Le Mille ed una Notti/Continuazione della Storia di Giamaspe e della regina de' Serpenti

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Continuazione della Storia di Giamaspe e della regina de' Serpenti

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Continuazione della Storia di Giamaspe e della regina de' Serpenti
Storia di Giamaspe e della regina de' Serpenti La Città di Bronzo

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Donne orientali al bagno.               Disp. XXX.

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CONTINUAZIONE


DELLA STORIA DI GIAMASPE E DELLA REGINA


DE’ SERPENTI.


— «Un giorno il principe Giansciah, in una partita di caccia col padre, dopo aver percorse per tre giorni paludi e foreste, scoprì una leggiadra gazella, che si mostrò a poca distanza da lui, poi si diede a fuggire con tutta forza. La inseguì Giansciah con sette de’ suoi mamelucchi, senza poterla raggiungere, sino alla spiaggia del mare, dove la gazella, sotto i loro occhi, s’immerse nell’onde. Per caso trovavasi alla riva un battello; il principe vi si lanciò dentro con sei mamelucchi, mentre il settimo rimase a terra alla custodia dei cavalli. Nuotò la gazella lungo tempo davanti ad essi, ma alla fin fine la raggiunsero, [p. 2 modifica] ed allora Giansciah ed i suoi compagni si accorsero di essere a gran distanza dalla riva; mentre facevano tutti gli sforzi per toccar terra, li sorprese la notte, ed un violentissimo vento, alzatosi d’improvviso, rese la barchetta scherzo dell'onde in mezzo alle tenebre. Intanto Tigmos stava in grande inquietudine pel figliuolo, e spedì da tutte le parti in cerca del giovane. Uno di questi trovò il mamelucco che custodiva i cavalli, il quale narrò come Giansciah si fosse imbarcato; racconto che immerse il re in ispa ventosa disperazione, talchè gettata a terra la corona, si percosse il petto e strappossi i capelli. Fe’ scrivere a tutte le isole, e mandò più di cento corrieri per aver nuove del principe.

« Questi era approdato co’ compagni in un’isola sconosciuta, in mezzo alla quale scorreva una fonte ove fermatisi, vi videro un uomo cui salutarono. Quell’uomo rispose loro con una voce di falsetto simile al grido d’un uccello; poi, fessosi per metà, si divise in due parti, una delle quali camminava a destra e l'altra a sinistra. Fu colui seguito da gran numero d’altri uomini i quali, giunti alla fontana, tagliaronsi come lui per mezzo, e si precipitarono su Giansciah ed i compagni, i quali si diedero alla fuga, ma non abbastanza ratti che tre mamelucchi non fossero prosi e divorati vivi, mentre gli altri tre ed il principe pervennero con sommo stento ad imbarcarsi. Navigarono per tre giorni, e venute allora a mancar le vettovaglie, furono costretti ad uccidere la gazella. Finalmente, giunsero ad un’amena isoletta, coperta d’alberi fruttiferi ed inaffiata da mille ruscelli cristallini; Giansciah comandò ai tre compagni d’andar alla scoperta per vedere se l'isola non fosse mai abitata da quella specie d’uomini provvisti di sì. buon appetito, anche dopo che si erano fessi in due; quanto a lui, rimase nella barca. [p. 3 modifica] I tre mamelucchi, dopo aver vagato a destra ed a sinistra senza trovar nulla, giunsero infine in mezzo all’isola, dove ergevasi un palazzo di marmo bianco, con padiglioni di cristallo. In mezzo al palazzo si trovava un magnifico giardino, in questo giardino un lago, e sulla sponda del lago um superbo padiglione, ov’eravi un gran numero di sedie disposte intorno ad un trono d’oro, adorno di gioie del massimo valore. I mamelucchi non videro alcuno, e ricercando invano da tutte le parti, tornarono a dirlo al principe, il quale, balzato a terra nel medesimo istante, seguì i mamelucchi, che ripigliarono la via del palazzo.

«Sinché durò il giorno, passeggiarono pel giardino; venuta la sera, entrarono nel padiglione, sedendo i mamelucchi sui sedili, mentre il principe andò a collocarsi sul trono, cosa che gli ricordò il soglio, perduto forse per sempre, e pensando eziandio ai suoi genitori, si mise a piangere, ed i suoi schiavi con lui. D’improvviso, li percosse di terrore un alto rombo che veniva dalla parte del mare; poco dopo scopersero una moltitudine di scimie che si dispersero da tutti i lati, perchè l’isola, come anche il giardino ed il padiglione, loro appartenevano. Il principe ed i suoi compagni n’ebbero grande spavento, ma si dissipò in breve allorché videro che le scimie, lungi dal cercar di nuocere loro, vennero a gettarsi appiè del principe onde prestargli omaggio. Occupatesi poi della cucina, portarono in istoviglie d’oro e d’argento la cena, e Giansciah ed i compagni si posero a tavola colle scimie. Levate le mense e recitata la preghiera, Giansciah si volse verso le bestie, che offrivano uno spettacolo singolarissimo, e chiese loro a chi appartenesse quell’isola. Risposero che un tempo apparteneva al re Salomone, il quale veniva una volta l’anno a passarvi alcuni giorni di [p. 4 modifica] sollazzo. — Adesso.» soggiunsero, «e noi vi riconosclamo per nostro re; bevete e mangiate a piacimento: noi siamo vostri fedeli sudditi.» Giansciah le congedò e coricossi tenendo presso di sè i tre eunuchi. La mattina seguente, quattro ministri scimiotti vennero, all’alzarsi del nuovo loro re, ad invitarlo ad andar a passare in rassegna l’esercito, conducendogli grossi cani, imbrigliati con catene d’acciaio, che servivano di cavalli. Giansciah ed i mamelucchi vi salirono, avviandosi verso la spiaggia dove aveano lasciato il battello; ma questo era sparito, e chiesto dal giovane alle scimie cosa ne fosse avvenuto: — Non ne sappiamo nulla,» risposero; «e poichè siete nostro re, lo sarete sempre, siavi no il battello. Non vorrete senza dubbio abbandonare i vostri fedeli sudditi? — Armiamoci di pazienza!» disse il giovane, volgendosi ai mamelucchi. Continuarono pertanto la strada, e giunsero appiè d’un’alta montagna abitata dai gul, — Che veggo io là?» chiese Giansciah. — Sono i mortali nostri nemici,» risposero le scimie, «e vi abbiamo qui condotto per combatterli. —

«Giansciah rimase colpito di maraviglia all’aspetto di quelle strane figure, che offerivano uno stravagante miscuglio di membra di camelli, cavalli e tori. Appena i gul ebbero vedute le scimie, scesero dal monte, e si misero a scagliar loro contro certe pietruzze taglientissime. In breve la battaglia divenne generale. Giansciah ordinò a’suoi mamelucchi di votare i turcassi, il che produsse il miglior effetto; parte dei gul caddero sotto una tempesta di frecce; il resto prese la fuga nel massimo disordine. Giansciah li inseguì; ma trovossi d’improvviso arrestato da una gran tavola di marmo sulla quale stava un’iscrizione; avendo sempre avuto passione di leggere le iscrizioni, gli fu impossibile di passar oltre [p. 5 modifica] senza leggere questa, che conteneva le parole seguenti:


«O tu cui il destino, gettandoti in quest’isola, creò re delle scimie! non v’hanno che due strade per le quali tu possa fuggire. L’una ad Oriente, lunga tre mesi e traverso deserti pieni di mostri e spiriti malefici, conduce sulla spiaggia del mare; l’altra ad Occidente, esige quattro mesi di viaggio, e passa per una valle chiamata la Valle delle Formiche. Prendi questa, ma guardati dalle formiche. Giungerai presso una montagna di fuoco e sulla sponda d’un fiume. In riva al fiume vedrai una città abitata da soli Ebrei. Ecco cosa ha scritto a tua istruzione Salomone, figliuolo di David.»


«A tal lettura il principe fu commosso sino alle lagrime, e chiamati i mamelucchi, fece loro vedere ciò che aveva scoperto, e tornò trionfante al palazzo, circondato da tutte le scimie. Giansciah prese le opportune misure, per non lasciar nulla traspirare del suo disegno. Finalmente, ordinata una gran partita di caccia, nella quale, a forza di feste, che durarono dieci giorni, addormentò la vigilanza delle scimie, approfittando d’una notte oscura, prese co’ mamelucchi la via della valle delle Formiche. All’indomani, quando le scimie, svegliandosi, più non trovarono il re, mandarono a cercarlo due squadroni di que’ loro cani grossissimi imbrigliati con catene d’acciaio, uno de’ quali prese la strada dell’Oriente, e l’altro quella dell’Occidente verso la valle delle Formiche. Quest’ultimo raggiunse il principe ed i suoi compagni, e sebbene questi si preparassero a difendersi con vigore, non avrebbero potuto resistere, se d’improvviso non fosse uscito dalla terra un esercito di formiche, ognuna delle quali grossa come un cane, che slanciaronsi sulle scimie e le strinsero nelle branche; ma quelle si difesero coraggiosamente e fecero in pezzi le formiche, cosìcché il sangue scorreva d’ambe le parti a torrenti. I tre mamelucchi combatterono a lungo contro i due [p. 6 modifica] partiti, ora coll’arco, ora colla sciabola; ma soccombettero alla fine sotto il numero de’ nimici. Giansciah salvossi colla fuga, pervenne sulla sponda d’un fiume, ed attraversatolo a nuoto, scampò così alle formiche ed alle scimie, che non potevano nuotare. Giunto all’altra riva, pianse la perdita de’ tre fedeli; poi, fatto seccare il mantello, si addormentò. Allo svegliarsi, proseguì la sua strada, e camminò per più giorni e più notti, non vivendo che di piante e di radici, che trovava ne’ luoghi pei quali passava.

«Giunse in fine alla montagna infiammata, della quale parlava lo scritto di Salomone, come anche al fiume ed alla città de’ Giudei. Aveva quel fiume una particolarità notabilissima: scorreva tutta la settimana, ed il sabato l’alveo rimaneva a secco. Egli attese dunque il sabato seguente per traversarlo a piedi asciutti, e giungere alla riva opposta dove trovavasi la città. Ivi non vide alcuno per le strade: laonde, avvicinatosi ad una casa, ne aprì la porta, entrò, e vide gran numero di persone sedute in cerchio; ma nessuno diceva sillaba. — Io mi chiamo Giansciah,» lor disse il principe, «e sono straniero. Insegnatemi, vi prego, come si debba regolarsi nella vostra città.» Gli risposero: — Mangia, bevi, ma non parlare!» Giansciah mangiò, bevve, e dormì sino alla mattina appresso. Il padrone della casa venne a salutarlo, e gli chiese laconissicamente; — Chi? donde? dove1?» Le quali interrogazioni, già sì spesso fattegli durante il suo viaggio, gli fecero venire le lagrime agli occhi. Rispose nondimeno succintamente, facendo conoscere soltanto il proprio nome, il nome dell’isola d’onde veniva, e quello della città nativa. — Non abbiamo mai udito parlare di [p. 7 modifica] quest’ultima,» risposero gli Ebrei; «bisogna attendere la prima carovana per informarsene. — E quando viene la carovana? — Una volta all’anno.» Tale risposta richiamando alla memoria di Giansciah la madre, la moglie, i figliuoli e tutte le avventure accadutegli, non potè frenare nuove lagrime. — Non piangere, o giovane,» gli dissero i Giudei,«e restate con noi sino all’arrivo della carovana.» Giansciah, rassegnandosi alla sorte, rimase nella città; ma non lasciava passar un giorno senza andare ne’ dintorni per cercar di saper nuove della carovana. Un giorno che, secondo il solito, passeggiava fuor delle mura, udì un banditore gridare ad alta voce: — Chi vuol guadagnare mille zecchini e la più bella schiava del mondo? Non v’ha se non da lavorare un sol giorno, da mane a sera.» Il giovane si sentì dispostissimo ad accettare la proposta; non trattavasi più se non di conoscere il lavoro richiesto. Accostossi dunque al banditore, e gli disse: — Sono quello che cercate: eccomi a tentare l’impresa.» Il banditore gli rispose di seguirlo nella casa di colui che aveva bisogno dell’opera sua, e condusse Giansciah in una vasta casa, ove trovò un vecchio Ebreo seduto sur un seggiolone d’ebano. — Io vi conduco,» disse il gridatore, «un uomo che vuol lavorare. Son tre mesi che bandisco il medesimo annunzio; sono lieto di avere in fine incontrato alcuno che appaghi le vostre brame.» Il Giudeo ordinò che si servisse all’istante il pranzo. Poi, fattasi recare una borsa di mille zecchini e condurre una schiava di beltà abbagliante: — Ecco,» disse a Giansciah, «il premio promesso pel servigio che attendo da voi; il lavoro deve farsi domattina.» Quindi l’Ebreo si ritirò nella sua stanza da letto; Giansciah fece altrettanto, e passò la notte colla bella schiava senza salutare questa volta l’aurora colte lagrime come soleva. Alla mattina egli fu dagli [p. 8 modifica] schiavi condotto al bagno, che lo rivestirono d'un abito di seta onde presentarlo al loro padrone. La giornata passò in divertimenti, e la notte fu sacra all’amore come la precedente. Lo stesso fu per tre giorni di seguito. Il quarto, Giansciah disse al Giudeo: — Ora son pronto ad accingermi all’opra, e voglio eseguire il lavoro, del quale mi sono incaricato senza sapere di che si tratti. —

«L’Ebreo fe’ condurre tosto due mule; salì sull’una e Giansciah sull’altra, e camminati sin verso la metà del giorno, trovaronsi appiè d’un monte altissimo, ove smontarono. L’Ebreo presentò a Giansciah un largo coltellaccio, comandandogli di uccidere la mula. Egli obbedì e la scorticò, dietro ordine dell’Ebreo. — Adesso,» gli disse questi,«bisogna che tu ti metta entro la pelle della mula, ed io ti cucirò come in un sacco. Verrà un uccello a prenderti negli artigli e trasportarti sulla vetta del monte, ove raccoglierai per me le pietre preziose che vi si trovano.» Benchè simile condotta paresse al giovane assai strana e bizzarra, volle nondimeno impiegare la giornata a voglia del Giudeo, siccome avea promesso. Si chiuse dunque nella pelle della mula, che l’altro cucì appunto come un sacco. Allora un uccello mostruoso, sollevatolo in aria, lo trasportò sulla cima del monte, e cominciò ad attaccarlo col becco, credendo che fosse la pelle della mula morta; ma Giansciah, aperta la pelle, sporse fuori la testa, e l'uccello fuggì spaventato.

«Il giovane volse gli sguardi da tutti i lati senza scorgere alcuno. Infine sclamò: — Non v’ha forza e protezione che in Dio onnipotente!» Poi si mise a raccogliere le pietre preziose sparse sulla montagna in gran numero, ne discese lento lento, e raggiunse l’Ebreo che l’attendeva. Prese questi i diamanti, salì sulla mula ed allontanossi di galoppo. Il misero [p. 9 modifica] Giansciah sparse più lagrime che non avesse fatto fin allora, e ne aveva ben donde; solo, abbandonato, non sapendo qual via prendere, tornò sulla montagna. Per due mesi intieri, errò per le gole e nei burroni, cibandosi d’erbe odi radici selvagge. Giunto in fine all’estremità della catena di monti, gli si presentò, nel sito dove le strette si allargavano, una magnifica valle, in cui gli uccelli, i ruscelletti, i fiori ed i frutti proclamavano l’onnipotenza di Dio. Entrato in quella valle, si accostò ad un immenso padiglione che ergevasi sino alle nuvole. All’ingresso vide un vecchio col volto circondato da luce brillante, e che teneva in mano una clava di rubino. Salutollo Giansciah, ed il vecchio, invitatolo a sedere, gli chiese ciò che non gli si domandava certo per ia prima volta, cioè chi fosse, d’onde venisse e dove andasse.

«Il giovane non seppe frenare le lagrime ed i sospiri. — Tergete il pianto,» gli disse l’altro,«ed armatevi di coraggio» Nello stesso tempo gli presentò da reficiarsi. Riprese le forze necessarie per far il racconto delle proprio avventure, le narrò al vecchio; il quale ascoltolle non senza molta sorpresa, ed avendolo Giansciah pregato anch’egli di dirgli chi fosse ed a chi appartenesse quel padiglione: — Questo,» rispose,«apparteneva una volta a Salomone, il quale, come sapete, era il re degli uomini, de’ geni, dei quadrupedi e degli uccelli. Il padiglione era la sua uccelliera, ed io, vostro umile schiavo, ne governava la repubblica; al qual uopo aveami Salomone istruito nel linguaggio degli uccelli medesimi, e data su loro piena autorità. —

«Simile discorso avrebbe potuto calmare un cuore meno afflitto; ma il giovane non cessava di struggersi in pianto, e finalmente domandò la strada per ricondursi in patria» — Figliuolo,» rispose il vecchio, «voi vi smarrirete di certo, non essendo [p. 10 modifica] ancora lontano dalla montagna di Kaf; ma se avrete la pazienza di attendere alcuni giorni, vi prometto che tornerete a casa. Gli uccelli adunansi qui una volta l'anno, in parte per celebrare la memoria dei giorni che v’hanno passati al tempo di Salomone, in parte per rendermi omaggio come all’antico loro vicerè. La prima volta che torneranno, vi raccomanderò ad essi onde vi servano di guida per ricondurvi in patria. Intanto divertitevi in questo padiglione.» Giansciah seguì il consiglio, passando il tempo a bere e mangiare, e talvolta ad esaminare le tappezzerie del padiglione, tutte di penne. In fine, giunse il giorno, in cui gli uccelli solevano venir a visitare l’antica loro dimora e l’antico vicerè lo sceik Nassr (era il nome del vecchio), ed allora questi diede a Giansciah le chiavi di tutte le gabbie e gli appartenenti del padiglione, permettendogli di aprirli tutti, tranne uno solo, dove gli proibì d’entrare, sotto pena di essere severamente punito della sua disobbedienza.

«Giunsero in folla gli uccelli e baciarono le mani a Nassr. Giansciah visitò il padiglione da tutti i lati, aprì tutti i gabinetti e tutte le gabbie, e rimase lungo tempo davanti alla porta che il vecchio aveagli proibito d’aprire. Ma alla fine la curiosità la vinse, aprì la porta chiusa con chiavistello d’oro, ed entrò nell’appartamento misterioso. Colà vide un’ampia vasca di marmo piena d’acqua, e pressò a quella un picciolo padiglione d’oro e d’argento, ornato di pietre preziose d’immenso pregio. In mezzo vedeasi una fontana contornata da animali d’oro e d’argento, che facevano spruzzare l’acqua da tutte le parti. Inoltre, l’acqua cadeva con rumore sì maraviglioso, che credevasi udir la voce di ciascuno di quegli animali. Vicino allo zampillo, innalzavasi il trono d’un sol rubino, ombreggiato da un padiglione di raso rosso, [p. 11 modifica] trono sul quale sedea di solito Salomone per dare udienza agli animali. Il suolo era diviso in diverse aiuole di fiori esalanti i più soavi profumi, stando le rose, i gigli, le viole, i gelsomini ed i narcisi disposti con deliziosa varietà. I frutti più squisiti invitavano la mano a coglierli, ed un balsamico zeffiro scherzava tra le fronde. I viali erano coperti di smeraldi e diamanti in vece d’arena; talchè Giansciah rimase estatico all’aspetto di tante meraviglie, e volti da tutte le parti gli sguardi sorpresi, sedette sul trono di rubino, sotto al padiglione di raso, ed il più dolce sonno venne a chiudergli le palpebre.

«Erasi destato da alcuni istanti, allorchè vide inoltrarsi tre colombe verso la vasca. Cominciarono quelle a spogliarsi per mettersi nel bagno; ma, o maraviglia! allorchè ebbersi levate le penne, apparvero tre leggiadrissime giovani. Dopo essersi bagnate, si misero a scherzare, facendo nel giardino mille giuochi dilettevoli. Giansciah volse loro alcune parole lusinghiere, e domandò cosa facessero in quei luoghi. — Siam qui soltanto per divertirci,» rispose la più giovane. — : Ah! ve ne scongiuro, abbiate compassione di me,» soggiunse il giovane, che inebbriavasi d’amore nei suoi begli occhi, «volgete su di me uno sguardo favorevole. — Favorite,» rispose la giovinetta, «di non tenerci simili discorsi, altrimenti ritiratevi dalla nostra presenza.» Quelle dure parole afflissero assai Giansciah, che nel suo dolore improvvisò questi versi:


«Ho incontrato nel giardino, in mezzo ai fiori, una giovinetta, la cui bella chioma svolazzava con portentosa grazia.

«Le domandai del nome e mi rispose: — Io son quella che in carboni ardenti brucio i cuori di chi l’ama.

«Acceso ratto d'amore, mi volsi a lei esalando lamentevoli gemiti. — Vuoi, mi diss’ella, intenerire una roccia insensibile?

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«— Ah!» ripigliai, «se il cuor vostro è una roccia, non devo dunque disperare d’estinguere l’ardente mia sete; poichè Iddio fece altre volte scaturire una sorgente d’acqua viva da un sasso.»


«Que’ versi fecero sorridere le giovinette, che se ne dilettarono. Mangiati poi alcuni frutti, addormentaronsi sul margine della vasca, e la mattina appresso, riprese le vesti di penne di colomba, sparvero agli occhi di Giansciah, che rimase inconsolabile.

«Frattanto lo sceik Nassr cercava il principe per confidarlo agli uccelli che gli voleva dare per guida, e non trovandolo, non dubitò non avesse disubbidito ai suoi ordini, aprendo la porta vietata. Proseguite dunque le sue ricerche, lo trovò infine steso sul trono, quasi inanimato ed immerso nella massima disperazione. Nassr prese dell’acqua nel cavo della mano, e gettatala in volto al principe per farlo tornare in sè, questi, riaperti gli occhi, volse da tutte le parti lo sguardo, e vedendosi solo collo sceik, esalò il fuoco della sua passione nei versi seguenti:


«Una beltà, dotata della più seducente taglia, m’ha rapito il cuore. «I suoi labbri di porpora fanno invidia al rubino, e la nera sua chioma vela l’abbagliante candidezza delle sue spalle.

«Le sua sopracciglia sono archi che scoccano dardi, producenti inevitabili e profonde ferite.

«Oh bellezza senza rivali! o vita che vince tutta le vite dell’India,»


«— Figlio,» gli disse lo sceik, «non vi aveva io proibito di aprire quella porta? Non vi aveva prevenuto che ve ne sareste pentito? Non mi voleste credere. Nondimeno, ditemi cosa vi è accaduto, e vedremo se v’ha mezzo di lenire il vostro dolore.» Giansciah gli narrò la sua avventura colle giovani vestite da colombe. — Sono,» dissè il vecchio, «figlie di geni che vengono qui una volta all’anno per sol[p. 13 modifica]lazzarsi intorno al bacino, e poi se ne tornano al loro paese. — E dove giace esso?» domandò il principe. — Non lo so davvero!» rispose lo sceik; «non è ciò che di presente ci debba occupare; bisogna piuttosto parlare della vostra partenza. Fate i vostri preparativi di viaggio, poichè sono per raccomandarvi agli uccelli che vi serviranno di guida. — Oh Dio!» sclamò il principe, nel trasporto della più viva passione; e mi è impossibile di partire senza aver rivedute le tre donzelle. È forza che contempli di nuovo quella che m’accese di sì violento amore; è forza che ne rivegga il viso, non fosse che per una volta all’anno. Se iddio,» continuava, «non volesse che tante attrattive facessero nascere l’amore, non avrebbe creato il cuore de’ mortali sì facile ad infiammarsi! Se il cuor mio non fosse consunto dal fuoco dell’amore, le lagrime non mi solcherebbero le guance. M’esercito giorno e notte alla pazienza, ed ho il corpo notte e giorno in preda alle fiamme! —

«Gettossi poi ai piedi del veglio, scongiurandolo, in nome di Dio, ad aver pietà di lui. — Figlio,» rispose lo sceik, «vi giuro che non conosco quelle giovani; non so d’onde vengano, nè dove vadino, e non ho cosa migliore da consigliarvi, per calmare la vostra disperazione, se non d’attendere il periodo dell’anno, in cui torneranno qui. Allora vi nasconderete sotto gli alberi del giardino, e mentre si bagneranno, profittate dell’istante per impadronirvi dei loro abiti. Allorquando li avrete in vostro potere, non mancheranno di dirigervi le più belle parole del mondo, e vi faranno tutte le preghiere possibili per indurvi a restituir loro le vesti; ma se vi lasciate piegare, addio giovanotte! non le rivedreste più per tutta la vita. Trattenete gli abiti sin ch’io torni da’ miei colloqui cogli uccelli, ed allora procurerò di far piegare le cose a seconda delle vostre brame.» Versarono [p. 14 modifica] tali parole un balsamo salutare sul cuore del giovane. L’epoca della visita degli uccelli giunse, e lo sceik Nassr andò a riceverli dopo aver ancora una volta rammentato a Giansciah i consigli già dati. Questi, recatosi nel padiglione del giardino, vi passò parecchi giorni nel crudele supplizio dell’aspettativa, abbandonandosi tutto intero al delirio della sua passione.

«In fine, udì un gran rumore cagionato da batter d’ali; erano le tre colombe, ciascuna delle quali avvicinatasi al bacino, spogliandosi delle loro penne, ed immergendosi nell’acque, fecero mille scherzosi giuochi. — Sorelle,» disse l'una, «non v’ha nessuno in quel padiglione che ne possa spiare? — Chimere!» rispose l’altra; «è il padiglione di Salomone che niuno, nè uomo, nè genio, ha dopo quel re abitato.» Ciò detto, continuarono a; ridere e scherzare nella vasca, dove brillavano come tre lune che si riflettessero nell’onda.

«Giansciah, che ne osservava; tutti i movimenti, ed aveva notato bene il sito dove avevano deposti i veli, slanciossi qual lampo per impadronirsi delle vesti della giovinetta che perdutamente amava. — Venite, beltà impareggiabile!» le disse; «venite, e mi renderete il più felice de’ mortali se mi permettete di trattenermi con voi. — Con grandissimo piacere,» rispose la giovine, chiamata Seems2, «ma prima restituitemi il mio velo. Non negate di usarmi questa compiacenza, luce degli occhi miei, gioia dei mio core! Datemelo, che mi vesta; poi verrò con voi, e staremo assieme. — No, mia principessa,» rispose egli,» non l’avrete prima del ritorno dello sceik Nassr. — Ebbene,» ripigliò quella, «se persistete a non rendermi la mia veste di piume, allontanatevi [p. 15 modifica] almeno un poco, affinchè le mie sorelle escano dall’acqua per vestirsi, e datemi qualche cosa per servirci di velo. Eccomi ad obbedirvi,» rispose Giansciah. E ritiratosi nel padiglione, sedette sul trono. «Allora le due giovani vestironsi, e diedero all’amabile Scems, ch’era la maggiore, alcune penne per velare ciò ch’era indispensabile nascondere all’altrui sguardo. Poi entrarono nel padiglione e sedettero accanto a Giansciah, che fu talmente inebbriato delle carezze delle quali lo colmò la sovrana del suo cuore, che poco mancò non isvenisse.

«— O vezzoso garzone,» gli diceva, «se mai avessi potuto credere d’avervi ispirato qualche amore, mi sarei ben guardata dal separarmi dai miei abiti, conservandoli per andar a pregare i miei parenti di acconsentire alla nostra unione.» Il principe, all’udir, quelle parole, sospirava profondamente, e sclamò: — Volete farmi morire se vi allontanate per non mai più tornare. — No! no! mio diletto,» riprese colei, buttandogli le braccia al collo e coprendolo di baci; «Dio mi è testimonio che v’amo sino nel profondo del cuore, e che non mi separerò da voi per tutta la vita.» Quelle parole colmarono Giansciah d’alta gioia. Scambiaronsi poi mille tenere cose sino all’arrivo, del vecchio vicerè, alla vista del quale alzaronsi tutti per riceverlo, e baciarongli le mani. Questi li pregò di sedere, e voltosi alla bella Scems: — Voi vedete,» le disse, «un giovane che vi ama perdutamente. Egli è d’origine illustre, e suo padre regna a Kabul. Perciò questa parentela non sarebbe indegna di voi. — Intendo ed obbedirò,» rispose Seems. — Se deggio prestar fede alle vostre parole, continuò lo sceik, «giuratemi che gli sarete eternamente fedele, nè mai l’abbandonerete.» Fece ella il giuramento solenne, ed il vecchio impartì loro la sua benedizione. [p. 16 modifica]

«Parecchi giorni passarono in banchetti ed allegrezze; infine Scems fu la prima ad impegnare lo sposo a tornar in patria, affinchè la loro unione vi fosse celebrata con tutta la pompa. Giansciah consultò lo sceik, e gli chiese se dovesse rendere a Scems le vesti. Il vecchio vi aderì, e Scems rivestì il suo abito di penne di colomba. — Adesso,» disse allo sposo, «mettiti sulle mie spalle e stavvi ben saldo, poichè siamo per intraprendere un gran viaggio per l'aria.» Lo sceik Nassr segnò loro la strada, da seguire per giungere a Kabul, e Scems accommiatossi dalle sorelle, pregandole a giustificarla presso a’ genitori, e portando il suo diletto Giansciah, sollevossi nell’aria colla rapidità del lampo.

«Volando così per un giorno intiero, Scems scoprì una valle coperta di verdi boschetti e bagnata da molti ruscelli. — Bramate passar qui la notte?» chiese a Giansciah. — Come volete,» rispostegli. Abbassò Scems il volo, il principe scese a terra, baciò la fronte alla sua cara, e sedè sul margine d’un ruscello. Mangiate alcune frutta, addormentaronsi sotto un albero, e continuarono il viaggio la mattina appresso. Volava Scems da circa sei ore, allorchè, guardando sulla carta datale dallo sceik Nassr per dirigersi, si avvide che non erano molto lontani da Kabul. — Sai tu, mio caro,» disse allo sposo, «quanta strada abbiam fatta da ieri? — È impossibile ch’io io sappia,» rispose il principe, «poichè tu voli colla velocità del fulmine. — Ebbene!» ripigliò essa; «abbiamo percorso uno spazio che di solito esige trenta mesi di cammino. — Lode a Dio!» sclamò Giansciah; «ora possiamo riposare alquanto dalie fatiche del nostro viaggio.» Discorrevano così, quando d’un tratto videro due mamelucchi, uno de’ quali era precisamente quel medesimo da lui lasciato sulla spiaggia del mare a custodire il cavallo/allorchè, nell’ardor della caccia, era balzato [p. 17 modifica] in barca per inseguire la gazella, e i due mamelucchi, riconoscendo il padrone, geltaronsi ai suoi piedi e glieli bagnarono di lagrime.

«Provò Giansciah grande allegrezza per quell’incontro, e ordinò loro di andar ad annunziare il suo ritorno al padre, mentr’ei lo attenderebbe nel luogo dove trovavasi. I mamelucchi sollecitaronsi a portare la lieta notizia a Tigmos, il quale ne fu sì lieto, che incaricò il visir di dare a ciascuno de' due mamelucchi un abito d’onore del valore di mille pezze d’oro. — Come sta mio figlio?» chiese il re. — Benissimo,» quelli risposero,«ed ha seco una huri, cui sembra abbia condotto dal paradiso.» Tigmos, non sapendo più contener l’allegrezza, fe’ suonare i cimbali per annunziare in tutta la città il ritorno del diletto figlio, poscia gli andò incontro con tutto l’esercito e coi grandi dell’impero. Il re ed il principe versarono molte lagrime di gioia al rivedersi dopo sì lunga assenza; la musica regia non cessava di suonare giulive sinfonie, e Giansciah entrò nella città in trionfo. Il re fece innalzare per Scems un padiglione di raso rosso, dov’essa ricevette in gran pompa la visita del re e del consorte. Il primo pregò il figlio di narrargli le sue avventure, cosa ch’egli fece senza trascurare la minima circostanza. Allora Tigmos sclamò: — Lode a Dio che ti ha finalmente restituito all’amor nostro! E voi, vezzosa mia figlia, cosa posso fare per esservi grato? - Sire,» rispose. Scems, «poichè vi compiacete permettermi di volgervi una domanda, vi pregherò di farmi costruire un padiglione in mezzo ad un giardino inaffiato da ruscelli. —

«In quel frattempo, giunse la madre di Giansciah, ebbra di contento pel ritorno del figliuolo, cui credeva perduto per sempre, e rimase incantata della giovane, la quale le fece la sua corte e recossi [p. 18 modifica] al padiglione, con tutte le dame d'onore. Per dieci intieri giorni non furono in quel luogo che feste ed allegrezze, e l’undecimo si tornò alla città, tutta brillantemente illuminata, colle strade coperte di tappeti preziosi ricamati d’oro; l’aria era profumata d’essenze di rosa e de’ più deliziosi odori, e per dieci giorni ciascuno si trovò come trasportato al terzo cielo. Il re fe’ chiamare tutti i geometri e gli architetti del regno per costruire il palazzo chiestogli dalla nuora, e siccome la felicità di quel principe era annessa alla veste di penne di colomba, venne chiusa in una cassetta d’oro, e collocata sotto le fondamenta del palazzo, avendola Giansciah, sempre timoroso che Scems la usasse per darsi alla fuga, tenuta nascosta diligentemente dacchè ella l’aveva lasciata dopo il loro viaggio per l'aria. Il sito dov’era la cassetta dovea rimanere un mistero per la principessa; ma essendo dotata d’un odorato sommamente sottile, appena entrata nel palazzo, sapeva già dove trovavasi il velo. Scems passò il giorno senza dimostrar nulla; ma giunta la notte, venne alla colonna sotto la quale giaceva la cassetta d'oro, la levò, prese la veste, e volando sul comignolo del palazzo, battè le mani per destare il principe. — Che cosa c’è?» gridò egli, stropicciandosi gli occhi. — Non è nulla,» rispose la donna, «mio caro, luce degli occhi miei, tesoro dell'anima mia! Io ti amo con tutto il core, e t’ho seguito in patria per vedere i tuoi genitori. Se pari è l’amor tuo per me, vieni a cercarmi nel palazzo dei Diamanti. —

«Ciò detto, volò via, e Giansciah cadde privo di sensi. I servi affrettaronsi ad annunziare al re Tigmos quant'era accaduto, ed egli, piangendo il destino del figlio, gli spruzzò in volto acqua di rose per richiamarlo alla vita. — Coraggio, figliuolo,» gli disse, «coraggio! Prenderemo informazioni, e troveremo [p. 19 modifica] qualche mercante, qualche viaggiatore che ci darà notizia del palazzo de’ Diamanti, per andarvi a cercare la tua sposa.» E immantinenti comandò di far venire alla sua presenza tutti i mercanti, viaggiatori e forastieri che si trovavano ne’ suoi stati; ma nessuno di loro conosceva il palazzo di Diamanti. Allora mandò emissari da tutte le parti per cercar di scoprire quel palazzo, e per due mesi interi si percorsero inutilmente le città, l’isole ed i regni vicini. Disperato del cattivo esito di simili tentativi, recossi da suo figlio per riferirgli come fossero tornate vane tutte le ricerche, e trovandolo in mezzo ad una turba di musici mandati per calmare la violenza della sua disperazione, fece tutti gli sforzi per richiamarlo alla ragione, ma indarno.

«Regnava allora nelle Indie un re potentissimo, chiamato Kefid, che adorava il sole. Comandava quel principe mille bravi capitani, che avevano sotto i loro ordini mille altri bravi soldati ciascheduno; possedeva mille fortezze, e formidabile n’era la potenza. Kefid era nemico di Tigmos, e come il dolore di questi e le cure paterne gli faceano trascurare gli affari dell’impero, Kefid pensò favorevole il momento per saziare l’antico odio. Adunati i consiglieri: — Dimenticaste,» disse loro, «che mio padre e mio fratello caddero sotto la scimitarra di Tigmos? Chi, di voi non ha da vendicare parenti immolati, beni rapiti? Il dolore in cui l’immerge suo figlio non gli permette in questo istante di pensare alla difesa; non sono guardate le frontiere; l’esercito disperso. Approfittiamo del tempo, ed appaghiamo la nostra vendetta! — Approfittiamo del momento,» sclamarono tutti i membri del consiglio. Ed usciti per correre all’armi, in meno di sette giorni un grosso esercito rumoreggiava alle frontiere di Kabul.

«Infuriò Tigmos, quando seppe che il formidabile [p. 20 modifica] nimico minacciava i suoi stati, e n’era già sì vicino. Levò numerose truppe, e venne ad accampare in una valle vicina a Kabul, chiamata la valle dei Fiori; indi scrisse a Kefid la lettera seguente: «Voi avete operato, o fratello, in modo ributtante ed indegno d’un gran re, venendo a devastare i miei stati ed uccidere i sudditi miei. Tornate ne’ vostri domini, od attendetevi una sconfitta sicura.» Suggellò la lettera e la mandò per mezzo d’un parlamentario, il quale, direttosi verso un gran padiglione di raso rosso che scorgeasi da lungi, e ch’ei con ragione prese per la tenda reale, trovò il principe circondato da’ generali, dai ministri e da tutta la corte. Concisa fu la risposta che il parlamentario ne ricevette.«Sappiate, re «Tigmos,» scrivea Kefìd,«che ho risoluto di smantellare le vostre città, scannare i vostri sudditi e regnare in questi stati. Tal è la mia volontà, e così esigono le leggi dell’onore, o piuttosto della vendetta.» Tale risposta mise Tigmos in un’ira terribile, ed ordinò al visir Ainsar di adunare sull’istante la cavalleria e d’attaccare il nemico all’improvviso. Dal canto suo, Kefid aveva dato il medesimo ordine al suo visir Gatrefan; talchè i due corpi, comandati dai due visiri, vennero alle mani nell’oscurità della notte. Confusa riuscì la mischia, spaventevole il macello; infine l’aurora sorse ad illuminare la disfatta di Gatrefan.

«Ainsar rientrò trionfante nel campo di Tigmos, ai concenti de’ cimbali e delle trombe. Furibondo Kefid del funesto esito di quel primo scontro, dispose egli medesimo l’esercito in battaglia, ed altrettanto fece Tigmos. Da ciascun lato l’esercito era composto di dieci battaglioni, ed ogni battaglione di diecimila uomini. Tremava la terra sotto i passi de’ corsieri, l’aria rimbombava de’ loro nitriti, del suono de’ cimbali e delle trombe, dello scricchiolar dell’armi e delle grida guerriere dei soldati. Sanguinoso fu il combattimento la [p. 21 modifica] vittoria incerta, e la perdita eguale d’ambe le parti. I due re, rannodate le truppe, passarono la notte sul campo di battaglia.

«La mattina appresso, Kefid percorse a cavallo le file de’ soldati, dicendo: — Non v’ha alcuno tra voi, miei bravi, che voglia lanciarsi in lizza, e sfidare i nimici a singolar tenzone?» Un cavaliere di smisurata statura, montato sur un elefante, scese a terra, e prosternatosi a’ piedi dei re, gli disse: — Io son l’uomo che vostra maestà domanda.» Allorchè Tigmos seppe la provocazione, gridò anch’egli alla testa delle sue schiere: — » Suvvia, miei bravi, chi di voi vorrà aver il piacere di far misurare la terra a quel villanzone, chiamato Berkik? — Io!» gridò un cavaliere, scendendo a terra e venendo a baciare i piedi del re; poi risalito a cavallo, inoltrossi verso il gigante. — Chi sei tu,» questi gli gridava,«che osi presentarti a sfidare la possa del mio braccio? — Sono,» gli rispose il cavaliere di Tigmos, «Gadankar il Bravo, così soprannomato per le mie gesta. — È vero,» replicò Berkik,«ho udito parlare di te altre fiate; ma sta in guardia.» A tai detti, Gadankar afferrò una mazza di ferro sospesa alla sella del suo cavallo, e Berkik sguainò una sciabola gigantesca. Dopo molte reciproche ferite e numerosi colpi ricevuti e parati d’ambo le parti, Berkik soccombette agli sforzi di Gadankar; ma il suo trionfo non fu lungo, chè avanzatosi di gran galoppo un cavaliere dell’esercito di Kefid: — Vengo ad insegnarti,» gridò,«a percuotere mio fratello e togliergli la vita.» Sì dicendo, scoccò contro Gadankar una freccia, che gli traversò la coscia destra, e lo costrinse a ritirarsi dal conflitto. Allora s’impegnò nuovamente la battaglia e divenne generale. Era spettacolo stupendo; suonavano le trombe, i nitriti de’ corsieri riempivan l’aria, volavano in ischegge le lance, la polvere s’alzava in vortici, il giorno [p. 22 modifica] era cambiato in notte profonda, il sangue scorreva a torrenti; durò quel combattimento tre giorni intieri, e la vittoria rimase indecisa. Allora Kefid, ricordatosi molto a proposito del re Kanun, suo parente dal lato della madre, gli scrisse per chiedergli aiuto, e Kanun si mise subito in marcia. Era Tigmos seduto nella sua tenda, volgendo a caso qua e là gli sguardi, allorchè vide da lungi apparire un esercito avvolto in nugoli di polve, colle sciabole scintillanti, e spiegando sette ampie bandiere. Erano le schiere di Kanun che giungevano nel campo dell’alleato.

«Ma lasclamo i due eserciti a fronte l’un dell’altro, e vediamo cosa frattanto facesse Giansciah. Non avendo potuto ottenere notizie sul palazzo de’ Diamanti, risolse di mettersi in via per farne egli medesimo ricerca, e tornato alla città degli Ebrei, recossi di là alla montagna, dove avendo trovato il grosso volatile che lo aveva la prima volta sollevato entro la pelle della mula: — Amico augello,» gli disse,«fammi il piacere di trasportarmi dove vivono tuo padre e tua madre. — Volentieri,» rispose l'uccello;«eccomi ad obbedirti.» Allora, preso Giansciah sul dorso, volò per otto giorni ed otto notti, fermandosi infine sulla cima d’un monte, dove il giovane potè appena aprire gli occhi, per la luce abbagliante entro cui trovavasi avvolto. Veniva quello splendore da un palazzo di rubino attorniato da mille torri di cristallo, trovato in fondo al mar Tenebroso, con mura di smeraldi, zafiri, topazi, ametiste ed altre pietre preziose, d’onde gli veniva il nome di palazzo di Diamanti, e che apparteneva al re Scehlan, padre delle tre principesse dagli abiti di penne di colomba. Aveva Scems narrata a quel principe la sua avventura, ed egli, al par della regina, aveva biasimata la figliuola per aver abbandonato lo sposo, che moriva d’amore per lei, consigliandola a tornar dal consorte. — Ah!» diss’ella; «s’egli mi ama come deve, lunga non sarà [p. 23 modifica] la nastra separazione: lo rivedremo tra poco, avendogli fatto conoscere la nostra dimora.» Ordinò dunque il re Scehlan di porre una sentinella per guidar il viaggiatore, se mai si presentasse al palazzo. Incaricato di quest’uffizio un genio di nome Hun; appena ebbe questi veduto il principe, gli annunziò la grata novella che stava per essergli restituita la sposa, e corse al palazzo a parteciparne l’arrivo. Estrema gioia risentì il re de’ geni; fe’ salire i suoi a cavallo, e venne incontro al genero, che lo strinse teneramente tra le braccia. Comandò di rivestirlo d’un magnifico abito d’onore, gli mise in testa un diadema formato d’un sol diamante, e se lo fece sedere allato. Smontarono all’ingresso del palazzo, dove accolto dalla regina madre: — Asciugate le vostre lagrime ed aprite il cuore, mio caro figlio,» gli diss’ella;«avete toccata la meta delle vostre brame, —

«Giansciah, abbagliato da tante gemme, il cui fulgore ecclissava quello del sole, poteva a stento tener aperti gli occhi, e si mise a piangere per allegrezza. Molte leggiadre giovani lo ricevettero all’ingresso del serraglio, dove introdottolo, vi gustò le più voluttuose delizie.

«Intanto Tigmos trovavasi in una dolorosa condizione; tutto il suo coraggio l’abbandonò, allorchè vide entrare il rinforzo che abbiam detto nel campo dell’avversario, che poteva allora annientarlo colla superiorità del numero. Ma checchè possa avvenire, non abbandoneremo Giansciah nei serraglio, dove trovò la diletta sposa.

«Aveva già passate parecchie settimane presso di lei, allorchè presentossegli alla mente la memoria del padre, e desiderò vivamente d’averne nuova; ma quando seppe che trovavasi impegnato in una guerra sanguinosa col suo mortal nemico, il re Kefid; — Conducetemi un cavallo,» gridò egli; «bisogna che [p. 24 modifica] voli in aiuto di mio padre.» Comandò a mille cavalieri di montar in sella, e si pose alla loro testa; ma dopo alcuni giorni di cammino, il suo amore per Scems la vinse sopra la tenerezza pel padre, e quantunque gli dolesse di abbandonare così i compagni, partì di notte tempo, e tornò al palazzo di Diamanti. I cavalieri, svegliandosi, e non trovando più Giansciah, credettero che fosse andato innanzi, e giunsero di gran galoppo al campo di Tigmos.

«La disperazione invase l'animo del re all’udire la scomparsa del figlio. Nel suo dolore e dispetto, gettò per terra la corona, e gli divamparono gli occhi. — Abbiate pazienza, o sire,» gli dissero i suoi ministri; «la pazienza è la chiave dell'allegrezza3. — Ebbene,» riprese Tigmos, «armiamoci di pazienza, e torniamo alla capitale, essendo ormai impossibile di far fronte al nimico in campagna aperta.» Il re pertanto ritirossi nella sua capitale, dove Kefid lo venne ad assediare, facendo dare tutti i mesi un assalto che durava sette giorni e sette notti, e l’assedio continuò sette anni, nel qual tempo diede ottantaquattro assalti, senza contare le sortite degli assediati.

«Quanto a Giansciah, erasi smarrito, e non sapeva trovare la via del palazzo di Diamanti. Percorsi parecchi paesi senza averne indizio, determinò d’informarsi ove giacesse la città de’ Giudei. Trovavasi allora precisamente alle estremità dell’Oriente, e gli fu consigliato di viaggiare colla caravana. — Essa va da qui [p. 25 modifica] allo Indie,» gli si disse; «indi nel Korassan e nell'Irak, d’onde giunge alla città de’ Giudei dopo una corsa di quindici mesi.» Giansciah partì colla caravana. Durante il viaggio, sforzossi in vano d’aver notizie del palazzo di Diamanti; niuno ne aveva udito parlare. Infine, dopo penoso cammino, giunse alla città degli Ebrei ed alla sponda del fiume, il cui letto restava asciutto tutti i sabati, e colà tutto accadde come nel primo suo viaggio. Udì il medesimo banditore proporre mille zecchini ed una bella schiava a quello che volesse lavorare un sol giorno pel suo padrone, e Giansciah non poteva desiderar di meglio, sapendo in che consistesse il travaglio richiesto. Fu come la prima volta trasportato in vetta al monte; poi si mise in cerca del padiglione di Salomone e dello sceik Nassr, cui voleva consultare. Come la prima volta, errò parecchi giorni per montagne ed aridi deserti, dove nulla vide fuorchè piante ed uccelli, e per la strada altro non fece che piangere. Trovato all’ingresso del padiglione il vecchio vicerè, gli narrò tutta la sua avventura, e lo pregò d’insegnargli dove giaceva il palazzo di Diamanti. — Non lo so,» riprese quello; «ve lo giuro pel potente Salomone figliuolo di David. Attendete che gli uccelli vengano a farmi l’annua loro visita; forse sapranno dirvene qualche cosa.» Tali parole rianimarono alquanto il coraggio di Giansciah, che attese l’arrivo degli uccelli, giunti i quali a stormi, che l’un l’altro succedevansi per baciare la mano al vicerè e rendergli omaggio, il vecchio chiese loro indizi intorno al palazzo di Diamanti; ma anch’essi gli giurarono, pel nome di Salomone, di non averne mai udito parlare. — Quand’è così, mio povero giovane,» disse a Giansciah lo sceik, «non avete meglio da fare che tornarvene a Kabul.» E nello stesso tempo, fece venire un grosso uccello cui incaricò di trasportare il principe a Kabul, dandogli l’itinerario da seguire. [p. 26 modifica]

«Avevano già fatta gran parte della strada, allorchè l’uccello, volendo consultare la carta per vedere da qual lato dovesse dirigere il volo, la lasciò cadere in mare. Allora, più non sapendo qual direzione prendere, calò a terra precisamente nel sito in cui faceva la sua residenza il vicerè de’ quadrupedi, il quale gli diede le indicazioni necessarie; ma Giansciah trovandosi in terra, più non volle traversare gli spazi aerei. — Lasciatemi morir qui,» disse; «più non sento alcun desiderio di tornare alla mia patria.» Sciah Bedui (era il nome del re de’ quadrupedi che li governava in nome di Salomone) pregò il principe a raccontargli le sue avventure, e ne ascoltò la narrazione con maraviglia; indi: — Io ti giuro,» gli disse, «di non aver mai udito parlare del palazzo di Diamanti; ma non disperare tuttavia di rinvenirlo. Vi sono qui alcune tavole che contengono la grammatica ed un dizionario della lingua de’ quadrupedi. Studiali, affine di poter più facilmente interrogare quegli animali, quando verranno a farmi l’annua loro corte.—

«Vennero i quadrupedi, secondo l’uso, a render omaggio al loro re; ma niuno d’essi aveva udito parlare del palazzo di Diamanti, e Giansciah cadde nell’ultima disperazione. Sciah Bedui lo scongiurò a frenare il pianto, e gli disse che suo fratello primogenito, potente re de’ geni, e che aveva anzi voluto ribellarsi contro Salomone, potrebbe forse dargliene qualche notizia soddisfacente. Gli consegnò pertanto lettere di raccomandazione, ed indicatagli la strada che doveva percorrere, lo fece montare sur un animale robusto e lo mandò a Scimer, suo fratello maggiore. Questo re si fece narrare tutta la storia di Giansciah, e quando il principe ebbe finito il racconto, Scimer gli disse: — Figliuolo, io non ho mai udito parlare di questo palazzo, e dubito assai che neppure lo stesso Salomone lo conosca. Ma ho un eremita che [p. 27 modifica] abita qui vicino, il quale, saggio venerabile, può scongiurare gli spiriti ed i geni, e per la potenza de’ suoi scongiuri sottomette tutti gli spiriti, gli animali, gli uomini ed i demoni. Io medesimo sono costretto ad obbedire al suo potere dopo ch’ebbi la temerità di volermi ribellare contro Salomone, e nulla v’ha al mondo che non sia da quel solitario conosciuto. Se pianta in terra il bastone, germoglia sull’atto, e per la potenza delle magiche sue parole produce frutti. In somma, è il maggiore de’ maghi, e voglio mandarvi da lui. —

«Il re Scimer fece salire l’ospite sur un enorme uccello che aveva quattro ali, lunga ciascuna trenta e più braccia, e con due piè d’elefante; non volava che due volte l’anno, ed ogni giorno mangiava due asini dell’Irak. Il mostro ricevette il principe sul dorso, e lo trasportò sul monte dove vivea il mago Yagmus. Appena Giansciah vi fu giunto, fece la sua preghiera, e gettossi appiè del dervis, il quale impegnò il principe a raccontargli la sua storia. Terminata che l’ebbe, il mago gli disse: — È maravigliosa, figlio mio, maravigliosissima; ma in tutto il tempo della mia vita non ho mai udito parlare del palazzo di Diamanti: eppure io esisto sin dal tempo di Noè, ed ho regnato sugli animali, i geni e gli uccelli sino al tempo di Salomone. Attendete l’assemblea generale dei geni, de’ quadrupedi e degli uccelli che adunansi presso di me una volta all’anno; forse, interrogandoli, sapranno dirci qualche cosa intorno a questo palazzo.» Il giorno arrivò; il dervis e Giansciah stancarono di domande l’assemblea, ma nessuno aveva udito parlarne; laonde il giovane, più afflitto che mai, versava lagrime a torrenti.

«Un giorno che stava seduto vicino al dervis, ecco fermarsi a’ piedi del vecchio un uccello nero di prodigiosa grossezza, e la prima interrogazione che [p. 28 modifica] gli fu rivolta concerneva il palazzo di Diamanti. — Son nato sulla montagna di Cristallo, al di là della montagna di Hai,» rispose l’uccello; «quando i giovani miei fratelli ed io eravamo piccoli, i nostri genitori andavano ogni giorno in cerca di cibo. Una volta stettero lontani sette intieri giorni, talchè eravamo quasi morti di fame, e quando tornarono l’ottavo dì, avendo loro chiesta la cagione di sì lunga assenza, ne contarono che un gran demonio li aveva fermati nel loro cammino per condurli al palazzo di Diamanti, dove avevano avuto udienza dal re Scehlan e prestatogli omaggio. Ecco tutto quello ch’io so intorno a tal argomento; se mio padre e mia madre vivessero ancora, potrebbero dirvene di più.» A tale dichiaraziono, caddero in maggior copia al giovane le lagrime. — Ah! padre,» diss’egli al dervis, «ve ne scongiuro, comandate a quest’uccello di trasportarmi nel luogo di sua nascita sulla montagna di Cristallo, dietro la montagna di Kaf. — Uccello,» disse il mago, «fa ciò che desidera questo giovane. — Più che volentieri,» quello rispose; «intendere è obbedire.» Allora Giansciah gli montò sul dorso, e viaggiato a lungo per l’aria, fermaronsi sulla montagna di Cristallo, d’onde continuata la loro strada, giunsero alla fine al palazzo di Diamanti. Appena il re Scehlan fu istruito dell’arrivo del principe, ne provò grandissimo giubilo, e se lo fece sedere accanto sopra un trono; portarono acqua per lavargli i piedi, e fu tosto imbandita la cena. La madre di Scems ed anche Scems medesima vennero a salutare Giansciah, che trovossi allora al colmo de’ suoi voti. Fu prima Scems a baciare le mani al suo sposo e signore, e lo sorelle ne imitarono l’esempio. Il re Scehlan prese allora a parlare, e: — Perdonate,» disse, «la fatale storditezza di mia fglia che v’ha cagionati tanti guai. Eccovi ora in porto; [p. 29 modifica] dimenticate le tempeste, e non ve le rammentate che per farcene il racconto.» Il giovane tacque, fu profumato d’acqua di rose, di muschio ed essenze preziose che lo ristorarono maravigliosamente, e riaperti gli occhi, e contemplata l’amabile Scems, si credette trasportato in cielo. — Vedete,» disse alla diletta sua sposa, «vedete qual nuova vita circola nelle mie vene; più non sono arso dal fuoco che mi divorava le viscere. —

«Lo pregarono poi di raccontare come avesse trovata la strada del palazzo, e cosa avesse veduto di sorprendente in quel viaggio impreso per amore della bella Scems. Ciascuno ascoltò pieno di maraviglia la narrazione delle stupende sue avventure, e la regina ne lo ringraziò a nome di tutta la corte, dicendogli poscia: — Ora sono paghe tutte le vostre brame. Rimanete qui colla vostra sposa fin quando vi piace, un mese intero se volete; allora vi lasceremo tornare con lei in patria. —

«Si fecero grandi preparativi per celebrare nuovamente le nozze della principessa Scems. Due anni intieri durarono le feste e le allegrezze; ma finalmente Giansciah rammentò alla sposa la promessa fattagli dal re di lasciarlo tornare al padre, sotto condizione che passerebbero un anno a Kabul ed uno al palazzo di Diamanti. Allora Sceblan fece fare un ampio trono di straordinaria magnificenza, cosa che non parrà sorprendente in quelle portentose regioni, essendo noto che i semplici muri erano di smeraldi e rubini. Sui gradini di quel trono poteano capire dugento mamelucchi ed altrettante schiave. Collocatisi Giansciah e Scems sul trono, presero commiato da’ loro parenti; dugento mamelucchi con dugento giovani schiave di rara beltà; stavano in piedi davanti ad essi sui gradini del trono, che quattro geni si posero in ispalla, e poi furon visti [p. 30 modifica] innalzarsi con quel fardello nell’aria. Così lo trasportarono tra il cielo e la terra, facendo ogni giorno il cammino di trenta mesi, ed in fine giunsero alla capitale del re Tigmos. Trovavasi quel principe ridotto agli estremi, non restandogli più altra alternativa che di morire coll’armi in mano od arrendersi al suo mortale nimico, sicchè tutta la corte era in costernazione, e Tigmos, consunto dal cordoglio, somigliava più ad uno spettro che ad un uomo.

«— Contempla mio padre,» disse Giansciah alla principessa; «il solo suo aspetto riempie di dolore. Bisogna soccorrerlo; ordina ai geni, che portano il trono, di attaccare le truppe avversarie.» Affrettassi Scems di appagare il desiderio dello sposo, ed incaricò un genio, chiamato Kartasch, di portarle Kefid. Obbedì il genio al momento; piombò co’ compagni sull’esercito di questi, di cui fecero macello, e Kartasch, afferrato il re, lo fe’ sollevare da un altro genio in aria, mentre egli medesimo portava la strage e lo spavento nel campo nimico, prendendo mille forme diverse, ora quella d’un elefante, ora d’un leone o d’una tigre. Tigmos era sulla terrazza del palazzo, d’onde scorgeva lo spettacelo sorprendente, ed era eziandio cosa maravigliosa il vedere Kefid così sospeso in aria. Allorchè tutto l’esercito fu rotto e tagliato a pezzi, il genio Kartasch consegnò il re prigione a Tigmos, il quale lo fece gettare in oscura carcere. Da tutte le parti eccheggiavano canti di vittoria e grida di trionfo. La madre di Giansciah svenne per l’allegrezza rivedendo il figliuolo, e non sarebbe forse mai più tornata in vita, se non le avessero spruzzata in volto acqua di rose ed essenza di muschio. Quindi Tigmos, fatte aprire le porte della città, mandò da tutte le parti messi ad annunziare la clamorosa vittoria, sparse i suoi favori con rara magnanimità, e colmò di benefizi tutta la [p. 31 modifica] corte. Nè volendo rimanere indietro del re Scehtan, fece anch’egli celebrare una seconda volta le nozze di Giansciah, nella qual occasione fu la città splendidamente illuminata, e Scems ricevette in dono cento giovani schiave di beltà abbagliante ed un sofà d’inaudita ricchezza. Ma perchè tutti partecipassero all’allegrezza di quelle feste, Scems pregò Tigmos di rendere la libertà a tutti i prigionieri, come anche al re Kefid. — Non è più da temere,» soggiunse, «poichè, grazie a' miei geni, potrei ridurlo alla ragione ogni qual volta tentasse di moversi.» Fu cavato adunque dalla prigione, e fattolo salire sur un vecchio cavallo zoppo: — Scems,» gli disse Tigmos, «mi ha supplicato di donarti la vita; torna a’ tuoi stati.» Tornò dunque a casa sulla sua montura zoppicante, mentre Tigmos, suo figlio e la sua sposa toccavano il colmo della felicità. E questo Giansciah son io, come già vi dissi al principio di codesta storia, io cui sono accadute sì incredibili avventure.

«— Benissimo,» disse Belukia stupefatto; «io vi aveva chiesto che tombe fossero queste in mezzo alle quali vi veggo seduto; ma ad onta del lungo vostro racconto, la mia curiosità non fu ancora appagata. Ben so di presente, o principe, che siete d’indole sensibilissima: ma ignoro ancora perchè siate seduto fra questi due avelli.

«— Nuotavamo,» proseguì Giansciah, «in un mare di delizie, e passammo un anno intero presso mio padre, in mezzo a feste ed a piaceri. Scorso l’anno, tornammo, portati da’ nostri geni, al palazzo di Diamanti. — E questo viaggio durò assai tempo, o principe?» interruppe Belukia. — Viaggiammo per dieci giorni,» disse Giansciah, «facendo ogni di un cammino di trenta mesi, e fermandoci di tanto in tanto per riposare. Un giorno [p. 32 modifica] che facevamo il nostro viaggio annuale, i geni si fermarono qui, e Scems passeggiava sull’erba, allorchè un aspide le morse un piede, ed ella ne morì sul momento. Le sue schiave empirono l’aria di gemiti. Le si eresse la tomba che vedete, e tutto fu posto in opra per ricondurmi da mio padre; ma io feci preparare quest’altra tomba per me, e non attendo più che l’istante di scendervi. —

«Dopo aver in tal modo terminato il suo racconto, si mise a versare lagrime in maggior copia di prima, ed improvvisò questi versi:


«La mia magione, o mia diletta, non è più magione dacchè l’abbandonasti!

«Più il sole non sorge per me, e la dolce luce della luna più non brilla agli occhi miei.

«O tu cui non cancellerò giammai dal mio core, dove sei? O tu sì cara al mio core, oh dove se’ ita?

«Sei scomparsa, ed il mondo è per me divenuto uno speventevole deserto: deh! torna ad abbellirlo della tua presenza.

«Abbandonato è il tuo albergo, e la rugiada del cielo più non vi spande la frescura. Le sole mie lagrime bagnano l’asilo solitario della morte.»


«Cotesta storia colpì Belukia di stupore. — Principe, diss’egli a Giansciah,«nessuno più di me saprebbe compatire al vostro infortunio; ma non posso trattenermi più a lungo: abbiate dunque la bontà d’indicarmi la strada per la quale mi devo avviare.» E Giansciah sollecitossi a soddisfare alla sua domanda. —

«Ecco ciò che narrava Yamlikha, regina dei serpenti, a Giamaspe, di cui somma fu la maraviglia. — Regina,» le diss’egli,«termina così questa storia? — Eccone la conclusione,» essa rispose. «Sono or vent’anni ch’io inviai in Egitto un grosso serpente con una lettera per Belukia, il quale appena [p. 33 modifica] l'ebbe percorsa, disse al messaggero: Voi dunque siete l’inviato straordinario della vostra regina? Desidererei molto di farle la mia corte; permettete che vi accompagni. — Chiudete soltanto gli occhi,» rispose il serpente, «e vi troverete appiè della montagna dove la regina ha scelto la sua dimora ordinaria.» Chiuse Belukia gli occhi, e si sentì effettivamente trasportato al piede del monte; ma la regina allora non vi si trovava, essendo andata colle sue truppe sulla montagna di Kaf. Il serpente fe' quindi gli onori del palazzo, e lo pregò di raccontargli le di lui avventure dalla sua separazione dalla regina, sino al momento in cui aveva incontrato Giansciah. Belukia, il quale annoiavasi moltissimo, non volle restar oltre, e mostrò il desiderio di tornar a casa. Gli si disse che se tal era la sua intenzione, non aveva che a chiudere gli occhi; ei li chiuse, e nel medesimo istante trovossi nel suo palazzo sul monte di Mokatem, in Egitto.

«— Al mio ritorno,» prosegui la regina dei serpenti, seppi dalla bocca del serpente, ch’era stato mio ambasciatore straordinario, tutte le avventure che vi narrai.

«— Ma voi dimenticaste o regina,» disse Giamaspe, «di narrarmi il finè del viaggio di Belukia, dalla sua separazione da Giansciah sino al suo ritorno in Egitto.

«— Allorchè Belukia,» continuò la regina, «ebbe preso commiato da Giansciah, si fregò la caviglia de’ piedi per camminare sull’Oceano, e continuando la sua strada per parecchi giorni e varie notti, giunse alla fine in un’isola coperta di ricca e deliziosa vegetazione. In mezzo ad essa ergevasi un albero immenso, sotto al quale stava una tavola coperta di piatti di mille colori diversi; sulla pianta aleggiava un uccello co’ piedi d’argento, il becco di [p. 34 modifica] rubino, le penne di smeraldo ed altre pietre preziose, il quale cantava le lodi di Dio e di Maometto suo profeta. Maravigliato Belukia d’udire il nome dell’eletto di Dio che da sì lungo tempo desiderava vedere, disse all’uccello: — Chi sei, amico mio?» E quello rispose: — Sono uno degli augelli del paradiso. Dopo che Adamo fu, per ordine del Dio onnipotente, scacciato dal paradiso terrestre, ei si coprì, come vi sarà noto, per nascondere la sua nudità, con quattro foglie d’un albero. Venuto Adamo sulla terra, quelle quattro foglie caddero al suolo, e tramutaronsi in cose utili insieme e grate agli uomini. Fu la prima divorata da un verme, che da quel tempo produsse un tessuto flessibile e delicato: è il baco da seta. La seconda fu mangiata da una gazella, che da quell’istante è l’animale che dà il muschio. Servì la terza di pascolo alle api, e nel corpo loro cangiossi in cera ed in miele. La quarta restò nell’India, e produsse, putrefacendosi, tutte le piante odorifere ed i profumi di quella regione. Io lasciai allora il paradiso, e da quel tempo abito in questo paese, ed ogni venerdì reco il cibo ai santi che vivono sulla terra. Allorchè trovansi nell’estasi della preghiera, vengono qui per gustare qualcuno de’ cibi del paradiso.» Belukia, che pel suo amore per Maometto faceva parte de’ santi, si mise a mangiare, ma appena ebbe gustato qualche boccone, vide comparire il grande profeta Khizr4, guardiano della [p. 35 modifica] fontana di vita. Belukia si alzò onde allontanarsi per rispetto; ma l’uccello gl’impose di restare seduto.

«Khizr pregò Belukia di raccontargli la sua storia, cosa ch’ei fece senza obliare la minima circostanza, e poi disse al venerando profeta: — Permettete ora di farvi un’interrogazione: quanto c’è da qui all’Egitto? — Ci vogliono trentacinque anni di cammino,» rispose il profeta.

«Belukia si strusse in lagrime a tale risposta, e presegli le mani, le baciò dicendo: — Liberatemi, ve ne prego, da questi viaggi perpetui in regioni straniere! — Tergi il pianto,» riprese Khizr; «Dio ascoltò la tua preghiera, e mi ha mandato per ricondurti in Egitto. Afferrami colle braccia intorno al corpo, e chiudi gli occhi!» Fece il giovane quanto [p. 36 modifica] gli si ordinava. — Ora puoi riaprire gli occhi,» gli disse Khizr. Belukia aprì li occhi e trovossi davanti la porta del suo palazzo. Volse gli sguardi all’intorno per cercare il santo; ma era sparito. Entrato nel palazzo, vi trovò la madre colma d’anni, e che, rivedendo il figliuolo, ebbe a morirne d’allegrezza.

«In breve si sparse la nuova del ritorno di Belukia per tutta la città, e ciascuno sollecitossi ad accorrere per vederlo e recargli doni. Fu pregato di narrare le sue avventure maravigliose, ma non potè finire il racconto, perchè tutti quelli che l'ascoltavano struggevansi in lagrime, tanto erano commossi da quegli incredibili avvenimenti.

«— Sì, è in fatti cosa commoventissima,» disse Giamaspe, interrompendo la regina; «ed anch’io avrei pari motivo di piangere, perchè non volete lasciarmi rimpatriare. — Giamaspe,» rispose la regina dei serpenti, «io vi conosco; voi mi tradirete, sarete spergiuro, e mi farete perdete la vita andando al bagno; ciò mi cagionerà una morte certa. —

«Giamaspe rinnovò i suoi giuramenti, e la regina, terminata la sua storia, nè più sapendo come dissipare la noia e l’affanno del giovane, trovossi alla fine costretta a lasciarlo partire. Chiamato per tanto un grosso serpente, gli comandò di condurre il giovane sulla terra, e questi, accommiatatosi dalla regina, seguì la guida, e giunse in patria al tramonto del sole. Bussò alla porta della casa, e sua madre istessa venne ad aprire; ma scorgendo il figlio, mandò un alto grido, e svenne. Sua moglie, accorsa allo strido, provò la medesima sorpresa, e cadde anch’essa priva di sensi nelle braccia del marito; ambedue si credettero trasportate al cielo al vedersi restituito il loro diletto, ed abbandonaronsi alla gioia più viva.

«Dopo le prime espansioni d’una tenerezza reciproca, il giovane s’informò de’ suoi antichi compagni [p. 37 modifica] i legnaiuoli. — Son essi appunto,» rispose la madre, «che ci avevano recata la nuova ch’eri stato divorato da una tigre. Ora sono ricchi mercatanti, e fanno grandi affari. — Madre,» disse Giamaspe, «domani andrete ad annunziar loro il mio ritorno, e li inviterete a venirmi a trovare.» Non rimasero poco sbalorditi i legnaiuoli udendo tale notizia, e cangiando di colore, fecero un ricco dono alla donna, promettendole di recarsi da lei il giorno appresso.

Radunaronsi subito per concertarsi tra loro intorno ai mezzi di riparare l’ingiustizia, della quale si erano resi rei verso il giovane, e convennero di dargli ciascheduno la metà di quanto possedeva in mamelucchi, schiave e merci. Recaronsi dunque da lui per offerirgli quei presenti e pregarlo a dimenticare il loro fallo, e Giamaspe lo promise. Poscia lo invitarono ad andar seco al bagno. — No,» risposagli, «ho fatto voto di non andarvi mai. — Verrete almeno a pranzo con noi,» ripresero. Egli accettò l’invito.

«Sette giorni passarono così in festa, ora da un negoziante, ora dall’altro; Giamaspe anch’egli dedicossi al commercio, e conduceva amenissima vita.

«Un giorno, andato a passeggiare fuor della città, Giamaspe incontrò uno de’ suoi antichi amici, padrone d’uno stabilimento di bagni pubblici, davanti la cui porta appunto si trovavano; i due amici si abbracciarono, dimostrandosi reciprocamente il piacere di rivedersi. — Entrate,» disse il compagno; «voglio trattarvi alla mia guisa; so che fostè sempre dilettante di bagni. — No,» rispose Giamaspe,«ho giurato di non più prenderne, — Ve ne supplico in nome della nostra antica amicizia,» riprese l’altro; «fatemi il piacere di entrare. — Amico,» disse Giamaspe, «non esponetemi alla tentazione; rendereste orfani i miei figli, e me medesimo infelice e [p. 38 modifica] reo d’un grande spergiuro. — Queste sono visioni di uomo melanconico,» tornò ad insistere il padrone dei bagni. «Io prendo su di mè tutte le funeste conseguenze della violazione del vostro giuramento. Venite, ve ne prego ginocchioni. —

«Avendo questo lieve altercò prodotto qualche rumore, molte persone che venivano ai bagni, adunaronsi intorno a Giamaspe, e prese le parti del padrone, stringendolo a cedere alle brame dell’amico, impossessaronsi di lui, e lo spinsero innanzi, facendolo entrare nel bagno e spogliandolo ad onta delle sue proteste. Più di venti in una volta si posero a versargli acqua addosso per lavarlo, e terminata l’operazione, lo fregarono ed asciugarono. Aveva appena Giamaspe ripigliate le vesti, che si venne ad avvertirlo essere alla porta il gran visir con sessanta mamelucchi, il quale chiedeva di parlargli. Affrettassi egli ad ubbidire agli ordini dei visir, e questi lo condusse al palazzo del sultano, ove attendevalo uno splendido banchetto. Dopo il pasto, il visir gli fece il dono di due vesti d’onore, ciascuna delle quali valeva ben mille! pezze d’oro. Non sapeva il giovane a che cosa attribuire quei contrassegni d'onore, allorchè il visir gli disse: — Il sultano nostro signore è ammalato pericolosamente, e voi solo siete in caso di guarirlo. — Io non sono medico,» rispose Giamaspe; «pure son pronto a conformarmi agli ordini del re.» Preceduto adunque da un corpo numeroso di soldati, inoltrossi tra due file di guardie, ed attraversati sette cortili, si trovò nell’interno del palazzo. Chiamavasi il sultano Guserdan. Mille principi erano seduti intorno a lui su troni d’oro, duemila governatori stavangli davanti in piedi, e di dietro mille carnefici colle sciabole sguainate. Il re dormiva sul trono, col volto coperto d’un velo. Giamaspe rimase alla prima un po’ turbato a quell’aspetto; ma rassicuratosi, baciò la [p. 39 modifica] terra appiè del trono, e sedè sur una sedia, che gli fu indicata dal visir, alla destra del re.

«Fu imbandito il pasto, e finito questo, e lavatesi tutti le mani, si tolse la mensa. Allora il visir si alzò, e preso per mano il giovane, lo condusse dal sultano, poi sollevò il velo che gli copriva il viso. — Fanne il servizio,» disse allora il visir, «di volgere la parola al re; ecco tutto ciò che si esige da te, e ti accorderemo quanta potrai desiderare.

«— So bene,» rispose Giamaspe, «d’essere il figlio di Daniele profeta di Dio; ma non per questo non sono meno, ve lo confesso francamente, un ignorante. In tutta la mia vita, ho studiato un solo mese; se in allora avessi acquistate bastanti cognizioni in medicina per guarire il re, lo farei senza esitare; ma confesso, con dolore, di non averne la più lieve nozione.

«— Non cercate di scusarvi,» ripigliò il visir; «sappiamo tutti che voi solo potete guarire il re. — Come mai?» chiese Giamaspe; «ditemelo. — Fu ordinato al re,» rispose il visir, «di bere il latte della regina de’ serpenti, e voi solo sapete dov’essa dimora.» Allorchè il giovane udì quelle parole, si pentì amaramente d’aver violato, entrando nel bagno, il giuramento. — Io non conosco la regina de’ serpenti,» replicò, «nè so dov’essa dimori. — Mentite,» sclamò il visir; «avete passato due anni presso di lei, e passo provarvelo all’istante. — E come? — Ecco una lettera statami testè consegnata, e dalla quale veggo che non solo avete passato due anni, dalla regina dei serpenti, ma ancora che violaste la promessa a lei fatta di non entrare nel bagno, e che da quel momento vi è diventato tutto nero il ventre. Mostratelo — Il ventre,» rispose Giamaspe, «io l’ho nero fin dalla nascita. — È falso,» disse il visir,«poichè so, da certi mamelucchi ch’io collocai nella sala del bagno, che nell’entrarvi avevate il ventre bianco; non è nero se non dopo il vostro ritorno. — [p. 40 modifica] «Udendo tali cose, Giamaspe fu più afflitto che mai di ciò che gli accadeva; ma credette di dover persistere a negare, e continuò ad asserire che non conosceva la regina dei serpenti, nè mai aveva udito parlarne. Allora il visir chiamò due manigoldi che lo mettessero alla tortura; Giamaspe sopportò a lungo tutti i tormenti prima di confessare la verità, ma appena l’ebbe fatto, il visir venne a baciargli le mani e la testa. — Perchè negare,» gli disse, «una cosa tanto nota? sappiamo sino il luogo dove foste gettato nella fossa del miele e d’onde andaste alla regina de' serpenti.» Giamaspe confessò tutto; allora gli misero addosso una veste d’onore, lo fecero salire sur un cavallo magnificamente bardato, e fu condotto sotto numerosa scorta sino alla caverna dove era stato calato nella fossa del miele. Si arsero profumi, pronunziaronsi parole magiche, e tutte le purificazioni e formole scongiuratorie furono adoperate da Giamaspe per far che la regina de’ serpenti si mostrasse. Tutto a un tratto spalancassi un’ampia porta, dalla quale uscì uno strido sì spaventevole, che tutti gli astanti caddero bocconi, ed alcuni rimasero morti di terrore. Avanzossi quindi un serpente della grossezza d’un elefante, vomitando fiamme, e portando sul dorso un aureo bacino, nel quale stava un altro serpe con volto umano risplendente come oro. Era la regina de’ serpenti in persona, la quale, appena vide Giamaspe, si mise a sclamare: — Dove sono le tue promesse ed i giuramenti che mi facesti? Ma ben lo veggo, niuno può evitare il suo destino; il mio era annodato al tuo, e quello del re Guserdan al mio.» A tali parole si mise a piangere, e Giamaspe vi unì le sue lagrime.

«Il visir, avvicinatosi, allungò la mano per pigliare la regina. — Guai a te se mi tocchi!» gridò essa; - saresti sull’istante ridotto in cenere: al solo Giamaspe [p. 41 modifica] è lecito accostarmi. Mi collochi egli in un bacino di porcellana, e mi porti sulla testa.» Fece il giovane quant’essa ordinava, e si posero in via per tornare al palazzo. Strada facendo, la regina susurrò a Giamaspe nell’orecchio: — Allorchè saremo nella casa del visir, egli ti ordinerà di spaccarmi in tre per farmi morire. Niega di obbedire, e lascia fare a lui stesso tal operazione; egli non mancherà di tagliarmi; ma in quel medesimo istante il re lo manderà a chiamare, il visir mi metterà in un vaso di rame che porrà sul fuoco, e t’incaricherà di farlo bollire durante la sua assenza sinchè faccia spuma. Ti comanderà poscia di prendere quella prima schiuma, riempirne un vaso, e lasciatala raffreddare, di berla come rimedio universale per ogni sorta di mali, poi di far bollire una seconda volta il vaso, riempire di spuma un secondo vaso e custodirlo sino al suo ritorno. Ma io ti consiglio di cambiare il vaso col visir; vedrai l’effetto che produrrà il primo, e quanto al secondo, ti assicuro che ti comunicherà tutti i generi di scienza e di sapienza. Metti la mia carne in un piatto di bronzo per presentarla al re, il quale, dopo averne mangiato, si pulirà la bocca. Da prima proverà un gran calore nell’interno, talchè converrà dargli una bevanda refrigerante, ma coll’aiuto di Dio avrà in breve ricuperata la salute. —

«Appena la regina ebbe finito di dirgli tali cose, si giunse alla casa del visir. Allora questi pregò Giamaspe di tagliare in tre la regina de’ serpenti; ma ei ricusò di farlo, ed il visir s’incaricò in persona dell’operazione. Pianse il giovane amaramente vedendo quegli apparecchi, ma il visir non fece che riderne, e percuotendo l’infelice regina, ne tagliò il corpo in tre pezzi. Tutto accadde esattamente com’ella aveva predetto. Quando il visir fu tornato, domandò il secondo bicchiere: ma Giamaspe, dandogli il primo [p. 42 modifica] conservò l’altro per sè. Il visir, bevuto il suo, gonfiossi in guisa sì straordinaria, che divenne grosso come un elefante, e non si poteva movere in alcun suo membro. Così verificossi il proverbio: «Chi scava la fossa pel suo fratello, vi cade pel primo.»

«Rimase Giamaspe tutto attonito vedendo l’effetto di quel beveraggio, e sulle prime temè di bere il secondo bicchiere; ma pensando che il visir non lo avrebbe riservato per sè se fosse stato pernicioso, e rammentando nello stesso tempo le ultime volontà della regina de’ serpenti, fece uno sforzo, e preso coraggio: — Ripongo la mia fiducia in Dio!» sclamò. Poi, aggiungendo: «In nome di Dio clemente e misericordioso!» votò la coppa sino all’ultima stilla. Nel medesimo istante Iddio gli aprì nel cuore la fonte della sapienza, ed arricchì a un tratto l’intelligenza sua di tutti i tesori della scienza, del che Giamaspe fu pieno di giubilo. Pose quindi la carne in un bacile di bronzo, ed uscì dalla casa del visir per recarsi al palazzo reale. Strada facendo, alzò gli occhi, e tutte le maraviglie del cielo si manifestarono a’ suoi sguardi; vide la via de’ pianeti; udì l’armonia delle sfere5, ed in un istante divenne l’abilissimo degli astronomi e degli astrologi, de’ geometri e de’ matematici. Poi, abbassati gli occhi verso la terra, che’aveva così spesso considerata con indifferenza, comprese il linguaggio delle piante e degli alberi che discorrevano insieme6. Ogni [p. 43 modifica] pianta ed ogni pietra gli rivelarono le proprie virtù o le proprietà loro, di modo che Giamaspe fu subito dotto naturalista, medico, chimico e mago. Arricchito di tutte queste cognizioni, si presentò al re.

«Giamaspe cominciò dal partecipargli la morte del gran visir, che il re pianse, come anche gli altri visiri. — Ma stava così bene un momento fa!» disse il re; «e come mai morì sì repentinamente? — Volle bere l’elisir della sapienza,«rispose Giamaspe; «ma prese invece un altro vaso pieno d’una bevanda perniciosa, la quale produsse sì strano effetto, che il visir, gonfiandosi a vista d’occhio, rimase privo di vita. Però vostra maestà non deve inquietarsene; posso guarirla io: voglia soltanto la maestà vostra mangiare un po’ di questa carne della regina de’ serpenti.» Avendone il re mangiato, si pulì la bocca, e risentì interiormente un calore che fu in breve seguito da brividi. Allora Giamaspe gli fe’ dare una leggiera pozione, invitandolo poi a dormire alquanto. Il re seguì questo regime per tre giorni interi, in capo a’ quali cambiò la pelle dalla testa a’ piedi. Il medico gli consigliò d’andar al bagno, e ne uscì del tutto guarito e candido come l’argento; Guserdan ordinò quindi di celebrare una festa magnifica, nella quale tenne il giovane al suo fianco. Tutta la corte fece al sultano le sue congratulazioni per la ricuperata salute, ed il principe, ringraziati i ministri ed i grandi dell’impero, sollevò Giamaspe alla dignità di primo visir; poi [p. 44 modifica] disse: — Chi ama lui, ama me; chi l’onora, mi onora; chi gli obbedisce, obbedisce a me.» Tutti i grandi pertanto sollecitaronsi a render omaggio a Giamaspe, ed il re, rivestitolo d’una veste d’onore adorna di diamanti e di pietre preziose, gli fe’ dare inoltre dugento mamelucchi ed un gran numero di cavalli di pregio, senza contare i camelli, gli armenti ed i muli. Investito della carica di primo visir, tornò Giamaspe a casa accompagnato da tutti gli emiri, dai visiri e dai governatori, ben lieti di fargli la corte. Recatisi da lui i suoi antichi compagni i legnaiuoli, egli li accolse colla maggior benevolenza, quindi recossi al palazzo del defunto ministro, e ne prese possesso.

«Così Giamaspe legnaiuolo, uscendo dalla profonda sua ignoranza, divenne, per effetto dell’onnipotenza divina, gran visir, ed il più dotto ed illuminato degli uomini in tutte le materie. Un giorno, ei disse a sua madre: — Com’è possibile che mio padre Daniele, quel gran profeta, non m’abbia lasciato nulla?» Ricordossi allora la donna dei cinque fogli di carta che il marito le avea ingiunto di chiudere in una cassetta per consegnarli al figliuolo. — La tua eredità,» rispos’ella, «consiste in cinque fogli che formavano parte d’un libro di proprietà del beato tuo padre. — Dove sono questi fogli?» chiese Giamaspe; «e cos’è accaduto del resto del libro? «— Devi sapere, figlio mio, che il santo tuo padre possedeva un libro racchiudente tutti i segreti della natura, e del quale voleva servirsi per trovare un rimedio contro la morte. Passeggiando sulle sponde dell’Oxo, leggeva attento quel libro, quando d’improvviso apparì l’angelo Gabriele, il quale battè sì forte sul libro, che lo slanciò nell’acque del fiume, e non ne rimasero se non i cinque fogli che tuo padre teneva in mano. Questi cinque fogli, accuratamente da lui conservati, formano tutto il retaggio ch’egli ti ha lasciato. — [p. 45 modifica]

«Giamaspe aprì la cassetta, e vi trovò i cinque fogli, che contenevano, non già le scienze misteriose ed i segreti della natura (poichè tutta quella parte era andata sommersa nell’Oxo), ma un sommario di tutte le cognizioni fondate sulla sana ragione. Questi cinque fogli non contenevano adunque se non la vera scienza che acquistar si può nei libri, e che, da quel tempo, si è sparsa sulla terra. Tutte le altre cognizioni, che sono il partaggio degli uomini, e delle quali si gloriano, appartengono a quel genere di scienze, che furono impartite a Giamaspe allorchè bevve la seconda ampolla dell’essenza della regina dei serpenti, oppure alle false conoscenze che gonfiano e cagionano pronta morte, come accadde al presuntuoso visir.»

Sorgeva l’alba quando Scheherazade cessò dal lungo e maraviglioso racconto. Schahriar, attonito della prodigiosa memoria della consorte, le permise di cominciarne un altro, cui ella s’accinse in codesti sensi:

  1. Chi sei? d’onde vieni? dove vai?
  2. In arabo, sole.
  3. Proverbio arabo: gli Orientali ne hanno un numero grandissimo intorno alla pazienza. Eccone alcuni spesso citati dal Turchi: Sabr her marasch iladjdur, la pazienza è un rimedio contro tutti i mali. — Her sebrideh bir khair war, in ogni pazienza un vantaggio. — Sabr sciadligun anakhtavi durn, la pazienza è la chiave dell’allegrezza (È la traduzione letterale del proverbio arabo citato di sopra). — Sabr selamet, ivmek melavet, la pazienza attira la salute, l’impazienza la maledizione, ecc.
  4. Esistono varie tradizioni sopra Khizr o Khizer: se fosse un profeta, un santo, il profeta Elia o finalmente il visir d’Alessandro, come molti pretendono, è ciò che la leggenda non ispiega. Nondimeno, secondo l’opinione più generale, Khizr fu un savio che nacque al tempo di Mosè, come Lokman al tempo di David. Ebbe la ventura di trovare la fontana della vita, e da quel tempo n’è il custode sulla terra. Questa fontana trovasi nella regione delle Tenebre; è circondata da una luce verde, e custodita da Khizr, dotato d’eterna gioventù, e vestito d’un mantello verde. Allorchè la terra nella primavera ringiovanisce, è Khizr che adorna gli alberi delle verdi loro chiome e distende il verde tappeto dei prati; è egli che scopre le fontane, ed alla porpora di cui coloransi i cieli alla sera mescola le tinte d’un verde leggiero. Esiste sulla terra in gioventù e bellezza eterna, mentre l’età degli uomini e le rivoluzioni della natura seguono l’invariabile loro corso. È perciò che le pianure verdeggianti e l’acque fuggitive, siccome immagini della giovinezza e della vita, sono poste sotto la sua protezione speciale. Khizr è uno dei principali personaggi della mitologia degli Orientali: è la potenza vitale personificata, che anima tutta la natura, e del continuo la ringiovanisce; il preservatore del pericolo, la guida nel deserto della vita, come fu pure la guida di Mosè in un viaggio che intraprese per convincersi del destino e della predestinazione. Questo profeta misterioso rappresenta, nel mondo delle apparizioni, una foggia di Nemesi che deprime e castiga l’orgoglio e gli eccessi del potente; per cui apparisce dovunque come un messaggero della vendetta contro i re. — Lo sceik Abu Ferali Abderrahman Ben Alì, sopranominato Ibu Giusi, compose, su questo custode della fontana della vita, un’opera speciale scritta in arabo, ed intitolata: Jgialet-al-muntazir fi scerhi halil-Khizir, cioè la Premura dell’aspettazione, per lo schiarimento della condizione di Khizr. Veggasi il Rosenoel, o Tradizione degli Orientali, del sig. di Hammer, tom. I, pag. 117.
  5. Secondo la mitologìa degli antichi Persiani, Anahid, genio femmina, che abita la stella del mattino, e presiede all’amore e dà la luce, dirige il cammino armonico degli astri col suono della sua lira, le cui corde sono formate dai raggi del sole.
  6. Il passo seguente della prefazione del sig. Garcin di Tassy, premessa alla sua traduzione degli uccelli ed i fiori, allegorie morali di Azz-Eddin-Elmecadessi, spiegherà ciò che deesi qui probabilmente intendere per linguaggio delle piante e degli alberi. «Azz-Eddin comincia dallo stabilire, che nulla v’ha nella natura che dotato non sia della facoltà di farsi intendere in modo sensibile od intellettuale. All’uomo solo è riservato l’uso della parola; ma sembra che anche l’altre creature animate od inanimate esprimansi in un linguaggio figurato di cui somministrano l’intelligenza la lor maniera di essere, la proprietà, le abitudini loro. Chiamasi tal linguaggio, linguaggio dello stato o della condizione, il che si può esprimere col dirlo linguaggio muto.