La metà del mondo vista da un'automobile/VI
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CAPITOLO VI.
PER LE PRATERIE MONGOLE
Nel letto d’un fiume. — Fra le torri della «Wan-li-chang-cheng» — Salpando nel mare verde — All’accampamento — Ospitalità mongola — Verso il deserto — Pong-Kiong.
“Lasciammo Kalgan stamane. Passiamo ora il confine mongolo. Sono le otto del mattino. Terreno ottimo. Abbiamo percorso col motore il letto del fiume Shi-shan per 25 chilometri. Superammo facilmente 1828 metri di altitudine. Paesaggio incantevole„.
Questo dispaccio, scritto in piedi, frettolosamente, sopra un foglio di taccuino, consegnai al mattino del 17 Giugno ad un giovane e cortese attaché della Legazione francese, che ci aveva accompagnati a cavallo fino al principio delle praterie, scongiurandolo di rimetterlo prima di sera all’ufficio telegrafico di Kalgan. Se gli avessi affidato un documento dal quale fosse dipesa la salvezza d’un esercito, non sarei stato meno solenne nelle mie raccomandazioni, e meno appassionato nei ringraziamenti.
Un giornalista è sempre disposto a considerare lo smarrimento d’un suo telegramma come una grave sciagura. Egli ha un po’ la passione dello storico, e un dispaccio perduto rappresenta una lacuna irreparabile nella immediata storia che egli scrive. E poi, è anche in lui un certo affetto paterno per quelle sue affrettate registrazioni dei fatti, e le accompagna col pensiero nel loro cammino; calcola le ore che impiegheranno a giungere a destinazione, calcola le differenze di tempo fra regione e regione, le vede arrivare alla redazione, di notte, al momento del lavoro, fermarsi fra le carte d’un gran tavolo, sotto la luce delle lampade elettriche.... Lo smarrimento equivale ad un tradimento. Viaggi, spese, fatiche, possono essere resi inutili da un futile evento che faccia rimanere un dispaccio in fondo alla tasca di qualcuno o Cavalieri Mongoli. sull’erba d’un sentiero. Alla puntualità d’un servizio giornalistico concorrono talvolta le più svariate circostanze, la rapidità di un cavallo, l’onestà d’un cinese, il bel tempo. L’incertezza sulla sorte del proprio lavoro è una delle pene più angosciose per un corrispondente in lontane regioni, costretto a ricorrere ad ogni mezzo per far giungere i suoi dispacci al più vicino ufficio telegrafico, impossibilitato a ricevere comunicazioni dirette, isolato, all’oscuro di tutto, sperduto nel dubbio.
Io tenevo immensamente al recapito di quel breve telegramma anche perchè in quel momento mi sembrava rinchiudesse la più importante notizia del mondo: “Passiamo ora il confine mongolo„.
Ripetevo queste parole a tutti con una sorta di entusiastico stupore. Eravamo in una valletta erbosa, fra le ultime ondulazioni del terreno, fra collinette tondeggianti e molli che facevano pensare ad un estremo propagarsi sulla pianura di quella tempesta di monti che avevamo attraversato, e che vedevamo all’oriente ancora alta sull’orizzonte. Allo sbocco della valle scorgevamo la L’impiegato telegrafico Cinese della stazione di Pong-Kiong in Mongolia e la sua bambina. prateria sfumare lontano, livellata ed eguale. Ci eravamo fermati per fare gli ultimi preparativi.
Il viaggio mattutino era stato magnifico. Avevamo dovuto aspettare per partire che le porte di Kalgan si aprissero. Per una consuetudine che risale certamente a tempi di guerre e di sorprese, le città della Cina chiudono ogni sera le loro porte, alle quali dei soldati sono messi di guardia. Per la via deserta eravamo arrivati di fronte ad una porta chiusa e ad una guardia che dormiva. La guardia s’è svegliata, la porta s’è spalancata, e alla prima luce dell’alba correvamo nella stretta valle dello Shi-shan-ho, zigzagando sulle ghiaie del fiume per evitare i macigni e i ciottoli.
La valle, chiusa da colline scoscese, era piena d’ombra anche quando le sommità rocciose dei monti cominciavano ad accendersi della luce rosata del sole nascente. Il giorno dominava già in alto, e la notte si rifugiava in basso; pareva nascondersi per non essere vinta, indugiava a dissiparsi, velava di penombre violastre quella tortuosa gola che noi risalivamo con una velocità di venti chilometri all’ora.
I tubi di scaricamento applicati ai cilindri del motore mandavano fuori i gas della combustione con esplosioni formidabili, assordanti, violente come colpi di carabina, e così rapide e serrate da darci l’illusione d’avere con noi una mitragliatrice in pieno funzionamento. L’eco di questo strepito riempiva la vallata. Dovevamo gridare per intenderci. Pietro sembrava esterrefatto. Trasportavamo anche Pietro con noi, issato sul bagaglio; s’era attaccato alle corde per resistere alle oscillazioni e ai sobbalzi dell’automobile, e rimaneva fermo e zitto, desiderando forse in cuor suo di trovarsi in quel momento sulla groppa del più indomito cavallo della Cina piuttosto che là sopra.
— Si va bene Pietro? — gli chiedeva Borghese, con la massima buona fede, mentre guidava la macchina.
E Pietro con una indecisione eloquente:
— Ss.... sì!
Sopra un’altura, si erge una gran roccia, strana, simile al rudere d’un castello medioevale, con delle punte aguzze che ricordano rovine di torri. Il castello è forato; dalla valle si vede il cielo attraverso un’apertura dello scoglio, regolare, simile all’apertura d’un qualche ponte massiccio. Nell’alba quella singolare costruzione della natura, ancora oscura e che si disegnava nitidamente sul cielo sereno, aveva una sinistra imponenza. I Mongoli che passano nella valle la guardano con un rispetto quasi religioso. Vi è una leggenda intorno a quella roccia. Un giorno Jingis-Kan, il Conquistatore, che è un dio nella memoria dei Mongoli, passando alla testa d’un esercito per quella stessa strada che noi percorrevamo in automobile, si fermò sotto al bizzarro castello creato dal caso, e come riconoscendovi un significato guerresco ed ostile, tolse una freccia alla faretra, l’adattò alla corda dell’arco, e la scoccò. La freccia colpì in pieno la roccia. La conseguenza di quel colpo imperiale? Il buco. Quell’apertura da ponte non è altro che la ferita alla montagna fatta da Jingis-Khan. È vero che la ferita è tanto grande che un uomo a cavallo, e forse anche in automobile potrebbe passarvi attraverso, ma chi può mai dire quanto fossero grosse le freccie di Jingis-Khan e quanto potenti le sue braccia?
Alla fine la valle si restringe e il fiume diventa burrone. Cominciava l’ultima ascensione. Ai piedi della salita aspettammo i coolies, che partiti alla notte da Kalgan non erano ancora giunti. Le altre automobili, rimaste indietro, ci seguivano lentamente. Osservavamo un vecchio tempio a mezza costa, quando vedemmo comparire per il sentiero sassoso un curioso individuo. Era un cinese alto alto, magro magro, una specie di grossa mummia disseccata, che portava accuratamente un vassoio pieno d’uova, una theiera, delle coppe, e che vistosi guardato ci faceva dei grandi inchini avvicinandosi. Il suo viso giallo e ossuto aveva un largo sorriso da teschio. Egli depose in terra il vassoio, versò il thè nelle coppe e ce le offrì, poi ci offrì le uova, e ci diede il benvenuto. Dovevamo al Ta Tsumba l’onore della sua conoscenza. Il nostro buon amico aveva mandato alle autorità dei paesi che noi avremmo attraversato l’ordine di renderci omaggio. Ma in quelle regioni mezzo deserte, di autorità non ve n’era che una, e precisamente quella brava mummia sorridente, capo di una piccola e povera popolazione annidata sulla montagna. Egli era disceso all’alba fino al piccolo tempio, dove s’era messo a far bollire l’acqua del thè, a cuocere le uova e ad aspettarci. Quando ci aveva visti da lontano, s’era precipitato con le sue lunghe gambe ad incontrarci. Salutammo cordialmente l’autorità, e l’autorità si affrettò a presentarci un taccuino facendo il gesto di scriverci sopra.
— Come! — esclamammo. — Un collezionista d’autografi?
— Volere scrittura — ci avvertì Pietro — per mostrare al Ta Tsumba che avere obbedito suo comando.
— Ah, un ben servito allora!
E scrivemmo, il Principe ed io, tutto il bene possibile ed immaginabile dell’uomo magro, il quale intanto mangiava tranquillamente le sue uova e beveva il suo thè.
I coolies arrivarono, con cinque muli, e pochi momenti dopo vedevamo abbassarsi ai nostri piedi allontanandosi la valle dello Shi-shan-ho. Ci arrampicavamo sulle giogaie dell’ultima Gran Muraglia.
Non rimangono che le torri dell’immensa Wan-li-chang-cheng. Fra l’una e l’altra si distende un lungo cumulo di sassi, ed è quanto resta delle mura cadute. I muraglioni avevano l’anima di fango; le torri di pietra. Per questo dopo ventun secoli di vita esse sono ancora salde ai loro posti di vedetta. Sorsero duecento anni prima di Cristo. Da allora sono scomparse tante città, si sono dispersi dei popoli, si sono estinte delle civiltà, degl’imperi sono caduti, ed esse rimangono. Rimangono soprattutto perchè sono inutili. Al mondo resiste meravigliosamente tutto ciò che è inutile e superfluo, poichè nessuno lo tocca.
Quelle torri, così isolate, sembrano, da lontano, sulla nudità della montagna, prodigiosamente grandi. S’innalzano a distanze eguali, a distanze che possono essere superate dalla voce umana; furono disposte così perchè il grido delle scolte corresse lungo la loro catena. Una torre chiamava l’altra nella notte.
L’automobile trainata percorreva un sentiero tortuoso, ma il Principe ed io scalavamo in linea retta le roccie finchè arrivammo alle prime torri. Lassù ci fermammo pieni di ammirazione per il sublime spettacolo che si apriva avanti a noi nella limpidezza luminosa del mattino. Vedevamo lo sterminato altipiano mongolo, abbastanza lontano da conservare ancora un’apparenza d’oceano, interrompersi a ponente, cessare improvvisamente con un ciglione a picco sui piani sottostanti del Hwang-ho: cadeva giù come una
immensa cateratta azzurra. In basso, più vicino a noi, un paesaggio strano, un paesaggio di sogno, un agglomeramento immenso di collinette rossastre, tagliate, martoriate, solcate per ogni verso da miriadi di crepacci, sterili, varie ed eguali come le onde del mare, impallidite dalla lontananza fino ad avere il fantastico colore d’una nudità vivente, un caos color di rosa, una tempesta immobile. All’oriente sorgevano gigantesche le montagne del Grande Khingan, una imponente cavalcata di vette, sfumate e come dissolventisi Un singolare tempio lamista nel deserto.
Costruzione che ricorda stranamente antichi monumenti egizi. nella troppa luce, al di là delle quali indovinavamo le vaste pianure della Manciuria. Poco dopo cominciammo a discendere. Entravamo in Mongolia. Erano le otto. Nelle vallette vicine scorgevamo dall’alto i tetti di miseri villaggi, rannicchiati fra le pieghe del terreno per difendersi dai venti del deserto.
Si discende dolcemente, al nord, e quasi subito cominciano i prati. La regione delle roccie finisce con le torri. Si è in un altro paese. Se la Cina non ha più frontiere su quelle creste, la Natura conserva gelosamente le sue. Passammo avanti ad una stazione di carovane; una cinquantina di carrette a buoi cariche di pellicce, provenienti da Sair-ussu, si allineavano vicino ad una povera capanna. I buoi, liberi dal giogo, pascolavano intorno: piccoli buoi neri dalle lunghe corna, di una razza speciale che resiste alle fatiche e alle privazioni delle grandi traversate. Dalla capanna uscì un cinese, un’altra autorità, ma senz’uova e senza thè, il quale, deferente agli ordini del Ta Tsumba, veniva ad offrirci i suoi servigi. Borghese non glie ne domandò che uno: di indicarci la strada dei cammelli.
Eravamo ancora sulla strada di Sair-ussu. Dovevamo proseguire fino alla prima stazione di posta, riconoscibile perchè vi è una bandiera, e vi sono dei soldati, ma sopratutto perchè non esistono altre costruzioni per un raggio di molti chilometri. Non correvamo dunque il rischio di sbagliare. Dalla stazione dovevamo semplicemente seguire la linea telegrafica: il telegrafo, nostra guida ufficiale, entrava in funzione.
Un’ora dopo ci fermavamo in un prato, vicino alla stazione di posta. Eravamo ad una cinquantina di chilometri da Kalgan. Verso le undici le altre automobili ci raggiunsero. Cominciarono gli ultimi preparativi, febbrilmente. Assestare definitivamente i bagagli fu un’operazione lunga e laboriosa; i carichi erano fatti e disfatti; v’era sempre qualche cosa di troppo o qualche cosa di dimenticato. Sull’erba, uno sparpagliamento di pellicce, di scatole di biscotto, di sacchi, di corde. Si gettava ai coolies il superfluo: letti da campo, materasse, bidoni vuoti. I motori erano riesaminati, controllati, provati. Ogni parte della macchina subiva un’attenta rivista. L’Itala veniva sormontata da una gran tenda a baldacchino, sorretta agli angoli da quattro aste di ferro, tenda che alla notte, smontata e fissata in altro modo, doveva servirci da ricovero.
Intorno a noi s’era adunato un pubblico nuovo: soldati cinesi, armati di fucile, venuti da una certa loro fortezza di fango cinta da mura a merli e feritoie; carovanieri che avevano lasciato i loro convogli per vedere quel che avveniva di straordinario nella prateria; mongoli che abitavano alcune yurte vicine, sopraggiunti con le loro donne dalla faccia tonda e i capelli coperti selvaggiamente di monili. Tutta questa gente ingombrava ogni spazio, osservando le automobili con una curiosità guardinga, e seguendo i nostri movimenti con attenzione profonda ed estatica, quasi attribuisseVecchio Lama del tempio lamista nel deserto. ad ogni gesto degli stranieri un significato importante e misterioso. Così avrebbe guardato gli atti di scongiuro di un mago. Per tenere lontana la folla Ettore descrisse intorno all’Itala un largo cerchio solcando la terra con un ferro, e nessuno varcò quel terribile segno.
Inutilmente cercammo di contenere il nostro bagaglio al posto destinatogli. Oltre il carico dei serbatoi, portavamo provviste supplementari di olio e di benzina, fasci di gomme, viveri per dieci giorni, e reputavamo imprudente rinunziare a qualche cosa. Il bagaglio invase anche il sedile posteriore. Convenimmo di viaggiare tutti e tre sulla parte anteriore dell’automobile, due nei sedili e il terzo ai loro piedi, assiso a sinistra sul piano della carrozzeria con le gambe appoggiate al montatoio. La posizione del terzo non era estremamente comoda, ma ci saremmo dati il cambio. E fu Ettore la prima vittima. Erano le due del pomeriggio quando ci mettemmo in cammino, dopo una rapida colazione a base di corned-beef. Il principe guidava. Le altre automobili ci seguivano.
Pietro era già partito per essere a Kalgan prima della chiusura delle porte. Ci aveva salutati, e ci aveva effusamente ringraziati nel suo più fiorito linguaggio, quasi che gli avessimo fatto il massimo regalo portandolo ad un trecento chilometri da Pechino. Poi era scomparso verso la Gran Muraglia seguito dai coolies.
Percorremmo la valle fino allo sbocco, ed entrammo nella pianura. Le colline si riunivano allontanandosi dietro di noi, e formavano come una riva. Avevamo veramente l’impressione profonda di lasciare una riva. Salpavamo.
Ai primi passi facemmo una constatazione dolorosa: il soverchio carico forzava talmente le molle posteriori, che al più piccolo sobbalzo dell’automobile lo chassis batteva pesantemente sull’asse del differenziale. Bisognava andare lentamente, ma il terreno era ineguale, e i colpi succedevano, violenti:
— Rompiamo le molle o rompiamo il differenziale! — esclamò Ettore al quale i colpi pareva battessero sul cuore.
— Non v’è pericolo immediato — rispose il Principe che giudicava con freddezza — ma l’automobile non potrebbe resistere a lungo. È necessario alleggerirla.
— Subito.
— No, alla prima tappa. Non andremo lontano.
— Che cosa togliamo dal carico?
— Tutto quel che non è strettamente necessario. Vedremo.
Intanto la strada migliorava. Sopra alcune centinaia di metri potevamo anche correre. Incontravamo ogni tanto dei minuscoli villaggi cinesi, circondati da campi d’orzo o di kao-liang, disseminati come oasi sulla pianura deserta. Essi rappresentano la colonizzazione della Cina.
La Cina avanza lentamente ma sicuramente su tutti i così detti Nel deserto — Incontro di una carovana di cammelli. Territori di conquista. Al Turkestan come in Mongolia. Con piccole guarnigioni e pochi funzionari, essa domina immense regioni, abitate da gente bellicosa ma dispersa. Su queste regioni trabocca l’emigrazione cinese, che il lavoro dei campi attacca al suolo. È l’agricoltura che a poco a poco invade i dominii della gente nomade: una forza più grande di quella degli eserciti, perchè il nomade non ama la terra e non la difende: egli si ritira verso gli spazi liberi; cede senza accorgersene. La popolazione cinese dilaga ora verso l’occidente come non avvenne per secoli. È un fenomeno recente, che si svolge silenziosamente, inosservato, nel centro dell’Asia. L’espansione cinese, fronteggiata sul mare dagl’interessi di tutto il mondo civile, trova uno sfogo verso la terra. Essa guadagna, in alcune regioni, fino a settanta e novanta chilometri ogni dieci anni. Ed ha una terribile potenza di assimilazione; trasforma gli abitanti, li cinesizza. Vi sono nella Mongolia occidentale degli antichi centri ove non si parla più mongolo ma cinese.
Fu vicino ad uno di questi villaggi che mettemmo il campo. Alla nostra vista le donne fuggirono, saltellando sui loro piedi deformi, a celarsi fra le piantagioni dall’altra parte dell’abitato. Esse forse ci attribuivano dei propositi eccessivamente galanti. Gli uomini invece vennero ad osservarci, mentre trasformavano il baldacchino dell’automobile in tenda da campo — una gran tenda sostenuta al centro dall’automobile stessa, e destinata a proteggere con noi anche la macchina. Poco discosto le De Dion-Bouton, la Spyker ed il Contal si accampavano disponendosi in modo ingegnoso — le automobili in giro e le tende nel centro — come si usa per i convogli militari.
Il Principe Borghese aveva deciso di alleggerire l’Itala dei parafanghi, dei ferri che sostenevano il baldacchino, dei tubi di scaricamento, di certi pali di ferro che portavamo per servircene come leve, di un piccone, e della metà dei viveri. Regalavamo questa roba ai cinesi che ci aiutavano nelle nostre faccende. Chi ci portava un secchio d’acqua riceveva un parafango; un piccone a chi ci dava delle uova. Quella brava gente ci prendeva per matti; se ne tornava a casa allegramente trascinando aste di ferro, o sorreggendo delle scatole di conserva in un lembo del vestito. Furono accesi i fuochi del bivacco.
Veramente l’espressione è più pittoresca della realtà. In Mongolia manca ogni specie di combustibile vegetale, e gli abitanti bruciano dello sterco di cammello, debitamente seccato al sole. Non eravamo dunque vicino alle belle fiammate degli accampamenti. In compenso i nostri compagni possedevano degli splendidi fornelli a benzina. Noi non avevamo preveduto la difficoltà, non ci eravamo forniti di nessun apparecchio del genere, e ricorremmo genialmente alla lampada da saldare, che fa parte dell’attrezzatura di ogni automobile. Questi erano fuochi di bivacco, intorno ai quali, in maniche di camicia, ci affaccendavamo attivamente. Du Taillis sorvegliava la cottura di una zuppa meravigliosa che si compra a tavolette come la cioccolata, e che contiene tutti i principi della nutrizione. Io, con la lampada da saldare, cercavo d’indurre una pentola all'ebollizione. La cucina, come si vede, era interamente affidata al giornalismo; ma, mi dispiace per l’onore Nel deserto di Gobi. — Una carovana di carri a cammello. del giornalismo, i risultati nel campo italiano furono deplorevoli. Il nostro pranzo puzzava di benzina, di petrolio e di grasso. Sopraggiunsero tre mongoli a cavallo. Li avevamo incontrati e sorpassati qualche ora prima. Uno di loro, un giovane dalle forme atletiche, era vestito di seta paonazza, con un cappello a punta di seta gialla ricamata, ed aveva l’aria d’un capo. Discesero di sella, misero le pastoie ai cavalli, distesero dei tappeti vicino a noi, accesero un fuoco (con quel tal combustibile che sapete, del quale i mongoli in viaggio portano sempre un sacchetto) e si accovacciarono. Il giovane dall’abito di seta si appressò a noi, facendo gran segni di saluto, sorridendo, e mostrando una infantile curiosità per ogni oggetto che vedeva. Ingaggiò con noi una conversazione attiva ma misteriosa, durante la quale facevamo degli sforzi eroici per comprenderci scambievolmente. Per fortuna Borghese possedeva un grazioso manoscritto contenente qualche centinaio di parole mongole con la loro traduzione, e riuscimmo a capire: che il nostro interlocutore era realmente un capo, che saremmo passati vicino al suo villaggio, e che egli ci invitava a fermarci nella sua casa. Tutto ciò valeva bene alcuni barattoli di corned-beef, e li consegnammo cerimoniosamente all’illustre personaggio, la cui gioia e la cui riconoscenza sembrarono inesauribili.
In quel mentre udimmo un galoppo di cavallo. S’era fatto scuro, e riconoscemmo nel cavaliere un soldato cinese soltanto quando egli si fermò a qualche passo da noi chiedendo:
— Po-lu-ghe-se?
Il Principe (cosa vuol dire l’abitudine!) riconobbe in quei suoni il suo nome in cinese e s’appressò al soldato. Questi, messo piede a terra, gli consegnò un plico. Era la posta, l’ultima posta da Pechino, arrivata a Kalgan alle nove della mattina. Quell’uomo aveva percorso più di novantacinque chilometri in undici ore. Aveva ricevuto l’ordine dal Tu Tung di raggiungerci e ci aveva raggiunti. Compiuta la sua missione, prima ancora che pensassimo a trattenerlo, risalito in sella, si era allontanato. Che meravigliosi soldati sarebbero i Cinesi, se avessero del coraggio!
Ci sembrò strano quell’improvviso arrivo di notizie in mezzo alla prateria, nella solennità della sera, nell’ora che fa sembrare la solitudine più vasta e più triste. Erano lettere di saluto, di augurio, voci amiche che ci raggiungevano sull’orlo del deserto, e che ci sembravano in quel luogo più profonde e più significative. Spogliata la posta alla luce del crepuscolo, rimanemmo a conversare, seduti sui nostri bagagli, fumando, mentre le cose impallidivano intorno, s’immergevano nella notte, e i nostri volti stessi perdevano a poco a poco ogni contorno velandosi nell’ombra. La tenebra pare che allontani e che isoli; essa finisce col rendere taciturni, perchè dà la sensazione d’esser soli. E tacemmo quando nell’oscurità non vedemmo più distintamente che il brillare delle sigarette accese e un biancheggiare di carte in terra. Il cielo sereno s’era coperto di miriadi di stelle.
I mongoli nostri vicini erano addormentati intorno al fuoco spento; ad essi se n’era aggiunto un altro, arrivato sopra un cammello, e la bestia gibbosa, accovacciata e immobile, si profilava sull’ultimo chiarore dell’occidente e assumeva una grandiosità monumentale, come quei giganteschi cammelli di pietra che adornano le tombe dei Ming. Si sentivano brucare i cavalli, lontano. I cinesi erano spariti.
— Bah, corichiamoci — esclamò Borghese. — Domani dobbiamo levarci alle tre!
Preparammo i nostri giacigli sotto la tenda, poi ci mettemmo a raccogliere gli oggetti dispersi intorno, sull’erba. Mi accorsi subito della mancanza di varie piccole cose, di un coltello, di un bicchiere d’argento, di un nécessaire da caccia. E pure erano lì poco prima; li avevo adoperati. Vi erano dunque dei predoni? La scoperta di questi furti non era rassicurante. In quel momento il Principe mi domandò:
— Ha preso lei le cartucce?
— Quali cartucce?
— La provvista di cartucce da revolver che era qui.
— No.
— Sono state rubate, allora. Sono sparite tutte. Non ci resta altra arma utile che una pistola Mauser. A meno che non abbiano rubato anche....
— Le cartucce della Mauser? — chiesi inquieto.
— Già!... No, quelle eccole. Erano dentro al bagaglio. Carichiamola, a buon conto.
— E facciamo buona guardia. Un furto di cartucce è grave.
— Ettore, coricati con la pistola a portata di mano.
Io mi recai dai nostri vicini francesi a comunicare l’avvenuto. Ed anche loro prepararono le armi.
Ma non vi fu mai nella nostra vita una notte più calma.
I predoni che erano probabilmente gli abitanti del villaggio vicino, si reputarono soddisfatti dal possesso delle cartucce, del bicchiere, del coltello, e degli altri piccoli oggetti rubati, e si tennero al largo. E noi imparammo ad essere più guardinghi verso gli ammiratori.
Nel deserto. — Carri a caramello.
Tardi nella notte il freddo pungente venne a cercarci fin sotto alle pellicce, e ci risvegliò prima assai dell’alba, mentre attraverso gli spiragli della tenda vedevamo ancora palpitare il firmamento.
Quando ci alzammo trovammo che i mongoli erano partiti. Fu il triciclo Contal che lasciò il campo per il primo. Alla sera era giunto al campo con un grande ritardo. S’era fermato più volte per le ineguaglianze della strada; in certi tratti era stato spinto a braccia dai suoi due volonterosi conducenti, decisi a tutto, e il motore s’era in qualche momento riscaldato nel superare le resistenze del terreno. Era partito prima, dunque, per avere un certo vantaggio di strada sui 200 chilometri circa che dovevamo percorrere nella giornata. Questo handicap era cosa convenuta alla sera.
Un’ora circa dopo il triciclo sono partite le De Dion-Bouton e la Spyker, a poca distanza l’una dall’altra. Erano le quattro. Noi fummo trattenuti dal bagaglio, per il quale non riuscivamo a trovare un adattamento definitivo. La questione del bagaglio ci ha imbarazzati fino al termine del viaggio. È stato il nostro tormento, il nostro incubo. Nella costruzione e nella preparazione dell’Itala, tutto è stato preveduto, studiato, e ingegnosamente risolto, ma non si è pensato al bagaglio. Mancava il modo di disporlo e di assicurarlo. Dovevamo legarlo con delle funi passate nei perni delle molle, ma le funi, raccorciate dall’umidità della notte, si distendevano al sole, si allentavano, il carico si spostava, oscillava, si sfaceva. Ed erano lunghe ore di lavoro per rimetterlo al posto.
Sorgeva il sole quando ci siamo messi in cammino. Erano quasi le cinque. Abbiamo seguito sull’erba bagnata di rugiada le traccie delle altre vetture. Dopo esser passati in vicinanza di piccole colonie cinesi, abbiamo trovato un sentiero. Da un’ora eravamo in marcia, allorchè raggiungemmo il Contal, fermo. Pons e il suo compagno erano discesi, e sembravano occupati ad osservare qualche cosa nel motore. Il Principe, che conduceva, frenò la macchina per prestare aiuto. Scambiati con noi i saluti, Pons ci disse di continuare pure. Non aveva bisogno di nulla. Supponemmo che aspettasse il raffreddamento del motore riscaldato. Riprendemmo la corsa. Mezz’ora dopo arrivavamo alle altre automobili che camminavano in fila. Salutammo, e proseguimmo. L’appuntamento era alla stazione telegrafica di Pong-Kiong.
L’alleggerimento del carico aveva prodotti i suoi buoni effetti. Le molle s’erano risollevate, e lo chassis si manteneva ragionevolmente lontano dal differenziale. L’Itala correva a trenta chilometri all’ora.
Ci accorgemmo ad un certo momento che i pali del telegrafo stavano per sparire all’orizzonte, alla nostra sinistra. Avevamo forse preso la strada che porta verso il fiume Kerulen, ad est di Urga. Attraverso i prati rintracciammo il nostro sentiero.
Non più campi cinesi, ora, nè casupole di fango. Soltanto la pianura selvaggia avanti a noi, verde ed eguale. Di quando in quando qualche basso aggruppamento di roccie schistose interrompeva l’uniformità dell’orizzonte lievemente ondulato. Vi era una tale solitudine che la vista d’un uomo formava un piccolo avvenimento che ci segnalavamo:
— Un uomo a cavallo.... laggiù!
— Ci ha visti. Galoppa.
Mi ricordavo d’un comune episodio di bordo nelle lunghe navigazioni, quando i passeggeri si chiamano sul ponte per indicarsi una cosa rara:
— Guardate, un bastimento.... laggiù!
Incontravamo delle grandi mandrie di cavalli, di quei piccoli cavalli mongoli tozzi e resistenti, marciatori meravigliosi che veramente fornirono la forza motrice alla conquista tartara. Una inesplicabile curiosità attirava quelle mandrie verso di noi. Appena il rumore insolito, inaudito del motore, che echeggiava lontano nella gran calma della pianura, arrivava fino a loro, tutti i musi si levavano da terra, si volgevano, e la vista d’un mostro fuggente non incuteva spavento ai timidi animali. Riconoscevano forse in quella cosa veloce una non so quale affinità: la prestezza. E venivano. Arrivavano tutti insieme con una gran galoppata. Pareva che volessero annientarci sotto una carica furibonda. Erano di quelle corse folli delle mandrie che nelle pampas si chiamano desparadas e che passano come uragani abbattendo tutto. Ma a dieci metri da noi si fermavano di colpo, sui garetti irrigiditi, con l’esattezza e l’abilità di cavalli arabi nella fantasia, poi ripartivano a fianco nostro, e ci accompagnavano galoppando finchè non si vedevano sorpassati. Allora, subitamente, mutavano direzione, e tornavano al largo ai loro pascoli. Lo spettacolo era superbo, specialmente quando eravamo fiancheggiati da quelle scorte bizzarre, e avevamo sotto gli occhi tutte le bellezze, le eleganze, le energie del cavallo lanciate in tumulto.
La manovra si ripeteva quasi invariata ogni volta. Essa era dunque suggerita agli animali da uno stesso pensiero. Quale? Che cosa passava mai nei loro piccoli cervelli? Nelle loro evoluzioni sembravano guidati dalla mano di cavalieri invisibili, tanto erano disciplinati. Si direbbe che in quei cavalli sia disceso per un lontano atavismo il senso della guerra.
Rari pastori si aggiravano in prossimità delle mandrie destinate a scendere ai grandi mercati di Pechino nell’inverno, quando l’animale si copre d’un lunghissimo pelo caprino. Qualcuno di quegli uomini aveva tentato di avvicinarsi a noi spingendo alla carriera la cavalcatura, ma con sua enorme sorpresa non aveva potuto raggiungerci, e s’era fermato a guardarci immobile fino a che scomparivamo dal suo orizzonte. In certi momenti potevamo correre a quaranta e a cinquanta chilometri all’ora. Mai la Mongolia era stata attraversata a queste velocità. Noi avremmo lasciato indietro anche i famosi corrieri di Jingis-khan, i quali portavano a spron battuto gli ordini dell’imperatore e le notizie delle sue vittorie da un confine all’altro dell’immenso impero.
Quella corsa c’inebbriava e ci stordiva, non per la sensazione fisica della rapidità, non per quella gioia del volo che dà l’automobile e che è l’essenza della passione automobilistica, ma per una profonda, piena e ineffabile soddisfazione intellettuale, per l’inesprimibile godimento che veniva dal trovarci lì. A volte ci sentivamo afferrati da un senso di sorpresa, la chiarezza del pensiero si velava come nel sogno, dei dubbi irragionevoli passavano simili a nubi sulla percezione esatta dei luoghi, dimenticavamo per ricordarci ad un tratto, e interrompevamo lunghi silenzi dicendoci:
— Siamo in Mongolia!
— Proprio!
Una volta Borghese si volse a dirmi improvvisamente:
— Penso che traverseremo il deserto di Gobi. Ebbene, non ci posso credere!
In quel momento pensavo la stessa cosa. Era in noi un miscuglio inesplicabile di fiducia, di risolutezza, di volontà, e di incredulità vaga. Era un po’ il sentimento di chi, deciso a vincere si gettasse armato ad incontrare il nemico nella nebbia. Pensando alla natura del terreno, alla stabilità della stagione, alle virtù della macchina, e alle nostre forze, ci sentivamo sicuri; ma quando vedevamo con la fantasia il punto da noi occupato nel mondo e chiamavamo quelle terre con i loro nomi, allora la nostra certezza vacillava. Ci pareva che il problema uscisse dalla semplice tecnica, che vi fossero degli elementi incalcolabili; subivamo il misterioso e pauroso fascino dell’Asia. Il deserto si personificava nella nostra mente: quel terribile avversario dell’uomo, quel massacratore di carovane, quella temuta divinità della morte, si sarebbe difeso: pensavamo a lui come ad una indomita potenza. La parola stessa: Deserto — c’imponeva.
Vedevamo qualche yurta di tanto in tanto, bassa e rotonda, simile ad un alveare. Quella piccola cupola grigia coperta di feltro è l’abitazione dei nomadi dell’Asia, dai kirghisi ai turcomanni, identica sulle rive dell’Aral e su quelle dell’Irtysch e del Tola, e basterebbe da sola a provare la parentela di tutte le razze del centro asiatico, la loro discendenza dal gran ceppo mongolo. Io vidi delle yurte anche nel campo russo a Mukden.
Il rombo dell’automobile arrivava a quelle capanne, degli uomini sbucavano fuori precipitosamente, guardavano facendo grandi gesti di stupore. Qualche volta balzavano in groppa a dei cavalli pascolanti vicino a loro, e c’inseguivano ostinatamente, agitando le lunghe aste da mandriano come fossero lancie, e gridando.
Saranno state le otto del mattino quando siamo arrivati in vicinanza di un gruppo di yurte, un vero piccolo accampamento. Della gente era in vedetta sopra una specie d’impalcatura ed ha dato l’allarmi. È seguita una confusione d’uomini che correvano verso la strada. Essi ci facevano dei segnali. Giunti vicini abbiamo riconosciuto fra loro il nostro bravo mongolo della vigilia, vestito del suo pomposo abito paonazzo, che si affaticava a gesticolarci un espressivo: Fermi! Eravamo al suo villaggio, ed intendeva onorarci della sua ospitalità. Si mostrava così espansivo e sincero che non volemmo procurargli il dispiacere di proseguire come ne avevamo voglia; e l’Itala, con una bella evoluzione, andò a fermarsi nel recinto Nel deserto di Gobi. — L’alt ad un pozzo. del campo dei nomadi. Un momento dopo sedevamo in giro all’interno della yurta più bella, la yurta del capo.
Ardeva il fuoco nel mezzo, e il fumo acre e leggermente muschiato sfuggiva per l’apertura centrale della cupola. Un bel vecchio, il padre dei nostro amico, c’intratteneva cerimoniosamente con una pontificale solennità di gesti, ed una vecchia, la madre, deponeva con rispetto avanti a noi vassoi pieni di formaggio, coppe di latte acido e di panna, tazze di thè fumante, e bicchieri colmi di un liquore chiaro e dolce fatto con latte fermentato. I bicchieri, di provenienza europea, erano stati presi con gelosa cura dal vecchio in un piccolo mobile cinese del quale egli aveva la chiave; era il mobile dei tesori, la cassaforte di famiglia; in esso vedemmo riposte le scatole di corned-beef da noi regalate. Mentre stavamo coscienziosamente empiendoci di latte, udimmo delle parole che ci fecero dare un balzo di sorpresa:
— Sprechen Sie Deutsch?
Un giovane mongolo, entrando, aveva fatto quella domanda così semplice e così sbalorditiva. Egli aveva parlato con un ottimo accento teutonico.
— Ja — rispose il Principe al colmo dello stupore — Ich spreche Deutsch.
E il giovane mongolo cominciò a conversare nella lingua di Goethe. Domandò quale era la velocità massima della nostra automobile, e la trovò soddisfacente.
— Ma dove avete imparato a parlare tedesco? — gli domandò Borghese.
— A Berlino. È lontana Berlino!
— A Berlino?
— Sì, vi sono stato due anni.
— E, a che fare?
— A fare il Mongolo! — rispose gravemente.
Credemmo che scherzasse, o che non avesse capito la domanda.
— Cosa facevate a Berlino?
— Il Mongolo, facevo il Mongolo! — ripetè con convinzione; poi aggiunse: — Stavo in una esposizione, capite? Vi erano genti di tutte le razze, e vi era un accampamento di yurte mongole anche, con i cavalli, i cani e le donne; e tanta folla veniva a vederci ogni giorno, e ci parlava, e così ho imparato il tedesco.
— Vi piace l’Europa?
— Sì. E a voi, vi piace la Mongolia?
— Molto.
Si mostrò contento di noi a questa risposta che gli faceva apprezzare il nostro illuminato giudizio.
Uscendo all’aperto trovammo un gruppo di cavalieri che caracollava intorno all’automobile, sulla quale Ettore serenamente beveva la sua porzione di latte. Tutti gli abitanti maschi dell’accampamento si disponevano a scortarci, ed erano saliti in sella.
Partimmo velocemente circondati dalla singolare e pittoresca cavalcata, fra lo scalpitare serrato degli zoccoli sulla terra dura, e un lungo gridìo selvaggio. S’agitavano intorno a noi lembi di zimarre variopinte; i lunghi nastri che i mongoli hanno attaccati al cappello puntuto, sfarfallavano nell’aria; ondeggiavano criniere e code. Ma i nostri ospiti s’erano ingannati sulla possibilità di accompagnarci. Inutilmente aizzarono i cavalli con la voce e con lo scudiscio, inutilmente le povere bestie si slanciarono ventre a terra. Dopo un minuto l’automobile sfuggiva alla sua scorta, il cui rumore si perdeva lontano, e si ritrovava sola nel deserto erboso.
Molti di quegli uomini erano Lama. Si riconoscevano dal capo rasato. Non avevano altri segni della loro condizione sacerdotale. Vi sono tanti Lama in Mongolia, che formano la maggioranza della popolazione maschile. Se un padre ha cinque figli, ne destina tre ad essere dei Lama. Vi sono Lama pastori, carovanieri, mercanti di cavalli: bisogna bene che i monaci facciano i mestieri del popolo quando diventano un popolo. La Mongolia è un immenso convento. Nel Lamismo s’è spenta l’antica energia della razza. Un popolo di guerrieri è divenuto un popolo di filosofi.
Passarono alcune ore. Il paese si trasformava a tratti. La prateria s’interrompeva per lasciare il posto a vaste distese quasi sterili, coperte di rade erbe grasse. E variava la natura del suolo; passavamo dalle ghiaie sottili alle sabbie, dalle sabbie alle ineguaglianze di brevi passaggi sassosi. Poi ancora prati. Ma non vedevamo più mandrie, non scorgevamo più yurte fumanti. Il sole scottava. Incontrammo una carovana di cammelli attaccati a delle strane carrette a due ruote. Un’altra carovana trovammo accampata vicino ad un pozzo. Raramente qualche uomo a cavallo si mostrava all’orizzonte.
Più oltre non trovammo più segni di vita se non nella vicinanza dei pozzi. A distanze enormi la presenza d’un pozzo ci era segnalata sull’orizzonte da un aggruppamento confuso di cammelli e di tende azzurre rabescate di bianco.
Osservando una buona carta della Mongolia, sul tracciato delle vie carovaniere si vedono disseminati dei nomi e dei punti, e si ha l’impressione che si tratti di villaggi e di paesi. Si tratta invece di pozzi. Ogni pozzo ha il suo nome. Non è che un piccolo buco nella terra in fondo al quale tremola dell’acqua, e pure assume l’importanza d’una città: esso è la vita. È la vita di chi passa, cioè è la vita dei commerci, cioè è la vita dei paesi posti a migliaia di chilometri da lui che di quei commerci prosperano, è la vita di popolazioni lontane che quei commerci alimentano. Le ricchezze di Kalgan, le ricchezze di Kiakhta, hanno succhiato il nutrimento nei pozzi sperduti fra le solitudini della pianura mongola.
I pozzi segnano le tappe delle carovane. Sono distanti l’uno dall’altro dai trenta ai settanta chilometri. Nell’inverno vi si accampa di notte, nell’estate vi si accampa di giorno. Le some dei cammelli, col loro carico, sono messe in fila. Avanti alla prima e all’ultima sono piantate due lancie, più per un segno tradizionale che per minaccia. Gli uomini si attendano, e le bestie vengono lasciate libere al pascolo, quando c’è un pascolo.
Ci fermavamo anche noi ai pozzi, ad attingere acqua per la macchina, a dissetarci, a rinfrescarci le mani e il viso. E passavamo qualche minuto fra i carovanieri, i quali ci osservavano con un rispetto eguale allo stupore. Nessun segno di ostilità da quella brava gente. Richiamavano i loro terribili cani da guardia, grossi e vellosi, e talvolta ci aiutavano ad attingere acqua con certi loro attrezzi formati d’un otre e d’un bastone. Ma evitavano di toccarci....
A mezzogiorno avremmo potuto credere di essere già entrati ufficialmente nel deserto. Correvamo per regioni quasi sterili. La terra era d’un colore rossastro, ed aveva ondulazioni qualche volta brusche che obbligavano il Principe ad un’attenzione intensa per non piombare velocemente sulle ineguaglianze del suolo che avrebbero spezzato la macchina. Ogni rallentamento di velocità ci faceva sentire più forte il calore. Eravamo stanchi, storditi dal sole e dalla luce. Cominciavamo a rimpiangere l’ombra del nostro baldacchino soppresso.
Superando una breve ma ripida salita l’automobile si fermò. Era esaurita la benzina del serbatoio del motore. Esso conteneva Soldati Mongoli. la quantità di benzina necessaria a percorrere 200 chilometri. Dal mattino avevamo dunque camminato 200 chilometri, e non eravamo ancora giunti alla stazione telegrafica di Pong-Kiong, che calcolavamo fosse invece a poco più di 180 chilometri dall’accampamento. L’avevamo forse passata? In qualche momento ci eravamo discostati dalla linea telegrafica; non sempre eravamo stati attenti e Pong-Kiong poteva anche trovarsi lontana dalla strada nostra, riunita alla linea da qualche diramazione di fili....
Tutti questi problemi, niente affatto allegri, ci ponevamo mentre Ettore con un ingegnoso sistema di sifoni travasava la benzina dei grandi serbatoi. Il caldo era tale che vedevamo i vapori di benzina sfuggire a larghe spire trasparenti, attraverso le quali tremolava il contorno degli oggetti. Aggirandoci vicino all’automobile ferma ci accorgemmo di un altro fatto grave; mancava una parte del carico, sfuggita e caduta per un allentamento delle corde che lo legavano. Mancava precisamente il bagaglio personale del Principe, perduto chi sa dove.
Cosa fare? Tornare indietro alla ricerca del bagaglio e di Pong-Kiong? Decidemmo invece di continuare la strada.
Ci convincemmo che il bagaglio di due persone poteva servire per tre; e che se Pong-Kiong era stata sorpassata, potevamo fare a meno di quella tappa ed arrischiarsi subito nel deserto, avendo ancora il carico d’acqua intatto, viveri per cinque giorni, benzina per settecento chilometri. Risalimmo in macchina, e ripartimmo.
Il terreno migliorava; per decine di chilometri offriva una pista eccellente che permetteva le più grandi velocità. Ricompariva un po’ d’erba grigiastra e rada, e sull’erba ritrovavamo i bizzarri sentieri tracciati dai cammelli. Poichè le carovane non seguono una strada unica; si dirigono per approssimazione, e formano centinaia di viottoli paralleli, i quali fanno pensare a segni lasciati sulle praterie da un’antica aratura gigantesca.
Lontano lontano, ad un certo momento, potemmo distinguere un punto scuro che poteva essere una capanna. Il punto prendeva una forma rettangolare, si allungava. Era un muricciuolo color della terra. Correvamo a trenta chilometri, e non tardammo a vedere un tetto di fango spuntare dietro al muricciuolo. Dei pali telegrafici si avvicinavano a quella povera costruzione, che era tanto più bassa di loro.
— Pong-Kiong! Pong-Kiong! — esclamammo col tono che il marinaio di Colombo deve aver adoperato a gridare il famoso: Terra! Terra!
Evidentemente ci eravamo sbagliati almeno di 50 chilometri nel calcolo della distanza. Pong-Kiong non era sulle nostre carte ed avevamo giudicato per induzione.
— Pong-Kiong? Quello là? — chiese sorpreso Ettore. — Io credevo che Pong-Kiong fosse un paese!...
— Ma che! È un pozzo. Un pozzo e un telegrafo. Niente più!
Ma noi non volevamo di più.
Se avessimo visto sorgere avanti a noi il più meraviglioso palazzo del mondo, non avremmo provato una maggiore soddisfazione.