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Le donne di buon umore/Atto III

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Atto III

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Atto II Nota storica

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Camera.

Costanza e Felicita.

Costanza. Venite qua, Felicita; fra tanto che danno in tavola, voglio raccontarvi una cosa.

Felicita. Ditela presto veh, che io non voglio sentire discorsi lunghi.

Costanza. Ve la dirò in due parole. Ho paura di essere innamorata.

Felicita. Oh, io non mi sono mai spaventata per queste cose.

Costanza. Certo, che nemmen io per questa paura mi farò levar sangue; ma non vorrei trovarmi in qualche imbarazzo.

Felicita. Non è il conte Rinaldo quello di cui parlate?

Costanza. Sì certo, è lui per l’appunto. [p. 254 modifica]

Felicita. Ei non ha moglie, voi non avete marito, che difficoltà ci trovate?

Costanza. Prima di tutto mi dispiace ch’è forastiere, e non vorrei avere ad abbandonar Venezia.

Felicita. Oh questa poi, compatitemi, è una malinconia solennissima. Una persona di spirito non ha da supporre, che non vi sia altro di buono al mondo, che la sua patria. Tutto il mondo è paese; quando si ha il suo bisogno, si sta bene per tutto.

Costanza. Dite bene; ma ancora non so di certo....

SCENA II.

Il Cavaliere e le suddette.

Cavaliere. Ma signora Costanza, quel povero conte Rinaldo mi fa pietà.

Costanza. Che cosa è stato?

Cavaliere. Langue, muore, sospira per voi, e per conforto delle sue pene, gli convien godere le malagrazie di quella vecchia insensata.

Costanza. Caro signor Cavaliere, perchè non sollevate l’amico? Perchè non vi mettete voi al fianco della signora Silvestra, acciò il povero Conte possa venir qui a consolarsi?

Cavaliere. Per un poco mi sono provato di farlo, ma per dire la verità, non vorrei che questa buona vecchia si lusingasse, e avess’io da fare la parte ridicola nelle conversazioni.

Costanza. Certo, se fosse una giovane, il signor Cavaliere la servirebbe assai volentieri.

Cavaliere. Vi dirò, signora, colle giovani tratto, converso, e ci sto con soddisfazione. Ammiro le belle, mi piacciono le spiritose, ma procuro di essere universale. Servitù positiva non la vo’ prestare a nessuna. L’ho provata che basta, so il sistema che corre, e non mi c’impegno mai più.

Costanza. Vi pare sì gravosa la servitù civile, che si suol prestare a una donna?

Cavaliere. Una bagattella! Mi ricordo i precetti di madama Bignè nella commedia intitolata il Cavalier giocondo. [p. 255 modifica]

Felicita. Li ho sentiti: cose sciocche, non concludono niente.

Cavaliere. Li avete sentiti in verso, o in prosa?

Felicita. In prosa, in prosa; in verso non li avrei ascoltati.

Costanza. Li sentirei volontieri questi gran precetti, che vi spaventano.

Cavaliere. Li so a memoria; se volete, ve li dirò.

Costanza. Mi farete piacere.

Cavaliere. Ma sono in versi.

Costanza. Pazienza.

Felicita. Versi martelliani?

Cavaliere. Sì signora.

Felicita. Con vostra buona licenza, io non voglio sentir questa seccatura. (parte)

SCENA III.

Costanza ed il Cavaliere.

Cavaliere. Così va fatto; se non le piacciono, fa bene a non soffrirne la noia. Sarebbe una scioccheria il pretendere che dovesse piacere a tutti quel che piace a me.

Costanza. Via, fatemi sentir questi versi.

Cavaliere. Ben volentieri, e se mi accorgerò che vi diano noia, li troncherò a mezza strada. Così dunque diceva madama di Bignè al suo cavaliere servente:

" Chi di servir s’impegna, dee farlo ad ogni costo,
" Dee meritar soffrendo di mantenersi il posto.
" Prendere in buona parte rimproveri ed asprezze,
" Pagare a caro prezzo i scherzi e le finezze.
" Lasciare ogni amicizia, star seco in compagnia,
" Cambiar, quando ella cambia, il serio1 o l’allegria.
" Non deve dir, ch’è buono quello che piace a lui,
" Ma regolar si deve coi sentimenti altrui.

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" Come la bella impone, no deve dire, e sì.
" Ha da vegliar le notti, dee sospirare il dì2.
" Soffrire anche tal volta qualche rivale al fianco,
" Venir per gelosia rosso nel viso, e bianco,
" Ma non ardir giammai di dir quel che ha veduto,
" Di risarcir sperando quel poco che ha perduto.
" Cedere talor deve la mano al forestiere,
" Mai di nulla dolersi3, mai pretensioni avere;
" Parlar, quando ella parla, tacer, quando ella tace,
" Saper quando il parlare, quando il tacer le piace.
" Soffrir qualche insolenza, soffrir qualche strapazzo,
" A costo anche tal volta di comparire un pazzo4.

Fin qui parla il poeta nel Cavalier Giocondo;
Al poeta e alle donne io nel mio cuor rispondo:
Di servitute onesta stimo l’onore anch’io.
Ma a condizion sì dure, signore donne, addio. (parte)

Costanza. Non gli è bastato dire i versi imparati, ha voluto aggiungerne quattro dei suoi. Chi sa? Se si usassero, potrebbe darsi che non dispiacessero; dirò anch’io, come dice il poeta in un altro metro:

     Vari sono degli uomini i capricci,
     A chi piace la torta, a chi i pasticci. (parte)

SCENA IV.

Camera grande con tavola preparata con lumi ecc.

Mariuccia e Servitori che preparano.

Servitore. Per quanti abbiamo da preparare?

Mariuccia. Potete preparare per otto.

Servitore. Di là non sono che sette. Viene a tavola anche il vecchio? [p. 257 modifica]

Mariuccia. Oibò, il sordo non l’ha nemmen da sapere. Questo è un desinare, o per meglio dire una cena, che ha ordinato la signora Silvestra, e non vogliono che il signor Luca lo sappia.

Servitore. Ma se sono in sette, hanno forse da attendere qualchedun altro?

Mariuccia. Non ha da venire il signor Leonardo? Non siete stato voi a chiamarlo per parte mia?

Servitore. Sì, è vero, non me ne ricordavo.

Mariuccia. Hanno bussato; andate a vedere s’è lui. Fatelo venir qui subito.

Servitore. Signora Mariuccia, io faccio tutto quel che volete, ma anche voi ricordatevi di me. Se tutti mangiano, vorrei godere anch’io qualche cosa.

Mariuccia. Sì sì, non dubitate, vi sarà da star bene per tutti; già il vecchio paga.

Servitore. (Eh, quando la servitù è d’accordo, le cose non possono mai andar male). (parte)

SCENA V.

Mariuccia, poi Leonardo.

Mariuccia. Voglio un po’ vedere, se mi dà l’animo di far arrabbiare la signora Felicita; resterà, quando vedrà qua suo marito.

Leonardo. Eccomi qui da voi. Che cosa è questa gran premura, con cui mi avete fatto venire?

Mariuccia. Vedete, signor Leonardo, (mostrandogli la tavola preparata)

Leonardo. Vedo là una bella tavola preparata per mangiare.

Mariuccia. La signora Felicita è stata quella che ha persuaso la mia padrona a fare un bel trattamento, e non ha avuto la convenienza di farlo sapere al povero suo marito.

Leonardo. Eh mia moglie, meno che mi vede, sta meglio in salute.

Mariuccia. Io vi ho mandato a chiamare, e voglio che restiate qui a suo dispetto. [p. 258 modifica]

Leonardo. Oh questo poi no; non mi hanno invitato, e non ci voglio restare.

Mariuccia. Fatelo per amor mio.

Leonardo. No no, compatitemi; sono un galantuomo, e non voglio fare di queste figure. Io non vado dove non mi vedono volontieri.

Mariuccia. Fate così; se volete, mangiaremo io e voi nella mia camera.

Leonardo. Vi pare che io voglia fare una figura simile? Mi piace mangiare, mi piacciono i buoni bocconi, ma per la gola non sacrifico la riputazione.

Mariuccia. Volete dunque andar via?

Leonardo. Sì certo, voglio andar via.

Mariuccia. E lascierete qui vostra moglie a mangiare, a bevere, e a divertirsi senza di voi? Se fate questo, vi dico bene che siete uno stolido, un pazzo, un baccellone, un baggiano.

Leonardo. Basta, basta; non vi affaticate a caricarmi al solito di queste vostre amorose espressioni. Se non ci sto io, non ci ha da stare nemmeno lei.

Mariuccia. E se v’invitassero, ci restareste?

Leonardo. Non ci starei, nemmeno se mi legassero colle catene. Sono in puntiglio, e me ne voglio andare.

Mariuccia. Ecco vostra moglie colla mia padrona.

Leonardo. Venga, venga, che viene a tempo.

SCENA VI.

Costanza, Felicita e detti.

Costanza. Oh, qui il signor Leonardo?

Felicita. Siete qui, marito?

Leonardo. Animo; a casa vostra, signora. (a Felicita)

Felicita. A casa mia? Cosa è intravenuto? È succeduta qualche disgrazia?

Mariuccia. (Ci ho gusto da vero). (da sè) [p. 259 modifica]

Leonardo. Venite a casa, vi dico. Così non si tratta con suo marito.

Costanza. (Che diavolo ha?) (piano a Felicita)

Felicita. (Che se n’abbia avuto a male per non essere anch’esso invitato?) (piano a Costanza)

Leonardo. Mariuccia, favorite portar qui la sua maschera, e che ce n’andiamo.

Mariuccia. Sì signore, vi servo subito. (Crepa, schiatta, ci ho gusto). (da sè, e parte)

Costanza. Non credo, che il signor Leonardo mi farà questo affronto.

Leonardo. Tant’è, signora, compatitemi.

Felicita. Avete incontrato il servitore della signora Costanza?

Leonardo. Non so niente.

Felicita. In questo punto vi ho mandato a invitare.

Leonardo. Eh, non serve.

Costanza. Il signor Leonardo ha da favorir di star con noi.

Felicita. Io non ci sto senza mio marito.

Costanza. S’intende; o tutti due, o nessuno.

Felicita. Mio marito ci resterà volentieri dalla signora Costanza.

Leonardo. Non signora, vi dico....

Costanza. Sì certo; ci ha da restare.

Felicita. E lo voglio vicino a me.

Costanza. Mettete giù il ferraiolo.

Felicita. Mettete giù quel cappello.

Costanza. Ve lo leverò io dalle spalle. (gli leva il mantello)

Felicita. Date qui questo cappellaccio. (gli prende il cappello)

Costanza. Bravo il signor Leonardo.

Felicita. E viva il mio caro marito.

Costanza. Staremo allegri.

Felicita. Ora sono contenta.

Mariuccia. (Torna con le robbe da maschera di Felicita) Ecco qui da mascherare la signora Felicita.

Felicita. Non s’incomodi, signora smorfiosa, che per ora non mi abbisogna. [p. 260 modifica]

Costanza. Porta via quella maschera, e non star a far la pazza.

Mariuccia. Che dice il signor Leonardo? (sorpresa)

Leonardo. Cosa volete che io dica? Le donne, quando vogliono, hanno l’abilità di far fare agli uomini a modo loro.

Mariuccia. Restate qui dunque?

Leonardo. Ci resto sì. Non vedete che mi hanno spogliato?

Mariuccia. Ci ho gusto. L’ho invitato io.

Felicita. A me fatto avete veramente piacere; ma se foss’io la vostra padrona, vi darei dell’impertinente.

Mariuccia. Siete gelosa?

Felicita. Son il diavolo che ti porti.

Costanza. Animo, va via di qua. (a Mariuccia)

Mariuccia. Sì sì, siete gelosa, e lo so il perchè. Perchè sono più bella di voi. (parte)

Felicita. E voi soffrite questa insolente? (a Costanza)

Costanza. Sapete perchè la soffro? Perchè fa tutto a modo mio, mi seconda in tutto, e al vecchio non c’è pericolo che dica niente.

Leonardo. Eh già; le serve per lo più sono la rovina delle famiglie.

Costanza. Signore, non crediate per ciò che io faccia delle pazzie.

Felicita. Compatitelo; mio marito qualche volta ha del zotico, dello spropositato.

Leonardo. Come parlate, signora consorte? (alterato)

Felicita. Cara la mia gioja, non andate in collera.

Leonardo. (È una gran bestiaccia costei!) (da sè)

SCENA VII.

Servitori che mettono in tavola.

Servitore. Quando comanda, è in tavola.

Costanza. Avvisate mia zia, e tutti quei signori, che venghino. (un servitore parte)

Leonardo. In verità, signora, mi dispiace recarvi incomodo. [p. 261 modifica]

Felicita. Volete che andiamo via? (a Leonardo)

Leonardo. Per me, andiamo pure.

Felicita. (Sciocco! Vi è un pasticcio di maccheroni, che vale un tesoro). (a Leonardo, piano)

Leonardo. Davvero?

Felicita. Volete che andiamo?

Leonardo. Eh, non voglio ricusare le grazie della signora Costanza.

SCENA VIII.

Il Cavaliere dando braccio a Dorotea e Pasquina,
una per parte. Poi il Conte servendo Silvestra, e detti.

Cavaliere. Eccomi qui, signore, eccomi in figura di Giano fra il mondo nuovo ed il mondo antico. (accennando la figlia e la madre)

Dorotea. Questi spropositi io non li capisco.

Pasquina. La minestra è in tavola. (con allegria)

Costanza. E dov’è il signor Conte?

Cavaliere. Verrà ora Cupido con la sua Venere affumicata.

Costanza. Siete alle volte spiritoso un po’ troppo.

Felicita. Eccolo, eccolo il signor Conte.

Silvestra. Siamo qui, siamo qui. Avete forse mormorato di noi?

Conte. Sarebbe stata veramente una mormorazione contro la carità.

Costanza. Andiamo a tavola, che le vivande si raffreddano.

Felicita. Distribuite i posti, signora Costanza.

Cavaliere. Farò io, farò io. Qui la signora Silvestra. La sposa in capo di tavola. (la fa sedere sul mezzo)

Silvestra. Mi dite sposa, eh?

Cavaliere. Così mi pare, se non m’inganno. (guardando il Conte)

Silvestra. Eh furbacchiotto! (va a sedere nel mezzo)

Cavaliere. Conte, venite qui. (lo chiama vicino alla signora Silvestra)

Conte. Caro amico, andateci voi.

Cavaliere. Eh via, che occorre nascondersi? Non facciamo scene. Questo è il vostro posto.

Silvestra. Via, Conte; già è tutt’uno. Dice bene; non occorre nascondersi. Venite appresso di me. [p. 262 modifica]

Costanza. Via, andate. (al Conte)

Conte. Me lo comandate voi?

Costanza. Ve lo comando io.

Conte. Vado per ubbidirvi. (va a sedere a sinistra di Silvestra)

Silvestra. Vi ringrazio, nipote; vedo che mi volete bene. (a Costanza)

Cavaliere. Qui può venire la signora Costanza. (accennando il posto vicino al Conte)

Silvestra. No no, compatitemi, Cavaliere; il posto si deve dare alle forestiere. Vicino al Conte verrà la signora Dorotea. (Mia nipote è fanciulla, non istà bene presso di lui), (piano al Cavaliere)

Cavaliere. Non siete fanciulla anche voi? (a Silvestra)

Silvestra. È vero, ma non lo sapete? Il Conte ed io saremo presto la stessa cosa.

Cavaliere. Avete ragione. Favorisca qui la signora Dorotea, e vicina ad essa la sua figliuola. (Dorotea e Pasquina vanno a’ posti che se gli sono assegnati.)

Felicita. (È bellissima di questo signor Cavaliere. Dispone lui; pare lui il padrone di casa). (da sè)

Cavaliere. Verrà qui la signora Costanza, (accennando il posto vicino a Silvestra.)

Silvestra. No, Signor Cavaliere. Siete poco pratico, a quel che io vedo; si devono disponere i commensali, uomo e donna.

Cavaliere. Ci starò io dunque.

Silvestra. Sì, così anderà bene.

Cavaliere. E qui verrà la signora Costanza. Ci può venire? (a Silvestra)

Silvestra. Via, presso di voi mi contento.

Costanza. Manco male, che la signora zia si contenta. (All’ultimo la vogliam veder bella). (siede vicina al Cavaliere)

Cavaliere. Là il signor Leonardo, e colà la signora Felicita.

Felicita. Marito e moglie vicini?

Leonardo. Vi dispiace che io stia vicino? (a Felicita)

Felicita. No, anzi ne ho piacere grandissimo. (ironicamente)

Leonardo. Ci stiamo tanto poco vicini. Soffritemi per questa sera. (siede vicino a Costanza) [p. 263 modifica]

Felicita. Oh, sono avvezza a soffrirvi, ch’è un pezzo. (siede vicina a Leonardo)

Cavaliere. (Principia a dispensar le vivande a tutti, e di quando in quando si cambiano le portate, e i servitori i tondi, e si da dà bevere a chi ne vuole, all’ultimo si portano i frutti, e nel corso della tavola si fanno i seguenti discorsi fino all’arrivo del signor Luca.)

Pasquina. Fatemi dare della minestra. (a Dorotea)

Dorotea. Favorite, signore, la mia figliuola. (al Cavaliere)

Cavaliere. Eccola servita. (gli presenta un tondo con della minestra)

Pasquina. Me ne dà così poca?

Cavaliere. Ne volete dell’altra?

Pasquina. Sono tre giorni che da noi non si mangia minestra.

Dorotea. (Sta zitta). (a Pasquina)

Leonardo. (Sentite? Per andar in maschera, a casa sua si digiuna). (piano a Felicita)

Felicita. (Eh, la signora Dorotea non è sola. Ve ne sono di quelle poche). (piano a Leonardo)

Cavaliere. Non mangia la signora Silvestra?

Silvestra. Anz’io mangio più di tutti.

Cavaliere. Perchè?

Silvestra. Perchè io mangio colla bocca e cogli occhi. (guardando il Conte)

Conte. (Che tu possa diventar cieca). (da sè)

Costanza. È vero, signor Conte, ch’ella si vorrebbe fare lo sposo?

Conte. Se quella che io desidero, mi volesse.

Silvestra. Sì, caro, quella che voi amate, arde e sospira per voi.

Conte. Posso crederlo, signora Costanza?

Costanza. Sì, credetelo pure, è così senz’altro.

Silvestra. Sentite? Anche lei lo conferma.

Felicita. (Costanza è furba, l’equivoco va molto bene). (da sè)

Costanza. Ma quella che voi vorreste in isposa, e che non sarebbe lontana dall’accettarvi, non sa ancora ben chi voi siete.

Silvestra. Eh, so quanto basta; è un bel giovane, si vede ch’è nato bene, e non vo’ cercar d’avvantaggio. [p. 264 modifica]

Cavaliere. Perdonate, signora; vostra nipote ha più prudenza di voi. Le fanciulle non si maritano così alla cieca. Ella è interessata per voi, quanto per se medesima, e prima che la zia si mariti, vuol sapere precisamente qual sia lo sposo.

Conte. La zia ha ragione, e la nipote non parla male. In Venezia sono conosciuto, ed i ricapiti che porto meco, ponno meglio giustificarmi. Eccoli, se la signora zia li desidera. (mostra alcuni fogli)

Costanza. Date qui, date qui; li leggerò io. Sono interessata moltissimo in quest’affare. (prende i fogli)

Silvestra. Si nipote, vi sono tanto obbligata, ma sentite: non istiamo tanto a sottilizzare. Se non vi è male, facilitiamo, (piano a Costanza, che senta anche il Cavaliere) Che dite voi, Cavaliere? (Costanza intanto ripassa i fogli piano)

Cavaliere. Dite benissimo. (La sa lunga la signora Costanza, e questa vecchia sarà molto ben corbellata). (da sè)

Pasquina. Non mi danno mai niente da mangiare.

Cavaliere. Fate voi per la vostra figliuola. (a Dorotea)

Dorotea. Aspetta; di questo piatto mi pare che nessuno ne voglia: mangiamocelo per metà una. (tira avanti di sè un piatto, e lo mangia con Pasquina.)

Leonardo. (Hanno la zuppa quelle due donne). (a Felicita, piano)

Felicita. (Eh, voi non corbellate, mi pare). (a Leonardo, piano)

SCENA IX.

Battistino e detti

Battistino. Buon pro a lor signori.

Pasquina. Oh, è qui Battistino.

Dorotea. Ci avete trovate all’odore, eh?

Battistino. Sono tre ore che cammino per ritrovarvi.

Felicita. (Dite, quell’amico lo avete trovato?) (a Battistino, piano)

Battistino. (Chi?)

Felicita. (Il signor Faloppa?) [p. 265 modifica]

Battistino. (Vi dico che sono tre ore che giro, e nessuno me l’ha saputo insegnare).

Felicita. (Volete che io ve lo insegni?)

Battistino. (Sì, fatemi questo piacere).

Felicita. (Eccolo lì, è quello). (accennando il Cavaliere)

Battistino. (Quello?)

Felicita. (Sì, quello).

Battistino. Ehi, signor Faloppa. (al Cavaliere)

Cavaliere. Dite a me?

Battistino. Sì, a voi, una parola in grazia.

Cavaliere. Volete che io vi faloppi le spalle con un bastone?

Battistino. Quella ragazza è mia, e voi lasciatela stare.

Dorotea. Povero sciocco! mia figlia non lo conosce nemmeno.

Pasquina. Si chiama dunque il signor cavaliere Faloppa? (tutti ridono)

Cavaliere. Mi chiamo il malannin che vi colga. (contrafacendola)

Felicita. Via, via, basta così. Non facciamo che uno scherzo partorisca disordini. Mi ho preso un poco di spasso per far delirar il signor Battistino.

Battistino. Cospetto! (battendo i piedi in terra) Sono di quelle cose che mi farebbero venir rabbia. Io non voglio essere burlato. (passa dinanzi alla tavola, e si porta vicino a Pasquino) Non sono giovane da burlare, e non voglio che mi facciano di queste cose. (Pasquina gli dà qualche cosa da mangiare) E lo diro al signor padre, che non voglio che nessuno mi burli. (parla, mangiando ciò che gli fu dato da Pasquina.)

Felicita. (Ma che bella caricatura!) (da sè)

Pasquina. Venite qui, sedete presso di me.

Dorotea. Siete più in collera?

Battistino. Eh, la bile mi va passando. (siede e mangia)

Costanza. Signora zia, ho letto i fogli che mi ha dato da leggere li signor Conte.

Silvestra. È così, che vi pare?

Costanza. Il Conte è di buona casa. I suoi beni sono assai sufficienti; il personale, per quel che si vede, è ottimo; dunque, s’egli dice davvero, la sposa che ei desidera non lo può ricusare. [p. 266 modifica]

Silvestra. Ricusarlo? Anzi lo bramo, lo desidero, e non vedo l’ora di potergli porgere la destra.

Conte. Ringrazio la signora Costanza dei suoi sentimenti cortesi; e quando la fanciulla sia in questa buona disposizione, noi ci spicciaremo prestissimo.

Silvestra. Sentite? (al Cavaliere) Che tu sia benedetto, (al Conte)

SCENA X.

Mariuccia e detti.

Mariuccia. Signora, signora.

Costanza. Che cosa c’è?

Mariuccia. Il padrone ha chiamato. Ha detto che vuol mangiare, scende le scale, e dubito che venga qui.

Costanza. Non mi dicesti ch’egli dormiva?

Mariuccia. È vero, dormiva, e subito che si è svegliato, ha chiesto da mangiare.

Cavaliere. Buono, buono, lasciate che venga, che lo faremo sognare.

Silvestra. Cosa vuol questo vecchio? I vecchi con noi altri giovani non si confanno.

Costanza. Mio padre non si dolerà, che abbiamo fatta una cena, ma si lamenterà con ragione, che non lo abbiamo avvisato ancora lui. I vecchi in queste cose ci stanno, e mi dispiace infinitamente.

Conte. La cena è finita, ce ne possiamo andare in un’altra camera. (tutti s’alzano)

Costanza. Sì sì, ce ne anderemo nel mio appartamento. Mariuccia, fa preparare il caffè, e che ce lo portino quando è fatto.

Silvestra. Mi è tanto piaciuto il caffè che ho bevuto questa mattina; mandiamolo a pigliare alla bottega dell’Aquila. (Quel caffettiere è un giovine che mi dà nel genio). (da sè)

Costanza. Mandate all’Aquila un servitore; così lo averemo più presto. (a Mariuccia)

Cavaliere. E poi in Venezia il caffè delle botteghe par sempre migliore di quel che si beve nelle case [p. 267 modifica]

Mariuccia. Sentite? Il vecchia è in sala; poco può tardar a venire.

Silvestra. Andiamo di là a concludere queste nozze.

Costanza. Questo è quello che preme a me pure. Ma se mio padre vede qui la tavola apparecchiata, vorrà sapere che cosa è stato.

Cavaliere. Andate, andate, signore mie; fidatevi di me; penserò io a tirarvi fuori d’ogni imbarazzo. Sentite. (si ritira a parlar piano con Mariuccia.)

Silvestra. Andiamo, caro, che ad essere consolati ci manca poco. (al Conte)

Conte. Questo è quello che io spero. (verso Costanza)

Costanza. Questo è quello che io desidero. (verso il Conte, e tutti tre partono.)

Leonardo. Noi ce ne potressimo andare a casa. (a Felicita)

Felicita. Pensate voi, se io voglio perdere il fine di questa scena. Dirò, come diceva quello: ora viene il buono. (parte)

Leonardo. Gran donne! non si saziano mai. Voglio restarvi anch’io; voglio veder se mi riesce di condurla a casa stasera. Son cinque notti, che dormo solo. (parte)

Dorotea. Volete che ce ne andiamo? (a Pasquina e Battistino)

Pasquina. Sicuro! Voglio che beviamo il caffè. (parte)

Battistino. Se lo beve Pasquina, lo voglio bevere anch’io. (parte)

Dorotea. Sì sì, ho mangiato tanto, mi farà bene allo stomaco, (parte)

Cavaliere. Avete inteso? (a Mariuccia)

Mariuccia. Ho inteso tutto; eccolo il vecchio. Vado subito, perchè non mi vegga. (parte)

SCENA XI.

Il Cavaliere, poi Luca, e Servitori che bel bello vanno sparecchiando la tavola.

Cavaliere. Voglio divertirmi con questo vecchio. (si cava il giustacore, e si mette una salvietta dinnanzi, ed una beretta in capo, ad uso di cameriere di osteria.)

Luca. Chiamo, e nessun mi risponde. Che cosa è questa novità? Capperi! si è fatta una bella cena! Ed io non l’ho da sapere? [p. 268 modifica] Ed io non ho da mangiare? Si spende del mio, e nessuno mi dice niente? Chi è di là? Ci è nessuno?

Cavaliere. (Sì presenta colla beretta in mano.)

Luca. Chi è costui, che non lo conosco?

Cavaliere. (Fa cenno che comandi.)

Luca. (Non mi ricordo mai aver avuto questo servitore al mio servigio. Se non l’avesse preso mia sorella, o mia figlia). (da sè) Chi siete voi?

Cavaliere. (Mostra di rispondere, facendo motti con la bocca senza dir niente.)

Luca. Che?

Cavaliere. (Come sopra.)

Luca. Non capisco come vi chiamate.

Cavaliere. (Come sopra.)

Luca. Parlatemi forte nell’orecchia.

Cavaliere. (Come sopra.)

Luca. (Diavolo! Che io sia diventato sordo del tutto!) Venite da quest’altra parte.

Cavaliere. (Passa dall’altra parte.)

Luca. Venite qua, ditemi chi siete.

Cavaliere. (Come sopra.)

Luca. Dite forte.

Cavaliere. (Mostra di gridare, e non parla.)

Luca. (Povero me! Son sordo affatto. Non ci sento più niente). Ditemi coi cenni almeno: chi siete voi? Cosa è questo bell’ apparato? Chi ha fatto questa cena?

Cavaliere. (Fa una riverenza, e parte.)

Luca. Io non so se m’abbia inteso, o non m’abbia inteso: ne se m’abbia risposto, o non mi abbia risposto. Possibile, che in due ore che avrò dormito, abbia indurito affatto il timpano dell’orecchio?

Cavaliere. (Sì presenta con una bottiglia, un bicchiere e una salvietta sul braccio, e gli offerisce da bere.)

Luca. Io non voglio bevere; voglio sapere quello ch’è stato.

Cavaliere. (Lo prega a cenni, che voglia bere.) [p. 269 modifica]

Luca. Bisogna che le donne abbiano cambiato il credenziere senza che io sappia. Vorrà farmi assaggiar il vino; sentiamolo. (vuol prendere il bicchiere)

Cavaliere. (Beve lui il vino, e facendo delle riverenze parte.)

Luca. Eh, il vino non è cattivo. Un poco asciutto.

Cavaliere. (Ritorna, mostrando di voler esser pagato.)

Luca. Come? Volete esser pagato? Prima di tutto io non ho bevuto niente; e poi in casa mia averci da pagare?

Cavaliere. (Fa cenno che non è casa sua.)

Luca. Non è casa mia? E, che cos’è questa, qualche osteria?

Cavaliere. (Fa cenno di sì).

Luca. Diavolo! Non mi ricordo di aver bevuto. Ubriaco non mi par di essere. Sarebbe mai possibile che io dormissi ancora, e che questo qui fosse un sogno? Altre volte mi sono sognato delle cose che mi sembravano vere. Ma quando si sogna, non si ragiona così. Io credo di essere in un altro mondo. Vediamo un poco cos’è questo imbroglio. Mariuccia, Toffolo, Bernardino. (chiama forte)

Cavaliere. (Fa cenno esser egli pronto a’ suoi comandi.)

Luca. Vorrei andare nella mia camera, fatemi un po’ di lume.

Cavaliere. (Va a prendere un lume.)

Luca. Ora vedrò se è un’illusione, o se io veglio.

Cavaliere. (Torna con candela accesa.)

Luca. Se è un sogno, la candela non avrebbe a scottare. Ahi. (tocca la fiamma, e si scotta)

Cavaliere. (Spegne il lume e parte. I servitori finiscono di portar via la tavola.)

Luca. Aiuto: mi sono scottato, povero me. Sono rimasto all’oscuro. Mariuccia, Costanza, gente, aiuto.

SCENA XII.

Mariuccia con lume, e detto.

Mariuccia. Che c’è, signor padrone? Che cosa è stato?

Luca. Dov’è andato?...

Mariuccia. Chi? (forte) [p. 270 modifica]

Luca. Quel cameriere, quel servitore, quel diavolo ch’era qui?

Mariuccia. Qui non c’è stato nessuno.

Luca. Che?

Mariuccia. Non c’è stato nessuno. (forte)

Luca. (Ora ci sento, e allora non ci sentivo; è una cosa che mi fa trasecolare). Dov’è andata la tavola ch’era qui?

Mariuccia. Che tavola? (forte)

Luca. La tavola apparecchiata.

Mariuccia. Voi avrete sognato.

Luca. Che?

Mariuccia. Avete dormito, avete sognato. (forte)

Luca. Sognato! E la scottatura della candela!

Mariuccia. Un sogno. (forte)

Luca. Un sogno! Anche questo un sogno! Ma come sogno? Ma come sono qui in questa camera?

Mariuccia. Ci sarete venuto dormendo. (forte)

Luca. Dormendo! Si danno i nottambuli veramente. Non so che dire, che io non lo avevo5. Da qui innanzi serratemi bene per di fuori; non vorrei uscire di camera, e precipitarmi giù delle scale. (parte)

Mariuccia. Così va bene. Se vorrà uscire, lo sapremo anche noi, e non ci verrà a sorprendere, se si farà qualche piccola conversazione, (parte)

SCENA XIII.

Camera grande illuminata.

Costanza, Felicita, Dorotea, Pasquina, il Conte, Leonardo, Battistino e Nicolò caffettiere con altri Servitori, poi il Cavaliere. Tutti si avanzano, tirano innanzi le sedie, e siedono per bevere il caffè.

Cavaliere. La cosa è andata benissimo. Il povero signor Luca se l’è bevuta. Crede di aver sognato, e Mariuccia ha secondato il lazzo mirabilmente. [p. 271 modifica]

Costanza. Bravo, signor Cavaltere, voi siete fatto apposta per le spiritose invenzioni.

Cavaliere. Ho qualche cosa imparato, dopo che ho avuto l’onore di trattare con delle donne di bell’umore.

Nicolò. Comanda dell’altro zucchero? (a Silvestra)

Silvestra. Sì: non ve l’ho detto, che mi piace il dolce?

Nicolò. Si serva pure, come comanda.

Silvestra. Ehi, Nicolò, lo sapete che mi faccio la sposa?

Nicolò. Me ne rallegro infinitamente.

Pasquina. (Signora madre, il Conte piglierà quella brutta vecchia?) (a Dorotea)

Dorotea. (Potrebbe darsi, ma non lo credo). (a Pasquina)

Cavaliere. Signori miei, che vuol dire questo silenzio? Ho pur sentito poc’anzi a intavolare un trattato di matrimonio; se le parti sono contente, perchè non si conclude alla prima?

Silvestra. Dice bene il signor Cavaliere, perchè non si conclude alla prima?

Conte. Che dice la signora Costanza?

Silvestra. Cosa c’entra la signora Costanza?

Conte. Ho piacere d’intendere il suo sentimento.

Costanza. Per me dico, che prima di concludere questo fatto, converrebbe sentire mio padre, ch’è il capo ed il padrone di casa.

Leonardo. Dice bene, così almeno si praticava una volta; ma adesso tutte le cose sono venute alla moda.

Silvestra. Oh, voi siete qui colle vostre anticaglie. Signor sì, noi vogliamo fare le cose nostre alla moda.

Felicita. Cara signora Silvestra, senza del signor Luca non si può far questo matrimonio. Chi è che ha da dar la dote?

Silvestra. Chiamatelo, se lo volete chiamare, ma è tanto sordo, che ci vorran delle ore prima di fargliela ben capire.

Costanza. Ehi, dite al signor padre, che favorisca di venir qui. (ad un servitore che parte) Pensava io ad una cosa: per non faticare soverchiamente con un uomo che ci sente pochissimo, e per liberar lei ancora da questa pena, non sarebbe meglio [p. 272 modifica] stendere due righe di contratto, darglielo da leggere, e se è contento farglielo confermare?

Cavaliere. Dice benissimo la signora Costanza. In poche parole m’impegno io di estenderlo. Conte, cosa vi pare?

Conte. Va benissimo. Distendetelo, ed io sottoscriverò.

Silvestra. (Mi dispiace che senza occhiali non ci vedo a scrivere, e mi vergogno a tirarli fuori). (Ja sè)

Cavaliere. (Sì ritira indietro a scrivere ad un tavolino.)

Battistino. Signora Dorotea, sentendo ora parlare di matrimonio, mi è venuto in mente la più bella cosa di questo mondo.

Dorotea. E che bella cosa vi è venuto in mente?

Battistino. Cospetto di bacco! Ridete, ch’ella è da ridere. Mi è venuto in mente, ora subito in questo momento di dar la mano a Pasquina.

Dorotea. Ora sentite a me che bella cosa è saltata nel capo. Ora, subito, in questo momento, se la volete, pigliatela.

Battistino. Con licenza di lor signori. Dammi la mano, o bella.

Dorotea. Rispondigli ancora tu. Prendi la destra, o caro.

Battistino. Il tuo fedel son io. Ah, che contento è il mio. Ditelo voi per me.

Tutti. (Applaudiscono, dicendogli:) Bravi, evviva.

Silvestra. Ma quando viene questo mio fratello? Mi sento che non posso più.

Cavaliere. Ecco il signor Luca che viene, ed ecco il contratto bello e disteso.

SCENA XIV.

Luca, Mariuccia e detti.

Luca. Cosa c’è? Chi mi vuole?

Cavaliere. Favorisca di leggere questa carta. (forte)

Luca. Veh, veh! Questo mi pare quello che ho veduto in sogno. Chi siete voi? [p. 273 modifica]

Cavaliere. Favorisca leggere questa carta. (forte)

Luca. (È sordo; vediamo che cosa c’è in questa carta). (51 mette gli occhiali, e legge)

Silvestra. (Ha da restar mio fratello, quando sente che io sono sposa). (t/a sè)

Luca. Brava! Me ne rallegro. (verso Costanza)

Costanza. Compatite.

Silvestra. Che cosa ha da compatire? Non sono io la padrona?

Luca. Il signor Conte. Bravo! (verso il Conte)

Conte. Se vi compiacete...

Luca. Che?

Conte. Se mi credete degno, ve la domando in isposa.

Luca. Come?

Conte. Ve la domando in isposa.

Luca. E parlasi con me a cose fatte? Meritereste, che vi dicessi un di no in faccia. (Ma questa figlia in casa non istà bene; già che vi è l’occasione, penso meglio di liberarmene; mi è nota la casa del Conte, benchè forastiere, so le sue fortune, e ho inteso essere un buon figliuolo; senz’altro l’incontro è fortunato, ed è bene concluder immediate l’affare). (da sè) Sì, vi darò la dote, ma non vo’ che si perda tempo, porgetele in questo punto la mano.

Conte. Ecco dunque, che pieno di giubilo e di contentezza, porgo alla mia cara sposa la destra. (Colla mano passa dinanzi a Sivestra, che crede la porga a lei, e la presenta a Costanza.)

Silvestra. Cosa fate?

Conte. Do la mano alla sposa.

Silvestra. E chi è la sposa?

Conte. La signora Costanza.

Costanza. Io, sì signora. Voi siete giovane, non mancarà6 tempo. [p. 274 modifica]

Silvestra. Incivile, malnato, no, non mi meritate; ed io per voi non ho mai avuto nè amore, nè stima. (al Conte) Lo facevo per compassione, perchè vi vedevo languire; ma il mio cuore, il mio affetto, era tutto rivolto a quest’amabile Cavalierino. (al Cavaliere)

Cavaliere. Vi ringrazio, signora, voi siete ricca, io son poveruomo. Non ho fondi bastanti per assicurare una dote di sessant’anni.

Silvestra. Povera gioventù strapazzata! (5i getta sopra una sedia, e resta melanconica coprendosi la faccia.)

Felicita. Nicolò.

Nicolò. Signora.

Felicita. Venite con me, che vi ho da parlare,

Nicolò. Sono a servirla.

Felicita. Sentite, (parla nell’orecchio a Costanza) Vi piace? Volete che lo facciamo?

Costanza. (A Felicita) Sì, facciamolo pure. Tenete questa chiave, aprite il guardaroba, ritroverete un qualche abito di mio padre.

Felicita. Andiamo, (a Nicolò, prendendo la chiave da Costanza, e parte)

Nicolò. Come comanda. (parte)

Luca. Mariuccia.

Mariuccia. Signore.

Luca. Mariuccia. Sei sorda?

Mariuccia. Così va detto. Son qui, cosa mi comanda? (forte)

Luca. Fammi un piacere, tornami a dir nell’orecchio tutto quello che hanno detto finora.

Mariuccia. Hanno detto ch’è tardi, che potete andare a dormire. (forte)

Luca. Perchè non va a dormir mia sorella, che ha tre anni più di me?

Silvestra. Bugiardo, non è vero niente. Sono nata tanti anni dopo di voi, che posso essere vostra figlia, e poi son forte, sana e robusta, e non ho i cancherini che avete voi. (a Luca)

Luca. Cosa ha detto?

Mariuccia. Non ho capito. (forte)

Luca. Uh, sorda! [p. 275 modifica]

Felicita. (Che torna) Signori, con loro buona licenza; è qui un cavalier forastiere, che vuol riverire la signora Silvestra.

Silvestra. Un cavalier forastiere vuol favorirmi! Anderò io ad incontrarlo.

Costanza. No signora, fermatevi. Pare a voi, che una fanciulla abbia da andar incontro ad un forastiere?

Silvestra. Sono impaziente. Presto, fatelo passare.

Felicita. Favorisca, signore. (alla scena)

Luca. Che cosa c’è? (a Mariuccia)

Mariuccia. Non so niente,

SCENA ULTIMA.

Nicolò in abito civile, ma goffo, con parrucca, e detti.

Nicolò. Madame, votre serviteur troisoumble. (a Silvestra)

Silvestra. Monsieur, votre servante.

Nicolò. (Riverisce tutti. Tutti, fuor che Luca e Silvestra, si accorgono della burla, parlano fra di loro, e ridono sotto voce.)

Luca. Chi è questi? (a Mariuccia)

Mariuccia. Il Duca dell’impossibile.

Luca. Che?

Mariuccia. Il Prencipe della malora.

Luca. Come?

Mariuccia. Il diavolo che vi porti. (forte)

Luca. Che ti strascini.

Nicolò. Madame....

Silvestra. Monsieur, perdonè moa: je ne sui pas madame, me madamoiselle.

Nicolò. Madamoiselle, je voi veduta l’otre suar sulla dansa, e tanto ha mon cor ferito vostra bellessia, che je non posso mi dispensare, di protestare a voi mon respecto e mon obeyssance.

Silvestra. Eh Monsieur le Chavalier, vostre tresumble servante de tu mon cor.

Nicolò. Donè muè la men.

Silvestra. Vu me fet bocù d’onour. [p. 276 modifica]

Nicolò. Ah, vous set adorable. (le bacia la mano)

Silvestra. (Sì sì, rabbia, veleno, mangiate l’aglio quanti che siete). (al Conte e al Cavaliere)

Nicolò. Madame, etè vous poucelle?

Silvestra. Come dice?

Nicolò. Etè vous mariè?

Silvestra. Non signore; sono ancora fanciulla.

Nicolò. Si vous plè, Madam, je sui pour vous.

Silvestra. A un cavaliere così compito non si può dire di no. (Sì, per farvi dispetto). (al Conte e al Cavaliere)

Luca. Intendi che cosa dicono? (a Mariuccia)

Mariuccia. Vuol per moglie la signora Silvestra. (forte)

Luca. Mia sorella si vuol maritare? Che ti venga la rabbia! Si può sentire di peggio?

Silvestra. Sì signore, voglio maritarmi; e voi non ci avete da entrare.

Costanza.(La burla va troppo innanzi, non vorrei che nascessero dei dispiaceri). (al Cavaliere)

Cavaliere. (Aspettate, la finirò io). (a Costanza)

Luca. Chi è colui che vi vuole? È qualche disperato?

Silvestra. È un cavaliere di garbo.

Nicolò. Vostre servitour troisumble. (a Luca)

Cavaliere. Nicolò.

Nicolò. Signore.

Cavaliere. Il padrone attende le chicchere. (Un servitore presenta la guantiera con le chiccare a Nicolò, quale si cava la parrucca, e fa loro una riverenza dicendo:)

Nicolò. Servitor umilissimo di loro signori. (parte)

Silvestra. Povera me! sono assassinata. Indegni, bricconi, perfidi quanti siete. Sì, voglio maritarmi se credessi di prendere un fabro, un legnaiuolo, uno spazzacamino. (adirata parte)

Luca. Cosa è stato? (a Costanza)

Cavaliere. Niente, niente, signore. Galanterie, barzellette; cose che sanno farsi per divertimento da quelli che sono di Buon umore. E in fatti non si può dire, che queste signore donne [p. 277 modifica] non siano tali. Voglia il cielo, che non siano restati di mal umore quelli che con tanta benignità e clemenza ci hanno pazientemente ascoltati. Finirò dunque con quei due versi, co’ quali ho sentito a terminare la commedia intitolata il Terenzio.

Terenzio ai suoi Romani dir soleva: applaudite.
Ai nostri ascoltatori noi diciam7: compatite.

Fine della Commedia.


Note

  1. Nel Cavalier Giocondo, atto V, sc. II, leggesi; «il pianto ecc.» Vedasi vol. XII della presente edizione, p. 101.
  2. Cav. Gioc., l. c.: «Deve vegliar le notti e sospirare il dì».
  3. ’Cav. Gioc.,
    c. s.: «Mai parlar di vendetta ecc.».
  4. Cav. Gioc., c. s.: «... d’esser creduto un
    pazzo ".
  5. Così il testo.
  6. Così l’ed. Zatta.
  7. Nell’ultima scena del Terenzio, leggesi: «Ai nostri ascoltatori diciam noi ecc.» Vedasi vol. XI della presente edizione, p. 390.