell’animo alcuna durezza vi rechino; ma udirete i pietosi avvenimenti dell’innamorato Florio e della sua Biancofiore, i quali vi fiano graziosi molto. E, udendogli, potrete sapere quanto ad Amore sia in piacere il fare un giovane solo signore della sua mente, senza porgere a molti vano intendimento, perciò che molte volte si perde l’un per l’altro, e suolsi dire: ‘chi due lepri caccia, talvolta piglia l’una e spesso niuna’. Dunque apprendete ad amare un solo, il quale ami voi perfettamente, sí come fece la savia giovane, la quale per lunga sofferenza Amore recò al disiato fine. E se le presenti cose a voi giovani e donzelle generano ne’ vostri animi alcun frutto e diletto, non siate ingrati di porgere divote laudi a Giove e al nuovo autore.

Quello eccelso e inestimabile prencipe sommo Giove, il quale, degno de’ celestiali regni posseditore, tiene l’imperiale corona e lo scettro, per la sua ineffabile provvidenza avendo a sé fatti molti cari fratelli e compagni a possedere il suo regno, e conoscendo l’iniquo disio di Pluto, il quale piú grazioso e maggiore degli altri aveva creato, che giá pensava di volere dominio maggiore che a lui non si conveniva; per la qual cosa Giove da sé il divise, e in sua parte a lui e a’ suoi seguaci diede i tenebrosi regni di Dite, circondati dalle stigie paludi, e loro eterno esilio assegnò dal suo lieto regno; e provvide di nuove generazioni volere riempiere l’abbandonate sedie, e con le proprie mani formò Prometeo, al quale fece dono di cara e nobile compagnia. Questo veggendo Pluto, dolente che strana plebe fosse apparecchiata per andare ad abitare il suo natal sito, del quale egli per suo difetto era stato cacciato, imaginò di far sí, che le nuove creature da quella [p. 10 modifica]abitazione facesse esiliare; e con sottile inganno la sua imaginazione mise ad effetto, perciò che nel santo giardino voltò le prime creature sí, che per suo consiglio il precetto del loro creatore miserabilmente prevaricarono, e seguentemente essi con tutti i loro discendenti rivolse alle sue case, rallegrandosi d’avere per sottigliezza annullato il proponimento di Giove. Lungamente sofferse Colui che tutto vede questa ingiuria, ma poi che tempo gli parve di dovere mostrare la sua pietá inverso di coloro che stoltamente s’avevano lasciati ingannare e che stavano ne’ tenebrosi luoghi rinchiusi, miracolosamente il suo unico Figliuolo mandò in terra da’ celestiali regni, e disse: «Va, e col nostro sangue libera coloro, a cui Dite è stato cosí lungo carcere, e appresso te lascia in terra sí fatte armi, che gli altri futuri, a’ quali elle ancora non si sono mostrate, prendendole si possano valorosamente difendere dalle false e occulte insidie di Pluto: e ricominci Vulcano per lo tuo comandamento nuove folgori, le quali, tu gittandole, dimostrino quanta sia la nostra potenza, sí come giá fecero». Discese al comandamento del suo Padre l’unico Figliuolo dalla somma altezza in terra, a sostenere per noi l’iniqua percossa d’Atropos, apportatore delle nuove armi, in disusato modo, non operando in lui la natura il suo uficio, sí come negli altri uomini. La terra, come sentí il nuovo incarco della deitá del figliuolo di Giove, diede per diverse parti della sua circonferenza allegri e manifesti segni di futura vittoria agli abitanti; ed egli, giá in etá ferma pervenuto, cominciò a riempiere la terra dell’apportate armi, e a fare avvedere coloro, che con perfetta fede i suoi detti ascoltavano, del ricevuto inganno porto dall’antico oste; i quali, come il perduto conoscimento riavevano, cosí delle nuove armi per loro difesa si guarnivano, e contra gli ignoranti della veritá movevano varie battaglie e molte; e contra loro alcuno che ’l volesse non si trovava potere resistere, perciò che senza cura d’affanno e di corporale morte gli trovavano. E giá delle vittorie de’ nuovi cavalieri, entrati contro a Pluto in campo, non pur tutto l’oriente ne risonava, ma ancora delle loro magnifiche opere [p. 11 modifica]l’occidente ne sentiva, quando il Figliuol di Dio, avendo spogliata di molti prigioni l’antica cittá di Dite, ed essendo al suo padre ritornato, e mandato a’ prencipi de’ suoi cavalieri il promesso dono del santo ardore, volendo che l’ultimo ponente sentisse le sante operazioni, elesse uno de’ suddetti prencipi, quello che piú forte gli parve a potere resistere all’infinite insidie che ricevere dovea, e sopra l’onde d’Esperia trasportare il fece a un notante marmo. Il quale, pervenuto nella strana regione, con la forza della somma deitá, cominciate contro quelli, i quali resistenti trovò, aspre battaglie, acquistò molte vittorie, e molti delle celestiali armi novelle vi rivestí. Ma poi, dopo molto combattere, trovata piú resistente schiera, senza volgere viso o senza alcuna paura l’ultimo colpo d’Atropos umile e divoto sostenne, e al cielo, per lungo affanno meritato, rendé la santa e graziosa anima. I suoi seguaci, dopo la sua passione, prese le martirizzate reliquie, in notabile loco reverentemente le sepellirono non senza molte lagrime. E ad eterna memoria di cosí fatto prencipe, poco lontano all’ultime onde d’occidente, sopra il suo venerabile corpo edificarono un grandissimo tempio, il quale del suo nome intitolarono, ardendo in esso continuamente divotissimi fuochi, rendendo in essi al sommo Giove graziosi incensi. Ed egli, giusto esauditore, non fu nella sua vita tanto valoroso resistente ai difenditori della falsa opinione, quanto dopo il suo ultimo dí fu molto piú grazioso conservatore de’ suoi fedeli, però che Giove in servigio di lui, nel suo tempio, esaudendo le debite orazioni, mirabili cose faceva, onde la fama dell’occidentale Iddio risonava per l’universo. Certo ella passò in breve tempo le calde onde dell’orientale Gange, e alle boglienti arene di Libia fu manifesta, e dagli abitanti nelle agghiacciate nevi d’Aquilone fu saputa; perciò che egli non porgeva risponso, sí come far soleano i bugiardi iddii, ma con vere operazioni ne’ bisogni soccorreva e soccorre i di voti dimandatori: e per questo piú la santa fama per il mondo risuona.

Suona adunque la gran fama per l’universo della mirabile virtú del possente Iddio occidentale, e in te, o alma cittá, o [p. 12 modifica]reverendissima Roma, la quale egualmente a tutto il mondo ponesti il tuo signorile giogo sopra gl’indomiti colli, tu sola permanendone vera donna, molto piú che in alcun’altra parte risuona, sí come in degno loco della cattedral sede de’ successori di Cefas. E tu, dico, dentro di te non poco ti rallegra, ricordando te essere quasi la prima prenditrice delle sante armi, perché conoscesti te in esse dover tanto divenire valorosa, quanto per adietro in quelle di Marte pervenisti, e molto piú; onde contentati, o Roma, ché, come per l’antiche vittorie piú volte la tua lucente fronte ornata fu delle belle frondi di Penea, cosí di questa ultima battaglia, con le nuove armi trionfando tu vittoriosamente, meriterai d’essere ornata di eternale corona, e, dopo i lunghi affanni, la tua imagine fra le stelle onorevolmente sarà allogata, tra le quali co’ tuoi antichi figliuoli e padri beata ti troverai. E giá i tuoi figliuoli per nuova fama prendono a’ lontani templi divozione, e, addimandando al Dio dimorante in essi i bisognevoli doni, promettono graziosi voti. I quali doni ricevuti, ciascuno s'ingegna d’adempiere la volontaria promessione visitandogli, ancor che stiano lontani: la qual cosa appo Dio grandissimo merito senza fallo ti impetra.

Risonava, sí come è detto, la gran fama per Roma, nella quale un nobilissimo giovane dimorava, il quale si chiamava Quinto Lelio Africano, disceso del nobile sangue del primo conquistatore dell’africana Cartagine. Era questo ornatissimo di bei costumi, e abbondante di ricchezze e di parenti, e giá per la sua virtú prescritto all’ordine militare, e aveva, secondo la nuova legge del Figliuol di Dio, una nobilissima giovane romana, nata della gente Giulia, e Giulia Topazia nominata, presa per sua legittima sposa, la quale per la sua gran bellezza e infinita bontá era molto da lui amata. E giá era con lei, poi che Imeneo coronato delle frondi di Pallade fu prima nelle sue case e le sante tede arse nella sua camera, dimorato tanto, che Febo cinque volte era nella casa della celestiale vergine rientrato, ed egli ancora di lei niuno figliuolo avea potuto avere, de’ quali sopra tutte le cose era disideroso; e, in molte maniere cercato come egli potesse fare che la giovane [p. 13 modifica]concepisse, e niuna pervenutane ad effetto, sentiva nell’animo angoscioso tormento. Ma l’infinita pietá di Colui a cui nulla cosa si nasconde, non sostenne che, senza parte del suo disio vedere, egli finisse i giorni suoi, a’ quali poco piú spazio era assegnato, anzi saviamente precorse in cotal modo: che, essendo Lelio un giorno intorno a quel disio molto pensoso, udí narrare di quello Iddio, che sopra gli esperii liti dimorava lontano, maravigliose cose per lui fatte; le quali poi ch’egli ebbe udite, se n’andò in un santo tempio, la dove la reverenda imagine del glorioso santo era figurata, nel cospetto della quale disse cosí: «O grazioso Iddio, il quale sopra i liti occidentali lasciasti il tuo santo corpo, l’anima renduta al sommo Giove, ricevi le mie voci, se sono da essere esaudite, nella tua presenza. E cosí come a niuno, che divotamente giusto dono ti dimanda, il nieghi, cosí a me la mia dimanda, se è giusta, non negare, ma perfettamente me l’adempi. Io sono giovane d’eccellentissima fama, e di famosi parenti disceso, e nella presente cittá copioso di ricchezze e di congiunti parenti, accompagnato di nobile e bella giovane, con la quale io sono stato tanto tempo, che io veggio incominciare la sesta volta al sole l’usato cammino, e niuno figliuolo ancora di lei ho potuto avere, il quale dopo il nostro ultimo giorno possa il nostro nome ritenere, e possedere l’antiche ricchezze possedute lungamente per retaggio, per che nell’animo sostengo grave noia. Onde io divotamente ti priego che nel cospetto dell’onnipotente Signore grazia impetri, che se Egli deve esser della mia anima bene, e del suo e del tuo onore esaltamento, che Egli uno solamente concedere me ne deggia, il quale dopo me mi rappresenti. La qual cosa se Egli mi concederá, io ti prometto e giuro, per l’anima del mio padre e per la deitá del sommo Giove, che il tuo lontano tempio sará da me visitato personalmente, e i tuoi altari di divoti fuochi saranno alluminati». E fatta la degna orazione, tornò al suo militar palagio, quasi contento, ché, cosí come niuno giusto priego può esser fatto senza essere esaudito, cosí quel priego, che era giusto, senza esaudizione non poteva trapassare. Ma giá i disiosi cavalli del [p. 14 modifica]sole, caldi per lo diurno affanno, si bagnavano nelle marine acque d’occidente, e le menome stelle si potevano vedere, ed erano giá Lelio e Giulia, dopo i dilicati cibi da loro presi, quasi contenti del fatto voto, sperando grazia, andatisi a riposare nel coniugai letto, nel quale soavissimo sonno gli avea presi, quando il santo, per cui Galizia è visitata, volle fare a Lelio manifesto quanto il giusto priego, fatto il preterito dí, gli fosse a grado; e disceso dagli alti çieli, ed entrato radiante di maravigliosa luce nella camera di Lelio, con lieto viso gli cominciò a parlare, dormendo egli, e disse cosi: «O Lelio, io sono colui il quale tu il passato giorno con tanta divozione chiamasti, pregando ch’io impetrassi grazia, nel cospetto di Colui che tutte le dona senza rimproverare, che tu potessi avere degno erede del tuo nome, nel quale dopo la tua morte la tua fama vivesse. Onde Egli, misericordioso esauditore de’ giusti prieghi, e di tutti i beni benignissimo donatore, per me ti manda a dite che ’l tuo priego esaudito è da Lui, e che, la prima volta che tu con la tua sposa onestamente ti congiungerai, veramente riceverai il dimandato dono». E queste parole dette, ad un’ora egli e ’l sonno da Lelio si partirono. Lelio svegliato, pieno di maraviglia e d’allegrezza, per lungo spazio volse gli occhi per la camera per vedere se ancora l’apportatore della lieta novella vi fosse; ma poi che vide lui non esservi, umilmente ringraziato colui che porta aveva tanto disiata ambasciata, chiamò Giulia, la quale ancora dormiva, e le narrò la veduta visione. Di che ella si maravigliò molto, e lieta quasi senza fine cominciò a ringraziare Dio. E non molto spazio dopo quella congiunzione che annunziata fu a Lelio, s’avvide Giulia essere gravida, secondo che il santo di Dio avea annunziato.

Non dopo molti giorni, mostrando giá Calisto dintorno al polo quanto era lucente, incominciarono Lelio e Giulia insieme a ragionar della mirabile visione, e dopo alquante parole, Giulia, che aveva sentito e sentiva in sé il disiato frutto nascosto, disse: «Certo, Lelio, giá per effetto mi par sentire il grazioso dono esserci dato, perciò che piú grave [p. 15 modifica]essere mi pare che per lo passato». Quando Lelio udí queste parole, fu tanto allegro, che nulla giusta comparazione si potrebbe porre alla sua allegrezza, e disse: «Adunque niuno indugio si vuole porre a fare i promessi doni; ma sí tosto come i chiari raggi di Apollo ne recheranno il chiaro giorno, io, con quella compagnia che mi parrá, voglio prendere il lungo cammino, e portare i graziosi incensi promessi al lontano altare». Allora disse Giulia: «Deh! ora sará il tuo cammino senza me fatto?». Lelio rispose: «Giulia, tu se’ giovane, e sí fatto affanno sarebbe alla tua tenera etá impossibile a sofferire e noioso al disiato frutto che tu nascondi; però tu rimarrai degna donna della nostra casa, lietamente aspettando la mia tornata». Giulia, udendo queste parole, bagnò il suo viso d’amare lagrime, dicendo: «Certo, quando la fortuna ti fosse contraria, mi crederei io esser vie piú possente sostenitrice dell’armi e degli affanni, sempre aiutandoti e seguendoti, che non fu Ipsicratea a Mitridate, non che nelle felicitá, nelle quali il venirti appresso mi porgera smisurato diletto. Se tu mi lasci sola di te, tu mi lascerai accompagnata di molti pensieri e varii: il mio petto sará sempre pieno di molte sollecitudini, e nascosamente sosterrò molto maggiore affanno, sempre di te dubitando, ch’io non potrei mai fare venendo teco». O Tiberio Gracco, fu tanta la pietá che tu avesti di Cornelia tua cara sposa, quando lasciasti la femina serpe, risparmiando anzi la sua vita che la tua propria, quanta fu quella di Lelio vedendo le lagrime della sua cara compagna? Certo appena! Ond’egli le rispose: «Giulia, poni fine alle tue lagrime, ché i lontani templi da me senza te non saranno ricercati, e però disponi il tuo virile animo al lungo cammino, che al nuovo giorno credo cominceremo». Giulia contenta si tacque.

L’Aurora aveva rimossi i notturni fuochi, e Febo aveva giá rasciutte le brinose erbe, quando Lelio, chiamata Giulia, lieti si levarono da’ notturni riposi, e comandarono che quelle cose le quali a camminare fossero necessarie, senza indugio fossero apparecchiate; e mandato per quelli i quali a loro piacque d’eleggere per loro compagnia, loro narrarono il lieto [p. 16 modifica]avvenimento, comandando ad essi che immantanente fossero presti d’andare con loro a mettere ad effetto le fatte promissioni. Al quale comandamento fu risposto loro essere presti ad ogni loro piacere.

Fu senza alcuno indugio messo ad esecuzione il comandamento di Lelio; onde egli e Giulia con la loro compagnia, tornando da’ santi templi da porgere pietosi prieghi al sommo Giove che il loro andare e tornare facesse essere prosperevole, salirono sopra i portanti cavalli, e, piangendo, appena a’ cari parenti e amici poterono dire addio: e partironsi, e con lieto animo cominciarono il disavventurato cammino.

Il miserabile re, il cui regno Acheronte circonda, veggendo che l’esercizio era alle sue invasioni inique contrario, e che i lunghi cammini porgevano alla carne affannosa gravezza, per la quale i sostenitori d’essa fuggivano l’inique tentazioni e meritavano il regno mal conosciuto da lui, il quale egli, per disiderare oltre al dovere, perdé, afflitto di noiosa sollecitudine, veggendo la maggior parte di quelli che andar soleano alle sue case esser disposti a quello affanno, o ad altri simiglianti o maggiori, pensò di volergli ritrarre da sí fatte imprese con paura; e convocati nel suo cospetto gl’infernali ministri, disse: Compagni, voi sapete che Giove non dovutamente degli alti regni, i quali egli possiede, ci privò, e diecci questa strema parte sopra il centro dell’universo a possedere, e in dispetto di noi creò nuova progenie, la quale i nostri luoghi riempiesse: e noi ingegnosamente li sottraemmo, si ché noi volgemmo i loro passi alle nostre case. Ed Egli ancora non parendogli averci tanto oltraggiato, mandò il suo Figliuolo a spogliarcene, il quale, non possendogli noi resistere, ce ne spogliò, e dopo tutto questo fece avveduti gli abitanti della terra de’ nostri lacciuoli, e donò loro armi con le quali essi leggiermente le nostre spezzano: sí che noi di questi oltraggi ci abbiamo a vendicare sopra di loro. Il salire in su c’è vietato, ed Egli è piú possente di noi: però ci conviene pur con ingegno il nostro regno aumentare, e fare di riavere ciò che per adietro abbiamo perduto. Tra l’altre cose che il [p. 17 modifica]Figliuolo di Giove lasciò in terra a’ suo’ popoli, a noi piú contrarii, fu continuo esercizio, al quale del tutto si vuole intendere da noi, acciò che si spenga con volontario ozio dalle loro menti, e da’ romani massimamente, i quali, quasi agli altri principali, hanno questo esercizio molto impreso, e quasi ogni gente da loro l’imprende. Ond’io ho proposto almeno ritrargli dell’andar gli strani templi visitando, con paura; e questo senza fallo mi verrá fatto troppo bene sopra gran quantitá d’essi, che ora vanno al tempio che sopra l’ultime piagge d’Esperia è posto: sopra i quali io vendicherò la mia ira, e voi siate intenti di fare il simigliante ovunque voi ne sentirete alcuni».

Dette queste parole a’ suoi, prese una forma simigliante ad un nobilissimo cavaliere, il quale sotto la potenza del gran re Felice, reggitor de’ regni d’Esperia, nipote di Atlante sostenitore de’ cieli, governava vicino a’ colli d’Appennino una cittá chiamata Marmorina, e salito sopra un cavallo, le cui ossa per magrezza quasi quante erano apertamente mostrava, e correndo sopra esso, pervenne ne’ lontani regni, e trovato il re, il quale silvestre bestie cacciando prendea diletto, si fece davanti a lui: e come tal volta sogliano i corpi morti gravosi cadere alla terra senza essere urtati, cotale costui fittivamente cadendo gli si gittò a’ piedi, e con voce affannata, tanto che appena s’udiva, piangendo cominciò a dire: «O signor mio, tu vai l’innocenti bestie davanti a te cacciando, e nelle loro interiora metti aizzando gli acuti denti de’ feroci cani, ma io misero ho nella tua citta Marmorina lasciato il romano fuoco, il quale, sì come io vidi giá per i piú alti luoghi, tutta la citta guastava: e come ciò avvenisse a me è occulto. Se non che noi avendo il giorno avanti celebrati i santi sacrificii di Bacco con grandissima festa, e la vegnente notte, riposandosi ciascuno, avea giá di sé la quarta parte passata, quando io, quasi dormendo, cominciai a sentire grandissimo pianto di uomini, di garzoni e di femine, e impetuoso suono di non usate armi. Allora abbandonato del tutto il quieto sonno, pauroso mi levai, e salii negli alti luoghi della nostra casa, e vidi [p. 18 modifica]tutta la citta piena di fuoco e di noiose ruine, e di maggior pianto furono ripiene le mie orecchie. E giá presso alla nostra casa udendo il terribile suono delle sonanti trombe, disarmato corsi per le fidate armi, per risalire armato nelle fortezze della nostra casa; e iscendendo incontrai molti amici, i quali contra i crudeli osti, per lo bene della citta, s’apparecchiavano con le taglienti spade d’aspramente combattere. Ai quali dissi, quasi avendo della loro vita compassione: ‛O giovani, or non vedete voi che fortuna sia nelle presenti cose? Quelli iddii, nella forza de’ quali era la speranza della nostra signoria, sono fuggiti e hanno abbandonato i loro altari, e però voi indarno soccorrete la cittá. Ma se voi avete certa fidanza nelle vostre armi, andiamo, e in mezzo de’ nemici combattiamo, essendo io duce: e quivi, o vinciamo, o, sdebitandoci di tal vergogna, mandiamo le nostre anime alle infernali sedie, perciò che sola salute è a’ vinti non isperar salute’. La cittá da tutte parti presa, era da’ nemici con gli acuti spuntoni guardata; ma noi poi assicurati ci movemmo ad andare alla non dubbiosa morte tutti per una via. Oimè! chi potrebbe mai narrar la ruina e la tempesta di quella notte? Chi potrebbe parlando dire la menoma parte dell’uccisione, o con lagrime agguagliar la fatica? L’antica cittá, la quale molt’anni vittoriosa sotto le nostre braccia dimorò, fu da’ miei occhi veduta quella notte cadere quasi tutta in picciola ora; ma noi miseri, portati da’ miserabili fati, ovunque andammo, per le larghe vie trovammo cadere corpi gravati da mortale gelo, e ad ogni passo trovammo nuovi pianti, e in ogni parte era romore e uccisione infinita. E andando per diverse parti della cittá, dandone l’accese case gli aperti passaggi, piú volte scontrandoci in picciole schiere di nemici combattemmo. Ma giá quasi propinqui all’ultima ora della notte, vaghi del nuovo giorno, fummo da innumerabile moltitudine di nemici aspramente assaliti, e quivi difendendoci virilmente, vidi io gran parte de’ miei compagni bagnare la terra del loro sangue, e senza niuna misericordia esser dagli avversarii uccisi. Onde non potendo noi piú sostenere il crudele assalto, con alquanti [p. 19 modifica]diedi le spalle, fuggendo verso il nostro palagio; ma quivi trovata piú aspra battaglia, quasi furiosi, senza alcuna speranza di salute, io e’ miei compagni tra gli acuti ferri de’ nemici ci gittammo. Io, ferito in molte parti, rientrai nelle mie case, nelle quali alquanti de’ miei compagni vinti vilmente si fuggirono. E noi, saliti nel superiore pavimento, vedemmo tutta la cittá essere d’ardenti fiamme e di noiosi fumi ripiena, la quale piangendo riguardavamo. Allora fummo assaliti da nuovo accidente, perciò che rotte le porti dell’antico palagio, salí uno grandissimo uomo capitano romano con molti compagni, il quale, come il fiero lupo le timide pecore senza difesa strangola, cosí andava uccidendo qualunque dinanzi gli si parava. A lui vidi io uccidere il vecchio padre, e due miei figliuoli, e molti altri. Sopra il quale volendo io prendere debita vendetta, ricevetti infiniti colpi dalla sua spada. Ma poi la vecchia madre, e altre femine con lei, mettendo le loro persone per la mia vita tra la sua spada e il mio corpo, fortunosamente mi trassero dalle sue mani. E uscito fuori della non giá ritta cittá, veggendo che per me piú niuno soccorso le si poteva porgere, miserabilmente verso queste parti m’indirizzai, e qui nel tuo cospetto mi sono fuggito. E dicoti che ’l tuo regno è senza dubbio assalito da gente tanto acerba, che non pur contro a te, ma ancora contro a’ nostri iddii ha prese l’armi; e che ciò ch’io ho contato sia vero, manifestaloti il sangue mio, il quale per tante ferite puoi vedere davanti a te spandere. Io appena fuggendo ho potuto la mia vita ricuperare, la quale omai credo che sará brieve; e le mie ferite, le quali piú tosto medico e riposo che affanno richiedevano, marcite costringono l’anima d’abbandonare il misero corpo. E però ti priego che t’apparecchi, acciò che i tuoi nemici, i quali credo che non sieno di qui guari lontani, possa con piú forte fronte ricevere che io non potei, acciò che altresí vendichi le mie ferite, in guisa che io tra gli altri spiriti possa alzare la testa per la vendicata morte». E appena finí queste parole con intiera voce, che davanti al re il corpo senza anima freddo lasciò. [p. 20 modifica]

Con le mani prese, e nell’aspetto stupefatto stava il re Felice ad ascoltar le infinte parole; ma poi che vide lo spirito del parlante cavaliere avere abbandonato il corpo e piú non dire, mutato il natural colore, tornò palido, e, oppresso nel secreto petto da varie cure, quasi per grave doglia appena ritenne le lagrime. Non sappiendo che partito prendere del subito annunzio, pur mostrandosi vigoroso per rincarare i suoi, comandò che al morto corpo fosse data sepoltura; e abbandonata l’incominciata caccia, volse i passi co’ suoi compagni verso le reali case. Alle quali poi che fu giunto, sospirando a’ suoi cavalieri comandò che senza alcuna dimora prendessero l’usate armi; e sollecitamente fatti convocare i vicini popoli, i quali sotto la sua signoria si costrignevano, raunò un grandissimo esercito in pochi giorni, intendendo di volere ovviare gli assalitori del suo regno.

E poi che questo tutto fu fatto, e il giorno, nel quale avea secretamente proposto di movere col suo esercito, fu venuto, egli comandò che di voti sacrificii s’apparecchiassero a Marte, acciò che la sua deitá, la quale verso loro pareva indebitamente crucciata, sacrificando si mitigasse; ed esso personalmente volendo sacrificare, acciò che il suo andare prosperamente s’indirizzasse verso i suoi nemici, andò al sacrato tempio davanti all’altare di Marte, la cui effigie riguardando per piú affettuosamente porgere divoti prieghi, vide bagnata di novelle lagrime, le quali non poco dubbio gli porsero. Ma poi imaginando che Marte per compassione de’ suoi danni avesse lagrimato, alquanto riprese conforto, e fatto venire un giovane toro per volerlo sopra il detto altare sacrificare, disse cosí: «O vera deitá, la quale a’ nostri danni hai mostrata lagrimando vera compassione, ricevi i nostri volontarii sacrificii, i quali presenzialmente ti facciamo, e con lieto viso ne porgi speranza di prosperevole andata». E, dette queste parole, ferí l’indomito toro, il quale, come sentí la puntura del freddo coltello, per duolo sí forte si scosse, che, uscito dalle mani di coloro che ’l tenevano, furiosamente fuggí verso i marini liti d’occidente, il suo sangue spargendo e torcendo i passi da [p. 21 modifica]quella parte donde i nemici, secondo il falso detto, dovevano il reame avere assalito.

Veggendo questo, il re non poté dentro per forza d’animo ritenere le lagrime, ma, forte piangendo, cominciò a dire: Ora manifestamente possiamo noi ben vedere l’ira degl’iddii quanto contra noi s’adopra, e quanto i fortunosi fati ci sono incontro rivolti! Oimè, che Marte lagrimando, non de’ preteriti danni ma de’ futuri mostra d’aver compassione! Egli e gli altri iddii rifiutano i nostri sacrificii, come fatti da non degni sacrificatori: e ciò apertamente si vede, ché giá il toro ferito per mitigar la loro ira, è fuggito dinanzi da’ loro altari dalle nostre mani, e va dell’innocente sangue bagnando il nostro terreno, mostrandone manifesti segni della nostra fuga, la quale infino agli ultimi termini della nostra potenza mostra che si debba con crudele uccisione distendere. Ma, o sommi iddii, se i miseri meritano d’essere da voi in alcuno atto esauditi, non ischifate le mie piangenti voci, perciò che, sí come voi sapete, io non sono quel Dionisio, il quale piú volte i vostri templi e le vostre imagini privò di corone e d’altri adornamenti degni a’ vostri altari. Io giammai, o Giove, non ti spogliai sí come costui fece, dicendo che la risplendente roba fosse di state grave e di verno fredda, rivestendoti di comuni drappi, utili all’uno tempo e all’altro. Né a te, o figliuolo d’Apollo, feci mai con tagliente ferro levare l’aurata barba sí come il sopraddetto fece, affermando quella mal convenirsi a figliuolo, il cui padre si vede ancor senza essa. Né a te, o santa Giunone, scopersi il santo tempio, sí come Quinto Fulvio fece, per ricoprirne alcun altro: per le quali cose, sí come sacrilego, io e ’l mio popolo meritiamo giusta distruzione, ma sempre voi e’ vostri templi furono da noi onorati. Dunque non consentite che la nostra potenza, da voi a’ nostri antecessori benignamente conceduta, crudelmente e senza cagione si distrugga da quel popolo, il quale con nuove armi alla nostra forza s’ingegna di contrastare. E se pur ci è alcuna cagione per la quale la vostra ira giustamente contro a noi si mova, la quale o io o ’l mio popolo abbia commessa contro [p. 22 modifica]alla vostra deitá, venga di grazia sopra me tutto il pondo.

Deh! non mi fate men degno di questo dono che voi faceste Camillo, il quale i romani molto per lui esaltati, per la sua orazione la quale esaudiste, mandarono quivi a poco tempo in esilio: avvegna che l’arsa Marmorina, e lo sparto sangue, e’ partiti spiriti de’ nostri uomini vi dovrebbono essere stati sofficienti a mitigarvi. Sia da voi conceduto adunque che io prima, percosso da Atropos, renda lo spirito agl’iddii infernali co’ precedenti morti insieme, che io sotto le mie braccia vegga il mio regno annullare».

Mentre che il re con lagrime e con sospiri faceva la detta orazione, volgendo alquanto i lagrimosi occhi verso quella parte nella quale il furioso toro era fuggito, il vide in uno vicino bosco, per difetto di sangue, caduto, e sopr’esso come folgore volando, disceso di cielo, il divino uccello, e sopr’esso toro per grande spazio essersi pasciuto, e appresso quindi levarsi e volare verso quella parte donde dovevano quel giorno prendere il cammino i suoi popoli. La qual cosa veduta, il re in se medesimo, preso il volo di quello uccello per buono augurio, assai piú d’allegrezza e di speranza si riempié, che non fece Paulo alla voce di Tarsia quando disse: ‛Persa è morto’, né Lucio Silla quando vide dallato del suo altare cadere il morto serpente ne’ campi di Nola. E mutato il lagrimoso aspetto in lieto, con alta voce incominciò a dire al suo popolo: «Rallegratevi e prendete debito conforto, figliuoli, però che Giove pietosamente ha mutato consiglio, e, fatto verso noi pietoso, gli è de’ nostri danni incresciuto, però che io ho veduto che il sacrificio da noi rifiutato e che dalle nostre mani fuggí, egli l’ha benignamente accettato: e ciò ci manifesta il suo santo uccello, il quale, veduto il toro giá con poca forza rimaso abbattuto nel vicino bosco, e sopr’esso per lungo spazio pasciutosi, levandosi, il suo volo prese verso i nostri avversarii, quasi mostrandoci che via noi abbiamo a fare. Onde par che Giove benignamente ricevuto l’abbia, poi che alle nostre schiere ha mandato si fatto duca. Or dunque cacciate da voi ogni dolore, e pieni d’allegrezza accendete i fuochi sopra i [p. 23 modifica]santi altari, e porgete agl’iddii divoti prieghi per la nostra vittoria, e poi senza alcuno indugio i nostri passi verso quella parte, onde volò il santo uccello, dirizziamo, perciò che giá si manifesta agli occhi miei la disiderata vendetta dovere pervenir a prosperevole fine».

Arsi i fatti fuochi, e dissoluti i nebulosi fumi avvolti ne’ sacri templi, le trombe sonarono, e i cavalli presti alle fiere battaglie, uditi i suoni, cominciarono a fremire; e il re, acceso di focoso disio per la speranza presa del detto augurio, comandò che le reali bandiere fossano spiegate a’ venti, e che tutti i suoi, abbandonandosi a’ fortunosi fati, verso Marmorina indirizzassero il loro cammino: al quale comandamento le bandiere spiegate e la via presa fu senza alcuna dimoranza. Ma il misero Lelio dell’ultimo giorno, a lui ruinosamente apparecchiato dalla fortuna, e a’ suoi compagni simigliantemente, non s’accorgeva, anzi con solleciti passi si studiava di pervenire a’ dolenti fati; e giá quattro volte cornuta ed altrettante tonda s’era mostrata la figliuola di Latona dopo la sua partita da Roma, la quale egli mai non dovea rivedere, e camminando s’aveva lasciate dietro le bianche spalle d’Appennino, affrettandosi di pervenire al santo tempio, il quale da’ suoi occhi non dovea essere veduto, né da alcuno altro de’ suoi compagni.

Entrava il sole nella rosata Aurora con lento passo, e’ torbidi nuvoli occupavano il suo viso, per la qual cosa la sua luce sí come usato era non porgeva chiara, ché forse a lui, che tutto vede, era manifesta la ferita del crudel giorno, al quale egli s’apparecchiava di dar lume: quando Lelio e la sua compagnia lieti a’ loro danni cavalcavano per una profonda valle, la quale piena di nebbia molto impediva le loro viste, tanto che appena l’uno vicino all’altro si poteva vedere. Era sopra la profonda valle una altissima montagna, tanto che pareva che trapassando i nuvoli con le stelle si congiungesse, la quale pensando di dover passare, giá per la sua ertezza cominciavano ad allentare i loro passi. Sopra la detta montagna l’avversario re, da loro non conosciuto, giá era pervenuto con la sua gente, e quella notte sopr’essa per piú [p. 24 modifica]sicurtá del suo esercito, senza discendere al piano, s’era attendato. Ma giá avendo il sole con gli acuti raggi cominciato a dissolvere l’oscure nebbie, il re, che sopra l’alta montagna dimorava, nella sua mente imaginando il cammino che col suo popolo far doveva, ficcando gli occhi tra la folta nebbia nel fondo dell’oscura valle, vide la divota gente cavalcare verso di lui; la quale veduta, incontanente dubitando, non altrimenti e’ s’arse che fa la piombosa pietra, la quale uscendo della risonante frombola vola, e volando imbianca per gli impeti che dinanzi trova alla sua foga; e con alta voce voltato a’ suoi cavalieri gridò: «Venite, franchi compagnoni e cari amici e fratelli, perciò che giá credo che i nostri nemici ci si manifestino». E poi alquanto racchetato in se medesimo, parlò cosi: «Signori, se gli occhi non mi mentono, a me par vedere, sí come mostrato v’ho, parte de’ nostri avversarii giá essere nella profonda valle appiè del monte, e venir verso noi, ed essi, sí come io credo, ancora di nostro movimento, né delle nostre armi prese, niente sanno, né noi ancora qui hanno potuto vedere per la folta nebbia, la quale ancora non è dissoluta. Però a me parrebbe che essi fossero da essere ovviati con aspro scontro senza piú dimorare, acciò che essi, non avvedendosi prima di noi che noi gli assalissimo, non potessero prendere rimedio a noi nocevole, né al loro scampo utile. Io sono certo che essi sono infino a questo loco venuti senza trovare alcuna resistenza, per la qual cosa io avviso che essi cavalcano senza alcuna paura dissolutamente; perché assalendoli subito, gli troveremo senza alcuno argomento, e di loro avremo o la morte o la vita, qual piú ne piacerá: onde io vi priego che senza alcuno dimoro vigorosamente siano da voi assaliti, cacciando da voi ogni tema. E giá vedeste voi, anzi che noi le nostre case abbandonassimo, che gl’iddii ne mostrarono segni di riconciliazione, e per piú certezza di questo ci dierono il santo uccello per vero duca, il quale voi vedete che ha i nostri passi indirizzati in quella parte, che noi per lo preterito tanto abbiamo disiato. Appresso a questo, voi sapete che questi vengono assetati del nostro sangue, e [p. 25 modifica]per voler nelle nostre interiora bagnare le loro spade, senza ragionevole cagione; e vengono per occupare le nostre case, e per mandar noi nelle strane parti del mondo in doloroso esilio. Adunque, sí per lo laudevole augurio, il quale prospero fine ci dimostrò, e sí per la ragione la qual perfettamente ne mostra il difendere noi medesimi e le nostre case assalite da nuovi popoli, ciascuno, sí come vigoroso cavaliere, debba le sue armi adoperare. Pensate che voi non siete cavalieri usati di perdere le cominciate battaglie, ma di ritenere continuamente per la vostra maravigliosa fortezza quello che acquistato avete in molte vittorie per adietro avute. Simigliantemente ancora vi deve porgere molto piú ardire veggendo me armato disiderare la vostra salute con la mia insieme, essendo oramai quasi negli anni della mia ultima etá, alla quale piú tosto riposo che affanno si converrebbe. Or poi che tante ragioni vi debbono muovere ad esser disiderosi della vittoria, movetevi in quello augurio che voi l’acquistiate». E, dette queste parole, comandò che le sue insegne scendessero il monte contro a coloro che ancora nella valle dimoravano. Allora i cavalieri gridando dierono segno di gran volontá di combattere, e le trombe sonarono e’ corni, e altri strumenti molti; e li cavalieri senza alcuno altro ordine si mostrarono cosí furiosi, come tal volta il fiero cane, tratto della catena, sentendo sonare le frondi dell’antico bosco, seguendo la preda corre senza alcun ritegno, discendendo l’alpestro monte.

Sí come gli impetuosi fiumi, i quali dall’alte montagne, turbati per la piovuta acqua, ruinosi impetuosamente caggiano senza ritegno, menando seco alcuna volta grandissime pietre, le quali fanno insieme non minore fracasso che l’acque; cosí giú per la straripevole montagna, senza tener via o sentiero diritto, si dirupava l’iniquo esercito, goloso dell’innocente sangue, con un romore e con una tempesta sí di suoni, di corni, di trombe e d’altri crudeli strumenti, e sí del forte strepito dell’armi medesime de’ cavalieri, che tutta la valle faceva risonare. Giulia, piena di varie sollecitudini, sentendo il romore in prima s’avvide dell’iniqua gente; la quale, vedendoli [p. 26 modifica]sí tempestosamente venire, divenne come la timida cerva dinanzi al leone diviene, e divenuta fredda sí come i bianchi marmi, a Lelio timorosamente s’accostò, e con rotta voce cominciò a dire: «O Lelio, ov’è fuggito il tuo lungo avvedimento? Or non vedi tu quella gente armata che sí furiosamente verso di noi discende dall’alto monte? Che gente può ella essere? Come non provvedi tu al necessario rimedio or se essi vengono per offenderei?». A questa voce alzò Lelio gli occhi, e guardossi davanti, e vide il maladetto popolo ancora assai lontano, ma non tanto che il fuggire avesse potuto sé e i suoi compagni trarre dalle mani degli avversarii; onde egli alquanto pavido nella mente, rivolto alla sua compagna disse: «Non dubitare, fatti sicura, ché questi noi non cercano», tenendo con forte viso nascosa la paura; e poi cominciò a pensare, tra sé dicendo: «Certo costoro scendono sí furiosi per prenderei al varco della montagna, e vogliono da noi l’una delle due cose: o essi vogliono farsi del nostro avere posseditori privandone noi, o essi vogliono, sí come ribelli della nostra legge, privarci di vita, essendo giá loro in alcuno atto manifesta la nostra condizione. E dire che di qua fuggendo volessimo scampare, questo è impossibile, perciò che i loro cavalli freschi e possenti assai tosto sopraggiungerebbero i nostri affannati; e volendo noi con l’arme resistere, siamo picciola quantitá a sí gran moltitudine. Dunque aspettare solamente la loro pietá e misericordia, fermandoci, è il meglio, acciò che fuggendo noi non incrudeliamo piú gli animi loro; la quale pietá se essi concederanno, avanzeremo con Dio il nostro cammino, e se no, nelle nostre braccia, sperando in Dio, rimanga l’ultima parte della nostra salute».

Giá tutti i compagni di Lelio e altri giovani molti, congiunti per lo loro scampo nella sua compagnia, disiderosi di pervenire a quel tempio medesimo dove costoro andavano, cominciarono tra loro a mormorare pèr la veduta gente; e giá quasi ciascuno dubitava di muoverne verso Lelio alcuna parola, vedendolo forse nel sopraddetto pensiero occupato, [p. 27 modifica]quando Lelio, sentito il loro mormorio e veduta la loro dubitanza, si voltò ad essi con pietoso aspetto, cosí parlando: Nobilissimi giovani e cari amici e compagni, che avete infino a questi luoghi seguiti i miei passi, faccendo me duce e principale capo di tutti voi, non per dovere, ma, essendone perfetto amore, mediante cagione, a’ miei orecchi sono pervenute le tacite parole, le quali tra voi della non conosciuta gente, che a’ nostri occhi giú per lo monte si manifesta, avete dette. Ond’io, essendo stato di voi ne’ prosperevoli passi lieto conducitore, ne’ dubbiosi non sosterrò, in quanto in piacere vi sia, essere voi per alcun altro condotti; ma, prendendo in questo caso luogo di franco e vero duce, prima il mio avviso vi narrerò, e poi i miei passi secondo il vostro consiglio proseguirò. Quando da prima agli occhi miei, per le parole di Giulia, queste genti che noi veggiamo corsero, incontanente, considerando il loco dove noi siamo, due pensieri nella mente mi vennero: l’uno de’ quali fu che costoro, bisognosi delle mondane ricchezze, veggendo il nostro arnese abbondante e forse avendone manifesto indizio, mossi si fossero e venissero per volere del tutto privarcene. La qual cosa se avviene che cosí sia, niuna resistenza si faccia loro a lasciarle prendere, ma liberamente di piano patto sia tutto l’oro donato, perciò che, lodando Colui che di questo e degli altri beni è donatore, le nostre case sono in Roma copiose di molto oro, e però a loro forse questo ancora fia molto e a noi poco sarebbe. L’altro pensiero fu questo, il quale molto piú che ’l primo mi spaventò, che io dubitai molto che costoro non recassero nelle loro mani la nostra morte, però che noi dimoriamo in quelle parti nelle quali ha piú perseguitori della nostra novella e santa legge, che quasi in niuna altra del mondo; e ora me ne accerta piú il vedere il modo per lo quale essi discendono a noi, ché voi vedete che essi vengono con grandissime bandiere spiegate e con terribile romore, il quale andare non suole esser de’ predoni. E però a quest’ultimo, piú che al primo pensando, e nella mia mente ogni via esaminata, niuna utile per noi ne trovo, perciò che, sí come voi vedete, il voler [p. 28 modifica]fuggire nulla sarebbe, se non accender gli animi loro a maggiore ira, e forse dare loro materia d’offenderci, dove essi non l’avessero; e poi, come che noi volessimo pur fuggire, manifesta cosa è che non ci è il dove, se non nelle loro braccia, perciò che da alte montagne d’ogni parte in questa valle ci veggiamo rinchiusi. E voler con le nostre armi resistere alla loro potenza, noi siamo picciolo popolo a rispetto di loro; e però a me pare che quivi siano da aspettare: e convocata la loro misericordia, se essi si muoveranno a pietá di noi, ringraziando Iddio, lo nostro cammino meneremo a perfezione, e se no, con le nostre braccia vigorosamente aiutandoci ci difenderemo, e vendicheremo le nostre morti, le quali Giove per lungo tempo cessi da noi».

Mentre Lelio le sue pietose parole porgeva a’ cari compagni, ciascuno, portando a se medesimo e a lui compassione, amaramente piangeva. Alcuni dicevano: «Oimè! vecchio padre, che vita sará la tua dopo la mia morte, se egli avviene che io muoia, il quale ora cresciuto doveva essere bastone che la tua vecchiezza sostenesse?». Altri piangevano i piccioli figliuoli rimasi in Roma con le giovani donne, ramaricandosi del loro infortunio; e altri i cari fratelli, e l’abbandonate ricchezze per seguir Lelio. E tutti generalmente piangevano la cara compagnia e amistá tra loro e Lelio sí dolcemente congiunta, e che in sí breve tempo mostrava di doversi cosí amaramente partire. Ma ciò non durò molto spazio per li conforti di Lelio, lo quale diceva loro: «O vigorosi compagni, dove sono fuggiti i vostri animi virili? Voi spandete per picciola paura amare lagrime, come se voi foste femine. Èvvi si tosto partito dalla memoria l’aspra morte che Catone sostenne in Utica con forte animo, volendo piú tosto morir libero che vivere servo de’ suoi nemici, dando insiememente esempio a’ suoi di sostenere ogni gravoso affanno per la cara libertá? Or che fareste voi se io facessi il simigliante? credo che voi vie piú lagrimereste. Cacciate queste lagrime da voi, e non dubitate de’ vecchi padri, né delle giovani donne, né de’ piccioli figliuoli, né ancora dell’abbandonate ricchezze, le quali voi [p. 29 modifica]avete abbandonate in servigio di Colui che ve le donò, perciò che essi tutti nacquero alla sua speranza e non alla vostra, ed egli tutti a buon fine gli recherá. E non è gran fatto se in servigio di cosí gran donatore si pone alcuna volta il mortal corpo». D’abbandonar le lagrime si deliberarono al consiglio di Lelio, rispondendogli che lui per duca e per signore continuamente avevano tenuto e tenevano, e che piacea loro per inanzi tenerlo, e che in questo accidente e in ogni altro essi ogni suo piacere erano disposti di mettere con lui insieme ad esecuzione, offerendosi di seguirlo infino alla morte. Allora Lelio di tanto onore reverentemente gli ringraziò e comandò che ciascuno prendesse le sue armi e apprestassesi di resistere a’ nemici, faccendo di loro tre schiere. E la prima, nella quale egli mise quelli giovani nelle cui forze piú si confidava, fece guidare ad un giovane romano, il quale si chiamava Sesto Fulvio, nobilissimo uomo e ardito. La seconda, nella quale erano quasi tutti quelli che a loro per cammino s’erano accostati per compagnia, fece menare ad un giovane della tua terra, o Stazio sommo poeta, nominato Artifilo, valoroso e possente molto. La terza, nella quale la maggior parte della sua poca gente riserbò, diede a conducere a Sulpizio Gaio, suo caro compagno e parente, sé di tutti faccendo capitano e corregitore; e poi che cosí gli ebbe ordinati, parlò cosí verso loro:

«Cari signori e compagni, sí com’io davanti vi ragionai, questi che noi veggiamo verso di noi venire con tanta furia, a noi della loro venuta la cagione è occulta. Ma tanto mi par bene ch’essi siano gente iniqua e ribelli alla nostra legge, presumendo ciò dal loco dove trovati gli abbiamo. Essendo tal gente, per niuna altra cagione si deve credere tanto furiosi venire a noi, se non per privarci di vita avanti che per noi alcuno scampo si possa prendere. Onde se questo avviene, che essi in noi le lor mani vogliano crudelmente distendere, voi non siete uomini i quali siate usi di contaminar la vostra fama eterna per viltá, ma continuamente nel preterito tempo voi e’ vostri predecessori avete poste l’anime e’ corpi per eternale [p. 30 modifica]onore. E che questo sia vero, l’inestinguibile memoria de’ nostri antichi il manifesta, la quale, ah!, quanto dovrebbe crescere il vostro vigore ogni ora che la gran forza d’Orazio Cocle vi torna a mente! Il quale, sí come voi sapete, al tempo che’ toscani entrarono in Roma con grandissime forze, giá essendo per prendere il ponte Sublicio e per passare nell’altra parte della cittá, andato sovr’esso, ritenne la loro potenza con aspri combattimenti infin che ’l forte ponte gli fu di dietro tagliato, e la cittá per quello tagliamento liberata. E similmente Marco Marcello, che assalí i Galli con minor popolo che voi non siete, e tanto oprò la sua forza, che avuta di loro vittoria e morto il loro re, sacrificò le sue armi a Giove Feretrio. E simigliantemente quel che fece Publio Cassio per non esser soggetto ad Aristonico. Oh, quanti e quali esempli de’ nostri antichi si potrebbero porre! E tutti non tanto per sé quanto per la repubblica sostennero gravosi affanni e pericoli. Or dunque noi, che qui per salute di noi medesimi e per l’onore di tutti siamo a sí stretto partito, che dobbiamo fare? Certo piú vigorosamente combattere, anzi che noi, che giá molti servi francammo, divegnamo servi de gli iniqui barbari e siamo da loro vilmente uccisi. Ma perciò che io vi conosco tutti vigorosi giovani e forti combattitori, porto nelle vostre destre mani grandissima speranza di vittoria, aiutandoci la fortuna, e in me molto me ne conforto. Ma se pure avvenisse che gli avversarii fati portassero invidia alle nostre forze, non vi lasciate almeno uccidere sí come fanno le timide pecorelle a’ fieri lupi senza alcuna difesa, ma fate che essi abbiano la vittoria piangendo. E nondimeno vi torni alla memoria che voi in questo loco contro a costoro siete in loco di campioni e forti difenditori della legge del figliuolo di Giove, il quale per trarre noi dell’empie mani di Pluto, nelle quali il nostro primo padre disubbidendo miseramente ci mise, sapete quanto obbrobriosa e crudel morte sostenne! Dunque non pare ingiusta cosa se noi pogniamo in esaltamento della sua legge e per salute di noi medesimi i nostri corpi, i quali s’avvien che muoiano, per la presente morte l’anime meriteranno [p. 31 modifica]perdono ed eterna fama ed esser loro rimesse le preterite offese., con ciò sia cosa che niuno viva senza peccare; e le nostre anime viveranno in eterno, e ancora le nostre ceneri saranno con divozione visitate, sí come noi visitavamo il santo tempio: al quale ancora io spero che lietamente e tosto perverremo. E perciò ciascuno si porti vigorosamente».

Giulia, la qual dolente ascoltava le parole del suo compagno, incominciò sì forte a dolersi, e a fare sì grande il pianto, che niuno, per durezza di core, vedendola, s’avrebbe potuto tenere di non fare il simigliante, e in cotal maniera parlò a Lelio: «Oimè! dolce signor mio, questo non è l’intendimento per lo quale noi abbandonammo le nostre case. Noi ci partimmo divotamente per pervenire al santo tempio del benedetto Iddio, posto in su gli stremi liti d’occidente: e tu ora pare che voglia con arme cominciare a muovere battaglie. Deh! ora pensa se a’ pellegrini sta bene cosí fatto mestiero? certo no. Deh! almeno perché ti affretti tu cosí di combattere? Che sai tu chi costoro si siano? Non credi tu che le diverse nazioni del mondo abbiano tra sé altra nimistà che quella dei romani? Io dubito forte, ed è da dubitare, che essi veggendo armati te e’ tuoi compagni, forse credono che voi siate quelli nemici che essi vanno cercando, è per questo avranno cagione di cominciar la forse non pensata battaglia, e avranno ragione. Lascia adunque governar questa volontà per mio consiglio, e pon giù le prese armi tu co’ tuoi compagni. E se tu disarmato temi le loro lance, credi tu che siano tanto crudeli, e sì vili, che andassero armati a ferire i disarmati? certo no. E tu simigliantemente per adietro co’ tuoi prieghi solevi attutare l’acerba volonta della giovinaglia romana, superba per troppo bene non conquistato da lei, e non ti fidi con le tue parole ammollare l’ira di costoro se sopra a te adirati venissero? Forse tu imagini di non essere ascoltato da loro: or credi tu che questi siano nati delle dure querce o dell’alpestre rocce, che essi non abbiano pietà, o che essi non ascoltino le tue parole? le quali sì tosto come udiranno piene di soavità, cosí daranno incontanente loco alla nostra via. Deh! non ti recare [p. 32 modifica]a volere la forza del tuo picciolo popolo sperimentare con sí grande esercito, ch’egli è fortuna e non ragione, quando da cosí fatte imprese si riesce a prosperevole fine. Non vedi tu che i tuoi compagni volentieri senza prendere armi si sarebbero stati, perché essi conoscono il pericolo, se a te non l’avessero vedute pigliare? Ma tu, prendendole, ne se’ stato loro cagione. E se tu pur dubiti della crudelta di coloro, molto meglio è fuggire mentre che noi possiamo, che voler combattere con loro. Vedi che le vicine montagne sono piene di folti boschi e di nascosi valloni, ne’ quali noi ci potremo assai bene nascondere, chi in una parte e chi in un’altra. Deh! non aspettiamo piú le punte di quelli ferri, i quali, veggendoli, giá mi porgono mortal paura. Andiamo, incominciamo la salutevole fuga, alla quale non nocerà la non dissoluta nebbia che fa questa valle oscura. Niuno nemico deve piú volere dal suo avversario, che vederlosi fuggire dinanzi, mostrando di temere la sua potenza. Però se elli vengono per offenderei, essi saranno contenti di vederci fuggire, e, ridendo tra loro, riterranno i correnti cavalli, faccendosi beffe di noi: le cui beffe non curiamo, solamente che noi scampiamo dalle loro mani. Poi se lecito non c’è d’andar piú avanti, torniamo prima a Roma che noi voler morire e non sapere come: perciò che ciascuno è per divino comandamento tenuto di servare la sua vita il piú che puote. E siati ancora manifesto che ogni cavaliere non è della volontà del signore, né cosí fiero. Questi, quando alquanto ci avranno cacciati, !asciandoci andare, volontieri si riposeranno, e trovando le nostre ricchezze, le quali sono assai, intenderanno a prenderle: e in quello spazio, concedendolo Iddio, in alcuna parte ci potremo salvare. Deh! fa, Lelio, che in questa parte sia il mio consiglio udito e osservato da te, e non guardare che feminile sia, perciò che tal volta le femine li porgono migliori che quelli che subitamente sono presi dall’uomo. Sia questa la prima e l’ultima grazia a me conceduta in questo viaggio, nel quale alcuna altra dimandata non t’ho». Queste parole e molte altre, piangendo, Giulia fortemente diceva, abbracciando [p. 33 modifica]sovente Lelio e rompendogli le parole in bocca, alle quali egli, ascoltato un pezzo, rispose cosí:

«Giulia, queste non sono le parole le quali in Roma nelle nostre case mi dicevi, quando di grazia mi chiedesti di voler venire meco nel presente viaggio. Com’è il tuo virile ardire cosí tosto fuggito? Tu dicevi che piú vigorosamente sosterresti ne’ bisogni l’arme e gli affanni che la vigorosa moglie di Mitridate; e io aveva intendimento d’aggiungerti al numero de’ miei cavalieri con l’armi indosso, se non fosse il creato frutto che tu nascondi in te. E tu ora solamente per la veduta d’uomini de’ quali noi dubitiamo, e ancora di loro condizione non siamo certi, né sappiamo se sono amici o nemici, vuogli non sapendo per che, pigliare la fuga? In questo atto non risomigli tu a Cesare, il tuo antico avolo, il quale ardire e prodezza ebbe piú che alcuno altro romano avesse mai. Ora, cara compagna, non dubitare, e renditi sicura che niuno utile consiglio per noi è che nelle nostre menti non sia molte volte stato ricercato ed esaminato, e niuno piú utile che quello ch’è preso troviamo per la nostra salute. E credi che Iddio non vuole che i suoi regni vilmente operando s’acquistino, ma virtuosamente affannando: e però taci e nelle nostre virtú come noi medesimi ti confida».

Udendo Giulia Lelio esser pur fermo nel suo proposito, piú amaramente piangendo gli si gittò al collo, dicendo: «Poi che al mio consiglio non ti vuoi attenere, né me far lieta della dimandata grazia, fammene un’altra, la quale l’ultima sia a me di tutte quelle che fatte m’hai. Fa almeno che quando le tue schiere affrontate saranno co’ non conosciuti nemici, e che quando tu vedrai quel crudele cavaliere, qual che egli si sia, che verso te dirizzeni l’acuta lancia, io misera, come tuo scudo, riceva il primo colpo, acciò che agli occhi miei non si manifesti poi alcuno che disideri d’offenderti. Questa mi fia grandissima grazia, perciò che un solo colpo terminerá infiniti dolori. O me sconsolata! se egli avvenisse che io senza te mi trovassi viva, qual dolore, quale angoscia mai fu per alcuna misera sentita sí noiosa, che alla mia si potesse [p. 34 modifica]assimigliare? E quel che piú mi recherebbe pena sarebbe il voler morire e non potere. Ma certo io pur potrei, però che se questo avvenisse, io senza alcuno indugio, in quella maniera che Tisbe segui il suo misero Piramo, cosí la mia anima, cacciata dal mio corpo con acuto coltello, seguirebbe la tua ovunque ella andasse. Ma concedimi questa ultima grazia, acciò che tu privi di molta tristizia la poca vita corporale che m’è serbata: e io, la quale spero d’andare ne’ santi regni di Giove, ti farò fare presto degno loco alla tua virtú». Mentre costei cosí, pietosamente piangendo, parlava, avendo a Lelio quasi tutto bagnato il viso delle sue lagrime, il suo cuore per grave dolore temendo di morire, chiamate a sé tutte l’esteriori forze, lasciò costei in braccio a Lelio semiviva, quasi tutta fredda. E Lelio che la voleva confortare, veggendo questo, sceso del suo cavallo, e presala nelle sue braccia, la portò in un campo quivi vicino, nel quale fatto distendere alcun tappeto, lei a giacere vi pose suso, e raccomandandola ad alquante damigelle di lei, prestamente risalito a cavallo, tornò a’ suoi compagni. Oimè, Lelio, dove ora lasci tu la tua cara Giulia, la quale tu mai non devi rivedere? Deh! quanto Amore si portò villanamente tra voi, avendovi tenuti insieme con la sua virtú tanto tempo caramente congiunti, e ora nell’ultimo partimento non consentí che voi v’aveste insieme baciati, o almeno salutati. Tu vai, o Lelio, al tuo pericolo correndo, ed ella semiviva abbandoni ne’ suoi danni. Oh! quanto le fia gravoso piú il ritornare a sé degli spiriti, i quali vagabondi par che vadano per lo vicino aere, che se mai non ritornassero, perciò che con minor doglia le parrebbe d’essere passata. A’ quali compagni ritornato, Lelio li trovò sí animosi della battaglia per le predette parole, che, poco piú che fosse dimorato, gli avrebbe trovati mossi per andar contra i loro nemici. Ma poi che egli con alcuna dolce paroletta gli ebbe alquanto raffrenati, comandò a un santo uomo, il quale aveva menato con seco per tal volta sacrificare a Giove, che egli prestamente gli rendesse degni sacrificii; e questo fatto, davanti alle sue schiere, sí alto che tutti potevano vedere, voltato a’ [p. 35 modifica]suoi compagni, gli pregò che divotamente pregassero Giove per la loro salute. E cosí senza discender de’ loro cavalli, in atto reverente tutti divotamente cominciarono a pregare; e Lelio, davanti a tutti, disse cosí: «O sommo Giove, grazioso Signore, per la cui virtú con perpetua ragione si governa l’universo, se tu per alcuno priego ti pieghi, riguarda a noi, e nel presente bisogno porgine il tuo aiuto. Noi solamente in te speriamo, i quali disiderosi dimoriamo nel santo viaggio del tuo caro fratello. E come tu, cui niuna cosa si nasconde, vedi, noi ci apparecchiamo di muovere nuove battaglie a strani popoli, e non per ampliare le nostre ricchezze o il mondano onore, ma solamente perché la tua vera legge per negligenza di noi non s’occulti sotto la falsa volontá di questa gente, la quale veramente credo che del tutto le sia ribelle. Adunque prima il tuo aiuto ci porgi, senza il quale indarno s’affatica ciascuno operante, e poi alcun manifesto segno dalla tua somma sedia ne dimostra, il quale le nostre speranze conforti e i nostri cuori sempre ne’ tuoi servigi. E in questo ne dimostra il tuo piacere, acciò che noi, credendoci bene oprare, non bagnassimo le nostre mani in innocente sangue, o, senza dovere, nel nocente». Appena ebbe finito Lelio la sua orazione, che sopra lui e i suoi cavalieri apparve una nuvoletta tanto lucente che appena potevano con li loro occhi sostenere tanta luce; della quale una voce uscí, e disse: «Sicuramente e senza dubbio combattete, che io sarò sempre appresso di voi aiutandovi a vendicar le vostre morti; e senza alcuna ammirazione le presenti parole ascoltate, che tal volta convien che ’l sangue d’un uomo giusto per salvamento di tutto un popolo si spanda. Voi sarete oggi tutti meco nel vero tempio di Colui che voi andate a vedere, e quivi le corone apparecchiate alla vostra vittoria vi donerò». E questo detto, come subita venne, cosí subitamente sparve. Allora Lelio e i suoi lieti si dirizzarono, ringraziando la divina potenza, e, riprese le loro armi, s’apparecchiarono di resistere a’ lor nemici, i quali con grandissimo romore giá s’appressavano a loro. [p. 36 modifica]

Non credo che ancora i giovani compagni di Lelio avessero ripreso nelle destre mani le loro lance, ripieni per le udite parole di vigoroso ardire e disideranti di combattere con la non conosciuta gente, quando a loro il nimico esercito si scontrò molto vicino, tanto che i dardi di ciascuna parte potevano, essendo gittati, ferire i loro avversarii. Gli acuti raggi del sole, il quale aveva giá dissolute le noiose nebbie, gli lasciavano insieme apertamente vedere, e quelli, che fidandosi della loro moltitudine erano discesi del monte senza alcuno ordine, credendo i loro avversarii trovare improvvisi, vedendogli armati e con aguzzata schiera, superbi negli aspetti, aspettarli fermati, dubitarono di correre alla mortale battaglia cosí subiti. I divoti giovani stavano feroci avendo giá dannata la loro vita, sicuri della battaglia, e impalmatasi la morte anzi che cominciare vilissima fuga: e niuno romore avverso rimosse le menti apparecchiate a grandi cose. Lelio allora davanti a tutti i suoi, con dovuto ordine, a picciolo passo mosse la prima schiera, la quale Sesto Fulvio guidava, e con aperto segno manifestò all’altre che senza bisogno non li seguissero. E giá innumerabile quantitá di saette e d’appuntati dardi era sopra i romani giovani discesa, gittata dagli archi di Partia e dall’ arabe braccia, quando Lelio, nell’animo acceso di maravigliosa virtú, mosso il possente cavallo, dirizzò il chiaro ferro della sua lancia verso un grandissimo cavaliere, il quale per aspetto pareva guidatore e maestro di tutti gli altri, al quale niuna arme fè difesa, ma morto cadde del gran destriero. Questi portò in prima novelle, dell’iniqua operazione commessa da Plutone, a’ fiumi di Stige; questi in prima bagnò del suo sangue il mal cercato piano e li romani ferri. Sesto, che appresso Lelio correndo cavalcava, ferendone uno altro, diede compagnia alla misera anima. E de’ valorosi giovani seguenti i loro capitani, niun ve n’ebbe che men buono principio facesse che Lelio, ma tutti valorosamente combattendo, abbattuti i loro scontri, cavalcarono avanti. Essi aveano la maggior parte di loro, per difetto delle rotte lance, tratte fuori le forbite spade, le quali percosse da’ chiari raggi del sole [p. 37 modifica]riflettendo minacciavano i sopravvegnenti nemici. Niuno risparmiava la volonterosa forza, ma tutti senza alcuna paura combattevano con la vile moltitudine. Lelio e Sesto, i quali avanti procedevano, combattevano virilmente con due grandissimi barbari, i quali forti e resistenti trovarono. E mentre l’aspra pugna durava, la moltitudine dell’iniqua gente abbondante premeva tanto i romani, che quasi costretti da viva forza oltre al loro volere rinculavano. Lelio, il quale aveva giá abbattuto il suo avversario, rivolto verso i suoi, li vide alquanto tirati indietro; allora volta la testa del suo cavallo, con ritondo corso gli circuí dicendo: «L’ora della vostra virtú disiderata è presente: spendete le vostre forze. Alla nostra salute non manca altro che l’operar de’ ferri aiutati dalle nostre braccia. Qualunque uomo disidera di riveder l’abbandonata patria, i cari padri, i figliuoli e le mogli, e’ lasciati amici, con la spada gli dimandi: Iddio ha poste tutte queste cose nel mezzo della battaglia. La migliore cagione e che ci porge speranza di vittoria, è il valore di noi pochi combattitori, perciò che la grande quantitá de’ nemici impedirli loro medesimi ristretti nel picciolo campo. Imaginate che qui davanti a voi dimorino i vostri padri, e le vostre madri, e’ vostri figliuoli piccolini, e in ginocchioni lagrimando preghino che voi adoperiate sí l’arme, che voi vi rendiate a loro medesimi vincitori; sí che poi narrando loro i corsi pericoli, paurosi e lieti gli facciate in una medesima ora««. Le parole di Lelio, parlante cose pietose, infiammarono i non freddi petti de’ romani giovani, i quali sospinsero avanti la sostenuta battaglia, uccidendo non picciola quantitá della canina gente. Scurmenide, potentissimo barbaro, gía riguardando la gente del suo signore, per picciola quantitá di combattitori invilita, voltarsi verso le sue insegne: e come stimolo de’ suoi e rabbia dell’empio popolo, per tema che ’l cominciato male non perisca, da alcuna parte si parò dinanzi a’ paurosi cavalieri, e mirando verso loro conobbe quali coltelli erano stati poco adoperati, e quali mani tremavano premendo la spada, e chi aveva le lance lente e chi le dispiegava, e chi combatteva bene e chi no; e questo veduto, parlò cosi: «Ah! [p. 38 modifica]vilissimo popolazzo, ove torni tu? Con quale speranza di guiderdone rivolgi i tuoi passi verso le riguardate bandiere? Certo la mia spada taglierá qualunque uomo arditamente non combatterá co’ nemici». Le spente fiamme de’ barbarici cuori alquanto per le parole di costui si ravvivarono, onde essi rivoltarono i ferocissimi visi verso il poco numero dei valenti romani. Scurmenide accendeva i cuori con le sue voci, e dava i ferri alle mani di coloro che gli aveano perduti, e gridava che i contrarii senza alcuna pietá fossero uccisi. Egli commoveva e faceva andare innanzi i suoi, e coloro che si cessavano sollecitava con la battitura della rivolta asta, e si dilettava di veder bagnare i freddi ferri nell’innocente sangue. Grandissima oscuritá di mali vi nasceva e tagliamenti e pianti, a similitudine di squarciata nube quando Giove gitta le sue folgori. L’armi sonavano per lo peso de’ cadenti colpi, le spade erano rotte dalle spade. Sesto co’ suoi non poteva piú sostenere, perciò che la picciola quantitá era ridotta a minor numero d’uomini. Lelio, che i casi della battaglia tutti provvide con sollecita cura, con altissime voci e con manifesti atti provocò la seconda schiera alla battaglia. Artifilo, che lungo spazio avea sostenuto il disio dell’azzuffarsi, mové sé e’ suoi, i quali con dovuto ordine e volenterosi sottentrarono a’ gravi pesi del combattere. E nel primo scontro s’indirizzò Artifilo verso il crudele Scurmenide, e mettendo l’acuta lancia nelle sue interiora, sopra il polveroso campo l’abbatté morto. Molti n’uccisero nella loro venuta i nuovi schierati condotti da Artifilo, ma di loro furono simigliantemente molti morti. Artifilo, perduta la lancia, portava nelle sue mani una tagliente scure, e sostenendo il sinistro corno della battaglia, andava uccidendo tutti coloro che davanti gli si paravano. E Lelio e Sesto nel destro corno della battaglia combattevano. Un ardito arabo, il quale Meneab si chiamava, veduto il crudo scempio che Artifilo faceva del barbarico popolo con la nuova arma, temendo i colpi suoi, prese un arco, e di lontano l’avvisò sotto il braccio nell’alzare ch’egli facea della scure, e quivi feritolo con una velenosa saetta credette averlo morto. [p. 39 modifica]Ma Artifilo, sentito il colpo, quasi come se niuna doglia sentita avesse, con la propria mano trasse la venenata saetta dalle sue carni fuori. E ripresa la scure e dirizzata la testa del suo cavallo verso colui che giá s’era apparecchiato di gittar l’altra, sopraggiuntolo, gli diè sí gran colpo sopra la testa che in due parti gliela divise. Quivi fu egli da molti de’ nemici intorniato, e il possente cavallo gli fu morto sotto: sopra il quale, poi che morto cadde, dritto si levò difendendosi vigorosamente. La furiosa gente gli si premeva tutta adosso, ed egli uccideva qualunque nemico gli s’appressava. E giá n’avea tanti uccisi dintorno a sé, che, quanto la sua scure era lunga, per tanto spazio dattorno a sé aveva co’ corpi morti agguagliata l’altezza del suo cavallo; e il taglio della sua arme era perduto, ma in loco di tagliare, rompeva e ammaccava le dure ossa degli aspri combattitori. Infinite saette e lance senza numero ferivano sopra Artifilo, del quale il forte elmo era in molti pezzi diviso. E giá era piú carico di saette, fitte per lo duro e forte dosso, che delle sue armi. Niuno era che a lui s’ardisse d’appressare. Ma egli, sopra i corpi morti andando, s’appressava a’ suoi nemici uccidendoli, e difendendo sé e chiamando i cari compagni che lo soccorressero. Veggendo questo, Tarpelio, nipote del crudele re, trattosi avanti tra’ suoi cavalieri, lui ferí con una grossa lancia nel petto, ed egli, giá debile per lo mancato sangue, cadde in terra, lá dove da’ compagni di Tarpelio fu morto senza alcuna dimora. Lelio, che aveva gli occhi volti inverso quella parte, e molto si maravigliava della gran virtú d’Artifilo, quando vide questo non poté ritenere le lagrime, ma sotto l’elmo chetamente per pietá bagnò il suo viso; e abbandonato Sesto, corse in quella parte ove ancora alquanti de’ compagni d’Artifilo rimasi vivi combattevano vigorosamente, ingegnandosi di vendicare la morte del loro compagno e capitano. E quivi con la sua forza lungamente sostenne i suoi pochi compagni. Ma poi che egli vide Sesto, rimaso quasi solo, in molte parti del corpo ferito, combattere ed essere male accompagnato, tirato indietro per convenevole modo, mosse la terza schiera di Sulpizio Gaio, loro ultimo soc[p. 40 modifica]-corso; al quale Sesto e quelli che erano nella battaglia pochi rimasi delle due prime schiere, tutti s’accostarono, e ricominciarono sí forte la sventurata zuffa, che alcuna volta prima non v’era stata tale. E con ciò fosse cosa che i resistenti fossero molti, alla loro moltitudine il picciol loco noceva, perciò che l’uno impediva la spada dell’altro per istrettezza: onde Sesto e Sulpizio, li quali avanti agli altri vigorosamente combattevano co’ pochi loro cavalieri per forza uccidendogli, gli facevano rinculare e fuggire ne’ campi ancora non bagnati d’alcun sangue. Il re, che della montagna era disceso con fresca schiera, vedendo questo, alquanto raffreddò l’ardente disio, e dubitando mosse i suoi cavalieri, e li terribili suoni de’ battagliereschi strumenti fecero di nuovo tremare i secchi campi. E tanta polvere coperse l’aere con la sua nebbia per la furia de’ correnti cavalli, quanta ne manda il vento di Trazia nella soluta terra. E poi che la superba e nova compagnia de’ cavalieri sopravvenne adosso agli stanchi combattitori, la dubbiosa vittoria manifestò il suo posseditore, perciò che non fu lecito a’ cavalieri di Lelio d’andare adosso a’ nemici, si furono subitamente intorniati di lunge e da presso con le piegate e con le diritte lance. La piova delle saette mandate dagli affricani bracci, e le gittate lance avevano coperto la luce alla picciola schiera de’ romani, i quali s’erano in picciola ritondita raccolti, tanto che per le sopravvute saette, senza potere fare alcuna difesa, si morivano e rimanevano ritti e’ loro corpi sostenuti dagli stretti compagni. Sulpizio, il quale non aveva ancora le sue forze provate, fu il primo che partito dalla ritonda schiera uscí correndo forte verso il re, il quale s’apparecchiava d’affrettare la loro morte, e ferillo sí vigorosamente sopra l’elmo che il re cadde a terra del gran cavallo quasi stordito, ma per lo buon soccorso de’ suoi tosto fu rilevato. Lelio e Sesto ricominciarono la battaglia, faccendosi fare con le loro spade amplissimo loco. Ma Sesto fortunosamente correndo tra’ nemici fu intorniato da loro, e mortogli il cavallo sotto, e caduto in mezzo del campo, anzi che egli debile rilevar si potesse, fu miseramente ucciso. Lelio, il quale la sua morte vide, pieno di grave dolore [p. 41 modifica]conobbe bene il piacer di Dio; e ricordandosi dell’annunzio fatto loro, che tal volta conveniva che uno morisse per salvamento di tutto il popolo, disse cosí: «O sommo Giove, e tu beato Iddio, il cui tempio visitar credevamo, poi che a voi è piaciuto che i nostri passi piú avanti che questo luogo non si distendano, io non intendo di volere, co’ pochi compagni i quali rimasi mi sono, per fuga abbandonar l’anime di quelli che avanti agli occhi miei giacciono morti. Io vi priego che le loro anime riceviate e la mia, in luogo di degno sacrificio, se vostro piacere è». E dette queste parole, corse sopra un cavaliere, il quale voleva spogliare le pertugiate armature a Sesto, e ferillo sí forte sopra il sinistro omero con la sua spada, che gli mandò il sinistro braccio con tutto lo scudo a terra, e lo fece cader morto sopra Sesto. Egli cominciò a far sí maravigliose cose, che nullo ve n’aveva che non se ne maravigliasse. E Sulpizio non si portava male. E i pochi compagni cominciarono piú aspramente a mostrare le loro forze che non avevano fatto per adietro, ma poco poterono durare. Il re, che d’ira ardeva tutto dentro, veggendo Lelio sí maravigliosamente combattere, e aver giá perdute per li molti colpi la maggior parte delle sue armi, quanto poté gli si fece vicino, e gittatagli una lancia il ferí nella gola, e l’abbatté morto a terra dal debile cavallo. Sulpizio, veggendo questo, corse con la sua spada in mano per fedire il re e per vendicar la crudele morte del suo amico, ma un cavaliere, il quale si chiamava Favenzio, si parò dinanzi al colpo, il quale, disceso sopra il chiaro cappello d’acciaio tagliandolo, il fendé quasi infine a’ denti; ma volendo ritrarre a sé la spada per ricoverare il secondo colpo, non la poté riavere. Onde egli, assalito di dietro da’ nemici, fu crudelmente ucciso. Nel campo non era piú alcuno rimase de’ miseri compagni, anzi senza altro combattimento rimase il re Felice vittorioso nel misero campo, faccende cercare se la misera fortuna n’avesse alcuno riposto con cheto nascondimento tra’ suoi medesimi. Ma poi che alcun non ne fu vivo trovato, egli comandò che il suo campo fosse quivi fermato quella notte, che al nuovo giorno poi procederebbero. [p. 42 modifica]

Veggendo il re che i fortunosi casi avevano conceduta la vittoria alle sue armi, in se medesimo molto si rallegrò. Poi andando verso le tese trabacche e guardando con torto occhio i sanguinosi campi, vide grandissima quantitá de’ suoi cavalieri giacer morti dintorno a pochi romani. E ben che l’allegrezza della dolente vittoria gli fosse al principio molta, certo, vedendo questo, ella si cambiò in amare lagrime, imaginando l’aspetto de’ suoi cavalieri, i quali tutti sanguinosi giacevano morti al campo, e udendo le dolenti voci e ’l triste pianto che i suoi medesimi feriti facevano per lo campo. Egli diede a’ suoi cavalieri libero arbitrio che le ricchezze rimase nel misero campo fossero da loro rubate, e che ciò che ciascun prendesse fosse suo, la qual cosa in brieve spazio fu fatta. Essi disarmarono tutti i romani con preste mani, e non ne trovarono alcuno che intorno a sé non avesse grandissima quantitá di nemici morti, e che non fosse passato da cento punte. E i miseri cavalieri, che questo andavano faccendo, avevano perduta la conoscenza de’ loro padri, fratelli e compagni che morti giacevano, per la polvere mescolata col sangue sopra i loro visi; ma poi che essi, nettandoli co’ propri panni per riconoscerli, ve n’ebbero ritrovati molti, e tutti i piú valorosi, il pianto e il romore cominciò si grande, che il re si credette da capo essere assalito, e con fatica racchetò i loro pianti, ricogliendoli dentro ne’ chiusi campi.

O misera fortuna, quanto sono i tuoi movimenti varii e fallaci nelle mondane cose! O v’è ora il grande onore che tu concedesti a Lelio quando prescritto fu all’ordine militare? Ove sono i molti tesori che tu con ampia mano gli avevi dati? Ove i molti amici? O ve la gran famiglia? Tu gli hai con subito giramento tolte tutte queste cose, e il suo corpo senza sepoltura morto giace ne gli strani campi. Almeno gli avestú concedute le romane lagrime, e che le tremanti dita del vecchio padre gli avessero chiusi i morienti occhi, e che l’ultimo onor della sepoltura gli si avesse potuto fare! Aveva giá, nel brieve giorno, Pean, che nell’ultima parte della guizzante coda di Amaltea, nutrice dell’alto Giove, [p. 43 modifica]dimorava, trapassato il meridiano cerchio, e con piú studioso passo cercava l’onde d’Esperia, quando Giulia misera dintorno a sé, ritornate le forze nel palido corpo, sentí piangere le dolenti compagne, che giá i loro danni avevano veduti; alle cui voci subitamente levatasi, disse: «O me misera, qual è la cagione del vostro pianto?» E riguardandosi dattorno non vide il caro marito, nelle cui braccia aveva perdute le forze degli esteriori spiriti. Allora, non potendo tenere le triste lagrime, disse: «Misera me! or dov’è fuggito il mio Lelio? Ecco se la fortuna ha ancora concedute l’insegne al mio marito contro a’ non conosciuti nemici!». E dicendo queste parole, quasi uscita di sé si dirizzò, e i miseri fati le volsero gli occhi verso quella parte, che le doveva mostrare il suo dolor manifestamente; e verso quella mirando, sentí lo spiacevole romore degli spogliatori, e vide il giá secco campo essere di caldo sangue tutto bagnato, e pieno della nemica gente. Allora il dubitante core ii quello che avvenuto era, manifestamente conobbe i suoi grandi danni. Ella non fu dalla feminile forza delle sue compagne potuta ritenere, che non andasse tra’ morti corpi senza alcuna paura; ma come persona uscita del natural sentimento, messesi le mani ne’ biondi capelli, gli cominciò con isconcio tirare a tor dell’usato ordine. I vestimenti squarciati mostravano le colorite membra, che in prima soleano nascondere. E bagnando delle sue lagrime il bianco petto, sfrenatamente sicura contro i nemici ferri, incominciò a cercare tra’ morti il corpo del suo caro marito, dicendo alle sue compagne: «Lasciatemi andare, e’ non è convenevole che cosí valoroso uomo rimanga ne’ campi lontani dalla sua cittá, senza essere lagrimato e pianto. Poi che la fortuna gli ha negate le lagrime del suo padre e de’ suoi parenti e del romano popolo, non gli vogliate anche torre queste della misera moglie». E andando ella per lo campo piangendo e sprezzando le sue bellezze, molti corpi morti con le proprie mani rivolgeva, per ritrovare il suo misero marito, ma i sanguinosi visi nascondevano la manifesta sembianza all’intelletto. E poi che ella n’ebbe molti rivoltati, riconosciuto alle chiare armature il suo [p. 44 modifica]Lelio, il quale di molti morti nemici morto attorniato giaceva, quivi sopr’esso semiviva piangendo cadde; e dopo picciolo spazio drizzatasi, piangendo amaramente si cominciò a battere il chiaro viso con le sanguinose mani e a graffiarsi le tenere gote. E avevasi giá si concia, che tra il vivo e ’l morto sangue che sopra il viso le stava, non Giulia, ma piú tosto uno de’ brutti corpi morti nel campo pareva. Ella non si curava di bagnare il suo viso nell’ampie piaghe di Lelio, anzi l’aveva giá quasi tutte piene d’amare lagime. Ella spesse volte il baciava e abbracciava strettamente, e nell’amaro pianto, riguardandolo, diceva cosí: «Oimè! Lelio, dove m’hai tu abbandonata? ove m’hai tu lasciata tra gente barbarica diversa da’ nostri costumi, de’ quali io alcuno non conosco? Almeno mi facesse Giove tanto di grazia, che la loro crudeltá fosse con le loro mani adoprata in me, sí come essi l’operarono in te; ma il feminile aspetto porta pietá in quelli petti ov’ella non fu mai. Almeno sarei io piú contenta che la mia anima seguisse la tua ovunque ella andasse, che rimaner viva nella mortale vita dopo la tua morte. Deh! perché non fu lecito al tuo virile animo di credere al feminile consiglio? Certo tu saresti ancora in vita, e forse per lungo spazio saremmo insieme vivuti lieti. Dove fuggí la tua pietá, quando tu in dubbio di morte nelle feminili braccia mi lasciasti di lungi dalle tue schiere? Come non aspettasti tu che io almeno t’avessi veduto prima che tu fossi entrato nell’amara battaglia, e che io con le proprie mani t’avessi allacciato l’elmo, il quale mai per mia volontá non sarebbe stato legato, perciò che io conosceva sola la fuga essere rimedio alla nostra salute? O me dolente, quant’è sconvenevole cosa volere adempiere l’uomo i suoi desiderii contra il piacer di Giove! Noi desiderammo miseramente i nostri danni in quell’ora che noi dimandammo di aver figliuoli, i quali se convenevole fosse suto che noi dovessimo avere, quella allegrezza Giove senza alcun voto ci avrebbe conceduta. O iniquo pensiero, o sconvenevole volontá, recate la morte a me, che non l’ho meno meritata che costui; o almeno, o dolorosa fortuna, mi fosse stato lecito di pararmi dinanzi a’ crudeli colpi, i quali [p. 45 modifica]costui innocente sostenne, sí come io aveva di grazia dimandato! Omai non è al mio dolore piú rimedio se non tu, morte! O morte, io come misera ti priego che tu non mi risparmi, ma che tu venga a me senza alcuno indugio. Tu non devi mai piú esser crudele, e massimamente a’ prieghi delle giovani donne, in tal luogo se’ stata! Deh! piacciati prima di farmi fare compagnia ne’ miseri campi al mio marito, che lasciarmi nel mondo esempio di dolore a quelli che vivono. Uccidimi, non indugiar piú! O me dolente! come ho io malamente seguito con effetto il perfetto amore della mia antica avola Giulia, la quale, poi che vide i drappi del suo Pompeo tinti del bestiale sangue, temendo non fosse stato offeso, costrinse l’anima a partirsi dal misero corpo subitamente, rendendola a’ sommi iddii. Oh! quanto le fu prosperevole il morire, perciò che morendo gli occhi suoi non videro quella cosa che per dolore condotta l’avrebbe a maggior pena e dopo a morte, ma morendo vinse il dolore. E io, misera!, davanti agli occhi miei veggo il mio dolore, e non mi è lecito di morire, né posso cacciar da me la misera anima, la quale per paura sento che cerca l’ultime parti del cuore, fuggendosi dalla mia crudeltá. Oimè, morte, io, t’addomando con graziosa voce, e non ti posso avere! Certo la tua signoria è contraria del tutto agli atti umani, i quali i dispregiatori delle loro potenze s’ingegnano di sottomettersi, risparmiando i fedeli: e tu coloro che piú ti temono crudelmente assalisci, dispregiando gli schernitori della tua potenza lungamente, e di questi sempre piú tardi che degli altri ti vendichi. Oh, quanto misero è colui, che cosí comunal cosa, come tu se’, gli manca al suo bisogno! Ella, piangendo, piú volte con acuti ferri caduti per lo campo si volle ferire il tenero petto, ma, impedita dalle compagne, non potea. Poi si voltava agli aspri rubatori e diceva: «Deh! crudeli cavalieri, i quali senza alcuna pietá metteste l’acute lance per l’innocente corpo, ammendate il vostro fallo divenendo pietosi: deh! uccidete me, poi che voi avete morto colui che la maggior parte di me in sé portava, e fate che io sia del numero degli uccisi. Questa pietá sola usando vi [p. 46 modifica]fará meritar perdono di ciò che voi avete oggi non giustamente operato. E dette queste parole, tornava a baciare il sanguinoso viso; e di questo non si poteva veder sazia, anzi l’aveva giá tutto con le lagrime lavato, e piangendo forte sopr’esso si dimorava dolente.

Ma poi che il sole nascose i suoi raggi nell’oscure tenebre, e le stelle cominciarono a mostrar la loro luce, il campo si cominciò con taciturnitá a riposare, sí per l’affanno ricevuto il preterito giorno che richiedeva a gli affannati membri riposo, e sí per l’allegrezza della vittoria che molte menti aveva nel vino sepellite. Sol l’angoscioso pianto di Giulia e delle sue compagne faceva risonare la trista valle, e questo risonava negli orecchi del vittorioso re. Ed egli, che ne’ tesi padiglioni si riposava, udendo quelle voci, chiamò un nobile cavaliere, il quale s’appellava Ascalione, e disse: «Or di cui sono le misere voci che io odo, sí che non lasciano partire della nostra mente in modo alcuno la crudele uccisione fatta nel passato giorno?». «Sire» disse Ascalione, «io imagino che sia alcuna donna, la quale forse era moglie d’alcuno del morto popolo, e cosí mi par d’avere inteso da’ compagni, e similmente la sua favella, la quale io intendo bene, il manifesta». Allora gli comandò il re che andasse ad essa, e comandassele ch’ella tacesse, acciò che ’l suo pianto non aggiungesse piú cagione al dolore del preterito danno. Mossesi Ascalione con alquanti compagni, e per la scura notte con picciol lume, per lo sanguinoso campo scalpitando i morti visi, andò in quella parte dov’egli sentí le dolenti voci, e pervenne a Giulia; alla quale, come Ascalione la vide, imaginando le nascose bellezze sotto il morto sangue del suo viso, mosso dentro a pietá, quasi lagrimando disse: «O giovane donna, il cui dolore invita gli occhi miei, veggendoti, a lagrimare, io ti priego, per quella nobiltá che ’l tuo aspetto mi rappresenta, che tu ti conforti e ponga fine alle tue lagrime. Certo io non so qual sia la cagione della tua doglia, ma credo che sia grande; e chente ch’ella si sia, non credo che per lo tuo pianto si possa ammendare, ma piú tosto piangendo aumentare la potresti. E [p. 47 modifica]noi medesimi, i quali abbiamo ricevuto danno, se volessimo ben pensare, certo non faremmo mai altro che piangere considerando quel che è fatto: pur ne ingegnamo di dimenticare quello che non vuole fuggire dalle nostre memorie. E simigliantemente il re nostro signore te ne manda pregando; e credo che molto gli sarebbe caro, secondo il suo parlare, che tu venissi dinanzi al suo cospetto. Giulia, udendo la romana loquela, la quale Ascalione, lungamente dimorato in Roma, appresa aveva, alzò il viso verso di lui, forse credendosi che fosse alcun de’ miseri compagni di Lelio, e con torti occhi riguardando il cavaliere, veggendo che quello era dell’iniqua gente, piangendo il richinò, e gittando un gran sospiro, disse: «Niun conforto sentirá l’anima mia, se voi nol mi porgete. Voi m’avete con le vostre spietate braccia ucciso colui il quale era il mio compagno, il mio conforto e la mia ultima speranza. Acciò che l’anima mia possa seguire per le dilettevoli ombre quella del mio Lelio, questo conforto graziosamente vi dimando, e questo sia l’ultimo bene che io aspetto, e a voi fia niente. Voi avete oggi bagnate le vostre mani in tanto sangue, che io non accrescerò la somma de’ vostri peccati per la mia morte, ma la farò minore per la pietá che voi userete uccidendomi. Deh! aggiungetemi al triste numero de’ morti corpi, acciò che si possa dire: ‛Giulia amò tanto il suo Lelio, che ella fu morta con lui insieme ne’ sanguinosi campi’. E se voi non volete usar questa pietá, almeno prestate alle mie mani la tagliente spada, e consentite che, senza briga di queste mie compagne, io possa morire, essendone le mie mani cagione». Ascalione e’ suoi compagni, che vedevano il chiaro viso tanto rigato di vermiglio sangue, lagrimavano tutti per pietá di costei; e piangendo egli le rispose e disse: «Giovane, gl’iddii facciano le mie mani di lungi da sí fatto peccato. Certo oggi io fuggii per non bagnarmi nella dolente uccisione: ma tu, perché piangendo e sconfortandoti guasti il tuo bel viso? Perché disideri d’incrudelire contro a te medesima? Credi tu con la tua morte render vita al morto marito? questo sarebbe impossibile. Ma levati su, e non volere, per qui [p. 48 modifica]stare, alla sopravvegnente notte apparecchiare la tua bella persona alle salvatiche bestie, le quali alla tua salute potrebbero essere contrarie, perciò che vivendo ancora potrai forse riavere il perduto conforto. Levati su, e segui i nostri passi, e non dubitar di venire alli reali padiglioni con le tue compagne, ch’io ti giuro, per quelli iddii ch’io adoro, che, mentre essi mi concederanno vita, il tuo onore e delle tue compagne sani sempre salvo a mio potere, solo che vostro piacer sia. Ora ti leva, non dimorare piú qui, vieni alla presenza del nostro signore, il quale, ancor che dolente sia, veggendo il tuo grazioso aspetto, ti onoreRá come degna donna. Or se noi ti volessimo qui lasciare, non ti spaventariano gli infiniti spiriti de’ morti corpi, spartI per lo piagnevole aere? Non dubiti tu degli scellerati uomini che sogliano essere ne’ tumultuosi eserciti, i quali, trovandoti qui, non si curerebbero di contaminare il tuo onore e delle tue compagne? Deh! vieni adunque, che vedi che io e’ miei compagni per compassione di te righiamo i nostri visi d’amare lagrime». Giulia non faceva altro che piangere; e ben ch’ella fosse molto dolorosa, non per tanto dimenticò la sua anima i cari ammaestramenti della gentilezza, e non volle nell’avversita parere villana a’ divoti prieghi del nobile cavaliere; ma preso con le sue mani un bianco velo, e coperto il palido viso di Lelio e con un suo mantello tutto il corpo, si volse ad Ascalione e disse: «I vostri prieghi hanno sí presa la mia dolorosa anima, che io non mi so mettere al niego di quello che dimandato m’avete. E poi che Iddio e voi mi negate la morte, questa cosa ch’io piú disidero, io m’apparecchio di venire in quelle parti ove piacer vi fia; ma caramente raccomando primieramente me e appresso le mie compagne e ’l nostro onore nelle vostre braccia, pregandovi, per la gentile anima che guida i vostri membri, che come di care sorelle il riserbiate, e non consentiate che di quello, di che le misere anime de’ nostri mariti, rinchiuse ne’ mortali corpi, si contentarono, sciolte da essi si possano ramaricare». E volendosi levare, per la debolezza tra le sue compagne cadde supina. Allora Ascalione teneramente per lo [p. 49 modifica]destro braccio la prese, e dall’altra parte un suo compagno sostentandola e con dolci parole confortandola, e con lento passo andando, pervennero alle reali tende; alle quali entrati, il re vedendo costei, vinto per lo pietoso aspetto, umilmente la riguardò; e avendo giá udito da Ascalione gran parte della condizione di lei, comandò ch’ella fosse onorata. Giulia, veduto il re, ancor che per debolezza le fosse grave, pure gli s’inginocchiò dinanzi e lagrimando disse: «Alto signore, a questi nobili cavalieri è piaciuto di menarmi nel vostro cospetto, nel quale piacciavi che io trovi quella grazia che da loro non ho potuto avere. Io non credo che la misera Ecuba né la dolente Cornelia ne’ loro danni sentissero maggiore doglia che io senta in quello che ho da voi ricevuto, né credo che sí affettuosamente alcuna di loro disiderasse de’ suoi nemici vendetta, com’io disidero di voi, sol che prendere la potessi. Ma poi che la fortuna m’ha il potere levato, e fattami vostra prigioniera, datemi, per guiderdone della fiera volontá c’ho verso voi, la morte». Non sofferse il re che Giulia stesse in terra dinanzi a lui, ma con la propria mano levatala in piè, la fece sedere davanti a sé, e rispose cosí: «Giovane donna, il vostro lagrimoso aspetto non solo m’ha fatto divenire pietoso, ma quasi m’invita con voi insieme a lagrimare. E certo io non mi maraviglio del vostro parlare, il quale dimostra bene il vostro gran dolore, ché usanza suole esser de’ miseri di volere quello che maggior miseria loro arrechi, infino a quell’ora che la tristizia pena a dar luogo al natural senno. E perciò che io conosco che ora voi piú adirata che consigliata dimandate la morte, e mostrate verso me crudel volonta, né la morte vi fia per me conceduta, né ancora l’adirate parole credute. Ma quando voi avrete alquanto mitigate le giuste lagrime che voi spandete, io vi farò conoscere come la fortuna non sia contro a voi del tutto adirata, bench’ella vi abbia fatta mia prigione; e ancora conoscerete che sia stato il meglio rimanere in vita, sí per voi e sí per l’anima del vostro marito. Ma ditemi, se v’è in piacere, qual sia la cagione del vostro pianto, e chi voi siete, e donde e dove voi andavate». [p. 50 modifica]

Giulia, piangendo, con pietosa voce gli rispose: «Io sono romana, e fui misera sposa del morto Lelio, il quale voi oggi con le proprie mani uccideste, e quinci muove il mio tristo lagrimare; e andavamo al santo Dio, posto nell’ultime fini de’ vostri regni, per lo ricevuto dono della mia pregnezza». Udendo questo il re, quasi stupefatto, tutto si cambiò, e disse: «Oimè! or dunque non foste voi con quelli assalitori del mio regno, i quali all’entrare in esso arsero la ricca Marmorina?». «Signor no» rispose Giulia, «ma passando per essa, la vedemmo bella e ornata di nobile popolo.» Allora dolse al re molto di quello che era fatto; e sospirando disse: «O giovane donna, i fortunosi casi sono quasi impossibili a fuggire; a noi fu porto tutto il contrario di quello che voi ne porgete, e questo ne mosse a fare quel che oramai non può tornare indietro, e che ci dole. E non è dubbio che voi abbiate nel preterito giorno gran danno ricevuto, e io non piccolo; ma perciò che il nostro lagrimare niente il menomerebbe, convienci prender conforto. E a chi il lagrimare stia bene, a me si disdice, il quale col proprio viso a confortare ho i nostri sudditi. Adunque confortatevi, e qui meco rimanete; e dopo il ripreso conforto, s’a voi piacerá altro marito, io ho nella mia corte assai nobili cavalieri, de’ quali chi piú vi piacerá, in guiderdone dell’offesa che fatta vi fu, vi donerò volentieri; e se voi alle ceneri del morto marito vorrete pure serbar castitá, continuamente in compagnia della mia sposa come cara parente vi farò onorare. E se l’esser meco non vi piacerá, io vi giuro per l’anima del mio padre che, dopo l’alleviamento del vostro peso, infine a quella parte ove piú vi piacera d’andare, onorevolmente vi farò accompagnare. A dire quanto mi dolga di quel che è fatto per lo mio subito furore, sarebbe troppo lungo a narrare, perciò che ho perduto un caro nipote e molti buoni cavalieri, e voi senza vostra colpa offesi». Giulia non rattemperò per tutte queste parole il dolente pianto, ma, piangendo, nell’animo savio diliberò di stare, considerando che molto valea meglio di rimanere al profferto onore, fingendo il suo mal talento, infine che fortuna la ritornasse nel [p. 51 modifica]pristino stato, che miseramente cercare gli strani paesi; e con sospirevole voce, rotta da dolenti singhiozzi, rispose: «Signor mio, nelle vostre mani è la mia vita e la mia morte: io non mi partirò mai dal vostro piacere». Comandò allora il re che in un padiglione, sotto la fidata guardia d’Ascalione, ella e le sue compagne fossero onorate.

Come il nuovo sole uscí nel mondo, il re con la sua compagnia, insieme con Giulia, verso Siviglia, antica cittá negli Esperii regni, presero il cammino; ma avanti che i loro passi si mutassero, Giulia di grazia dimandò che ’l corpo del suo Lelio esca de’ volanti uccelli non rimanesse. Al quale il re comandò che onorevole sepoltura fosse data, e a tutti gli altri che piacesse a lei. Fu allora Lelio, con molti altri, con molte lagrime sepellito dopo i fatti fuochi, ben che molti ne rimanessero sopra la vermiglia arena, che di varii ruscelletti di sangue era solcata.

Rimaso solo di vivi il tristo campo, in pochi giorni col corrotto fiato convocò in sé infinite fiere, delle quali tutto si riempié. E non solamente i lupi di Spagna occuparono la sventurata valle, ma ancora quelli delle strane contrade vennero a pascersi sopra i mortali pasti. E i leoni africani corsero al tristo fiato tingendo gli acuti denti negli insensibili corpi. E gli orsi, che sentirono il tristo fiato della bruttura dell’insanguinato tagliamento, lasciarono l’antiche selve e i secreti nascondimenti delle loro caverne, E i fedeli cani abbandonarono le case de’ lor signori: e ciò che con sagace naso sentí il non sano aere si mosse a venir quivi. E gli uccelli, che per adietro avevano seguitato i celesti pasti, si raunarono; e l’aere mai non si vestí di tanti avoltoi, e mai non furono tanti uccelli veduti insieme adunati, se ciò non fosse stato nella misera Farsaglia, quando i romani prencipi s’affrontarono. Ogni selva lí mandò uccelli: e i tristi corpi, cui la fortuna non avea conceduto né fuochi né sepoltura, erano miseramente dilacerati da loro, e le loro carni pascevano gli affamati rostri. E ogni vicino arbore pareva che gocciolasse sanguinose lagrime per li unghioni sanguinosi che premevano [p. 52 modifica]sopra gli spogliati rami: il passato autunno gli aveva spogliati delle loro foglie, e’ crudeli uccelli col morto sangue premuto da’ loro piedi gli avevano rivestiti di color rosso, e i membri portati sovr’essi ricadevano la seconda volta nel tristo campo, abbandonati dagli affaticati unghioni. Ma con tutto questo il gran numero de’ morti non era tutto mangiato infino all’ossa, che, ancor che squarciato dalle fiere si partisse, gran parte ne giaceva rifiutato, ben che dilacerato fosse tutto: il quale il sole e la pioggia e ’l vento maceravano sopra la tinta terra fastidiosamente, mescolando le romane ceneri con le barbariche non conosciute.

Entrò il re Felice vittorioso con gran festa in Siviglia; e poi che egli fu smontato del possente cavallo e salito nel real palagio, e ricevuti i casti abbracciamenti dell’aspettante sposa, egli prese l’onesta giovane Giulia per la mano destra, e dinanzi alla reina sua sposa la menò dicendo: «Donna, tieni questa giovane, la qual è parte della nostra vittoria: io la ti raccomando, e priegoti ch’ella ti sia come cara compagna e di stretta consanguinitá congiunta, e ogni onore e ogni bene che puoi, usa verso di lei». Teneramente la reina ricevette, a’ prieghi del re, Giulia e le compagne; ma non dopo molti giorni, partendosi il re da Siviglia, con lui se ne andarono a Marmorina: nella quale giunto, il re vide quello non essere che falsamente Plutone, in forma di cavaliere, gli aveva narrato; e, trovato ancora vivo colui il quale morto credeva aver lasciato ne’ lontani boschi, forte in se medesimo si maravigliò, e disse: «O gl’iddii hanno voluto tentare per adietro la mia costanza, o io sono ingannato. A me pur con vera voce pervenne che la presente cittá era da romano foco accesa, e ora con aperti occhi veggo il contrario. E il narratore di cosí fatte cose pur mori nella mia presenza, e io gli feci dare sepoltura: e ora qui davanti vivo mi sta presente». In questi pensieri lungamente stato, non potendo piú la nuova ammirazione sostenere, chiamò a sé quel cavaliere, il quale giá credeva che nell’arene di Spagna fosse dissoluto, e dissegli: «Le tue non vere parole t’hanno degna morte guadagnata, perciò che non [p. 53 modifica]è ancora passato il secondo mese, poi che elle mossero il nostro costante animo a grandissima ira e ad iniqua operazione senza ragione. Or non ci narrastú la distruzione della presente cittá con piagnevole voce, la quale noi ora trovata abbiamo senza alcun difetto? Tu fosti cagione di farci muovere tutto il ponente contro l’inestimabile potenza de’ romani, del qual movimento ancora non sappiamo che fine seguire ne debba. Maravigliossi molto il cavaliere, udite le parole, dicendo umilmente: «Signor mio, in voi sta il farmi morire e il lasciarmi in vita, ma a me è nuovo ciò che voi mi narrate; e poi che voi qui mi lasciaste, mai non me ne partii, e a ciò chiamo testimonii gl’iddii e ’l vostro popolo della presente cittá, il quale seco mi ha continuamente veduto: né mai dopo la vostra partita ci fu alcuna novitá». Allora si maravigliò il re piú che mai, dicendo tra se medesimo: «Veramente hanno gl’iddii voluto tentar le mie forze, e aggiungere la presente vittoria alla nostra magnificenza». E allegro della salva cittá abbandonò i pensieri, contento di rimaner quivi per lungo spazio.

La reina gravida di prosperevole peso, affannata per il lungo cammino, volontieri si riposava, e con lei Giulia molto piú affaticata, ma quasi continuamente il bel viso bagnato di amarissime lagrime e la bocca piena di sospiri teneva; alla quale un giorno la reina, veggendola dirottamente a piangere, disse cosí: «Giulia, senza dubbio so che tu, sí come io, in te nascondi disiato frutto, e’ manifesti segnali mostrano te dovere essere vicina al partorire, onde col tuo piangere gravemente e te e lui offendi. Tu hai giá quasi il bel viso tutto consumato e guasto, e le tue lagrime l’hanno occupato d’oscura caligine e di palidezza; onde io ti priego che tu non perseveri in questo: anzi ti conforta, e ispera che noi avremo insieme gioioso parto. Non sai tu che per lo tuo lagrimare il ricevuto danno non si menoma? Poi che i fati a te sono stati avversi, appara a sofferire e a sostenere con forte animo le contrarie cose e’ dolenti casi della fortuna. Deh! or tu m’hai giá detto, se ho bene le tue parole a mente, che tu se’ nata di gentilissima gente romana; or se questo è il vero, sí come io credo, [p. 54 modifica]ti dovrebbe tornare nella mente del forte animo che Orazio Pulvillo, appoggiato alla porta del tempio di Giove Massimo, udendo la morte del figliuolo, ebbe; e come Quinto Marzio, tornato da’ fuochi dell’unico figÌiuolo, diede quel giorno senza lagrime le leggi al popolo. Questi e molt’altri vostri antichi avoli con fermo animo nell’avversitá mostrarono la loro virtú, per la quale il mondo lungamente si contentò d’essere corretto da cotali reggitori. Or dunque se da cotal gente hai tratta origine, si disdicono a te, piú che ad un’altra, le lagrime. Non credi tu che essi nelle loro avversitá sostenessero doglia, sí come tu fai? certo sí fecero, ma essi vollero seguire piú la magnanimita de’ loro nobili animi, i quali conoscevano la natura delle caduche e transitorie cose, che la pusillanimitá della misera carne, acciò che le loro operazioni fossero esempio a’ loro successori in ciascuno atto». Queste e molte altre parole usava spesso la reina a conforto di Giulia.

La quale, conoscendo veramente che la reina l’amava molto, e che da grande amore procedevano queste parole, le quali vere la reina le diceva, cominciò a prender conforto e a porre termine alle sue lagrime. E per fuggire l’ozio, il quale di trista memorazione de’ suoi danni le era cagione, con le proprie mani, lavorando sovente, faceva di seta nobilissime tele di diverse imagini figurate, appetto alle quali, o misera Aragne, le tue sarebbero parute offuscate di nebulose macchie, sí come altra volta parvero, quando con Pallade avesti ardire di lavorare a prova. Queste opere aveano senza fine moltiplicato l’amore della reina in lei, perciò che molto in simili cose si dilettava. Onde, come l’amore, cosí l’onore a lei e alle sue compagne moltiplicare fece.

Non parve a Plutone avere ancora fornito il suo iniquo proponimento, posto ch’egli avesse con le sue false parole commosse l’occidentali rabbie sopra gl’innocenti romani; anzi, poi ch’egli ebbe nel cospetto del re Felice lasciato disfatto vilmente il falso corpo, un’altra volta riprese forma d’una giovane damigella di Giulia, chiamata Glorizia, la quale con lei ancora viva dimorava, e con sollecito passo entrò nell’ampio [p. 55 modifica]circuito delle romane mura. E giá Calisto mostrando la sua luce, ella tacitamente co’ disciolti capelli entrò negli alti palagi di Lelio, stracciandosi tutta; ne’ quali poi che ella fu ricevuta dal padre del morto Lelio e da’ cari fratelli di Giulia, i quali, stupefatti tutti di tale accidente, taciti si maravigliarono, essa forte piangendo cosí cominciò loro a parlare:

«Poi che gli avversarii movimenti della fortuna, invidiosa della nostra felicitá, trassero della dolente cittá il vostro caro figliuolo, e la sua moglie, a me carissima donna, con quella compagnia con la quale voi medesimi ci vedeste, e da cui voi, porgendo i teneri baci e le vostre destre mani, vi divideste piangendo, noi avventurosamente, finché a’ miseri fati piacque, camminammo. Ma poi che a loro piacque di ritrarre la mano dalle nostre felicitá, noi una mattina quasi nelle prime ore cavalcando per una profonda valle, occupate le nostre luci da noiosa nebbia, assaliti fummo da innumerabile quantitá di predoni, vaghi del copioso arnese, il quale da noi non molto lontano andava, e del nostro sangue: e l’assalirci e ’l privarci del nostro arnese non occupò piú che un medesimo spazio di tempo. E appresso rivolti a noi con li aguzzati dardi, Lelio e i suoi compagni e la vostra Giulia di vita amaramente privarono. Io pavida piangendo, non so come dall’inique mani mi fuggii; e fuggendo, per tema di non ritornare nelle loro mani, per lo dolente cammino piú volte ho sostenuto mortal dolore»; e co’ pugni stretti, dette queste parole, cadde semiviva nelle loro braccia, la quale essi piangendo portarono sopra un letto, richiamando con freddo liquore le forze esteriori.

Incominciossi nel gran palagio un amarissimo pianto, e quasi per tutta Roma, ovunque il grazioso giovane e la piacente Giulia erano conosciuti, si piangeva. L’aria risonava tutta di dolenti voci, tali che per lo preterito tempo alcuno anziano non si ricordava che tal doglia vi fosse stata per alcuno accidente. E certo che tu appena, o Bruto, riformatore della libertá del popolo romano, vi fosti tanto lagrimato dal rozzo popolo. E da quell’ora inanzi ciascun romano incominciò ad essere pauroso d’andar cercando gli strani altari e [p. 56 modifica]di portare gl’incensi a’ lontani iddii fuori di Roma; e per lo gran dolore del morto Lelio lungamente lasciarono i nobili adornamenti, vestendo lugubri veste, cosí gli altri romani, come i suoi parenti.

Mentre la fortuna con la sua sinistra voltava queste cose, s’appressò il termine del partorire alla reina, e simigliantemente a Giulia; e nel giocondo giorno, eletto per festa de’ cavalieri, essendo Febo nelle braccia di Castore e di Polluce insieme, non essendo ancora la tenebrosa notte partita, sentirono in una medesima ora quelle doglie, che partorendo per l’altre femine si sogliano sentire. E dopo molte grida, essendo giá la terza ora del giorno trapassata, la reina del gravoso affanno, partorendo un bel garzonetto, si diliberò, contenta molto in se medesima di tal grazia, senza fine lodando i celestiali iddii; e similmente il re, udita la novella, fece grandissima festa, perciò che senza alcun figliuolo era infino a quello giorno dimorato. E niuno altare fu in Marmorina negli antichi templi senza divoto fuoco. I freschi giovani con varii suoni, cantando, andavano faccenda smisurata festa. L’aere risonava d’infiniti sonagli, per li molti armeggiatori, continuando per molti giorni gioia grandissima. Aveva giá il sole per lungo spazio trapassato il meridiano suo cerchio, avanti che Giulia del disiderato affanno liberare si potesse: anzi, con altissime voci invocando il divino aiuto, sosteneva grandissima doglia. Ma tra l’erronea gente si dubitava non Lucina sopra i suoi altari stesse con le mani comprese, resistendo a’ suoi párti, come fece alla dolente Iole, quando ingannata da Galante la convertí in mustella; e con divoti fuochi s’ingegnavano di mitigare la sua ira, per liberare Giulia da cotal pericolo. Ma poi che a Giove piacque di dar fine a’ suoi dolori, egli a lei partorendo concedette una figliuola, non variante di bellezza dalla sua madre; la quale subito nata, Giulia, sentendo la sua anima disiderosa di partirsi dal debile corpo, contenta del piacere di Dio, dimandò che la sua unica figliuola, inanzi a morte sua, le fosse posta nelle tremanti braccia. Glorizia, cameriera e compagna di [p. 57 modifica]Giulia, coperta la picciola zitella con un ricco drappo, la pose in braccio alla madre, la quale, poi che la vide, sospirando la baciò, e piangendo, voltata a Glorizia, gliela rendé, dicendo: «Cara compagna, senza dubbio di presente sento che mi converrá rendere l’anima a Dio, e nel presente giorno ringraziarlo di doppio dono, sí come è della dimandata progenie e della disiderata morte. Ond’io ti raccomando la cara figliuola, e, per quello amore che tra te e me è stato, ti priego che in luogo di me le sia tu sempre madre»; e dicendo queste parole alla dolente Glorizia, che nell’un braccio teneva la picciola fanciulla e nell’altro il capo di lei parlante, rendé la vita al suo fattore umilmente e divota.

Cominciassi nella camera un doloroso pianto, e massimamente da Glorizia, la quale, tenendo in braccio la figliuola della morta Giulia, dicea: «O sventurata figliuola, inanzi alla tua nativitá cagione della morte del tuo padre, e nascendo hai la tua madre morta. Oimè! quanta sarebbe l’allegrezza de’ miseri tuoi parenti, se in vita t’abbracciassero, sí come io fo! O figliuola di lagrime e d’angoscie, quanto ha Giove mostrato che la tua nativitá non gli piaceva! Oimè, di che amaro peso sono io ancora senza umano conoscimento divenuta madre!». Poi si volgea sopra il freddo corpo di Giulia, il quale tanta pietá porgeva a chi morto lo riguardava, che per dolore ciascuno ne torceva le luci, ed ella disse: «O cara donna, o ve m’hai tu misera con la figliuola tua lasciata? Deh! perché non mi è lecito poterti seguire? Giá uscito della mente m’era il gravoso dolore della crudele morte di Lelio, ma tu ora morendo m’hai doppia doglia rinnovata. O me misera! ormai niun conforto piú per me s’aspetta». Cosí piangendo questa, e l’altre che con lei nella camera dimoravano, pervennero le dolorose voci all’orecchie della reina, la quale, allegra del nato figliuolo, in prima si maravigliò, dicendo: «Chi piange invidioso de’ nostri beni?», e poi piú efficacemente dimandò di volerlo sapere. E fatta chiamare alcuna femina della camera dove le misere piangevano, dimandò qual fosse [p. 58 modifica]la cagione del loro pianto. Quella rispose: «Madonna, quando Febo lasciò il nostro emisferio senza luce, Giulia si diliberò, partorendo una bellissima creatura, del noioso peso; e non dopo molto spazio, rimasa debile, passò a miglior vita, e ha lasciato tra noi il grazioso corpo sí pieno d’umiltá nell’aspetto, che chiunque il riguarda non può ritenere in sé l’amaro pianto: e questo è quello che voi udito avete». Quando la reina udí queste parole, sospirando disse: «Oimè! adunque ci ha la piacevole Giulia abbandonati?». E comandò che ’l corpo di Giulia fosse nel suo cospetto recato; sopra il quale, poi che l’ebbe veduto, sparse amare lagrime e molte. E veramente il suo lieto animo non s’era tanto al presente giorno rallegrato della nativitá dell’unico figliuolo, quanto la morta Giulia col suo pietoso aspetto l’attristò. Ella comandò che fosse il vegnente giorno onorevolmente sepellita; e presa nelle sue braccia la bella figliuola, lagrimando molte volte la baciò, dicendo: «Poi che alla tua madre non è piaciuto d’esser piú con noi, certo tu in luogo di lei e di cara figliuola ne rimarrai. Tu sarai al mio figliuolo cara compagna e parente nel continuo». Molte fiate, nel futuro pianto, queste parole ricordò la reina, le quali nescientemente profetico spirito l’aveva fatto parlare.

Sparsesi per la reale corte e per tutta Marmorina la morte della graziosa Giulia, la quale con la sua piacevolezza aveva giá sí presi gli animi di coloro che sua notizia avevano, che niuno fu che per pietá non ispandesse molte lagrime. E il re similemente piangendo mostrò che di lei molto gli dolesse. Ma poi che il seguente giorno, lavato il corpo e rivestito di reali vestimenti, fu sepellito tra’ freddi marmi, con quello onore che a sí nobile giovane si richiedeva, gli scrissero sopra la sua sepoltura questi versi:


          «Qui, d’Atropos il colpo ricevuto,
          giace di Roma Giulia Topazia,
          dell’alto sangue di Cesare arguto
          discesa, bella e piena d’ogni grazia,

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          che, in parto, abbandonati in non dovuto
          modo ci ha: onde non fia giá mai sazia
          l’anima nostra il suo non conosciuto
          Dio biasimar che fè sí gran fallazia.»


Assai sturbò la gran festa incominciata della nativitá del giovane la compassione che ogni uomo generalmente portava alla morte di Giulia. Ma poi che alquanti giorni furono passati, piacque al re Felice di vedere il suo figliuolo e la bella pulcella nata con lui in un medesimo giorno; e con alcun barone entrato nella camera della reina, prima dolcemente la confortò dimandandola del suo stato, poi comandò che le due creature gli fossero recate davanti, e furongli recati amendui li garzonetti ravvolti in preziosi drappi: i quali, poi che gli ebbe amendui nelle sue braccia, per lungo spazio riguardò, e vedendoli l’uno e l’altro pieni di maravigliosa bellezza, e simiglianti, disse cosí: «Certo piacevole e giocondo giorno vi ci donò, nel quale ogni fiore manifesta la sua bellezza, e i cavalieri simigliantemente e le gaie donne s’allegravano faccendo gioiosa festa. Adunque convenevole cosa è che voi in rimembranza della vostra nativitá, e per aumentamento delle vostre bellezze, siate da cosí fatto giorno nominati. E però tu, caro figliuolo, come primo nato, sarai da tutti universalmente chiamato Florio, e tu, giovane pulcella, avrai nome Biancofiore; e cosí comandò che da quell’ora inanzi fossero continuamente chiamati. E voltatosi alla reina, primieramente Florio le raccomandò, e appresso la pregò molto che Biancofiore tenesse cara, perciò che aspetto aveva di dovere ogni altra donna passar di bellezza, e che ella in luogo di Giulia sempre la volesse tenere. E dopo queste parole, contento di sí belli eredi, si partí dalla reina.

Teneramente raccomandò la reina alle balie le picciole creature, e con sollecita cura le facea nutricare. Ma poi che, lasciato il nutrimento delle balie, vennero a piú ferma etá, il re facea di loro grandissima festa, e sempre insieme realmente vestir le faceva; e quasi non gli era la pulcella, che in bellezze [p. 60 modifica]ciascun giorno cresceva, men cara che fosse il suo figliuolo Florio. E veggendo che giá Citerea, donna del loro ascendente, s’era dintorno a loro ne’ suoi cerchi voltata la sesta volta, provvide di volere che, se la natura gli avesse in alcuno atto fatti difettosi, essi, studiando, per la scienza potessero ricuperare cotal difetto. E fatto primieramente chiamare un savio giovane, chiamato Racheo, nell’arti di Minerva peritissimo, gli commise che i due giovanetti affettuosamente dovesse in saper leggere ammaestrare. Appresso chiamato Ascalione, similmente amendui gli raccomandò, dicendo: «Questi siano a te come figliuoli. Niuno costume né alcuna cosa, che a gentili uomini o a donne si convenga, sia che a costoro non insegni, perciò che in loro ogni mia speranza è fissa: essi sono l’ultimo termine del mio disio». Ascalione e Racheo promisero i commessi uficii; e senza alcuna dimoranza incominciò Racheo a mettere il suo in esecuzione con intera sollecitudine. E loro in brieve termine insegnato a conoscer le lettere, fece loro leggere il santo libro d’Ovidio, nel quale il sommo poeta mostra come i santi fuochi di Venere si debbano ne’ freddi cuori con sollecitudine accendere.