Giro del mondo del dottor d. Gio. Francesco Gemelli Careri - Vol. II/Libro III/V

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Cap. V

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Libro III - IV Indice delle cose più notabili
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CAPITOLO QUINTO.

Navigazione sino a Daman nell’Indostan.


E
Ssendo già pronto tutto il bisognevole per lo viaggio, il Venerdì 26. di Novembre, venne il Nicodà, o Capitano dei vascello ad avvertirmi, che andassi ad imbarcarmi: onde su le 23. ore feci condurre le mie valige a dirittura dal Convento alla nave, senza che prima fussero state visitate dal Doganiere; però un Moro se ne lasciò cadere una nella spiaggia, e con ciò bagnare parte delle robe. Quindi unitamente col Capitano passai nel vascello; dove trovai tutta la provvisione necessaria de’ Viveri, preparatami con somma cortesia dal Soprantendente di Portogallo.

Partiti adunque la stessa sera tardi, [p. 315 modifica]giugnemmo il Sabato 27. in Angon, per far acqua; poiche nel Congo non si permette di ciò fare, acciò non manchi poscia a’ Naturali. Per buona ventura trovammo le cisterne secche, onde fu d’uopo prenderla nella vicina Isola di Kescimi (due miglia indi discosta). Angon è disabitata, per lo fuoco postovi da un Generale dell’armata Portughese, in vendetta della perfidia degli abitanti.

Mentre s’attendeva frettolosamente a fare acqua, che era pure alquanto salmastra; io presi la Domenica 28. il diletto della caccia, abbondando l’Isola così di volatili, come di quatrupedi. Parimente il Lunedì 29. andai vedendo l’Isola. Ella si è di figura bislunga, stendendosi molto verso Bander-Abassì: il circuito sarà di circa 90. m. Il terreno produce uve, fichi, dattili, ed altre frutta per nutrimento de’ naturali; però il maggior alimento è il pesce, seccando eglino al Sole quantità grande di sardelle, che prendono così nella loro, come nell’Isola d’Angon, per servirsene poi in tutto l’anno, come di pane cotidiano. In amendue queste Isole si truovano buone perle; però gi’Isolani amano meglio le loro sardelle, come più sicure, e di minore impaccio, [p. 316 modifica]che le gioje. La Metropoli di Kescimi colla mutazione de’ Sovrani, e spesse guerre perciò avvenute, è rimasa distrutta; onde non v’è oggidì, che il Casale di Misar, ed altri pochi. V’è bensì una Fortezza regolare di quattro Bastioni bastantemente forti, fabbricata già da’ Portughesi, e poi ceduta nell’ultimo trattato a’ Persiani, i quali oggidì vi tengono guarnigione.

Il Martedì 30. essendo il Mare in calma, il Nicodà, ed altri Mori passarono il tempo a veder chi di loro meglio tagliasse uno spago con una palla, e facesse miglior colpo. Certamente tiravano bene, avendo il Capitan del vascello saputo romperlo due volte; e non so se alcun Cacciatore Europeo l’avrebbe così ben colpito.

Di buon’ora il Mercordì primo di Decembre si spiegarono le vele ad un buon vento; sicchè il Giovedì 2. passammo l’Isola della Recca (nella quale tempo fa i Portughesi ebbero una Fortezza) e quindi fummo a veduta d’Ormuz. Questa picciola Isola è nella bocca del Seno Persiano, due leghe Spagnuole lontana da Terra ferma. Nelle tre miglia, che tiene di circuito, non cresce [p. 317 modifica]alcun’albero, nè erba; essendo tutta coperta di sale bianco assai buono, che rende affatto sterile il suo terreno. Non tiene altr’acqua dolce, che quella che cade dal Cielo, e si raccoglie dentro cisterne, per la guarnigione della Fortezza, L’arena è assai stimata per esser molto nera, e lucente; come anche la terra rossa, con la quale si tingono la fronte i Gentili. Sopra questa Isola, prima che l’acquistassero i Portughesi, era una Città, nella quale facea dimora il Re di Lara, che n’era Signore.

Il Venerdì 3. fummo dirimpetto la montagna di Dabà, posta nell’Arabia Felice; perche essendo divenuto il vento contrario più tosto perdevamo, che guadagnavamo cammino. Verso la sera ci avvanzammo sino a Soar, o Mascati, a vista anche della montagna di Kumumenek sul terreno di Persia. Seguì la notte una gran tempesta, che il Sabato 4. ne fece avere sì buon vento, che ne condusse fuori dello stretto, e nell’ampio e spazioso Oceano Indiano; senza perder però di vista la Terra ferma. L’ordinaria occupazione de’ Mori frattanto era di tingersi ogni dì le palpebre con un certo unguento nero, valevole (come dicevano) per conservar la vista; di strapparsi i [p. 318 modifica]peli della barba con mollette, dove non volevano fargli crescere; e tingersi l’unghie de’ piedi, e delle mani con terrai rossa. Per altro erano molto discreti, non usando co’ forestieri le impertinenze de’ Turchi; ma spezialmente con me il Capitano, e la ciurma usavano gran costumatezza, per riguardo della raccomndazione del Soprantendente.

Seguitando il cammino verso Oriente, la Domenica 5. fummo a vista dell’Isole di Cocalati, Giabar, Givani, ed altre abitate da’ Balucci: siccome il Lunedì 6. a quella di Goadel dagli stessi Balucci tenuta. Mancando poi affatto il vento rimanemmo fermi senza poter dare un sol passo innanzi. Questi Balucci sono corsali, che con picciole barche ponendosi in aguato dietro le loro Isole, insidiano le navi, che passano. Hanno anche molto spazio di paese in Terra ferma, fra la Persia, e gli stati del Mogol. Il loro Re, o Principe, che si appella di Giasche, risiede nella Città di Biscian; e’l suo fratello in un’altra detta Chiù. Eglino sono Arabi di Religione, e di costumi, praticando incredibile crudeltà contro i loro schiavi; sino a tagliar loro i nervi, che sono sopra il calcagno, acciò non possano in [p. 319 modifica]alcun modo tentar la fuga.

Continuò la calma il Martedì 7. a vista d’Isole disabitate, nidi di corsali. Era sì grande il caldo, che mi parve l’Inverno d’India eguale alla State d’Italia; benche nella lunghezza de’ giorni non sia differente dal nostro. Mentre durano sì fatte calme, sogliono i Persiani di buon’ora spogliarsi nudi, e farsi buttar sul capo molt’acqua marina, per lavarsi il corpo; che sempre tengono puzzolente a cagion delle camicie colorite, che portano molti mesi, senza giammai mutarsele.

Tardi si mosse il vento favorevole, che ci pose a vista dell’Isola di Pissini. Tenevamo intanto sempre la prora ad Oriente, acciò scoperta la punta di Diù, come più avanzata in Mare, dirizzassimo più sicuramente il cammino per Suratte, e Daman. Durò l’istesso buon vento il Mercordì 8. si toccò però a mezzodì un falso all’arme, vedendosi venire verso di noi un vascello. Io scoppiava delle risa, vedendo quei Mori dar di piglio a gli arrugginiti schioppi (che usano tutta miccio) in cui si fondava ogni loro difesa; non portando il nostro vascello, che otto piccioli pezzi di artiglieria, e mal pratichi [p. 320 modifica]bombardieri, per servirsene. Passò alla larga il vascello, innalberando bandiera rossa (per dare ad intendere, ch’era amico) e dirizzando la prora verso Occidente s’allontanò.

Il Giovedì 9. prima dello spuntar del Sole, si scoperse da Oriente una picciola barca, che fece convertire in coraggio la poltroneria de’ Mori; imperocchè eglino riprese l’arruginite armi, si posero a modo di cani a latrar da lontano; senza arrischiarsi però per la temenza, a porsi nella manciuca, o schifo, per investire la barca, siccome io gli consigliava, dicendo, che sarei stato il primo ad imbarcarmi. Si allontanò alla perfine, prendendo il cammino verso Settentrione; e così ebbe fine il gridare, e la paura de’ Mori. Stimavano essi che fusse barca di corsali, detti Sangani, o Ranas, i quali sono di Religion Gentili, e non fanno schiavi, ma rubano ciò che truovano nelle navi, senza offender le persone. Vivono in alcune Isole, ed in Terra ferma in luoghi paludosi, ed innaccessibili (anche per gli boschi) in vicinanza del Syndi, e del Regno di Guzaratte. Eglino si pongono in picciole barche, ma con numero grande di gente, e vanno predando sin [p. 321 modifica]dentro la baja di Suratte, e lungo la costa, II loro Regolo è tributario del Gran Mogol, il quale avendo preso parte del di lui paese, restituiglielo con tal patto. Risiede nella Città di Ramorà in Terra ferma, ed alle volte nell’Isola di Sanganibet. Confina co’ suoi stati un’altro Principe Gentile, che comanda il paese di Varel. Ritornando la calma, si vide verso il tardi girare all’intorno del nostro vascello un Terranchino di Sangani; onde sospettandosi, non senza fondamento, di loro intenzione nell’oscurità della notte; consigliai io il Nicodà, o Capitano, che dispensasse polvere, e palle a’ venti soldati, ch’erano nella nave; e facesse caricare l’artiglieria, e disporre le sentinelle; perche i Mori navigano come tante bestie, senza nissuno preparamento, e si riducono a dispensar la munizione, e caricar le armi da fuoco, quando il nemico è già sopra di loro. Non si vide più il Terranchino di Sangani la mattina del Venerdì 10. Il vento si levò contrario, ma in brieve cessato ne lasciò in una nojosa calma.

Il Sabato 11. continuò la stessa dispiacevole quiete. Verso il tardi un marinaio prese un mezzano pesce da circa cinque libre; ed essendo la prima pesca del [p. 322 modifica]viaggio, i marinaj, secondo il costume de’ Mori, lo posero all’incanto, appeso all’albero grande, per darlo a chi più ne offeriva. Un mercatante venuto in gara con altri, offerse sino a 22. Abassì (che sono 8. scudi di Napoli) e più il pesce si sarebbe alzato di prezzo, se più mercatanti vi fussero stati; essendo giunto tal volta a vendersene alcuno all’incanto trenta scudi. Il danajo si divise fra’ marinaj per un desinare.

La Domenica 12. ritornò il vento, ma contrario; onde poco cammino si fece tutto il giorno. Il simile accadde il Lunedì 13. Scoprimmo verso la sera dalla» parte di Levante un Petacchio, che si giudicò essere di Sangani corsali; onde il Capitano del nostro vascello mutò cammino, per isfuggirne l’incontro; cotanto timidi sono quei Mori. La notte ne tolse questa temenza; però ce ne diede una peggiore colla gran burrasca, che sopravvenne, e non solo continuò sino al dì chiaro, ma si rinforzò talmente il Martedì 14. con vento contrario, che obbligò gl’ignoranti Nicodà, e Piloto a perdere tutto il cammino fatto, ritornando in Kescimì. Era a vista nostra un vascello (che noi riputammo quello [p. 323 modifica]Inglese, dove erano imbarcati il Pad. Francesco, e’l Padre Costantino) il quale si manteneva alla coppa, senza perder cammino, come noi facevamo. Io perciò mi struggeva di rabbia; e per quanto proccurassi di persuadere gl’inesperti Mori a fare altrettanto; dando loro speranza, che in brieve il vento diverrebbe favorevole, non fu mai possibile. In fatti avvenne quanto io avea predetto, acchetandosi il vento prima di farsi notte, onde ripigliammo il nostro cammino; dicendomi però il Capitano, che per mio riguardo voltava la prora all’Indie.

In quel giorno vidi la prima volta il pesce volante, che i Portughesi chiamano Aguador. Volava sopr’acqua un tiro di moschetto, e poi ricadeva, perche le picciole ali non poteano reggere il suo peso di dieci in dodici oncie. Egli lascia il suo naturale elemento per salvarsi la vita; perche l’Abnùs, (o pesce dorato, detto da’ Portughesi) lo perseguita di continuo, per inghiottirlo. Questo pesce dorato (sostentator della sua vita con toglierla a gli altri) è di color turchino, di buon sapore, ed è grande per mangiarsene comodamente da quattro persone.

Il Mercordì 15. crebbe molto più la [p. 324 modifica]tempesta con vento impetuoso, che ci pose in qualche pericolo; e sul tardi cominciò una pioggia assai più violenta del giorno antecedente, che non cessando mai tutta la notte, bagnò cosi quelli, che stavan sopra, come quelli di sotto coperta. Piangevano dirottamente le donne More, che stavano nella poppa, e i mariti dalla parte di fuori, invocando il lor falso Profeta Maometto, acciò gli liberasse dalla morte, che credevano già vicina.

Divenne favorevole il vento il Giovedì 16. ed insieme parve a’ marinaj d’avere scoperta 40. miglia distante la Terra ferma di Giasch del Dominio de’ Balucci. Continuammo adunque il cammino lungo la medesima; ma con tutto che il vascello andasse molto velocemente innanzi, a gran pena potemmo ricuperare il perduto nell’antecedente giornata, non che scoprire la Terra di Goader, che pensavamo di vedere almeno sul tardi. Tutto il nostro male nasceva dalla incredibile ignoranza del Piloto, che andava alla cieca, senza sapere egli stesso quello che si fare; il suo mestiere nel Congo essendo stato sempre di vender tabacco. Potrassi da ciò fare argomento [p. 325 modifica]quanto oprino barbaramente i Mori nelle altre cose, se pongono il governo d’un vascello, contenente tutti i loro averi e vite, in mano d’un Tabaccaro. Questa considerazione appunto fu quella, che non fece venire con noi il Padre Francesco, avvegnache molto ne fusse pregato dal padron del vascello. Or vedendo il Capitano la poca sperienza del Piloto (che non faceva altro, che arare il Mare, senza conoscere qual cammino dovesse tenere) venne con grande amplificazion di parole a dirmi: che per amor mio avea ripigliato il cammino dell’Indie; e che perciò mirassi, se il vascello andava bene. Gli risposi io di nò: e che il vecchio Piloto avendo tutto il dì mangiato oppio, per aggiungere stupidità a quella degli anni, calate le due gabbie, andava di notte con la prora a terra, portandoci certamente a rompere in qualche scoglio: quindi se non volea farci perire, era necessario, che si spiegassero le vele, e si voltasse la prora in Mare. Così appunto egli ordinò, facendo dare al vento la vela di gabbia dell’albero grande, e’l trinchetto: e ciò fatto mi pregò, che assistessi alla bussola, e governo della nave; perche oltre la temenza, che [p. 326 modifica]avea per l’ignoranza del Tabaccaro, stimava, che io fussi esperto nel mestiere, ed intendessi le carte marittime. Io vedendomi a parte del pericolo co’ Mori, ed ugualmente dovendomi calere del salvo arrivo del vascello; benche poco più del Piloto Tabaccaro ne fussi intendente, volli compiacere il Nicodà, assistendo alcuna fiata alla bussola, e facendo spiegare, e raccoglier le vele secondo il bisogno. Oltreacciò facea prender le armi in occasione d’incontro di barche; ammaestrando gl’inesperti soldati, perche la loro ignoranza, e codardia potea esser anche a me dannevole. In ogni accidente adunque chiamavano l’Agà Gemelli, stimando, che come Europeo dovessi saper di tutto (per lo buon concetto, ch’hanno di noi) e sforzandomi per tutte le vie a far da Comandante, e da Piloto; però io me ne intendeva niente più che poco, ed altro non faceva tutto il giorno, che dirizzar la nave a Mezzo dì; lasciando la notte (in cui non poteva accomodarmi a perdere il sonno) l’ufficio al balordo Tabaccaro, il quale facea perdere tutto il cammino, che si era fatto il dì. Quindi è, che quantunque fossimo andati il giorno [p. 327 modifica]antecedente con cinque vele, e buon vento, nondimeno il Venerdì 17. ci trovammo nell’istesso luogo, ed altezza, che undici giorni prima: stravaganze che accadono a coloro, che s’arrischiano a viaggiare in vascelli di Mori. Avanzandosi il giorno, fummo all’incontro delle Terre d’Arabà, Pessinimelon, Sertalaù, e Ciurna del Regno di Syndi Torto l’Imperio del G. Mogol, lui principio dell’Indostan.

Il medesimo vento favorevole continuò il Sabato 18. portando molto avanti il vascello poco carico, e con sei vele spiegate; non facendosi Nicodà più caso del timido, e sciocco Piloto, da che io lo consigliai a portar tutte le vele aperte, quando v’era buon vento.

Alla veduta della Luna nuova, che avea mossa la suddetta tempesta, tutti i Mori del vascello, colle mani aperte avanti gli occhi, fecero la sera le loro solite adorazioni, e preghiere alla maniera degl’Idolatri. Si sparò un pezzo d’artiglieria per allegrezza; e tutti poscia stringendosi le mani, si diedero scambievolmente l’annunzio d’un’ottimo mese.

Seguitò Domenica 19. l’istesso buon tempo, divenendo però il vento più debole. Si mutò in contrario il Lunedì [p. 328 modifica]20. sicchè non potemmo avanzarci. Il Martedi 21. si convertì in calma tale, che cominciai ad aver poca speranza di far il Santo Natale a terra; e tale si fù la stizza, che che mi venne col Piloto (il quale la notte non faceva andarci avanti) che non volli ingerirmi più nel governo della Nave. Il Mercordì 22. sopravvenne un debole vento favorevole, che fece poco passarci innanzi; ma di buon’ora il Giovedì 23. divenne più forte, e durò tutta la notte, e’l Venerdì 24. ma non perciò potemmo scoprir Terra ferma, ed aver’io il contento di far la vigilia della Natività fuor di Mare. Il Sabato 25. (giorno cotanto celebre per la Redenzione dell’uman genere) vedendosi sparso il Mare di quell’erbe, che portano i fiumi nel Mar d’India, si concepì speranza d’aversi in brieve a scoprir terra; e calatosi il piombo si trovarono 18. braccia d’acqua.

La Domenica 26. cominciammo a vedere alcuni serpi del colore di quelli, che noi chiamiamo Cervoni, che parimente da’ fiumi entrano in Mare; e calato il piombo non si trovò fondo; onde cominciammo a temere di non dare in qualche secca. Verso la sera si levò un [p. 329 modifica]vento cattivo, e ne tolse la speranza di veder terra anche il Lunedì 27. Prima però di comparire il Sole il Martedì 28. cominciarono a lusingarsi gl’ignoranti Marinaj, e Piloto di vedere la Terra e Fortezza dì Diù, che più d’ogni altra s’avanza in Mare. A tal lieta novella (secondo il costume Moresco) il Capitano imbandì la mensa di Cacciarì (che sono faggiuoli neri, riso, e lenticchie cotte insieme) a tutta la marineria. Mangiavano quella vivanda Indiana, inzuppando la mano in un piatto di butiro liquefatto, e poi empiendola in un’altro di Cacciarì, che in tal guisa si recavano a pugni nella gran fornace della bocca. E già che siamo a vista di Diù, almeno coll’immaginazione, non è fuor di proposito, lasciati i Mori fra’ loro giubili, e poco durevoli allegrezze, dar contezza al Lettore; che questa Fortezza è posta in una picciola Isola, molto vicina alla Terra ferma del Regno, e Seno di Cambaya: Nel suo porto ponno dar fondo grossi vascelli. Il Castello è posto sull’alto della rocca, nè può montarvisi, che per angustissimo sentiero tagliato nella stessa; di modo che un soldato con un legno può ben difenderla. E’ questa rocca [p. 330 modifica]strabbocchevole all’intorno, nè dominata da altra eminenza; onde costò a’ Portughesi il di lei acquisto più sangue, ed oro, che tutte le conquiste dell’India: doveano però adoperare ogni mezzo per averla, essendo in luogo, che tiene in timore tutte le navi, che vanno per l’Oceano Indiano. La Città è in Terra ferma non molto lungi dalla Fortezza, e vi abitano Gentili, Maomettani, e Cristiani. Si stende la sua giurisdizione quattro miglia lungo la riva del Mare, sino al passo del fiume Brancavarà. Dall’una, e l’altra parte confina co’ Regni di Guzaratte, e Cambaya, soggetti al G. Mogol.

In tempo che Badur Re di Cambaya fu ad assediar questa Piazza, andò D. Nuño d’Acuña Governadore di Goa a soccorrerla; e non solo la liberò dall’assedio, ma tolse anche la vita a quel Re: facendo insieme conoscere la fortezza della Piazza, e’l valor Portughese.

Nel 1535. entrato l’Acuña nella Città di Diù Io: Petr. Maff. Histor. India. lib. 11. pag. 259. lit. A. ritrovò un vecchio di 335. anni con un figlio di 90. Egli avea mutato tre volte i denti, e la barba fatta tre volte bianca, dopo essergli divenuta altrettante nera. Richiese a D. Nuño una Rupia il giorno (che val quanto cinque carlini [p. 331 modifica]di Napoli) dicendogli, che tanto gli dava per vivere il Re Sultan Badur: ma il generoso Portughese in vece d’una ne assegnò tre alla Fenice Indiana, in riguardo della sua venerabile canutezza. Decadi Portughesi d’India.Dicono, che quanto egli narrava, concordava benissimo coll’Istorie de’ suoi tempi, avvegna che non avesse cognizion di lettere. Morì finalmente di 400. e più anni, per quanto si dice in quelle parti. Riferisce anche il Padre Giacinto de Dios Vergel de Plantas y Flores., che questo Noè dell’Indostan visse prima in Bengala da Pastore nel 1230. e che per lo fiume passò San Francesco sulle spalle, il quale per lo Servigio prestato gli diede un Rosario: molte cose ponno considerarsi, per le quali questa pia credenza si è inverisimile; ma sopra tutto, che S. Francesco non si legge, esser mai stato in India. Passò quindi il vecchio in Diù, dove visse molti anni; e nel ritorno, che fece poi in Bengala, praticò, ed ebbe conoscenza con molti Portughesi, e Religiosi dell’istess’Ordine di S. Francesco, circa il 1605. e 1606. Professò in tutto il corso della sua vita tre Religioni: primamente cento anni di Paganesimo; poi tre secoli la Maomettana, e nel fine di sua vita la Cattolica; avendolo nel suddetto [p. 332 modifica]tempo battezzato Al luogo citato. in Bengala i medesimi Frati di S. Francesco, secondo che scrive il mentovato Fra Giacinto. Narrano Decadi Portughesi d’India. quivi d’un’altro, che visse in Malaca 300. anni.

Scoperta per illusione la punta di Diù girammo la prora per Daman verso Mezzogiorno; rendendosi anche il vento contrario molto favorevole. Continuò sino mezzo giorno il Mercordì 29. ma restammo poscia in calma, con caldo uguale a quello, che si sente in Napoli nel mese d’Agosto. La sera ritornò favorevole.

Per l’ignoranza del Tabaccaro Piloto, (come dissi) che non intendeva nè carta, nettampoco bussola, la mattina del Giovedì 30. vedendoci incontro terra, crederono tutt’i Mori, che fusse del Casale di Mayn, vicino Bassin Città del Dominio di Portogallo; e per conseguente in fine del loro viaggio. Giubilava perciò tutta la Marineria, e molto più i mercanti, che credevano aver poste in salvo le loro Vite, e mercanzie se l’ignorante Piloto (gonfio di vanità per aver condotto felicemente la nave nell’Indie) andava in giro con uno foglio in mano, per iscrivervi ciò che offerivano i passaggieri in premio della sua diligenza: ma [p. 333 modifica]venuto da me, per sapere quello che prometteva, risposi; che non voleva dargli nulla, perché meritava più gastigo, che premio: conoscendo io molto bene, che la Terra che vedevamo, non era altrimente quella, ch’egli si persuadeva.

L’istesso giorno scopertasi una grossa barca, si diede un falso all’arme da’ soldati Arabi del nostro picciol vascello; (alla prora del quale si fece per tal cagione un parapetto di gomene ligate a modo di muro, per tenergli al coperto) e si caricarono i dieci piccioli pezzi di artiglieria; però avanzandosi la oscurità della notte, la perdemmo di vista. Voleva già il Piloto piegar le vele, per dar fondo, ma io feci che il Capitano ciò non permettesse, per lo sospetto così della veduta barca, come de’ Corsali, da’ quali tutta la Costa è infettata. Stemmo in calma il Venerdì ultimo del 1694. non molto lunge da terra.

Il Sabato primo del 1695. avvicinatici con vento favorevole, sulla falsa credenza, che stassimo in paese di Portughesi, si mandò lo schifo per riconoscerla. Io che poco curava de’ pericoli per soddisfare la curiosità, inconsideratamente mi posi nei medesimo, così per [p. 334 modifica]vedere il paese, come a fine di aver novella di Antonio Macciado de Britto Generale dell’Armata Portnghese, col quale avea già fatta conoscenza in Madrid. Vero è, che il Capitano del vascello, che prendeva particolar cura di me in riguardo del Soprantendente, ricusò buona pezza di volerlomi permettere; perche non era ben sicuro, che quella fusse terra di Portughesi, e forte temeva, che in caso che fusse altra, non mi avvenisse qualche grave infortunio; ma vedendo in fine la mia pertinacia, per non disgustarmi, mi lasciò andare. Il vento contrario, e forte, non permise, che andassimo per dritto al Casale; ma ne obbligò a dar nella spiaggia, un miglio lontano dal medesimo. Scoperti dalla Terra si spiccò una Galavetta, o barca; e venuta sopra di noi, volle aver contezza del nostro vascello, e noi all’incontro del loro paese. Ne fu risposto esser quel picciol luogo, detto Mangalor del Regno di Guzaratte, lontano da Daman più di 400. miglia. Tale inaspettata novella mi pose in grandissimo timore; e vedendo i Mori dello schifo sospettare, che quelli non fussero corsali Sangani, e fingessero un luogo per un’altro, per condurci senza strepito al [p. 335 modifica]luogo della loro abitazione (essendo i Sangani confinanti al paese di Guzaratte) proccurai di persuadere i medesimi, che per isfuggire il pericolo, tagliassero la corda, colla quale eravamo stati rimorchiati, e ce n’andassimo al vascello nostro. Eglino però risposero, che non eravamo più a tempo, e che sarebbe stato un perderci volontariamente, se la fuga non riusciva; avendo i Guzaratti miglior barca, e con più remi, per poterci nostro mal grado sovraggiungere. Essendo adunque il fatto senza rimedio, ne facemmo condurre come tanti agnelli in presenza del Capitano dei luogo. A dire il vero non ci ricevè male, come noi temevamo, anzi con qualche sorte di cortesia; permettendoci di fare acqua, di cui avevamo gran bisogno. Questa nel maggior bujo della notte la portarono alcune donne del paese entro vasi di creta l’un sopra l’altro. Elleno coprivano il corpo, e’l capo con una lunga camicia di tela; aveano a gli orecchi cerchi di argento, e nelle braccia più annelli di vetro. Altro non si vedea di loro, che la faccia, e i piedi.

Il luogo abitato era un picciol Casale al lido del Mare: dissi picciolo, a [p. 336 modifica]comparazion di Mangalor grande (dal quale dipende) cinque miglia indi distante, dove governa un Nabab, o Governadore deputato dal G. Mogol, che mi dissero tenervi due Castelli. Dagli abitanti del luogo sapemmo quanto grande fusse l’errore da noi preso; imperocchè ne dissero, che quella, che a’ marinaj parve la punta di Diù, era paese di Corsali Sangani; e la Terra poscia scoperta, che si giudicò terreno di Mayn, era Mangalor-potan dell’istesso Regno di Guzaratte, poco da loro discosto verso Mezzodì; dirimpetto al quale, come si disse, stemmo tre dì a cagion della calma, e del vento contrario.

Avuta l’acqua, e licenza di ritornare al vascello; verso mezza notte la Galavetta con alcuni mercatanti Indiani ci accompagnò, per persuadere il nostro Nicodà ad avvicinarsi a terra, con la speranza, che ivi avrebbe buono spaccio la mercatanzia; ma con ragione dubitando questi della lor fede, come confinanti a’ Corsali Sangani; diede loro buone parole, dicendo di voler ciò fare il di seguente: però all’apparir dell’alba la Domenica 2. tolte l’ancore fece spiegar le vele a un’ottimo vento, che poscia cessò [p. 337 modifica]affatto, rimanendoci in calma.

Tutta la marineria, e passaggieri biasimavano l’ignoranza del piloto, che in vece di condurne a Daman, ne avea portati ben 400. m. più sopra, verso Oriente; e in bocca quasi de’ lupi, e corsali Sangani, che non erano più di 30. m. più avanti. Volevano alcuni buttarlo in Mare; altri si contentarono di mortificarlo con parole, e togliergli il governo del vascello; onde restò così avvilito lo stolido vecchio, che più non ardiva parlare. Io dissi al Nicodà, che ben si meritava in iscambio degli Abassì, promessi in premio, aver tante bastonate, quante se ne doveano alla sua dappocaggine. Dodici mercanti, e Fachir Mori (che passavano a dimandar limosina nell’Indie) ricusarono, per tal cagione, di venir più sulla nave, e fattisi porre a terra, presero il cammino della spiaggia a piedi; estimando, che in assai maggior pericolo trovar si potevano in un vascello, governato da un Tabaccaro, che per un cammino di 20. giorni ne avea consumati 37. senza venirne a fine; andando per tre giorni innanzi, e indietro verso Tramontana, quando dovea indrizzarsi a Mezzo dì. Ritornato sul tardi il vento, [p. 338 modifica]costeggiammo l’Indostan, facendo buon cammino la notte.

Il Lunedì 3. si voltò contrario di maniera tale, che non potemmo giugnere a Diù, siccome avevammo determinato; e ciò perche i marinaj Mori consumano l’ore intere, per ispiegare una vela; invocando ad ogni minimo accidente, con una lunga canzone, il loro Maometto in ajuto. Demmo adunque fondo in 18. braccia d’acqua, aspettando che passasse la corrente, e’l vento, che tenevamo contrario. I Mari d’India hanno poco fondo, talche, con tutto che fussimo cento miglia lontani da terra, facea di mestieri camminare col piombo in mano. Verso le quattr’ore di notte ripigliammo il cammino, levandosi un forte vento Settentrionale, ed essendo il Mare molto alterato; con tutto che il Cielo fusse ugualmente sereno, che le più belle notti di Luglio in Napoli.

Divenne il vento più favorevole il Martedì 4. onde ci facemmo bene avanti. Essendo la notte vicini a terra, andammo con una sola vela, misurando sempre l’acqua. Trovatala in fine senz’altro fondo, che di dodici braccia, ponemmo l’ancora; aspettando la chiarezza del giorno, per [p. 339 modifica]avvicinarci alla terra, che vedevamo.

La mattina adunque del Mercordì 5. ne parve essere fra Daman, e Bassin: e perche la corrente era contraria, aspettammo, che tornasse favorevole; ciò che seguì verso le 17. ore. Colla medesima avvicinandoci più a terra, si vedeva l’acqua del Mare più bianca, a cagion de’ fiumi, che vi entrano. Camminammo poco, e buttammo di nuovo l’ancora, per lo vento contrario; essendo quelle bestie di Mori mal pratici, che non sapevano dar passo senza vento favorevole. Ma io dall’altro canto ebbi colpa al mio danno, di star tanto tempo in Mare, per essermi appigliato al parere del P. Ciarlanton Gesuita Francese; perche se mi fussi imbarcato coll’Inglese, molto tempo prima sarei stato in riposo a terra.

Si tolse l’ancora a mezza notte; però prima di giorno il Giovedì 6. la riposero, per la causa suddetta: onde quando io credeva, dopo una dura quadragesima, fatta in Mare (per la provvisione mancata) fare almeno la Pasqua de’ Re a terra, fu d’uopo, mio mal grado, continuar l’astinenza. Si spiegarono quindi le vele; ma dopo poche ore si tolsero di bel nuovo, a cagion della corrente, e piena [p. 340 modifica]d’acque, che non permette il camminare se non in ore determinate.

Andai colla barca a terra (non per ancor fatto cauto dal pericolo di Mangalor) per riconoscere il paese; poiche nissuno de’ marinaj sapeva dire con certezza, che terreno di Portogallo aveamo da presso. Non avendoci le secche permesso di giugnere, che a mezzo miglio dal lido; si buttarono due marinaj a nuoto, per averne qualche contezza. Uno di essi, che rivenne (essendosi l’altro rimaso, temendo di tornare a nuoto) riferì, esser noi presso al Casale di Nevigon, due giornate di pedone lontano da Daman, verso Bassin. Ritornati con questa notizia al vascello, si tolse l’ancora, colla piena dell’acque; e la riponemmo nella mancanza verso Bassin.

Questa corrente si muta due volte nello spazio di 24. ore. Cammina dal far del giorno, per lo spazio dì 6. ore, verso Bassin, o Mezzodì: quindi corre sino alle 23. ore a Settentrione verso Daman, poi ripiglia il contrario movimento per Bassin, e dura sino a mezza notte; dopo la quale siegue di nuovo la Settentrionale, che continua sino al giorno. E’ ben vero, che queste correnti non [p. 341 modifica]cominciano sempre a un’ora in tutto il corto dell’anno, quantunque la durazione sia sempre la stessa.

Il Venerdì 7. spiegammo circa mezzodì le vele, con vento poco favorevole, e le piegammo di nuovo alle 24. ore. Dopo mezzanotte ripigliammo il cammino; e allo spuntar del Sole, il Sabato 8. demmo finalmente fondo dirimpetto a Daman. Or quantunque dopo mezzodì di nuovo spiegassimo le vele, nondimeno per l’ignoranza del Piloto, si piegarono di bel nuovo; perche faceva allontanarci più tosto, che avvicinare a Daman. Quattr’ore prima del dì, la Domenica 9. levammo l’ancora; e la riponemmo al comparir del Sole, regnando sempre l’istesso vento Settentrionale. Con quattr’ore di giorno ripigliammo il cammino, con mezzano vento, che spinse il vascello molto avanti, sino alla notte, in cui si pose l’ancora.

Il Lunedì 10. fummo a dar fondo vicino Daman, dopo mille e ducento miglia di cammino; ma che noi facemmo duplicato, per la poca avvertenza del piloto. Andai, subitamente collo schifo a terra, insieme col Capitano. Per buona ventura, trovai quivi giunto il Padre [p. 342 modifica]Francesco, e Fra Costantino (essendo di già partito per Bassin il Fattor di Bassora) onde con iscambievoli abbracciari, congratulati del salvo arrivo nell’Indie, dopo la separazione seguita nel Congo; mi menarono nel loro Convento di S. Agostino; dove il Padre Priore, con molta cortesia, m’accolse, e regalò; facendomi assistere da molti servidori, affinche meglio mi riavessi da’ disagi.