Le Selve/Baliatico

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Baliatico

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Angelo Poliziano - Le Selve (XV secolo)
Traduzione dal latino di Luigi Grilli (1902)
Baliatico
Ambra (lat.) Nutricia (lat.)
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IV.


BALIATICO1



In lode della poesia e de’ poeti, 1486.

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Legge vetusta, che per volger d’anni
Giammai non perirà, (d’uomini e Dei
Unanime pensier, tal che Natura
Madre in oro la incise, ed è credenza
La dettassero Temi, del volere5
Dei fati consapevole, e Prometeo,
Dell’avvenir pensoso, non ancora
Incatenato alla caucasea rupe),
Vuol che di gratitudine si paghi
Chi ci largía con le carezze il latte;10

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E la mercede alle protratte veglie
Proporzïona con affetto, e giusto
Premio consente alle durate cure.
Cosí ad Italo golfo impose Enea,
Memore di Caieta, il frigio nome;215
Annue feste cosí mettean succinti
Luperci in mostra di Quirin nell’Urbe;
Cosí trasse nel ciel Bacco le Pleiadi,
Fulgide stelle su la fronte al Toro;
Dell’oceàn spavento e de’ navigli20
Sorge a splender cosí d’Oleno il segno,
Da che sovra l’Idèo monte si narra
Ch’abbia Giove fanciul d’un’amorosa
Capra il latte succhiato a le mammelle.
Ma io, cui porse gli uberi turgenti25
Di nettare divin, non la compagna
D’irco immondo, non belva lionata,
Entro caverne, non procace Ninfa,

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Non straniera nutrice, ma un’Iddia,
Che delle figlie di Pierio è suora30
E dell’eccelsa Pallade compagna,
L’augusta Poesia, che, in alto, seco
Via rapisce le umane intelligenze
Nelle celesti regïoni arcane;
Io quali renderò, quali mai grazie35
A tanta altrice, e quale fia compenso
Convenïente che pagar le possa;
Io che Giove non son, che non son Bacco,
Né d’un regno signore? O audace mente,
Dove or bramoso mi trasporti? Dove40
Attonito mi spingi, o troppa ardita
Divozïon? Quale tumulto è questo
Che la mia trepidante anima invade?
M’inganno? O il cor medesimo alla Diva
Offerta convenevole matura,45
Di suo volere, e le parole e il suono,

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Ritmicamente a poco a poco esprime,
E vergin carme non soggetto mai
A fuso alcun di Parca, intorno effonde?
Tal sia. Su dunque, dove l’infiammato50
Estro si lancia, ove il pensier, l’ingegno
E i voti ci trasportano, moviamo.
Sovra la terra, nel novello mondo,
Posto avea la divina Provvidenza
Da poco l’uomo, creatura eletta,55
Che l’occhio ardito avría sospinto ai cieli,
Che della mente con l’acume, tutte
Si farebbe a indagar le maraviglie
Dell’universo, e la cagion riposta
Disvelerebbe delle cose, e il sommo60
Dell’essere Dator, che il mar, la terra
E le sfere col suo cenno governa,
Sorprenderebbe; che sommesso ogni altra
Cosa all’impero suo vedría, sorretto
Dalla ragione, e i mansueti greggi65
Coll’allevar, coll’ammansir le fiere,

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Fugar potrebbe dall’ignavo mondo
L’infingardía; né soffrirebbe inerte
Che il suo dominio in lento ozio languisse,
Né che nell’indolenza la sua vita70
Frale intristisse. Nondimen per molti
Secoli rude, incolta, nelle fitte
Dell’ignoranza tenebre ravvolta,
Se ne stette degli uomini la stirpe;
Senza costumi, senza legge alcuna75
Si propagavan simili alle belve,
Qua e là vivendo; e l’ingenita forza
Dell’alma, oppressa da gravosa soma,
Rivelata non s’era in opra alcuna;
Nell’alma nulla, nelle membra tutto.80
E non religïon (lice supporlo)
Avean quegl’infelici e non affetti,
Non doveri; a quel popolo discorde
D’amistade i legami erano ignoti;

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Non facile ad alcun scernere i figli85
Venuti in luce dagli ambigui amplessi;
Non era il marital letto difeso
Dal genio tutelar; non con giudizi
Si praticava di punir la colpa,
Non s’agitavan pubblici negozi,90
Non si cercava il comun bene; ognuno
Uso era ponderar l’utile proprio,
A se stesso bastar, viver da solo.
Ed ora, inconsci, il dí piansero come
Morïente per sempre al tardo vespro;95
Ora, alla luce che tornava, quasi
Ad un sole novel fecero plauso;
E, pieni di stupor, maravigliaro
Al volubile corso de’ pianeti,
Ai mutevoli aspetti della luna100
Nell’ombre incerte della notte, e delle
Stagioni al vicendevole ritorno;

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A lungo s’affissarono de’ cieli
Nell’alte maraviglie, e, delle cause
Ignari, l’ala del pensiero inetta,105
Dal fulgido pendean lume del mondo.
“Quando dall’alto soglio il Padre Eterno„,
Delle misere menti e degli spirti
In grave ozio marcenti addolorato,
Te guida e te signora all’intelletto110
Nostro concesse, o Poesia divina.
Tu, prima, ardisti dominar col freno
De’ riluttanti la cervice, tu
Punger gl’ignavi, ammaestrar gl’incolti,
Tu, prima, suscitar da’ fieri cuori115
La nascosa scintilla, e tu la fiamma
Fomentar di Prometeo al ciel rapita.
PerocchéFonte/commento: norm. non appena Sapïenza,
Moderatrice delle cose sola,
Dalla bellezza del parlar sorretta,120

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Soave il canto a modulare imprese;
Tosto che urtò le schive orecchie il suono,
La turba accorse di que’ rudi; e, al ritmico
Misurato fluir di quegli accenti,
Alle leggi recondite de’ carmi125
Maravigliando, l’uno addosso all’altro,
Tési gli spirti, in moltitudin densa,
Non movean labbro, infin che appreser quanta
Sia discrepanza tra le norme e l’uso;
Onde l’origin sua tragga l’onesto,130
O quali abbia confini; o qual s’addica
Culto alla fede; che richiegga il dritto
Della giustizia, e qual cosa dimandi
Con l’usanza il decoro e la ragione;
Quali vantaggi dal civil consorzio135
Derivino alla vita, e quali accordi
Servan di norma ai pubblici negozi,
Quanto sovrasti all’inconsulta forza
La perspicacia, e qual si debba poscia

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Ai genitori ed alla patria affetto;140
Quali dal sangue scendano diritti,
Quale un alterno amor vincolo saldi,
Qual eserciti impero (onde a Cupido
Fia l’arco infranto e saran dómi gli odî
Truci) la virtú provvida del vero145
E dell’umano spirito la forza,
La qual s’aderge a specular cotanto
Sublimemente da sovrane altezze,
Che attinger pare delle stelle i mondi,
E penetrar ne’ regni alti di Giove.150
Sua natura selvaggia avea ciascuno
Riconosciuto; e, vergognando, stava
Senza parola con pupilla immota.
Le costumanze a ognun tosto e la vita
Anterïor similemente increbbe,155
E i ferini usi condannare osando,
In un istante rivelaron l’uomo.

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La barbara favella allor da prima
A nuove forme si spiegò, gli arcani
Sensi, fedele, la scrittura accolse,160
E il solco delle cittadine mura,
Da tutelar con gran nerbo d’eroi,
Il succinto arator schiuse alle genti,
E la ragion del lecito o vietato
Indi a trarre per mezzo alle discordie,165
A incider leggi, statuenti premio
Alla virtú, punizïone al fallo,
Sopra tutrici tavole si prese:
Regolati fúrFonte/commento: norm. tosto i maritaggi
E gl’incostanti amor tenuti in freno170
Da leggi fisse; ognun s’ebbe, in tal guisa,
La propria figliolanza e affetti proprî;
E in guerra e in pace ritrovàr le genti
Arti innumere; e a indagini inquïete
Sottoposero pur l’etere, in mezzo175

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Pure alle stelle, fatte obbedïenti,
La cervice levarono sublime
E misuraron de’ pianeti il corso;
Indi, scrutato il ciel, sparser la terra
D’infiniti agli Dei templi divoti.180
Cosí l’aspetto al mondo, la sua forma
Alla vita, l’onor debito a’ Numi
Si ridonò; cosí alla mente stessa
Fu la mente alla fin restituita.

Ed ei l’uom crudo, forse, egli indomato185
E ardimentoso, egli ch’ogni altra cosa
Col vigore de’ muscoli prosterna,
Nel viver rozzo, d’indole inconsulta,
Fors’egli avrebbe a convenevol giogo
Piegato il collo, o ad inflessibil morso190
Volentieri ubbidito, se non pria
Con lusinghiero carme l’eloquenza
Trionfatrice rammollito avesse

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La rude intelligenza, il riluttante
Spirto dell’ira ed il ribelle orgoglio,195
E allo splendor del bello e dell’onesto
Obbedïente il suo seguace addotto?
Ecco: il leone le arruffate giubbe
Pur esso ricompone; erti i dragoni
Drizzan la cresta di color vermiglio,200
E dall’acuto sibilar ristanno
Alla dolcezza tenera del canto;
E Cerbero medesimo, dell’ombre
De’ trapassati guardïan, terrore
Dell’Averno, an che Cerbero ristette205
Dal triplice latrato, allor che Orfeo3
Toccò la lira, e le tre bocche il mostro
Spalancate levò, maravigliando
Dell’inudito suon, ch’avea piegato
La crudele Tisifone, e il tremendo210
Orco spinto a versar lacrime; ed anche

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Fama è che Giove, allora quando insorge,
E le fiere ciclopiche saette
Agita in pugno, ed il creato scuote
Col rombo spaventevole de’ tuoni,215
E solca di baglior truci le nubi,
Se il divo Apollo dal suo plettro mai
Sprigioni accordi, se l’alterno canto
Pie le Muse disciolgano, si plachi,
E tutto quanto l’universo avvivi220
Di sua letizia e il ciel tosto sereni.

Dunque orsú, via, quest’impeto divino4
Che di tant’estro l’uman core infiamma;
Le cosí multiformi opere, figlie
Dell’inspirata mente al ciel congiunta;225
Color che, arditi d’intrecciarsi un lauro,
Premio alla dotta fronte, un immortale
Nome affidaron all’età future;

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Io canterò. Propizia alla fatica
Genïale sorrida ora la Musa,230
L’epica Musa, degli uman quïete,
E sempiterna voluttà de’ Numi.

Pei dòmi ignei dell’etera, pe’ cieli
Trapunti di fulgenti astri, nel soffio
Dell’aure, in terra e in mar Giove (sî come235
Vuolsi) diffuso, de’ pianeti erranti
Che vibran quasi cetera sonora,
Regge le fughe e ad impari intervalli
Ne volge il corso rapido, che spazio
Convenïente tuttavia distingue240
E limite prefisso. Onde piú grande5
Di quel che accoglier nostra mente possa
Sgorga una melodia, che in una fonde
Ritmica scala acute note e gravi.
E genïal Sirena è in ogni stella,245

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Che piamente con voce soave
I Numi placa. Nondimeno in tutte
Le umane menti sfolgorante è un segno
Che l’arcana de’ cieli melodia
Attesta e il soffio animator di Giove.250
Però che qual d’un astro si riflette
L’immago sulla faccia d’uno specchio,
Come chiusa in cristal nitido l’acqua
Limpidissima al sol manda baleni,
La sinfonia cosí de’ firmamenti255
Inspira e accende la serena ai vati
Alma inquïeta. Cosí fatto ardore6
Il poeta trascina e il senno antico
Col furïar precipita dell’estro:
Nell’intimo del cor poscia divampa260
L’imprigionato Iddio, tutta agitando
In furibonda passïone l’alma;
E dall’ime latèbre, ove s’attarda,

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L’uom, disdegnandolo a compagno, scaccia;
Alfin, signore della vuota stanza,265
Fuor delle membra assedïate irrompe,
E i carmi suoi dall’uman petto esprime.
Non essi il cigno col suo dolce canto
Varrebbe a superar, non sapïente
Cetera od arpa, che, da alterne dita270
Scossa, con voce tenera sospira;
E neppur quell’amabile su tutti
Suono ch’erompe da ineguali canne7
Al percuoter de’ tasti ed all’ansare
De’ mantici compressi, e a cui risponde275
Emulatore un pio coro osannante,
A gara provocandosi. Del nume
Or ti fia nota la presenza in breve.
Dall’anelante bocca esce la voce
Possente oltre ogni immaginare, quanto280
Quella ch’ebbe ad empir gli antri una volta

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Delle sibille e le cumane grotte.
Né vincere potría l’orrenda voce
Il rauco suon delle guerresche trombe,
Non il tuono di Giove, non il fremito285
Della pineta che implacati i venti
Scuoton dell’Ossa sovra i gioghi, o delle
Cateratte precipiti del Nilo
Il rombo che il vicin popolo assorda.
Sovente anch’essi (chi lo crederebbe?)290
I legittimi vati hanno stupore
De’ carmi, che, dal nume posseduti,
Pria dall’anima espressero; s’offusca
Negli occhi il lampo inspirator, né sanno
De proprî detti a sé render ragione,295
Poscia che si quetò lo spirto e cadde
L’impeto sacro che le labbra urgéa.
E i carmi stessi, da sí lungo tempo
Al papiro che il Nil cresce affidati,

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Ammireresti dell’ardor Febeo300
Traspirar tutti e della melodia,
Che sotto l’arco palpita de’ cieli;
Ch’anzi d’uguale passïone il sacro8
Contagio l’alma de’ lettori accende,
E vati nuovi suscita dai primi305
Per istinto la fiamma animatrice:
Qual ferreo anello, che la forza arcana
Del magnete una volta abbia provato,
Con pendulo viluppo una catena
Implica lunga, e per misterïosa310
Virtú di coerenza insieme stringe.

Indi canori cigni, con un largo9
Fluir di suoni, l’eliconie valli
E delle Muse i venerandi fiumi
Reser famosi. I primi carmi intorno
Nulladimeno propagàr responsi
Da che il labro presago innanzi a Giove

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Nereo pur sciolse ad inspirati accenti,
Nereo dell’Oceàn Nume vetusto,
Come antica la Fama ne tramanda;320
E tu, saggio Prometeo, che alle pure
Stelle involata una favilla, indarno
Il satiro, ammirante e fascinato
Dallo splendor magnifico, ammonivi
Che non cedesse alla lusingatrice325
Brama di stringer e baciar la fiamma.
Ed ecco pur di Focide la grotta,
Che nel monte vaneggia, sovra cui,
Da opposti lidi, l’aquile di Giove
Raccolsero l’ugual nerbo dell’ali,330
Sonar dell’alma Temi ai vaticinî;
La quercia dodonèa, cosí, lo stesso
Giove fece vibrar de’ suoi responsi,
E nelle selve libiche le corna
Crollò presaghe del futuro: Pane335

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Nella notte, cosí, tra’ Licaòni
Con gli oracoli suoi sparse il terrore;
E d’allòr cinti gli Apollinei tripodi
Parlarono fatidiche parole,
Ed echeggiaron ne’ Filesî templi340
Le profezie del coronato Branco,
Di Branco, un dí custode delle gregge,
Al quale Apollo, consentito il bacio,
E dell’amor riconoscente, diede
L’antiveggenza del futuro in dono;345
E per mezzo de’ carmi i suoi responsi
Fauno espresse nottivago ai latini
Duci sdraiati sulle ovine pelli;
E voi pure gli oracoli affidaste,
Triplici Parche, al verso; anzi le antiche350
Sibille anch’esse i vaticinî loro
Nel magico infrenàr cerchio del ritmo:
Amaltèa; di virtú divinatrice
Marpesia, ricca; Erofile, discesa10
Dall’Ida, e Sabbi, sovra l’altre dotta;355

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E Demofila e Figo e, del ver conscia
Fennide, e Manto, Femonoe, la Pitia,
Prima ad usar l’esametro, e Deifobe,
La longeva, del Dio Glauco figliuola:
Ed i Marci fratelli, e dalle Ninfe360
Baci ispirato, e l’iperboreo Olleno;
E Lica nel suol d’Attica famoso;
E le nere colombe dodonèe.
Che dirò poi del multiforme Proteo,
Pur tra ’l pianto ed il riso incerto il volto?365
Che di te, vecchio Glauco, e che d’Idmone,
Della virtú del genitore adorno,
D’un rapido cinghial steso dal morso?
E del pio Mopso, che nel suol di Lidia,
Punto da serpe di veneno infetto,370
Lasciò la vita? Che di te, Melampo,
De la favella degli augelli interprete?
Che di Tiresia, a cui tolto degli occhi

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Fu il lume, poi che ignuda la persona
Di Pallade mirò? Che d’Anfiarao375
Dalia moglie tradito e da nemica
Terra ingoiato? Che dirò di quello
Che per virtú d’un’erba, onde pocanzi
Resuscitava un serpe, a nova vita
Richiamò Glauco in Creta, entro gran vaso380
Di miel perito? o del tigliol di Testore,
Che addusse a Troia, già votata al fato,
Ben mille navi? o infine di colui
Che con magico dir l’empio scongiuro
Reiterando, su la propria testa385
Chiamò del cielo il fulmine, ammonendo
Di custodire il bidental, ché fòra
Dell’Assiria il suo cenere tutela.

Rammenterò di Solima i profeti,

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Stirpe famosa; o il salmeggiante a Dio390
Re, che fanciullo, al Filisteo colosso
Dal fulmin della sua fionda abbattuto,
Recise il capo; e te che le superbe
Cupole ergesti al tempio di Soría,
O sapïente e ricco Salomone,395
E della sposa che d’amor si strugge,
Trepida, aulenti i baci celebrasti?
Levaron gli uni cantici al Signore
Benedicenti; cosí, pria che il fronte
Gli folgorasse di splendor sovrano,400
A piede asciutto il rubro mar varcato
E Faraon ne’ vortici travolto,
Mosé disciolse un trionfale a Dio
Inno di grazie; e tu, figliuol di Iesse,
Adolescente, che pur or nomai,405
Che la dolcezza delle salmodíe
Con le battaglie strepitose alterni,
Tu plachi Iddio con la virtú del canto:

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Cosí la vampa dell’orrisonante
Fornace in Babilonia al ciel ribelle410
Lambisce innocua gl’inni salïenti;
E, scrupolosa degli antichi riti
Osservatrice, la giudaica stirpe,
In ordine contrario altr’inni legge.11

Ma Giove, alcuni, e i tutelari genî,12415
(Il paganesmo avea questo voluto)
Gli Dei lari infiniti, e gl’infiniti
Numi che tramontàro e l’universo
Divinizzato in varî luoghi, ahi! pieni
Di fe’, invano adorarono, e, pregando420
Divotamente alle lor colpe venia,
Placaron ogni Deità col canto.
Ed ecco, il turbinar degli elementi
Scompigliato, ecco il giovinetto mondo,
Nelle sue prime aurore, e le divine425

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Stirpi e le umane e dei Titani l’evo,
Ed insieme le origini dell’erbe,
E i frondiferi boschi, e le famiglie
Degli animali aver di poesia
Non spregevole culto: e ciò che l’alma430
Natura agita in sé; quai danze gli astri
Guidino negli spazi; in qual maniera
Delia si vesta del fraterno lume
E de’ sorbiti rai tosto si spogli;
Quali riempian maraviglie i cieli,435
O quali addensi l’etera tempeste,
O da quante sia folgori solcata,
Perché trabalzi esagitato il suolo,
Quale affatichi spirito inquïeto
L’onda reflua del mare e le natanti440
Moli, si prese ad affidare al verso.
E al verso s’affidaro indi le sacre
Leggi; i Nòmi sonanti ebbero vita;

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E non soltanto orribili ferite,
Ma tenebrosi morbi alla potenza445
Cesser de’ carmi: né de’ vati gl’inni
Furono un tempo a’ sacri riti ignoti:
Negli arcani scongiuri, in varie forme,
Le magiche parole anzi atteggiàrsi.
Né mendace racconto è ch’Anfïone450
Dell’arcadico suo plettro col suono
Commovesse le pietre, e che d’Orfeo
La lira ai fiumi sospendesse il corso,
Che il sospir ne seguian dall’ime valli,
E che gli spechi con le fiere loro,455
Le stesse rupi co’ pierî faggi
Alla soave melodia traesse,
E che l’augel, librandosi nell’aria,
Lievemente dibattendo l’ali,
Tosto come impigliato il voi fermasse.460
Dischiuse pure il Tartaro le porte

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Alle dolenti sue note canore;
Cerbero a cui terribilmente l’idre
Ondeggiano sul collo, e, orrendo mostro,
“Con tre gole caninamente latra„,465
Còlto fu da stupore; e dello stigio
Subitamente la consorte anch’essa,
Stupita di veder contro lor voglia
L’Eumenidi rigar di pianto il volto,
La sua cara Euridíce al Vate rese;470
Sebbene, ahimé! (dell’inuman decreto
Inflessibil rigor!) non fu concesso
GodèreFonte/commento: ? a lui del conseguito dono.
Ma delle Tracie donne la vendetta
Poi che il giovine, indarno supplicante475
Con dolce canto e con pietosi accenti,
Ebbe qua e là disperso alla campagna,
A brano a brano, furïosamente;
Mentre, ahi! la lira, lugubre sonando,

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Per mezzo all’Ebro ne traeva il capo480
Dalla cervice sanguinante avulso,
E all’adorata Euridice recava
L’anelito supremo, e lei, lei sola
Il fuggitivo spirto e la morente
Lingua chiamava ancora; si commosse485
A maraviglia il popolo di Lesbo,
Nell’ascoltare la notante lira
Di suo talento gemere, e del Vate
Nel vederla recare il sanguinoso
Capo, del quale, accompagnar pareva490
Ahimé! quasi le fievoli querele.
Irriverente e sciocco osò Neanto
A quella lira d’appuntar sue brame,
E via d’Apollo la sottrasse al tempio;
Ma lui, che, inetto, ne toccò le corde,495
Con le vindici zanne de’ notturni
Cani vaganti disbranò la furia.
Ond’essa, in ciel rapita, come un tempo

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Rupi e boschi a sé trasse, auree le stelle
Or con le corna sue fulgide attrae.500
E perfino l’immagine di lui
Presso Libetra di sudore un giorno
Divin tutta stillò, della vittoria
Del Macedone conscia. Onor sí grande
S’ebbe anche morto il getico poeta!505
Ma tu che avevi all’immortal maestro,
Carme soave, il tuo Cratère offerto
Ai secoli avvenir lanciando il nome,
Tu le minori deità cantando
Affascini, o Musèo. Lino per altro510
Scaglia non poche maledizïoni
Contro il suo alunno indocile, e lo chiama
Smemorato e insoffrente di lavoro;
Ond’Ercole una volta, disdegnando
L’autorità del precettor suo dotto,515
Ribelle, sopra il venerando capo

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Lasciò andar la sua lira, e lui, che molto
E indarno urlava, e protendea le mani,
E caldamente supplicava, uccise.
Ahimé! non era, no, premio codesto520
Convenïente al suo labro inspirato.
Or di Metimna il vate è a salvamento13
Da un delfin tratto; ora, le stesse Muse
Preteso avendo d’emular nel canto,
Tamiri l’arte della cetra scorda,525
E della vista è orbato: ei, chi l’ignora?,
Primo (se il ver l’antichità ci narra)14
Ad illeciti amor con le lusinghe
I giovinetti a trarre; ei ch’avea terzo
Nelle gare poetiche degl’inni530
Una famosa palma conseguita;
Però che il genitor suo Filammone
Eragli innanzi andato, e Crisotèmi
Di Creta entrambi superato avea.

[p. 183 modifica]

Di Demodòco, inver, piú duratura535
Nei secoli la fama si compiace
Ringiovanir d’Omero in su le carte;
Pari, o Femio, alla tua che nelle mense
D’Itaca poetavi in mezzo ai Proci,
Di malavoglia.540
Perocché sí come
Vediamo in cielo naufragar le stelle,15
Quando la gloria de’ suoi raggi sfrena
D’Iperïon la fiaccola dorata,
E vanir quasi la pallente luna;
Tutti cosí dell’evo antico offusca545
I fulgid’astri sfolgorante Omero
Con la sua luce; egli, che, solo, quando
Magnificava degli eroi le gesta,
E co’ suoi carmi le battaglie orrende
Uguagliava sublime, Apollo quasi550
Pari a se stesso dichiarò, compreso

[p. 184 modifica]

D’un’alta maraviglia. E a lui da presso,
O forse innanzi (se la veneranda
Antichità non s’opponesse), canta
L’armi e il valor del grand’Eroe, Virgilio,555
Cui nel carme georgico e nel verso
Pastorale cedettero l’Ascrèo16
Pastore insieme ed il Siracusano
Spontanamente; che livor mendace
Col venefico suo dente giammai17560
Non fia che giunga a mordere; il livore
Che infin solo di Venere ai calzari
Osò detrarre, allor che della sua
Beltà compiuta a giudicar s’accinse.
Tengon dietro a costor, da lunge, l’orme565
Seguendone, quei due che i sette prenci18
Sotto Tebe chiamarono a battaglia;
Dell’Apollinea Claro, il primo, figlio,
Della Cumana Napoli il secondo:
L’uno che pure in tenera elegia570

[p. 185 modifica]

A te lacrime diede, o Lydia, estinta;
L’altro che, ardito, con eroico metro
Del gran Pelide ricantò le gesta;
Quello che, infine, di Platone a guisa
Avea gran turba ad ascoltarlo intenta;575
Questo che nelle sue Selve pur anco
L’onor vantò che gli era tocco in sorte.
Ecco altri celebrar dal primo remo19
L’onda dischiusa, e la palladia nave
Di fatidiche tavole contesta:580
L’un della forte stirpe di Miscello,
In persona cantò del tracio Orfeo;
L’altro, Apollonio, che le mura lascia
Dell’egizia Alessandria, rinnegando
La sua città nativa, e cerca Rodi585
Del colosso del Sole altera, e d’aurei
Nembi resa felice. A lui tien dietro,
Sovra terra latina le vestigia

[p. 186 modifica]

Calcandone, Varron, scarso d’eloquio,
Come colui ch’avean donato a Roma590
La barbara Narbona e il picciol Aude.
Ed egli in elegie d’impari versi
Celebra i proprî amor la sua Leucadia;
Ei ch’avea indarno di Lucilio i carmi
Preso un giorno a imitare. E te la morte595
Cruda, ahi! sorprese, o Flacco, allor che il mare
Con gonfie vele giovine correvi,
Pria che Giason Pagasa rivedesse
E la paterna Iolco. E a te, figliolo20
D’Ascra, che segui le dedalee norme,600
Vate, che il vol tra le ventose nubi
Alto non schiudi e neppur radi terra,
Ma con celere andare al giusto mezzo
T’attieni, a te con qual verso, o con quale
Labro, o del core sentimento alfine605
Aggiungere potrei lode condegna?

[p. 187 modifica]

A questo, inver, che nelle patrie valli
Un dí il gregge pasceva, insieme tutte
Benigne si mostrarono le Muse,
E il lauro gli donarono ed il verso,610
Onde l’origin degli Dei cantasse,
E le dottrine di Chirone, e l’opre
E i giorni, e del fiero Ercole lo scudo,
E, del ciel stirpe, l’eroine antiche.
Pertanto nelle calcidesi gare615
Un orecchiuto tripode una volta
Ei guadagnossi; e (se del ver notizia
A noi posteri giunse) anche il divino
Omero a superare ebbe nel canto.
Dolosamente ucciso indi, e ne’ flutti620
Sommerso, al lido una dolente il trasse
Compagnia di delfini; e i cani, a torme,
Rivelatori del misfatto atroce,
Accorser tosto, e giacquero sepolte

[p. 188 modifica]

Ne’ flutti de’ colpevoli le membra,625
L’ombra illustre a placar: di Minia il suolo
Nel tumulo fatai l’ossa or ne accoglie,
L’ossa di cui dié una cornacchia indizio.
Né men la Musa di Pisandro arreca21
Alla steril Camiro e nome e gloria,630
Di Pisandro che armò di poderosa
Clava il magnanim’Ercole. Ed uguale
Al Clario veglio e a quel d’Ascra è per fermo
Nella gloria colui che novamente22
Le dodici fatiche osa ridire,635
E, a cominciar dal Caos, tutta de’ vati
Precedenti le favole ritesse.
Né Calcide del suo figlio si tace,23
Euforïon, che, scompigliatamente,
Mopsopia canta; né ritegno ha Sparta640
Del canto di Tirteo di menar vanto,

[p. 189 modifica]

Sebben con passo zoppicante ei vada.24
Partenio aggiungi che traveste i corpi25
Di nuove forme, e Arato che sublima26
A interrogare i firmamenti il guardo,645
(Vanto precipuo suo), la derelitta
Alma del quale tutta quanta ardeva
Di Filino fanciul; di cui Cilicia
I resti accolse, con maraviglioso
Sepolcro celebrandone la fama.650
Né tacerò di te, Nicandro, a cui27
Diede i natali Colofone, onore
Degli studi peonici, che scopri
I veleni malefici e gli umori
Fuor delle fauci da’ serpenti espressi,655
E contrapponi a lor la medic’arte;
Che in presagire l’esito de’ morbi
Ti mostri esperto, e in indagarne i germi;
Che de’ campi le sacre opere dici,

[p. 190 modifica]

Di miti soavissimi spargendo660
Le austere carte. Ma ricerca Oppiano28
I covi delle fiere; e degli augelli
Tende insidie e de’ pesci alle famiglie:
Onde su gli altri ad Antonino Pio
Caro divenne, ed assai fu pel dotto665
Suo lavor di ricchezze favorito.
In tenue libro l’affrican Dionisio
Tutto l’orbe descrive; ma di Bacco
Le gesta non cosí su breve tela
Ricamar poté Nonno. Ecale dice670
Callimaco e le imprese maratonie,
Oltre l’usato spazïando in alto.
E dell’antiche favole e de’ riti
Le origini disvela, e dolci amori
Al verso endecasillabo confida;675
Ed or contro l’ingrato Ibi inveisce,
Con simbolici detti; ora i celesti

[p. 191 modifica]

Celebra; or giambi arroventati scaglia;
Or calza l’umil socco; or nel coturno
Piú grande appare; e temi svarïati680
Di poetiche forme rivestendo,
In differenti rivoli disperde
I fiumi d’Elicona. Ma si dubbia
Se maggior gloria al Tevere, possente
Dominator del mondo e delle cose,685
Arrechi della fertile Solmona
Il molle figlio, o non piuttosto sia29
Piú grande, o Roma, la vergogna tua,
Che nel getico suol quasi sepolto,
Esule e derelitto, ahi! lo lasciasti,690
Sol perché troppo amicamente forse
La cesarea fanciulla osò mirare.
Il primo aspetto delle cose ei muta
In nuove forme; in elegiaco verso
L’arte e i rimedî dell’amore canta,695

[p. 192 modifica]

Ed un altr’Ibi in simboli racchiude;
Or ci presenta lettere amatorie;
Ora, con voce di morente cigno,
Piange il suo tristo esilio; e le romane
Origini ricorda e i riti illustra;700
O ignoti al Lazio ancor pesci rivela;
O i firmamenti specula; o di varî
Epigrammi raccoglie insieme un libro;
E una tragedia pur cuce di versi
Virgilïani, ed i licenzïosi705
Vati, di cui pien oggi è dappertutto,
Dell’acuto suo pungolo trafigge,
Nulladimeno a sé molto indulgendo,
Poi che di fine ingegno inver donato,
Vago l’aspetto di quel carme estima710
Cui qualche neo, qua e là cosparso, macchia.
E già l’antico vate, Ennio, che mena30

[p. 193 modifica]

Vanto di triplice alma, e che (se i sogni
Non son vane chimere) è dell’italiche
Genti secondo Omero, le battaglie715
Fiere di Roma ed i trionfi canta,
E le vicende che nel corso alterno
Degli anni si seguiro al verso affida;
Rude in arte, potente di pensiero
Nel dir conciso, povero, animoso,720
Pago del proprio, di costumi integro,
D’armi e di guerre esperto. A Rodia nato,
Del rigido Caton l’aveva a Roma
Sul fior degli anni la questura addotto;
Poi, chiamato a seguir l’armi di Fulvio,725
Che le cruente sue pugne bramava
Si celebrasser da latina musa,
Portò, sui campi dell’Etolia, in mezzo
A’ nemici la strage; e assai diletto

[p. 194 modifica]

Fu a te, gran Scipio, a te nelle Calabrie730
Di possessi vicino, all’opre sue
Virtuoso compenso, a te di cui
La gentilizia tomba indi fe’ adorna:
Sdegnoso d’ogni funebre corrotto,
Del suo nome immortal pago fu solo.735
Magnifica e sonante ei leva inoltre
La sua voce di tragico; le scene
Comiche allieta col festevol giambo;
Dà alla satira vita e d’Evemèro
Nel latino sermon volge l’istoria.740
E dei carmi di Nevio il fior scegliendo,
Pure affèttando di sprezzarli, i carmi
Che dicevano un giorno e Fauni e vati,
Si dorrà poi che le sue perle netti
Dal fango, elegantissimo Virgilio,745
E sue le faccia. Ma sebben Verona
Su gli altri esalti il suo dotto Catullo,

[p. 195 modifica]

Che fieri giambi all’elegia disposa,
Che cela te sotto mentito nome,
O Clodia, e con la vigoria del verso31750
Il forte Achille preconizza, e contro
La nobiltà di Roma audace il dardo
Della satira scaglia, e con rovente
Marchio bolla di Cesare la fronte;
D’un altro figlio tuttavia si gloria,755
Emilio Macro, che sua tela ordisce32
Con tenue filo, allor che il canto piega
A descrivere uccelli, erbe, serpenti.
E Lucrezio, che, vittima d’un filtro,33
E da soverchio amor reso demente,760
Si tolse in breve di sua man la vita,
Non aveva cosí smarrito il senno
Interamente, che le arcane cause
Del mondo e la natura delle cose
Dir non potesse con divino labro;765
Dalla lima sebben dell’Arpinate

[p. 196 modifica]

Fosse la sapïente opera tocca.
Ed anche i saggi dell’antica Grecia
Della Natura di scoprir gli arcani
Co’ numeri tentàr; come quel grande34770
Che, di ferree pianelle un dí calzato,
Giú nelle gole ignivome dell’Etna
Precipitosamente si lanciò;
Ed Eraclito, il qual s’ebbe d’arcigno
Aggiunto il nome per l’oscuro eloquio;775
E gli altri tutti che dal dolce stretti
Travaglio del saver furo ed avvinti,
E che i nostri avi celebràr per lungo
Volgere d’anni. Dall’occidentale
Balzo sí come fulmine trisulco,780
Folgora quei che, giovinetto appena35
Ed inesperto pe’ suoi teneri anni,
Ricanta Achille e d’Ettore il riscatto,
E dell’Averno i regni, e del crudele

[p. 197 modifica]

Neron le lodi celebra, ed Orfeo,785
E a Polla sua, consorte virtuosa,
Tesse l’elogio, e con arguto carme
Insolentisce, e impetuoso tende
Nelle faconde orazïoni sue
Di Dulichio uguagliar l’eccelse vette,790
E tanti sprigionar fulmini, quanti
Scoccò il lepor di Pericle dal labro.
Ed ecco, tosto che la giovinezza
De’ primi fiori le sue gote adorna,
L’aspre battaglie con bollente carme795
Celebra di Farsaglia, e lui, che dietro
Gli tien, secondo, a rimirar si volge
Tosto Virgilio, dubitoso quasi
Del conquistato allòr. Ma ostile ai troppi
Beni Rannusia, ahimé! cotanta gloria800
Alla terra involò, perché dal Prence
Incestuoso i popoli infelici
Non liberasse ei coll’ultrice punta.

[p. 198 modifica]

Giovin beato tuttavia! (men gravi
Le pene rende coscïenza netta),805
Beato! dico, sebben ei, cruento,
Mandi ruggiti, e dalle tronche vene
Il sangue ti prosciughi, minacciosa
La fronte, e dell’infame genitrice
Dalla sferza incitato. A te la gloria,810
O vate, figlio del Parnaso! Un Nume
D’allòr te degno e di superna cetra
Non indarno stimò. Silio da presso36
Delle sidonie genti gli spergiuri
In pria condanna e al fòro ed alle Muse815
Gli anni suoi benemeriti consacra,
Silio che d’ostro italico fulgente,
Nerone, l’esecrabile tiranno,
Della vita e del trono un dí spogliava:
Carico d’anni e sorvivendo al figlio,820

[p. 199 modifica]

Da congenito chiodo immobil reso,
Chiuse indi i lumi allo splendor del sole.
E dove lascio Basso, a cui tu désti,
Vespasïano, innumeri tesori?
E Cornelio Severo, che le guerre825
Sicule narra? o te, che la sidonia
Tebe, o Pontico, celebri di nuovo?
O quel che di Pelusio e di Canopo37
A noi ne venne, che Fiorenza bella
Magnifica or sí come proprio figlio,830
Il qual va lieto di cantar le nozze
Dello stigio signor, di celebrare
Del generoso Stilicon le lodi?
E te, Manilio, a cui largír le Muse38
Duplice fiamma di poetic’estro,835
Che con amor l’egizia astronomia
Vai raccogliendo, e le babilonesi
Indagin’ segui? e gli altri che, fiorenti
Nell’età sua, dal Ponto doloroso,

[p. 200 modifica]

Soavissimo cigno, Ovidio nota,840
Onde non gravi su di lor l’oblio?
E Valgio Rufo che, sí come canta
Di Tibullo la pia, nitida Musa,39
Poté col plettro gareggiar d’Omero?
La Musa a cui, bene a ragion, sarebbe845
Nell’elegia toccato il vanto primo,
Se non avesse il lusinghier suo labro
Properzio sciolto, e nel certame resa
Dubbia la palma; all’amoroso carme
E Plania ed Ostia, sotto tinto nome,850
Dier la materia: al pari di Citeride,
Mima sfacciata di Cornelio Gallo,
Che in pubblico si trae sotto le spoglie
D’una falsa Licoride, e si vanta
Del suo dotto amator stretta ne’ lacci;855
Mentre il proprio pugnai, misero, in core

[p. 201 modifica]

Egli si caccia. Ma del picciol Calvo
La tenue poesia non di Quintilia
Bella il nome dissimula, ma lei
Dal fato acerbo suo piange rapita.860
Fonte/commento: norm. Fileta di Coo mostrasi incline
A questo dell’amor culto bugiardo,
Benché debole ei sia, benché la terra
Con plumbee suole di tard’orme imprima;
Né colui ch’assería nessuna al mondo865
Cosa senz’Afrodite essere dolce.

A che parlar de’ carmi rusticali40
Nel segreto de’ boschi modulati?
A che dir come non contaminasse
Il patrio verso Mosco e la straniera870
Musa Bione? Come di Calpurnio
Nel canto Ausonio la zampogna sfidi
Titiro sotto la folt’ombra steso?

[p. 202 modifica]


In alto, lungi, oltre le nubi spazia41
Tebano cigno, Pindaro, a cui l’api875
Soavemente il giovinetto labro
Di nettareo licor sparsero; mentre
Nella quïete del meriggio dava
Il fanciullo ristoro al corpo lasso,
Una molle spirante aura di sonno.880
Ma giustamente di Tanagra rise
La poetessa, allor ch’egli nel carme
Suo de’ miti versò tutta la corba;
La glorïosa palma indi all’ardito
Nel poetico agone ella rapiva,885
Privilegiata dell’eolia lingua,
E d’una leggiadria maravigliosa.
Ei d’Agatócle della voce altero
Disse le gare olimpiche, e la fronda
Di che gl’istmici e i pitici campioni890
Ricingevan le tempie, e le Nemèe
Selve, che il generato da la luna

[p. 203 modifica]

Leon tennero ascoso; e, il petto ansante,
Inspirato agli Dei sciolse peani;
Celebrò prenci, e glorïose gesta,895
E di pietose lacrime cosparse
I riti funerali. Apollo in Delfo
Vate sí grande alle votive offerte
Associare degnossi e alla sua mensa.
E videro i pastor dalle solinghe900
Caverne Pane, che le selve immote
Col pindarico verso ammaestrava.
Indi, carico d’anni, abbandonata
La testa in grembo al suo fanciul diletto,
E in un lento sopor sciolte le membra,905
Lui con mano leggera, di repente,
Tra l’ombre, e in grembo agli odorati elisi
Sparsi di fior, Proserpina rapía.
E, dopo il giro di molti anni, ancora
La fiamma ostil, che le tebane ròcche910

[p. 204 modifica]

Al suol radeva, del poeta insigne
Rispettò la dimora; e, pur tra mezzo
Alle spade la sua gente secura,
Ringiovanir le ceneri sentía,
Mercé la fama che giammai non muore.915
Né te, veglio preclaro, Anacreonte,
Io scorderò, cui cinge un bicolore
Racemo il fronte, a cui gl’inni son cari42
E gli spumanti calici di vino,
Mentre in diversi amori il cor travagli;920
Poi ch’or la chioma dell’efèbo tracio
Ad ammirar sei tratto, ora Batillo
Di Samo a celebrar (Nemesi il vuole),
Ora Euripile esalti ed or Megisto,
Teneri adolescenti; infin che d’uva,925
Soffocandoti, un acino ti spense.
E tu, bollente Alcèo, di Lico i neri43
Occhi e la nera chioma e il prezïoso

[p. 205 modifica]

Neo, che fiorirgli schiettamente vedi
Nel dito, canti, ed i tiranni eversi,930
Sapïente l’eloica toccando
Cetera d’oro; ma le tue lamenti
Armi votate all’attica Minerva.
La gravità del carme epico regge
Con la possente lira, o Imera, il tuo935
Cittadino Stesicoro; e sprezzando,44
E, a vicenda, lodando Elena, perde
E riacquista degli sguardi il lume,
Lui che, sebben nemico, ebbe in onore
Falaride tiranno, e che sul labro940
Appena nato, un usignuolo accolse
Sciogliente all’aure armonïoso canto,
Per celebrare il vostro alunno, o Muse.
Ma a lacrimar ne invita la dolente
Elegia di Simonide di Ceo,45945
Che Mnemosine un tempo, unico e primo,

[p. 206 modifica]

Ebbe in onore, che di Leda i figli
Da tremenda ruina ebber sottratto;
Nel fondo della cui vuota cassetta,
Divelti i crini, lacere le vesti,950
Piangon le Grazie; e che fin dopo morto
Vendicator della sua tomba sorse.
E i Laconi essi pur, da naturale
Concisïone di favella astretti,
Profondon lodi all’adottato Alcmano46955
Pel ricco eloquio; or lui, cui Lidia addusse
Ostentatrice d’aurei fonti, Lidia
Da vermi e tabe ahimé piange corroso.
Ma te, cui detta armonïosi versi
Suadela divina, Ibico, e vai47960
Celebrando un amor cosí virile,
Numi e gru non lasciàr senza vendetta;
E or l’ossa tue nelle reggiane tombe

[p. 207 modifica]

Han quïete. Né il canto di Bacchilide,
Dolce sirena, il suol rade. Pur Saffo,48
Nona, ai poeti lirici s’accosta;965
Saffo, la qual lunghesso le correnti
De’ pieridi fiumi elegge rose49
Onde ardito sé Amor ne’ lacci stringa;
Che la nivea Corinna e che Megara970
Insiem con la leggiadra Attide canta
Dolcemente e Anattoria e Telesippe,
Dalle fluenti chiome; e te, famoso
Pel redivivo fior di giovinezza,
Te Faone, ella ammira, ella rivòca,975
O sia che irresistibile ti renda
Di Venere, che tu su la tua barca
Senza mercede tragittasti, il premio,
O la miracolosa erba: ma alfine
Temeraria il fatal salto ella spicca980
Nell’ambracico golfo; ella che, fiera,
Tante volte avea Gorgone assalita,

[p. 208 modifica]

E tante volte la famosa Andromeda,
Di paterna libidine bruttata.
Dinanzi a lei non Mirtide e Prassilla985
Trarrebbero a confronto i versi loro,
Non l’inspirata Nosside e la dolce
Agàcle e Anite e Erinna, che i trecento
Suoi versi sparge di castalia ambrosia;
Non la candida Miro, e non la fiera990
Telesilla, né lei, che, nelle bende
Stretto l’effuso crin, della tremenda
Pallade canta l’egida, Corinna.
E le Pierie, decima tra loro
Voller di Lesbo la fanciulla assisa,995
Liete, di nove fior serto cingendo
Legato in oro a’ suoi lucenti crini.

Di qui la venosina ape gioconda50
Il mel suo trasse con ronzío soave;

[p. 209 modifica]

Ma irritata ella pur con sanguinante1000
Pungiglione ferisce, errando sopra
Gl’irti vepri d’Aurunca, i quali poscia
Tosto Persio s’elesse ed infiammato
Giovenale di collera. Fonte/commento: norm. il Giambo
Viperino d’Archiloco si dée1005
Paventare da lor, sebbene, acceso
D’ira crudele ei saettasse a morte
Con fiero accento e l’una e l’altra figlia
Di Licambe, sebben lui vendicasse,
Ucciso in mezzo della mischia, Pitia,1010
Contro il negro Calonda inesorata;
E nemmeno il terribile Ipponatte
Che irosamente, sanguinosamente
Bufalo e il vinto Atenide col suo
Morso dilacerò, né Batto e l’irto1015
Bibaculo dal pungolo sottile.

[p. 210 modifica]


De’ regnator le dubbïose sorti51
Molti, calzando il tuo coturno, o Bacco,
Vilipesero; e ai perfidi tiranni
Strapparo a forza da la man lo scettro;1020
E di spavento, di terror, di pianto
Ogni teatro empirono, tremende
Visioni animando. E tu non pochi
Tèmi fornisti un dí, Palladia Atene,
Quando traesti in su la scena Edipo,1025
Ed il pavido Oreste e Atrèo, Teléfo
Sanato dalla freccia impiagatrice,
Di Meleagro il tizzo, ed Alcmeòne
Dalle Furie inseguito, e gli altri tutti,
Che in mostra pose per vii capro il vate.1030
Donde, poiché di Maratona il suolo
Del barbarico sangue intiepidissi,
Posciaché le Termopili, serrate
Dalla gran strage sulle tarde poppe

[p. 211 modifica]

Videro Serse ruinare in fuga,1035
Tespi uscí, cui Solone, equo e prudente,
Le finzïoni sue tragiche impose
D’abbandonar. Tre quindi in avvenire
La nobil palma si conteser: Eschilo
D’una testuggin vittima, che a caso,1040
Sovra il capo dall’alto gli piombò;
Il veglio a cui pel conquistato alloro
Il troppo gaudio cagionò la morte;
E colui che da rabidi molossi
Sbranato, pia la Macedonia copre;1045
La settenaria pleiade vien presso.
Lascerò gli altri, che neppure a cento
Lingue sarebbe di notar concesso,
Alla fortuna loro, alla lor fama;
Se non ambisca tuttavia d’opporre1050
Il suo Tieste, Vario, o a me non vanti
Il proprio vate Cordova, del quale
L’erculea furia tremar fea l’orchestra:

[p. 212 modifica]

Ed Accio col magnifico suo stile
Ecco in vista si pone anche; e Pacuvio1055
Lui che canta, gridando alto, disturba;
Mentre sua Musa il nitido Secondo
Ostenta. Ed a costoro Èupoli aggiungi,
Che falsa diceria vuol giú nel mare
Dall’alto d’una nave rovesciato1060
Dal figliolo di Clinia; ed Aristofane
Arguto, che di nuvole leggiere
Sparso avea il ciel su la città d’Atene;
E Cratino beon; tutti la scena
Esagitanti col mordace riso.1065
Aggiungi quei della commedia nuova,
Che la morale e i multiformi aspetti
Della vita domestica rispecchia:
Menandro, a cui già i posteri devoti,
E volente Filemone medesimo,1070
Restituir la palma; un’infinita

[p. 213 modifica]

Turba lungi indi segue, che non giova
Al mio canto ridir, ma che le dotte
Carte pur d’Atenèo ci tramandaro.
Quivi zoppica il Lazio, e della gloria1075
D’Atene l’ombra raggiungemmo appena,
Per fermo ostil la gravità romana.
E sebben corra degli antichi molto
Di Cecilio la fama in su le labbra;
Sebbene all’Affrican sian le commedie1080
Del festoso Terenzio attribuite,
Sebben convenga a pallïata Musa
Di Plauto il dir; le scene tuttavia,
Venere stessa de’ Romani suoi
Fugge, e talvolta solo alle togate1085
S’arrende, per onor grato ad Afranio.
Nondimen col suo canone Volcazio
Questi e gli altri per merito dispone.

[p. 214 modifica]

Vengono poscia gli sguaiati mimi:
L’involuto Sofrone e Filistione,1090
Che perde alfin per ridere la vita;
Di qui la sfrenatezza di Laberio
Fu sull’Itale scene manifesta,
Di Publio Siro insiem coll’abbondante
Sentenzïar morale.1095
E alcuni quasi
Prostituiro i sotadèi cinedi;
Cosperser altri di leggiere arguzie52
Innumeri epigrammi, e nondimeno
Celebrati nel Lazio: ecco Marziale
Di Spagna a noi venuto; ed ecco Ausonio1100
Che del suo consolato illustra Roma;
Ometto Ortensio, ometto il sapïente
Catone che i poeti, unico, un giorno
Ebbe in onore ed inspirò; tralascio
Di Cornificio gli scherzosi versi;1105
E la Perilla di Ticída, e Cinna

[p. 215 modifica]

Oscuro, e te, piú ch’altri licenzioso,53
Ànsere. Questi un libro d’epigrammi
Scrisse vario di metri e d’argomenti;
Quello mordaci poesie compose;1110
Di volgari facezie infarcí l’uno
Le menippèe; satiri agresti l’altro
Ignudi espose; ed in mille altri carmi
Rivelate si fur novelle forme.

Le quali tutte, se per me già gli anni1115
S’addoppiasser da Nestore vissuti,
Se l’infinite voci della fama
Si concentrasser nel mio seno, e il petto
Mio qual d’un inflessibile metallo
Suono rendesse, io non avrei del verso1120
Entro la cerchia d’infrenare osato,
E non potrei ridire o rintracciare
Di cosí grande vetustà la culla.

[p. 216 modifica]


Né l’Alighieri tuttavia di questo
Tributo io froderò, che dello Stige1125
E de’ cieli pe’ regni e su per l’ardua
Montagna dove l’anima si purga,
Sotto gli occhi leggiadri il vol discioglie
Della sua Beatrice immacolata;
Né il Petrarca, che celebra di nuovo1130
I trionfi d’amore, né colui54
Che di cento argomenti una sua tela
Pinge in dieci giornate; e quei neppure55
Che i germi arcani dell’amor ci svela;
Onde argomento d’una gloria immensa1135
A te ne viene, alma Firenze, a te
D’eletti ingegni e di tesori lieta.

E tu, che ad immortal fama sull’orme56
Del vecchio Cosmo e di tuo padre aneli
(Qual àvvi cor piú nobile del suo?),1140
Alla cui generosa ombra fidato,

[p. 217 modifica]

I fulmini di guerra in lontananza
Vede l’Arno e sen ride, o di Toscana
Prence, Lorenzo, che di maraviglia
Col saggio dir l’intera Signoria1145
E il popol colmi, all’umile mia Musa
Svela or, se non t’incresca, e gli ozî tuoi,
E la quiete inspiratrice tua,
Ed alle desïate aure me adduci.
Però ch’io te ripenso allor che, inteso1150
L’acerbe cure a raddolcir col verso,
D’occulta valle un dí chiamasti agli antri
Una Diva de’ monti abitatrice:
E ti vidi legar serti di fiori,
Mentr’ella avidamente, intensamente1155
De’ carmi tuoi bevea la melodia:
Testimoni del par furo i compagni;
Sia che fosse una Ninfa ella a Diana
Cara, sebben nella foresta i dardi
Suon non dessero, ovvero delle Muse1160

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Una sorella, abitatrice allora
De’ nostri boschi. A te quella divina,
Della fronda poetica le chiome
Ricingendo mai sempre e di fior novi,
Inspirava un amor nobile. Ed ecco,1165
Mentre tu canti Pane, che alle corde
Dell’Apollinea cetra ardisce opporre
De’ tessalici boschi entro uno speco
L’umili canne sue, la stessa Ninfa
A te accorre invocata, e, senz’indugio,1170
Di sacri entusïasmi il cor ti scalda;
Onde per te già Galatea benigna
Corinto vede che alla notte canta.
E chi gli ardenti desidèri ignora
Ed i sospiri che l’amor t’accende?1175
Sia che audace una stella a te rassembri
Di pieno giorno contrastar con Febo;
O, pallida nel volto ed infelice,

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Rimiri Clizia, o la fuggente imago
Della tua donna il cor sempre t’infiammi;1180
Sia che bella e gentil canti la morte,
E amor, che tutto di pietà compunto,
Sovra il suo petto giura; e gli occhi splendidi
E le mani, e i capegli in su le nivee
Spalle diffusi, e le parole dolci,1185
E il lene mormorío d’acque correnti,
E le vïole e il sonno lusinghiero,
E d’amara dolcezza il cuor ripieno,
E la pietà che la bellezza accresce,
E l’amoroso e candido pallore1190
E la Ninfa che l’anima ti brucia.
Agio non ho di ricordar gli arguti
Epigrammi, e la satira, che i vecchi
Beoni morde; né i trionfi e i canti
Carnescialeschi e le canzoni a ballo.1195
Tu, pur se i pastorali ozi ci narri
D’una vita pacata, e, pien di zelo,

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L’aspra civil battaglia, a un tratto, in cielo
Agevolmente te ne fuggi, lieto
Di attingere del Ben l’eccelsa mèta.1200
E quel che studio e che gravoso incarco
Reputan altri, a te qui lia diletto;
Qui, dalle brighe di governo affranto,
Ritemprando il vigor stanco ne’ carmi.
O per mente sí nobile felice!1205
Felice te, cui tante fu concesso
Ricostruir nell’anima vicende,
CosíFonte/commento: norm. nobili cose nella vasta
Mente alternare, e cure sí diverse
Stringere insieme! Che se mai presagio1210
Lusinghevole il mio cor non alletta,
Se la divozïon, se il lungo amore,
Se vano orgoglio il precettor non trae
A dar lode soverchia all’opra sua,
Né m’inganna modesta esperïenza,1215

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Il giovin figlio, mio pensier supremo,
Del genitore seguirà gli esempi,
Le virtú seguirà, degno rendendo
Sé di tanto lignaggio. Non ancora
Ei tre lustri ha compiuto, e già dei sommi1220
Greci l’opere insigni, ecco, traduce
Nel latino idïoma; e in su la lira
Carmi soavi modula; e me segue
Per i tragitti delle aonie selve,
Avidamente guadagnando l’erta;1225
E me già incalza affaticato, e primo
Va quasi omai. Deh, cosíFonte/commento: norm., voglia il cielo
Ch’egli prosegua, e me con maggior lena
Superi, e lungi incontanente lasci!
Meglio si plauda al caro alunno, e due1230
Volte cosí, trionfatore lui,
Celebrata sarà la gloria mia.

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Note

  1. [p. 257 modifica]Il Poeta, celebrando le lodi della poesia e dei poeti, rende il convenevole tributo di riconoscenza alla Musa inspiratrice. Nella Panatenaica di Elio Aristide da Smirne è detto: “È antica legge ai Greci, e credo anche a molte [p. 258 modifica]altre nazioni, che si rendano a chi ci nutrí le maggiori grazie possibili.
  2. [p. 258 modifica]Caieta, nutrice di Enea; feste lupercali rinnovate in Roma da Romolo in onore della lupa, sua balia; le Jadi, nutrici di Bacco, fatte costellazioni in fronte al toro; la capra amaltèa nutrice di Giove, assunta anch’essa in cielo come costellazione.
  3. [p. 258 modifica]* Orfeo, tipo di tutto questo periodo d’incivilimento sociale.
  4. [p. 258 modifica]* Proposto il soggetto, traccia in questi versi la distribuzione alla materia di tutta la Selva, che ha due parti: generale l’una e breve, che direbbesi estetica e dichiara l’essenza e le fonti della poesia (vv. 233-311); particolare e la maggiore del poemetto, l’altra, che con acconce divisioni ritesse storicamente la schiera di tutti i poeti (vv. 313-1137), finché l’ultima e piú verde fronda d’alloro scenda sul capo diletto del mecenate mediceo (v. 1138, alla fine).
  5. [p. 258 modifica]Armonia universale, secondo Platone, Pitagora ed altri filosofi dell’antichità.
  6. [p. 258 modifica]Descrive in tutte le sue fasi, fino al punto in cui erompe, l’entusiasmo poetico.
  7. [p. 258 modifica]Con bellissima perifrasi accenna all’organo.
  8. [p. 258 modifica]Amplificazione del concetto espresso nell’Ambra (22-27) sulla virtú della poesia negli animi.
  9. [p. 259 modifica]Vati primitivi: Nerèo, veritiero e ingenuo; Prometeo che ammoniva il Satiro, il quale, vedendo per la prima volta il fuoco, voleva baciarlo: “Bada, ti brucerai la barba, becco!„; Temide, che ebbe tempio e oracolo nel Parnasso; Giove, sotto le spoglie di un ariete col nome di Ammone; Pane, vaticinante nel monte Menalo; Branco, pastore, il quale vuolsi ricevesse il dono del vaticinio per un bacio dato ad Apollo; Fauno, re e Dio del Lazio che dava responsi ne’ boschi d’Albunea; le Parche; le Sibille; i fratelli Marsi; Baci di Beozia; Oleno, antichissimo innografo greco; Lica, spartano, che, interpretando un oracolo, ritrovò le ossa di Oreste, senzachéFonte/commento: norm. i suoi corregionali non potevano vincere i Tegeati; le due colombe nere, venute d’Egitto, che con linguaggio umano prescrissero la istituzione di due oracoli, in Dodona e in Libia; Proteo, Dio marino e celebre indovino, dotato della facoltà di assumere ogni forma; Glauco, anch’egli Dio marino e vaticinatore; Idmone, figlio di Apollo; Mopso, figlio di Ampico, divinatori entrambi e argonauti; Melampo, interprete del linguaggio degli uccelli; Tiresia, uno de’ piú celebri indovini dell’antichità, il quale, chiamato giudice in una contesa tra Giove e Giunone, ed essendosi pronunciato contro la Dea, fu da questa accecato, ricevendo da Giove, in compenso, il dono della profezia; secondo altri, privato della vista per aver veduto Minerva nel bagno e donato del lume della mente per le preci di Cariclea; Amfiarao, tradito dalla moglie, e destinato ad essere inghiottito dalla terra nella guerra tebana; Polide, medico e indovino, che richiamò in vita Glauco per mezzo d’un’erba miracolosa; Calcante, figlio di Testore, sacerdote e augure de’ Greci in Troia; Zoroastro, astronomo incenerito per suo volere dal fulmine, che prescrisse agli Assiri di custodire gelosamente le sue ceneri se avevano caro di conservare il loro Stato. Viene quindi ad enumerare i profeti della stirpe giudaica: Davide, uccisore del gigante Golia; Salomone, che innalzò il famoso tempio di Gerusalemme e compose il Cantico de’ Cantici; Mosé, autore dell’inno che levarono [p. 260 modifica]a Dio gli Ebrei dopo traversato il Mar Rosso, e raggiante poscia dalla faccia divino splendore; Re Davide, sopraddetto, autore de’ salmi; i tre babilonesi gettati nella fornace ardente da Nabuccodonosor e cantanti le lodi al Signore.
  10. [p. 275 modifica]


    .     .     .     .     .     .     Erofile, dell’Ida
    Stirpe, e Sabbi dottissima, e Demofila.
    E Figo, e Manto, e Fennide indovina,
    Femonoe pitonessa che la vita
    All’esametro dié, Carmenta madre,
    E Deifobe annosa a Glauco figlia.

  11. [p. 260 modifica]* Grafia da destra a sinistra, continuata; o da sinistra a destra, e poi da destra a sinistra imitando l’arare: exarare literis.
  12. [p. 260 modifica]Il paganesimo popolò il mondo di divinità, informandone la poesia. * Poesia primitiva de’ Greci, ispirata al culto degli Dei e all’origine delle cose e ai fenomeni naturali. Uffici e forme di quell’antica poesia fino a Omero; semplici canti accompagnati da melodie costanti e uguali; gl’incantesimi fatti co’ carmi alle ferite e alle malattie; gl’inni nelle cerimonie sacre; le magie. Tipi della poesia primitiva: Anfione (ammaestrato nella lira da Mercurio) e Orfeo (Mito, virtú della sua poesia, discesa all’inferno per Euridice, strazio per mano delle donne traci; assunzione in cielo della sua lira; prodigio attribuito al suo simulacro presso Libetra al cominciare della spedizione d’Alessandro.
  13. [p. 260 modifica]Il poeta Arione.
  14. [p. 260 modifica]* I suoi amori con Giacinto dànno a lui (ciò che, secondo altri, deve dirsi di Orfeo) la turpe fama di aver primo incominciata la Venere maschile (Apollodoro). Delle piú antiche tenzoni, con premio, si nomina quella degl’inni in onor d’Apollo: e primo a vincere cantando fu Crisotemi cretese, dopo lui Filammone, e dopo questo il figliuol suo Tamiri.
  15. [p. 275 modifica]


    Qua e là in fuga le stelle in ciel vediamo

  16. [p. 261 modifica]Esiodo e Teocrito; il primo nato in Ascra, dove pare che il padre suo emigrasse spintovi dalla miseria; il secondo di Siracusa, discepolo di Fileta, il piú rinomato degli antichi bucolici. La critica moderna attribuisce ad Esiodo delle sedici epopee ascrittegli dalla tradizione solo il poemetto: Le Opere e i Giorni, scartando anche la Teogonia e lo Scudo d’Eracle. Intorno a Teocrito ha un lungo e pregevole studio critico-bibliografico Antonio Cipollini in Gli Idilli di Teocrito Siracusano; Hoepli, Milano, 1887.
  17. [p. 261 modifica]* Accenna alle impotenti censure mosse contro Virgilio dai malevoli, confutati, dicesi, da Asconio Pediano. E in proposito di costoro rammenta la malignità di Momo, il quale, non sapendo che appuntare nella compiuta bellezza di Venere, scappò a dire “che le scricchiolavano le scarpe, con suono stridulo e molestissimo, e che avrebbe fatto meglio a camminare scalza quale era uscita dal mare„.
  18. [p. 261 modifica]Antimaco di Claros, e Stazio di Napoli che cantarono entrambi la guerra tebana. Stazio chiude una sua Selva Eucharisticon (IV, II), celebrante un pranzo imperiale datogli da Domiziano, con questi versi:

    Quel giorno, in cui felice ebbi la sorte
    Teco a mensa gustar de’ sacri cibi,
    Tal ricolmo di gioia a me ne venne
    Dopo tempo assai lungo, e a quel simíle,
    Quando in Albano, allor che le vittorie
    Cantai, Signor, che riportasti invitto
    Sovra l’armi germane, e contra i Daci,
    La gemmata di Palla aurea corona
    Mi cinse al crin la tua cesarea mano.
    (Vers. di F. M. Biacca).

  19. [p. 261 modifica]Poeti argonautici: Orfeo da Crotone (scrisse l’argonautica in persona dell’antico Orfeo trace che prese parte alla [p. 262 modifica]spedizione); Apollonio, che, nato in Alessandria, emigrò a Rodi; Publio Terenzio Varrone della Gallia Narbonese; Caio Valerio Flacco, padovano, che ci lasciò incompiuto il suo poema imitato da Apollonio.
  20. [p. 262 modifica]Esiodo, di cui scrive Quintiliano: datur ei palma in illo medio genere dicendi, si attiene, al giusto mezzo raccomandato da Dedalo al figliuolo. Il Poliziano enumera quindi le opere del Poeta, seguendo la tradizione (al qual proposito vedi la nota precedente ai vv. 557 sgg); tocca della triste sua fine e del sepolcro di lui in Orcomeno (terra di Minia) dove furono raccolte le sue ossa, ritrovate per un oracolo pitico sotto un masso, su cui stava una cornacchia.
  21. [p. 262 modifica]Pisandro da Rodi, autore di un’Eraclea in 2 o 12 libri, che rappresentava le dodici fatiche d’Ercole, raffigurandolo con la pelle di leone e la clava.
  22. [p. 262 modifica]Paniasi o Paniassi, nativo di Alicarnasso, scrisse anch’egli sull’esempio di Pisandro un’Eraclea in 14 libri, e meritò che gli fosse assegnato un posto ragguardevole accanto a Omero ed Esiodo.
  23. [p. 262 modifica]Euforione di Calcide, autore di molte epopee mitologiche, scrisse un poema: Mopsopia, che è una serie incomposta di storie e tradizioni intorno all’Attica (Mopsopia).
  24. [p. 262 modifica]Tirteo, secondo la leggenda, era zoppo.
  25. [p. 262 modifica]Partemio di Nicea, poeta elegiaco, autore di una Metamorfosi.
  26. [p. 263 modifica]Arato di Soli, in Cilicia, scrisse il poema astronomico i Fenomeni: qui si accenna a’ suoi amori col fanciullo Filino.
  27. [p. 263 modifica]Nicandro di Colofone, poeta e grammatico e dilettante di medicina. Scrisse, tra le molte altre cose, dei poemetti sui veleni e contravveleni e le Georgiche, che si vuole servissero di modello a Virgilio.
  28. [p. 263 modifica]* Oppiano, d’Anazarbe in Cilicia, scrisse i poemi sulla caccia, sulla pésca, ecc. Raccontano che Antonino Pio (altri, Settimio Severo) regalasse all’autore pel poema della pésca uno scudo al verso; onde i suoi versi ebbero, a buon mercato, il nome di aurei. Dionisio affricano, detto Periegete dal suo poema geografico: Descrizione del mondo. Nonno, di Panopoli, cantò le gesta di Bacco in India nel suo poema le Dionisiache: scrisse anche la Gigantomachia, e verseggiò libri cristiani. Callimaco, figlio di Batto e di Mesarma, o della stirpe di Batto, fondatore della patria di lui, Cirene in Libia; il leggiadro poeta, a cui Quintiliano dava il primato nell’elegia, e che piegò l’ingegno artificioso a tutte le forme del poetare. Amante dei brevi componimenti (diceva un grosso libro essere un grosso malanno), scrisse apposta un lungo poema, per mostrarsi da piú che nol credessero certi suoi avversari: l’Ecale, dal nome della vecchia, cara a Teseo, del quale ivi si descrivevano le gesta contro il toro di Maratona. Altri scritti di Callimaco: sulle origini delle favole, dei riti e delle antichità, in quattro canti; endecasillabi amatorî; l’Ibi; gl’Inni, satire, commedie e tragedie.
  29. [p. 263 modifica]Ovidio: accenna alle sue molte e svariate opere. Per notizie piú particolareggiate, vedi il Commento del Del Lungo.
  30. [p. 264 modifica]Ennio, nato a Rotigliano in Calabria, dei poeti latini il primo, vantavasi di aver tre anime, poiché sapeva parlare tre lingue: la greca, l’osca e la latina. Il Poliziano allude a vari fatti della sua vita, tra cui, a una visione, nella quale diceva di aver sognato che l’anima d’Omero era passata nel suo corpo. Fu assai caro, tra i molti illustri, a Scipione Affricano il vecchio, che volle fosse posto nel suo sepolcro il busto in marmo del Poeta. Morí in modesta fortuna, e proibí gli si rendessero onori funebri. Fu sepolto nella tomba degli Scipioni, e sotto la sua statua leggevasi questa iscrizione da lui stesso dettata: volito vivus per ora virum. Imitò, sebbene mostrasse di non tenerlo in gran conto, Gneo Nevio. Nei vv. 744-46 il Poliziano allude al noto motto di Virgilio: se aurum colligere de stercore Ennii.
  31. [p. 264 modifica]Clodia, celebrata sotto il nome di Lesbia; le nozze di Peleo e Tetide, dove le Parche preconizzano sul finire la nascita di Achille; le satire contro l’aristocrazia romana e i versi contro Giulio Cesare.
  32. [p. 264 modifica]Emilio Macro, amico di Ovidio, scrisse poemi sugli uccelli, sui serpenti e sulle erbe (?).
  33. [p. 264 modifica]T. Lucrezio Caro: De rerum Natura. Vuolsi che Cicerone rivedesse ed emendasse il poema lucreziano; ma la critica moderna mette ciò in dubbio.
  34. [p. 264 modifica]Empedocle di Agrigento, filosofo di poca rinomanza, fondatore della scuola sicula. Una storiella vuol ch’egli si precipitasse con pianelle di ferro nel cratere dell’Etna per studiare le cause prime dei fenomeni tellurici e delle [p. 265 modifica]eruzioni vulcaniche. Ma l’Etna vomitò fuori soltanto le sue pianelle. Eraclito d’Efeso, filosofo difficile ed astruso, che da Lucrezio fu detto: clarus ob obscuram linguam.
  35. [p. 265 modifica]M. Anneo Lucano di Cordova, morto a ventisette anni. Sue opere: Riscatto di Ettore; la Discesa all’Inferno; l’Encomio di Polla Argentaria, sua moglie; Saturnali, Selve, Epigrammi, Orazioni; la Farsaglia. Lucano, com’è noto, condannato da Nerone perché partecipe della congiura di Pisone, morí facendosi aprire le vene e cantando versi del suo poema.
  36. [p. 265 modifica]Silio Italico fu prima causidico, poi poeta, autore delle Puniche. Fu console sotto Nerone, il quale fu ucciso mentr’egli esercitava quell’ufficio. Morí del mal del chiodo nella quiete degli studi e della campagna.
  37. [p. 265 modifica]Claudio Claudiano, epico di Alessandria d’Egitto, Il Poliziano, d’accordo con alcuni altri scrittori, lo vuol fiorentino, come nato da un mercante che fu solo di passaggio in Egitto, ove prese moglie e n’ebbe Claudiano. Sue opere: Il Ratto di Proserpina, le Lodi di Stilicone, la Guerra getica.
  38. [p. 265 modifica]Manilio, o, secondo altri, Mallio o Manlio, vissuto pare ai tempi di Augusto, attingendo alle dottrine egizie sull’astronomia, scrisse un’opera Astronomicon, in cinque libri.
  39. [p. 265 modifica]Tibullo cantò Plania sotto il finto nome di Delia; ProperzioFonte/commento: Barbèra, 1867, Ostia, sotto quello di Cintia, e Cornelio Gallo la mima Citeride, sotto l’altro di Licoride. Caio Licinio Calvo, oratore e poeta, morto giovane, celebra in versi di sapore [p. 266 modifica]catulliano la sua Quintilia. Fileta di Coo, critico e poeta, fiorito intorno al 300, cosí esile e gracile di costituzione, che soleva, dicesi, portare nelle scarpe suole di piombo per non essere menato via dal vento, fu elegiaco di bella fama. Fu inoltre grammatico, e, come tale, lasciò un glossario. Ultimo viene Mimnermo, molle e malinconico, il quale soleva dire che nulla v’ha al mondo di giocondo senza l’amore. Le sue poesie di carattere sentimentale e romantico spirano tutte l’amorosa passione, non corrisposta, verso una sonatrice di flauto, Nanno. Per maggiori particolari intorno a questo poeta, V. Mimnermo: Studio e versione metrica di G. Vanzolini; Ancona, A. G. Morelli, 1883.
  40. [p. 266 modifica]* Bucolici Greci: Mosco e Bione; Latini: Virgilio e Calpurnio.
  41. [p. 266 modifica]Lirici greci (compilo dal citato Commento del Del Lungo): Pindaro di cui si favoleggia: “Nella sua prima gioventú andando Pindaro, ancor giovinetto, verso Tespi, in sul caldo del mezzodí, fu preso dalla stanchezza del sonno; e cosí sopravvia, si sdraiò per riposare. Ecco uno sciame d’api a deporre sulle sue labbra, mentr’ei dorme, i lor favi....„. La poetessa di Tanagra è Corinna, della quale racconta Plutarco che, consigliato il giovinetto Pindaro a ornare di miti la sua poesia, quand’egli le presentò un inno i cui primi sei versi, toccano di quasi tutta la mitologia tebana, sorridendo esclamasse: “Con la mano, t’avevo detto: questo è seminar col sacco„. Essa medesima scese nell’agone poetico con Pindaro e lo vinse piú per ragion della lingua e della sua maravigliosa bellezza. Di Pindaro abbiamo le odi: Olimpiche; Istmiche; Pitiche; Nemèe (il Poliziano nominandole allude alla favola che il leone Nemèo, domato da Ercole, fosse generato dalla Luna). Trattò anche altri generi; gl’inni, gli encomi, i treni ecc. “Sonando (dice Pausania) il nome di Pindaro per tutta la Grecia, ebbe dalla Pitia l’ultimo suggello di gloria; la quale comandò che di tutte le offerte che si recavano in Delfo ad Apollo, toccasse una parte a Pindaro„. Anche il Dio Pane onorò il grande [p. 267 modifica]poeta ripetendone nei monti i versi immortali. Morí a 80 anni circa. A illustrazione dei versi del Poliziano, riferisco anche i particolari mitici della sua morte secondo due tradizioni; l’una, desunta da Valerio Massimo, per cui vuolsi che il Poeta morisse abbandonato a un dolce sonno tra le braccia del giovinetto che amava, Teosseno; l’altra, tratta da Pausania, il quale dice essere in sogno apparsa a Pindaro la Dea Proserpina, e lamentandosi di non aver mai avuto da lui un inno, averle egli soggiunto che glielo avrebbe fatto, appena pervenuto laggiú ne’ suoi regni. Non passano dieci giorni che Pindaro muore; e, poco dopo, comparisce in sogno a una vecchia sua parente e cantatrice di suoi inni, e le canta l’inno di Proserpina. La vecchia si sveglia, balza di letto e lo scrive. Sulla casa di Pindaro in Tebe era scritto: “Non bruciate la casa di Pindaro, poeta„; e i discendenti di lui rimasero illesi dalle armi degli Spartani e di Alessandro Magno.
  42. [p. 267 modifica]Dice un verso di Anacreonte: Che mi fo dell’oro? la mia passione è bere, bere buon vino in brigata, e sui molli letti'' ecc. E non era questa l’unica sua passione....; ma lasciamo stare. La sua poesia è uno specchio fedelissimo della corruzione ionica. Morí, secondo una graziosa e arguta leggenda, per un acino d’uva andatogli traverso.
  43. [p. 267 modifica]Alceo di Mitilene, fiero poeta de’ rivolgimenti politici, fu tra i capi della sua fazione che rovesciarono il tiranno Melacro. La leggenda lo dice amante di Saffo e di un fanciullo, Pericle. Delle sue odi ci restano un centinaio di frammenti.
  44. [p. 267 modifica]Stesicoro è un appellativo dato a Tisia d’Imera, il quale fu poeta di grande versatilità e rinomanza. La leggenda vuole che un usignuolo gli volasse sulle labbra appena nato, che egli dissuadesse gl’Imeresi dall’affidare la difesa della città a Falaride tiranno d’Agrigento. Si dice [p. 268 modifica]anche che, avendo in un suo canto vilipeso Elena, fosse da questa reso cieco, e non riacquistasse la vista se non dopo di aver riparato all’offesa fatta con una palinodía. Morí a 85 anni.
  45. [p. 268 modifica]Simonide di Ceo, il melico, fu uno dei piú fecondi e geniali poeti greci. Il Poliziano allude a una peripezia disastrosa d’un banchetto in Tessaglia e alla sua venalità e avarizia. Si vuole che fosse stato il primo a prostituire il suo verso, e soleva dire di possedere due cassette: una, delle grazie, vuota; un’altra, piena.
  46. [p. 268 modifica]Alcmano, grande poeta lirico, greco di Sardi, che si trasferí poi a Sparta. A lui nulla scemò di leggiadria la lingua laconica, ch’è pure agli orecchi tanto poco soave. Morí di morbo pediculare.
  47. [p. 268 modifica]Ibico, di Reggio di Calabria. Una leggenda lo fa morire assassinato nei dintorni di Corinto, e si dice che un volo di gru lo vendicasse, apparendo ai Corinti, che assistevano a una rappresentazione in un anfiteatro. Suada o Suadèla, compagna ordinaria di Venere, è la Dea della soave persuasione.
  48. [p. 268 modifica]Bacchilide, dell’isola di Ceo. Con Saffo di Mitilene si chiude il ciclo dei poeti alessandrini. Il Poliziano accenna agli amori illeciti di lei con altre fanciulle. Amò perdutamente Faone, barcaiolo, ringiovanito da Venere, la quale ei tragittò sotto le sembianze di vecchia, senza volerne mercede; o, secondo altri, per aver mangiato un’erba miracolosa. Vuolsi dalla leggenda che morisse pel suo tragico salto di Leucade, perché non corrisposta nel suo amore. Inferiori assai di merito alla poetessa di Lesbo sono: Mirtide, beota; Prassilla di Sicione; Anite; Nosside; Erinna, autrice di un poemetto: il fuso; Telessilla, poetessa e [p. 269 modifica]guerriera; e Corinna di Tanagra in Beozia, che, come ho accennato in altra nota, dalla tradizione è fatta maestra di miti a Pindaro, col quale gareggiò anche vittoriosamente nei pubblici agoni. Rispetto all’errore in cui è caduto il nostro facendo dell’epiteto άγακλέα, in un verso di Antipatro, un nome di poetessa, vedi il Commento del Del Lungo, pag. 414.
  49. [p. 275 modifica]


    Rose pierie coglie, onde l’audace
    CupídoFonte/commento: norm. serti a’ propri crini intrecci;

  50. [p. 269 modifica]* Orazio, lirico e satirico. E da lui, ai satirici latini e greci: Lucilio (di Aurunca), Persio, Giovenale, Basso, Bibacolo, Archiloco, Ipponatte. I fieri giambi di Archiloco ridussero le figlie di Licambe, il quale gli aveva mancato di parola nella promessa della mano della sua Neobule, ad impiccarsi. Fu ucciso in battaglia da Calonda, detto il Corvo, il quale fu perciò dalla Pitia cacciato fuori del tempio di Delfo.
  51. [p. 269 modifica]Accenna al teatro greco e latino: Eschilo, Sofocle, Euripide (tragici principi); Omero, il giovine, Sositeo, Licofrone, Alessandro, Ananziade, Sosifane e Filisco (pleiade alessandrina); L. Vario, Seneca, il tragico, di Cordova, Accio, Pacuvio, Pomponio Secondo. Segue l’enumerazione dei comici greci e dei latini che in questo genere zoppicano grandemente.
  52. [p. 269 modifica]Sotade scrisse versi molli e licenziosi, che, fra le altre forme, hanno quella di leggersi anche a rovescio con senso uguale o diverso. Epigrammatici latini: Marziale, autore di milledugento epigrammi; Ausonio, di Bordeaux, console in Roma; Ortensio, oratore; Catone, grammatico; Cornificio; Ticida, cantore dell’amante Metella sotto il finto nome di Perilla; Cinna, autore di un oscuro poema: Smirna; e Ansere, piú sfacciato di tutti. Epigrammatici greci: Diogene di Laerte, autore del [p. 270 modifica]Pammetron; Timone da Fliunte e Xenofane, fisico, scrittori di idillî (poesie licenziose e mordaci); Menippo di Gradara, filosofo cinico, scrisse satire serie o buffe, miste di versi e di prosa, interamente perdute. Infine si accenna ai ditirambi tragici nel dramma satirico, e, secondo opina il Del Lungo, all’antologia greca.
  53. [p. 275 modifica]


    Oscuro; e te piú ch’altri mai protervo,

  54. [p. 270 modifica]Il Boccaccio e il suo Decamerone.
  55. [p. 270 modifica]Guido Cavalcanti e sua canzone sulla natura d’amore.
  56. [p. 270 modifica]* Ingegnosa e lusinghiera dedicazione della Selva de’ poeti (come la chiama il Salvini) a Lorenzo de’ Medici, poeta; che il conte Pico della Mirandola, con retorica cortigiana, preponeva a Dante e al Petrarca. Dietro alla lunga e aurea turba degli spiriti magni, resa a vita da quel rinascimento, di cui le Nutricia posson dirsi l’apoteosi, grandeggia, quasi attraendone sopra di sé la luce immortale, la famiglia de’ mecenati fiorentini. Le memorie del vecchio Cosimo e di Piero si raccolgono su Lorenzo “il primo cittadino toscano„, la maraviglia della Signoria e del popolo, il pacificatore d’Italia: era l’anno 1486, nel quale la pace da lui procurata tra la Chiesa e Napoli, come pochi anni innanzi tra Napoli e Firenze, salvò forse la penisola da quella terribile invasione francese, che, lui morto, guastò per secoli l’indipendenza nazionale. Intanto il Poeta cliente canta la Musa, le fatiche poetiche, gli ozi del suo Mecenate. Dipingendo, con gentilezza non minore della verità, la musa di Lorenzo, pone fondamento e ispirazione del suo leggiadro e original poetare, le bellezze solitarie della natura e l’amore. Il Poliziano segue facendo una lunga recensione dei versi di Lorenzo de’ Medici, alludendo al Capitolo di Pane (vv. 1166-69), e all’altro Corinto e Galatea; ai Sonetti e alle [p. 271 modifica]Canzoni e ballate d’amore; ai Trionfi e canti carnescialeschi e Canzoni a ballo, all’Altercazione. Desiderando particolari maggiori, veggasi il Commento del Del Lungo dalla pag. 424 alla 427. Intanto io non so astenermi dallo stralciare dalle note suddette, ove ho già molto spigolato, anche queste poche righe che si riferiscono alla Musa della Selva: “Dopo il panegirico, l’augurio (v. 1210 alla fine): in Lorenzo, il presente e il passato della stirpe medicea; in Pierino, nel suo figliolo, l’avvenire, fidato per tanta parte alle mani del poeta precettore. Ma non fu lieto avvenire! E i versi che vanno simulando modestia, sarebbe venuto tempo al povero Agnolo di citarli a scusa delle audaci speranze e promesse, se la morte non lo avesse salvato dallo spettacolo tristo della ruina de’ suoi Medici e delle vergogne del suo alunno„.