Poesie (Parini)/II. La prima forma del Giorno/I. Il Mattino, secondo la edizione di Milano, 1763
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I
IL MATTINO
POEMETTO
(Secondo la edizione di Milano 1763.)
Giovin signore, o a te scenda per lungo
di magnanimi lombi ordine il sangue
purissimo, celeste, o in te del sangue
emendino il difetto i compri onori
5e le adunate in terra o in mar ricchezze
dal genitor frugale in pochi lustri,
me precettor d’amabil rito ascolta.
Come ingannar questi noiosi e lenti
giorni di vita, cui si lungo tedio
10e fastidio insoffribile accompagna,
or io t’insegnerò. Quali al mattino,
quai dopo il mezzodí, quali la sera
esser debban tue cure apprenderai,
se in mezzo agli ozi tuoi ozio ti resta
15pur di tender gli orecchi a’versi miei.
Giá l’are a Vener sacre e al giocatore
Mercurio ne le Gallie e in Albione
devotamente hai visitate, e porti
pur anco i segni del tuo zelo impressi:
20ora è tempo di posa. Invano Marte
a sé t’invita: ché ben folle è quegli
che a rischio de la vita onor si merca,
e tu naturalmente il sangue aborri.
Né i mesti de la dea Pallade studi
25ti son meno odiosi: avverso ad essi
ti feron troppo i queruli ricinti
ove Parti migliori e le scienze,
cangiate in mostri e in vane orride larve,
fan le capaci volte echeggiar sempre
30di giovanili strida. Or primamente
odi quali il mattino a te soavi
cure debba guidar con facil mano.
Sorge il mattino in compagnia dell’alba
innanzi al sol, che di poi grande appare
35su l’estremo orizzonte a render lieti
gli animali e le piante e i campi e Tonde.
Allora il buon villan sorge dal caro
letto cui la fedel sposa e i minori
suoi figlioletti intiepidir la notte;
40poi, sul collo recando i sacri arnesi
che prima ritrovar Cerere e Pale,
va, col bue lento innanzi, al campo, e scuote
lungo il picciol sentier da’ curvi rami
il rugiadoso umor che, quasi gemma,
45i nascenti del sol raggi rifrange.
Allora sorge il fabbro, e la sonante
officina riapre, e all’opre torna
l’altro di non perfette, o se di chiave
ardua e ferrati ingegni all’inquieto
50ricco Parche assecura, o se d’argento
e d’oro incider vuol gioielli e vasi
per ornamento a nuove spose o a mense.
Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,
qual istrice pungente, irti i capegli
55al suon di mie parole? Ah, non è questo,
signore, il tuo mattin. Tu col cadente
sol non sedesti a parca mensa, e al lume
dell’incerto crepuscolo non gisti
ieri a corcarti in male agiate piume,
60come dannato è a far l’umile vulgo.
A voi, celeste prole, a voi, concilio
di semidei terreni, altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
per novo calie a me convien guidarvi.
65Tu tra le veglie e le canore scene
e il patetico gioco oltre piú assai
producesti la notte; e, stanco alfine,
in aureo cocchio, col fragor di calde
precipitose rote e il calpestio
70di volanti corsier, lunge agitasti
il queto aere notturno, e le tenèbre
con fiaccole superbe intorno apristi,
siccome allor che il siculo terreno
dall’uno all’altro mar rimbombar féo
75Pluto col carro a cui splendeano innanzi
le tede de le Furie anguicrinite.
Cosi tornasti a la magion; ma quivi
a novi studi ti attendea la mensa
cui ricoprien pruriginosi cibi
80e licor lieti di francesi colli
o d’ispani o di toschi, o l’ongarese
bottiglia a cui di verde edera Bacco
concedette corona, e disse: — Siedi
de le mense reina. — Alfine il Sonno
85ti sprimacciò le morbide coltrici
di propria mano; ove te accolto, il fido
servo calò le seriche cortine;
e a te soavemente i lumi chiuse
il gallo, che li suole aprire altrui.
90Dritto è perciò, che a te gli stanchi sensi
non sciolga da’ papaveri tenaci
Morfeo prima che giá grande il giorno
tenti di penetrar fra gli spiragli
de le dorate imposte, e la parete
95pingano a stento in alcun lato i raggi
del sol, ch’eccelso a te pende sul capo.
Or qui principio le leggiadre cure
denno aver del tuo giorno; e quinci io debbo
sciorre il mio legno, e co’ precetti miei
ioo te ad alte imprese ammaestrar cantando.
Giá i valletti gentili udir lo squillo
del vicino metal cui da lontano
scosse tua man col propagato moto;
e accorser pronti a spalancar gli opposti
105schermi a la luce, e rigidi osserváro
che con tua pena non osasse Febo
entrar diretto a saettarti i lumi.
Ergiti or tu alcun poco, e si ti appoggia
alli origlieri, i quai lenti gradando
110all’omero ti fan molle sostegno;
poi, coll’ indice destro, lieve lieve
sopra gli occhi scorrendo, indi dilegua
quel che riman de la cimmeria nebbia,
e de’ labbri formando un picciol arco,
115dolce a vedersi, tacito sbadiglia.
Oh! se te in si gentile atto mirasse
il duro capitan, qualor tra Tarmi,
sgangherando le labbra, innalza un grido
lacerator di ben costrutti orecchi,
120onde a le squadre vari moti impone;
se te mirasse allor, certo vergogna
avria di sé, piú che Minerva il giorno
che, di flauto sonando, al fonte scòrse
il turpe aspetto de le guance enfiate.
125Ma giá il ben pettinato entrar di nuovo
tuo damigello i’ veggo; egli a te chiede
quale oggi piú de le bevande usate
sorbir ti piaccia in preziosa tazza:
indiche merci son tazze e bevande:
130scegli qual piú desii. S’oggi ti giova
porger dolci allo stomaco fomenti,
si che con legge il naturai calore
v’arda temprato e al digerir ti vaglia,
scegli il brun cioccolatte, onde tributo
135ti dá il guatimalese e il caribbèo,
c’ha di barbare penne avvolto il crine;
ma, se noiosa ipocondria t’opprime,
o troppo intorno a le vezzose membra
adipe cresce, de’ tuoi labbri onora
140la nettarea bevanda ove abbronzato
fuma et arde il legume a te d’Aleppo
giunto e da Moca, che di mille navi
popolata mai sempre insuperbisce.
Certo fu d’uopo che dal prisco seggio
145uscisse un regno, e con ardite vele,
fra stianiere procelle e novi mostri
e teme e rischi ed inumane fami,
superasse i confin per lunga etade
inviolati ancora; e ben fu dritto
150se Cortes e Pizzarro umano sangue
non istimár quel ch’oltre l’Oceano
scorrea le umane membra, onde, tonando
e fulminando, alfin spietatamente
balzaron giú da’ loro aviti troni
155re messicani e generosi Incassi;
poiché nuove cosi venner delizie,
o gemma de gli eroi, al tuo palato.
Cessi ’l cielo però, che in quel momento
che la scelta bevanda a sorbir prendi,
ióo servo indiscreto a te improvviso annunzi
il villano sartor, che, non ben pago
d’aver teco diviso i ricchi drappi,
oso sia ancor con polizza infinita
a te chieder mercede. Ahimè! che fatto
165quel salutar licore agro e indigesto
tra le viscere tue, te allor farebbe
e in casa e fuori e nel teatro e al corso
ruttar plebeiamente il giorno intero.
Ma non attenda giá ch’altri lo annunzi,
170gradito ognor, benché improvviso, il dolce
mastro che i piedi tuoi, come a lui pare,
guida e corregge. Egli all’entrar si fermi
ritto sul limitare: indi elevando
ambe le spalle, qual testudo il collo
175contragga alquanto, e ad un medesmo tempo
inchini ’l mento, e con l’estrema falda
del piumato cappello il labbro tocchi.
Non meno di costui, facile al letto
del mio signor t’accosta, o tu che addestri
180a modular con la flessibil voce
teneri canti, e tu che mostri altrui
come vibrar con maestrevol arco
sul cavo legno armoniose fila.
Né la squisita a terminar corona
185dintorno al letto tuo manchi, o signore,
il precettor del tenero idioma
che da la Senna, de le Grazie madre,
or ora a sparger di celeste ambrosia
venne all’Italia nauseata i labbri.
190All’apparir di lui 1 ’ itale voci
tronche cedano il campo al lor tiranno;
e a la nova, ineffabile armonia
de’ sovrumani accenti, odio ti nasca
piú grande in seti contro a le impure labbra
195ch’osan macchiarsi ancor di quel sermone
onde in Vaichiusa fu lodata e pianta
giá la bella francese, et onde i campi
all’orecchio dei re cantati furo
«lungo il fonte gentil de le bell’acque».
200Misere labbra, che temprar non sanno
con le galliche grazie il sermon nostro,
si che men aspro a’ dilicati spirti
e men barbaro suon fieda gli orecchi !
Or te questa, o signor, leggiadra schiera
205trattenga al novo giorno; e di tue voglie
irresolute ancora or l’uno or l’altro
con piacevoli detti il vano occupi,
mentre tu chiedi lor tra i lenti sorsi
dell’ardente bevanda a qual cantore
210nel vicino verno si dará la palma
sopra le scene; e s’egli è il ver che rieda
l’astuta Frine, che ben cento folli
milordi rimandò nudi al Tamigi;
o se il brillante danzator Narcisso
215tornerá pure ad agghiacciare i petti
de’ palpitanti italici mariti.
Poiché cosi gran pezzo a’ primi albori
del tuo mattin teco scherzato fia,
non senz’aver licenziato prima
220l’ipocrita Pudore, e quella schifa
cui le accigliate gelide matrone
chiamian Modestia, alfine, o a lor talento
o da te congedati, escan costoro.
Doman si potrá poscia, o forse l’altro
225giorno, a’ precetti lor porgere orecchio,
se meno ch’oggi a te cure dintorno
porranno assedio. A voi, divina schiatta,
vie piú che a noi mortali il ciel concesse
domabile midollo entro al cerèbro,
230si che breve lavor basta a stamparvi
novelle idee. In oltre a voi fu dato
tal de’ sensi e de’ nervi e de gli spirti
moto e struttura, che ad un tempo mille
penetrar puote e concepir vostr’alma
235cose diverse, e non però turbarle
o confonder giammai, ma scevre e chiare
ne’ loro alberghi ricovrarle in mente.
Il vulgo intanto, a cui non dòssi il velo
aprir de’ venerabili misteri,
240fie pago assai, poi che vedrá sovente
ire e tornar dal tuo palagio i primi
d’arte maestri; e con aperte fauci
stupefatto berá le tue sentenze.
Ma giá vegg’ io che le oziose lane
245soffrir non puoi piú lungamente, e in vano
te l’ignavo tepor lusinga e molce,
però che or te piú gloriosi affanni
aspeltan Tore a trapassar del giorno.
Su dunque, o voi del primo ordine servi,
250che degli alti signor ministri al fianco
siete incontaminaci : or dunque voi
al mio divino Achille, al mio Rinaldo
l’armi apprestate. Ed ecco in un baleno
i tuoi valletti a’ cenni tuoi star pronti.
255Giá ferve il gran lavoro. Altri ti veste
la serica zimarra, ove disegno
diramasi chinese; altri, se il chiede
piú la stagione, a te le membra copre
di stese infíno al piè tiepide pelli;
260questi al fianco ti adatta il bianco lino,
che sciorinato poi cada, e difencia
i calzonetti; e quei, d’alto curvando
il cristallino rostro, in su le mani
ti versa acque odorate, e da le mani
265in limpido bacin sotto le accoglie.
Quale il sapon del redivivo muschio
olezzante all’intorno, e qual ti porge
il macinato di quell’arbor frutto
che a Ròdope fu giá vaga donzella,
270e chiama in van, sotto mutate spoglie,
Demofoonte ancor, Demofoonte.
L’un di soavi essenze intrisa spugna
onde tergere i denti, e l’altro appresta
ad imbianchir le guance util licore.
275Assai pensasti a te medesmo; or volgi
le tue cure per poco ad altro obbietto
non indegno di te. Sai che compagna,
con cui divider possa il lungo peso
di quest’ inerte vita, il ciel destina
280al giovane signore. Impallidisci?
No, non parlo di nozze: antiquo e vieto
dottor sarei, se cosi folle io dessi
a te consiglio. Di tant’alte doti
tu non orni cosi lo spirto e i membri,
285perché in mezzo a la tua nobil carriera
sospender debbi ’l corso, e fu ora uscendo
di cotesto a ragion detto «bel mondo»,
in tra i severi di famiglia padri
relegato ti giacci, a un nodo avvinto
290di giorno in giorno piú penoso, e fatto
stallone ignobil de la razza umana.
D’altra parte, il marito ahi quanto spiace,
e lo stomaco move ai dilicati
del vostr’orbe leggiadro abitatori,
295qualor de’ semplicetti avoli nostri
portar osa in ridicolo trionfo
la rimbambita Fe’, la Pudicizia,
severi nomi ! E qual non suole a forza
in que’ melati seni eccitar bile,
300quando i calcoli vili del castaido,
le vendemmie, i ricolti, i pedagoghi
di que’ si dolci suoi bambini, altrui
gongolando ricorda; e non vergogna
di mischiar cotai fole a peregrini
305subbietti, a nuove del dir forme, a sciolti
da volgar fren concetti, onde s’avviva
da’ begli spirti il vostro amabil globo!
Pera dunque chi a te nozze consiglia.
Ma non però senza compagna andrai,
310che fia giovane dama e d’altrui sposa;
poiché si vuole inviolabil rito
del bel mondo onde tu se’ cittadino.
Tempo giá fu, che il pargoletto Amore
dato era in guardia al suo fratello Imene;
315poiché la madre lor temea che il cieco
incauto nume perigliando gisse
misero e solo per oblique vie,
e che, bersaglio agl’indiscreti colpi
di senza guida e senza freno arciero,
320troppo immaturo al fin corresse il seme
uman, ch’è nato a dominar la terra.
Perciò la prole mal secura all’altra
in cura dato avea, si lor dicendo:
— Ite, o figli, del par; tu, piú possente,
325il dardo scocca; e tu, piú cauto, il guida
a certa meta. — Cosi ognor compagna
iva la dolce coppia, e in un sol regno
e d’un nodo comun l’aline stringea.
Allora fu che il sol mai sempre uniti
330vedea un pastore ed una pastorella
starsi al prato, a la selva, al colle, al fonte;
e la suora di lui vedeali poi
uniti ancor nel talamo beato,
ch’ambo gli amici numi a piene mani
335gareggiando spargean di gigli e rose.
Ma che non puote anco in divino petto,
se mai s’accende, ambizion di regno ?
Crebber l’ali ad Amore a poco a poco,
e la forza con esse; ed è la forza
340unica e sola del regnar maestra.
Perciò a poc’aere prima, indi piú ardito
a vie maggior fidossi, e fiero alfine
entrò nell’alto, e il grande arco crollando
e il capo, risonar fece a quel moto
345il duro acciar che la faretra a tergo
gli empie, e gridò: — Solo regnar vcgl’io! —
Disse, e vólto a la madre: — Amore adunque,
il piú possente infra gli dèi, il primo
di Citerea figliuo), ricever leggi,
350e dal minor german ricever leggi,
vile alunno, anzi servo? Or dunque Amore
non oserá fuor ch’una unica volta
ferire un’alma, come questo schifo
da me vorrebbe? E non potrò giammai,
355dappoi ch’io strinsi un laccio, anco slegarlo
a mio talento, e, qualor panni, un altro
stringerne ancora? E lascerò pur ch’egli
di suoi unguenti impeci a me i miei dardi,
perché men velenosi e men crudeli
360scendano ai petti? Or via, perché non togli
a me da le mie man quest’arco, e queste
armi da le mie spalle, e ignudo lasci,
quasi rifiuto degli dèi, Cupido?
Oh il bel viver che fia qualor tu solo
365regni in mio loco! Oh il bel vederti, lasso!
Studiarti a tórre dalle languid’alme
la stanchezza e ’l fastidio, e spander gelo
di foco in vece! Or, genitrice, intendi:
vaglio, e vo’ regnar solo. A tuo piacere
370tra noi parti l’impero, ond’io con teco
abbia omai pace, e in compagnia d’Imene
me non trovin mai piú le umane genti. —
Qui tacque Amore, e, minaccioso in atto,
parve all’idalia dea chieder risposta.
375Ella tenta placarlo, e pianti e preghi
sparge, ma invano; onde a’ due figli vòlta,
con questo dir pose al contender fine:
— Poiché nulla tra voi pace esser puote,
si dividano i regni. E perché l’uno
380sia dall’altro germano ognor disgiunto,
sieno tra voi diversi e ’l tempo e l’opra.
Tu, che di strali altero a fren non cedi,
Palme ferisci, e tutto il giorno impera;
e tu, che di fior placidi hai corona,
385le salme accoppia, e coll’ardente face
regna la notte. — Ora di qui, signore,
venne il rito gentil che a’ freddi sposi
le tenebre concede e de le spose
le caste membra; e a voi, beata gente
390di piú nobile mondo, il cor di queste
e il dominio del di largo destina.
Fors’anco un di piú liberal confine
vostri diritti avran, se Amor piú forte
qualche provincia al suo germano usurpa:
395cosi giova sperar. Tu volgi intanto
a’ miei versi l’orecchio, et odi or quale
cura al mattin tu debbi aver di lei
che, spontanea o pregata, a te donossi
per tua dama quel di lieto che a fida
400carta, non senza testimoni, fúro
a vicenda commessi i patti santi
e le condizion del caro nodo.
Giá la dama gentil, de’ cui bei lacci
godi avvinto sembrar, le chiare luci
405col novo giorno aperse; e suo primiero
pensier fu dove teco abbia piuttosto
a vegliar questa sera; e consultonne
contegnosa lo sposo, il qual pur dianzi
fu la mano a baciarle in stanza ammesso.
410Or dunque è tempo che il piú fido servo
e il piú accorto tra i tuoi mandi al palagio
di lei, chiedendo se tranquilli sonni
dormio la notte, e se d’imagin liete
le fu Mòrfeo cortese. È ver che ieri
415sera tu l’ammirasti in viso tinta
di freschissime rose, e piú che mai
vivace e lieta uscio teco del cocchio,
e la vigile tua mano per vezzo
ricusò sorridendo, allor che l’ampie
420scale sali del maritale albergo:
ma ciò non basti ad acquetarti, e mai
non obliar si giusti ufici. Ahi quanti
geni malvagi tra ’l notturno orrore
godono uscire, ed empier di perigli
425la placida quiete de’ mortali!
Potria, tolgalo il cielo, il picciol cane
con latrati improvvisi i cari sogni
troncare a la tua dama; ond’ella, scossa
da subito capriccio, a rannicchiarsi
430astretta fosse, di sudor gelato
e la fronte bagnando e il guancial molle.
Anco potria colui che si de’ tristi
come de’ lieti sogni è genitore,
crearle in mente, di diverse idee
435in un congiunte, orribile chimera,
onde agitata in ansioso affanno
gridar tentasse, e non però potesse
aprire ai gridi tra le fauci il varco.
Sovente ancor ne la trascorsa sera
440la perduta tra ’l gioco aurea moneta,
non men che al cavalier, suole a la dama
unga vigilia cagionar; talora
nobile invidia de la bella amica
vagheggiata da molti, e talor breve
445gelosia n’è cagione. A questo aggiugni
gl’importuni mariti, i quali, in mente
ravvolgendosi ancor le viete usanze,
poi che cessero ad altri il giorno (quasi
abbian fatto gran cosa), aman d’imene
450con superstizion serbare i dritti,
e dell’ombre notturne esser tiranni,
non senz’affanno de le caste spose,
ch’ indi preveggon tra pochi anni il fiore
della fresca beltade a sé rapirsi.
455Or dunque, ammaestrato a quali e quanti
miseri casi espor soglia il notturno
orror le dame, tu non esser lento,
signore, a chieder de la tua novelle.
Mentre che il fido inessaggier si attende,
460magnanimo signor, tu non starai
ozioso però. Nel dolce campo
pur in questo momento il buon cultore
suda, e incallisce al vomere la mano,
lieto che i suoi sudor ti fruttili poi
465dorati cocchi e peregrine mense.
Ora per te l’industre artier sta fiso
allo scarpello, all’asce, al subbio, all’ago;
ed ora a tuo favor contende o veglia
il ministro di Temi. Ecco, te pure
470te la toilette attende: ivi i bei pregi
de la natura accrescerai con l’arte;
ond’oggi, uscendo, del beante aspetto
beneficar potrai le genti, e grato
ricompensar di sue fatiche il mondo.
475Ma giá tre volte e quattro il mio signore
velocemente il gabinetto scórse
col crin disciolto e su gli omeri sparso,
quale a Cuma solea l’orribil maga,
quando, agitata dal possente nume,
480vaticinar s’udia. Cosi dal capo
evaporar lasciò degli oli sparsi
il nocivo fermento e de le polvi
che roder gli potrien la molle cute,
o d’atroce emicrania a lui le tempia
485trafigger anco. Or egli, avvolto in lino
candido, siede. Avanti a lui lo specchio
altero sembra di raccór nel seno
l’imagin diva: e stassi agli occhi suoi
severo esplorator de la tua mano,
490o di bel crin volubile architetto.
Mille d’intorno a lui volano odori,
che a le varie manteche ama rapire
l’auretta dolce, intorno ai vasi ugnendo
le leggerissim’ale di farfalla.
495Tu chiedi in prima a lui qual piú gli aggrada
sparger sul crin, se il gelsomino, o il biondo
fior d’arancio piuttosto, o la giunchiglia,
o l’ambra preziosa agli avi nostri.
Ma se la sposa altrui, cara al signore,
500del talamo nuzial si duole, e scosse
pur or da lungo peso il molle lombo,
ah! fuggi allor tutti gli odori, ah! fuggi:
ché micidial potresti a un sol momento
tre vite insidiar: semplici sieno
505i tuoi balsami allor, né oprarli ardisci
pria che su lor deciso abbian le nari
del mio signore e tuo. Pon’ mano poscia
al pettin liscio, e coll’ottuso dente
lieve solca i capegli; indi li turba
510col pettine e scompiglia: orditi leggiadro
abbiano alfin da la tua mente industre.
Io breve a te parlai; ma nonpertanto
lunga fia l’opra tua, né al termiti giunta
prima sará, che da piú strani eventi
515turbisi e tronchi a la tua impresa il filo.
Fisa i lumi allo speglio, e vedrai quivi
non di rado il signor morder le labbra
impaziente, ed arrossir nel viso.
Sovente ancor, se artificiosa meno
520fui la tua destra, del convulso piede
udrai lo scalpitar breve e frequente,
non senza un tronco articolar di voce
che condanni e minacci. Anco t’aspetta
veder talvolta il mio signor gentile
525furiando agitarsi, e destra e manca
porsi nel crine, e scompigliar con l’ugna
lo studio di molt’ore in un momento.
Che piú? Se per tuo male un di vaghezza
d’accordar ti prendesse al suo sembiante
530l’edifício del capo, ed obliassi
di prender legge da colui che giunse
pur ier di Francia, ahi quale atroce folgore,
meschino! allor ti penderla sul capo?
Ché il tuo signor vedresti ergers’in piedi,
535e versando per gli occhi ira e dispetto,
mille strazi imprecarti ; e scender fino
ad usurpar le infami voci al vulgo,
per farti onta maggiore; e di bastone
il tergo minacciarti; e violento
540rovesciare ogni cosa, al suol spargendo
rotti cristalli e calamistri e vasi
e pettini ad un tempo. In cotal guisa
se del tonante all’ara o della dea
che ricovrò dal Nilo il turpe phallo,
545tauro spezzava i raddoppiati nodi
e libero fuggia, vedeansi al suolo
vibrar tripodi, tazze, bende, scuri,
litui, coltelli, e d’orridi muggiti
commosse rimbombar le arcate volte,
550e d’ogni lato astanti e sacerdoti
pallidi all’urto e all’ impeto involarsi
del feroce animai, che pria si queto
giá di fior cinto, e sotto a la man sacra
umiliava le dorate corna.
555Tu nonpertanto coraggioso e forte
soffri, e ti serba a la miglior fortuna.
Quasi foco di paglia è il foco d’ira
in nobil cor. Tosto il signor vedrai
mansuefatto a te chieder perdono,
560e sollevarti oltr’ogni altro mortale
con prieghi e scuse a niun altro concesse;
onde securo sacerdote allora
l’immolerai qual vittima a Filauzio,
sommo nume de’ grandi, e pria d’ogn’altro
565larga otterrai del tuo lavor mercede.
Or, signore, a te riedo. Ah non sia colpa
dinanzi a te, s’io travviai col verso,
breve parlando ad un mortai cui degni
tu degli arcani tuoi. Sai che a sua voglia
570questi ogni di volge e governa i capi
de’ piú felici spirti; e le matrone,
che da’ sublimi cocchi alto disdegnano
volgere il guardo a la pedestre turba,
non disdegnan sovente entrar con lui
575in festevoli motti, allor ch’esposti
a la sua man sono i ridenti avori
del bel collo e del crin l’aureo volume.
Perciò accogli, ti prego, i versi miei
tuttor benigno; et odi or come possi
580l’ore a te render graziose, mentre
dal pettin creator tua chioma acquista
leggiadra o almen non piú veduta forma.
Picciol libro elegante a te dinanzi
tra gli arnesi vedrai, che l’arte aduna
585per disputare a la natura il vanto
del renderti si caro agli occhi altrui.
Ei ti lusingherá forse con liscia,
purpurea pelle, onde fornito avrallo
o mauritano conciatore o siro;
590e d’oro fregi dilicati e vago
mutabile color che il collo imiti
de la colomba, v’avrá posto intorno
squisito legator batavo o franco.
Ora il libro gentil con lenta mano
595togli: e non senza sbadigliare un poco,
aprilo a caso, o pur lá dove il parta
tra una pagina e l’altra indice nastro.
O de la Francia Proteo multiforme,
Voltaire, troppo biasmato, e troppo a torto
600lodato ancor, che sai con novi modi
imbandir ne’ tuoi scritti eterno cibo
ai semplici palati, e se’ maestro
di coloro che mostrano di sapere;
tu appresta al mio signor leggiadri studi
605con quella tua fanciulla agli angli infesta,
che il grande Enrico tuo vince d’assai,
l’Enrico tuo, che non peranco abbatte
l’italian Goffredo, ardito scoglio
contro a la Senna d’ogni vanto altera.
610Tu de la Francia onor, tu in mille scritti
celebrata, Ninon, novella Aspasia,
’faide novella ai facili sapienti
della gallica Atene, i tuoi precetti
pur dona al mio signore; e a lui non meno
615pasci la nobil mente, o tu ch’a Italia,
poi che rapirle i tuoi l’oro e le gemme,
invidiasti il fedo loto ancora
onde macchiato è il Certaldese, e l’altro
per cui va si famoso il pazzo conte.
620Questi, o signore, i tuoi studiati autori
fieno, e mill’altri che guidáro in Francia
a novellar con le vezzose schiave
i bendati sultani, i regi persi,
e le peregrinanti arabe dame;
625o che, con penna liberale, ai cani
ragion donalo e ai barbari sedili,
e dièr feste e conviti e liete scene
ai polli ed a le gru d’amor maestre.
Oh pascol degno d’anima sublime!
630oh chiara, oh nobil mente! A te ben dritto
è che si curvi riverente il vulgo,
e gli oracoli attenda. Or chi fia dunque
si temerario che in suo cor ti beffi
qualor, partendo da si begli studi,
635del tuo paese l’ignoranza accusi,
e tenti aprir col tuo felice raggio
la gotica caligine che annosa
siede su gli occhi a le misere genti?
Cosi non mai ti venga estranea cura
640questi a troncar si preziosi istanti
in cui, non meno de la docil chioma,
coltivi ed orni il penetrante ingegno.
Non pertanto avverrá, che tu sospenda
quindi a pochi momenti i cari studi,
645e che ad altro ti volga. A te quest’ora
condurrá il merciaiuol che in patria or torna,
pronto inventor di lusinghiere fole,
e liberal di forestieri nomi
a merci che non mai varcáro i monti.
650Tu a lui credi ogni detto: e chi vuoi ch’osi
unqua mentire ad un tuo pari in faccia?
Ei fia che venda, se a te piace, o cambi
mille fregi e gioielli a cui la moda
di viver concedette un giorno intero
655tra le folte d’inezie illustri tasche.
Poi lieto se n’andrá, con l’una mano
pesante di molt’oro; e in cor gioiendo,
spregerá le bestemmie imprecataci
e il gittato lavoro e i vani passi
660del calzolar diserto e del drappiere;
e dirá lor: — Ben degna pena avete,
o troppo ancor religiosi servi
de la Necessitade, antiqua, è vero,
madre e donna dell’arti, or nondimeno
605fatta cenciosa e vile. Al suo possente
amabil vincitor v’era assai meglio,
o miseri, ubbidire. Il Lusso, il Lusso
oggi sol puote dal ferace corno
versar su Parti a lui vassalle applausi
670e non contesi mai premi e dovizie. —
L’ora fia questa ancor che a te conduca
il dilicato miniator di belle,
ch’è de la corte d’Amatunta e Pafo
675stipendiato ministro, atto a gli affari
sollecitar dell’amorosa dea.
Impaziente or tu l’affretta e sprona,
perché a te porga il desiato avorio
che de le amate forme impresso ride;
680o che il pennel cortese ivi dispieghi
Palme sembianze del tuo viso, ond’abbia
tacito pasco, allor che te non vede,
la pudica d’altrui sposa a te cara;
o che di lei medesima al vivo esprima
685l’imagin vaga; o, se ti piace, ancora
d’altra fiamma furtiva a te presenti
con piú largo confin le amiche membra.
Ma poi che al fine a le tue luci esposto
fui il ritratto gentil, tu cauto osserva
690se bene il simulato al ver risponda,
vie piú rigido assai se il tuo sembiante
esprimer denno i colorati punti
che l’arte ivi dispose. Oh quante mende
scorger tu vi saprai! Or brune troppo
695a te parran le guance; or fia ch’ecceda
mal frenata la bocca; or qual conviensi
al camuso etiòpe il naso fia.
Ti giovi ancora d’accusar sovente
il dipintor che non atteggi industre
700l’agili membra e il dignitoso busto,
o che con poca legge a la tua imago
dia contorno o la posi o la panneggi.
È ver, che tu del grande di Crotone
non conosci la scuola, e mai tua mano
705non abbassossi a la volgar matita,
che fu nell’altra etá cara a’ tuoi pari,
cui sconosciute ancora eran piú dolci
e piú nobili cure, a te serbate.
Ma che non puote quel d’ogni precetto
gusto trionfator, che all’ordin vostro
710in vece di maestro il ciel concesse,
et onde a voi coniò le altere menti,
acciò che possan de’ volgari ingegni
oltrepassar la paludosa nebbia,
e d’aere piú puro abitatrici,
715non fallibili scórre il vero e il bello?
Perciò qual piú ti par loda, riprendi,
non men fermo d’allor che a scranna siedi
Rafael giudicando, o l’altro eguale
che del gran nome suo l’Adige onora;
720e alle tavole ignote i noti nomi
grave comparti di color che primi
fúr tra’ pittori. Ah ! s’altri è si procace
ch’osi rider di te, costui paventi
l’augusta maestá del tuo cospetto:
725si volga a la parete; e mentr’ei cerca
por freno in van, col morder de le labbra,
allo scrosciar de le importune risa
che scoppiali da’ precordi, violenta
convulsione a lui deformi il volto.
730e lo affoghi aspra tosse; e lo punisca
di sua temeritá. Ma tu non pensa
ch’altri ardisca di te rider giammai;
e mai sempre imperterrito decidi.
Or l’immagin compiuta intanto serba,
735perché in nobile arnese un di si chiuda
con opposto cristallo, ove tu facci
sovente paragon di tua beltade
con la beltá de la tua dama, o agli occhi
degl’invidi la tolga e in sen l’asconda
740sagace tabacchiera, o a te riluca
sul minor dito fra le gemme e l’oro;
o de le grazie del tuo viso désti
soavi rimembranze al braccio avvolta
de la pudica altrui sposa a te cara.
745Ma giunta è al fin del dotto pettin l’opra.
Giá il maestro elegante intorno spande
da la man scossa un polveroso nembo,
onde a te innanzi tempo il crine imbianchi.
D’orribil piato risonar s’udio
750giá la corte d’Amore. 1 tardi vegli
grinzuti osar coi giovani nipoti
contendere di grado in faccia al soglio
del comune signor. Rise la fresca
gioventude animosa, e d’agri motti
755libera punse la senil baldanza.
Gran tumulto nascea; se non che Amore,
ch’ogni diseguaglianza odia in sua corte,
a spegner mosse i perigliosi sdegni:
e a quei che militando incanutirò,
760suoi servi, impose d’imitar con arte
i duo bei fior che in giovenile gota
educa e nutre di sua man natura:
indi fe’ cenno: e in un balen fur visti
mille alati ministri alto volando
765scoter le piume, e lieve indi fiocconne
candida polve che a posar poi venne
su le giovani chiome; e in bianco volse
il biondo, il nero e l’odiato rosso.
L’occhio cosi nell’amorosa reggia
770piú non distinse le due opposte etadi,
e solo vi restò giudice il tatto.
Or tu adunque, o signor, tu che se’ il primo
fregio ed onor dell’amoroso regno,
i sacri usi ne serba. Ecco che sparsa
775pria da provvida man, la bianca polve
in piccolo stanzin con l’aere pugna,
e degli atomi suoi tutto riempie
egualmente divisa. Or ti fa’ core,
e in seno a quella vorticosa nebbia
780animoso ti avventa. Oh bravo! oh forte!
Tale il grand’avo tuo tra ’l fumo e ’l foco
orribile di Marte, furiando
gittossi allor che i palpitanti lari
de la patria difese, e ruppe e in fuga
785mise l’oste feroce. Ei non pertanto,
fuliginoso il volto e d’atro sangue
asperso e di sudore, e co’ capegli
stracciati ed irti, da la mischia uscio,
spettacol fero a’ cittadini istessi
790per sua man salvi; ove tu, assai piú dolce
e leggiadro a vedersi, in bianca spoglia
uscirai quindi a poco a bear gli occhi
de la cara tua patria, a cui dell’avo
il forte braccio e il viso almo, celeste
795del nipote dovean portar salute.
Ella ti attende impaziente, e mille
anni le sembra il tuo tardar poc’ore.
È tempo omai che i tuoi valletti al dorso
con lieve man ti adattino le vesti
800cui la Moda e ’l Buongusto in su la Senna
t’abbian tessute a gara, e qui cucite
abbia ricco sartor, che in su lo scudo
mostri intrecciato a forbici eleganti
il titolo di Monsieur. Non sol dia leggi
805a la materia la stagion diverse;
ma sien, qual si conviene al giorno e all’ora,
sempre vari il lavoro e la ricchezza.
Fero genio di Marte, a guardar posto
de la stirpe de’ numi il caro fianco,
810tu al mio giovane eroe la spada or cingi;
lieve e corta non giá, ma, qual richiede
la stagion bellicosa, al suol cadente,
e di triplice taglio armata e d’elsa
immane. Quanto esser può mai sublime
815l’annoda pure, onde l’impugni all’uopo
la furibonda destra in un momento:
né disdegnar con le sanguigne dita
di ripulire et ordinar quel nodo
onde l’elsa è superba: industre studio
820è di candida mano; al mio signore
dianzi donollo, e gliel appese al brando,
la pudica d’altrui sposa a lui cara.
Tal del famoso Arti! vide la corte
le infiammate d’amor donzelle ardite
825ornar di piume e di purpuree fasce
i fatati guerrieri, onde piú ardenti
gisser poi questi ad incontrar periglio
in selve orrende tra i giganti e i mostri.
Figlie de la Memoria, inclite suore,
830che invocate scendeste, e i feri nomi
de le squadre diverse e de gli eroi
annoveraste ai grandi che cantaro
Achille, Enea, e il non minor Buglione,
or m’è d’uopo di voi: tropp’ardua impresa,
835e insuperabil senza vostr’aita,
fia ricordare al mio signor di quanti
leggiadri arnesi graverá sue vesti
pria che di sé medestno esca a far pompa.
Ma qual tra tanti e si leggiadri arnesi
840si felice sará, che pria d’ogn’altro,
signor, venga a formar tua nobil soma?
Tutti importan del par. Veggo l’astuccio,
di pelle rilucente ornato e d’oro,
sdegnar la turba, e gli occhi tuoi primiero
845occupar di sua mole: esso a mill’uopi
opportuno si vanta, e in grembo a lui,
atta agli orecchi, ai denti, ai peli, all’ugne,
vien forbita famiglia. A lui contende
i primi onori d’odorifer’onda
850colmo cristal, che a la tua vita in forse
rechi soccorso, allor che il vulgo ardisce
troppo accosto vibrar da la vii salma
fastidiosi effluvi a le tue nari.
Né men pronto di quello all’uopo istesso,
8551’ imitante un cuscin purpureo drappo
mostra turbido il sen d’erbe odorate,
che l’aprica montagna in tuo favore
al possente meriggio educa e scalda.
Seco vien pur di cristallina rupe
860prezioso vasello, onde traluce
non volgare confetto, ove agli aromi
stimolanti s’unio l’ambra o la terra
che il Giappon manda a profumar de’ grandi
l’etereo fiato; o quel che il caramano
865fa gemer latte dall’ inciso capo
de’ papaveri suoi, perché, qualora
non ben felice amor l’alma t’attrista,
lene serpendo per le membra, acqueti
a te gli spirti, e ne la mente induca
870lieta stupiditá, che mille aduni
imagin dolci e al tuo desio conformi.
A questi arnesi il cannocchiale aggiugni
e la guernita d’oro anglica lente.
Quel notturno favor ti presti allora
875che in teatro t’assidi, e t’avvicini
gli snelli piedi e le canore labbra
da la scena rimota, o con maligno
occhio ricerchi di qualch’alta loggia
le abitate tenèbre, o miri altrove
880gli ognor nascenti e moribondi amori
de le tenere dame, onde s’appresti
per l’eloquenza tua nel di vicino
lunga e grave materia. A te la lente
nel giorno assista, e de gli sguardi tuoi
885economa presieda, e si li parta,
che il mirato da te vada superbo,
né i malvisti accusarti osin giammai.
La lente ancora, all’occhio tuo vicina,
irrefragabil giudice condanni
890o approvi di Palladio i muri e gli archi,
o di Tizian le tele: essa a le vesti,
ai libri, ai volti femini 1 i applauda
severa, o li dispregi. R chi del senso
comun si privo fia, che opporsi unquanco
895osi al sentenziar de la tua lente?
Non per questi però sdegna, o signore,
giunto a lo specchio, in gallico sermone
il vezzoso giornal; non le notate
eburnee tavolette, a guardar preste
900tuoi sublimi pensier, fin ch’abbian luce
doman tra i begli spirti; e non isdegna
la picciola guaina ove a’ tuoi cenni
mille stan pronti ognora argentei spilli.
Oh quante volte a cavalier sagace
905ho vedut’ io le man render beate
uno apprestato a tempo unico spillo!
Ma dove, ahi! dove inonorato e solo
lasci ’1 coltello, a cui l’oro e l’acciaro
donar gemina lama, e a cui la madre
910de la gemma piú bella d’Anfitrite
diè manico elegante, ove il colore
con dolce variar l’iride imita?
Opra sol fia di lui, se ne’ superbi
convivi ogni altro avanzerai per fama
915d’esimio trinciatore, e se l’invidia
de’ tuoi gran pari ecciterai, qualora,
pollo o fagian, con la forcina in alto
sospeso, a un colpo il priverai dell’anca
mirabilmente. Or ti ricolmi alfine
920d’ambo i lati la giubba, ed oleosa
Spagna e rapè, cui semplice origliela
chiuda, o a molti colori oro dipinto;
e cupide ad ornar tue bianche dita
salgan le anella, infra le quali, assai
925piú caro a te dell’adamante istesso,
cerchietto inciso d’amorosi motti
stringati alquanto, e sovvenir ti faccia
de la pudica altrui sposa a te cara.
Compiuto è il gran lavoro. Odi, o signore.
930sonar giá intorno la ferrata zampa
de’ superbi corsier, che irrequieti
ne’ grand’atri sospigne, arretra e volge
la disciplina dell’ardito auriga.
Sorgi, e t’appresta a render baldi e lieti
935del tuo nobile incarco i bruti ancora.
Ma a possente signor scender non lice
da le stanze superne infin che al gelo
o al meriggio non abbia il cocchier stanco
durato un pezzo, onde l’uom servo intenda
940per quanto immensa via natura il parta
dal suo signore. I miei precetti intanto
io seguirò; che varie al tuo mattino
portar dee cure il variar dei giorni.
Tal di ti aspetta d’eloquenti fogli
945serie a vergar, che al Rodano, al Remano,
all’Amstel, al Tirreno, all’Adria legga
il libraio che Momo e Citerea
colmar di beni, o il piú di lui possente
appaltator di forestiere scene,
950con cui, per opra tua, facil donzella
sua virtú merchi, e non sperato ottenga
guiderdone al suo canto. Oh di grand’alma
primo fregio ed onor, Beneficenza,
che al merto porgi ed a virtú la mano !
955Tu il ricco e il grande sopra il vulgo innalzi
ed al concilio degli dèi lo aggiugni.
Tal giorno ancora, o d’ogni giorno forse
dèn qualch’ore serbarsi al molle ferro
che il pelo a te, rigermogliante a pena,
960d’in sulla guancia miete, e par che invidi
ch’altri fuor che lui solo esplori o scopra
unqua il tuo sesso. Arroge a questi il giorno
die di lavacro universal convienti
bagnar le membra, per tua propria mano,
965o per altrui, con odorose spugne
trascorrendo la cute. E ver che allora
d’esser mortai ti sembrerá; ma innalza
tu allor la mente, e de’ grand’avi tuoi
le imprese ti rimembra e gli ozi illustri,
970che infino a te per secoli cotanti
misti scesero al chiaro altero sangue,
e l’ubbioso pensier vedrai fuggirsi
lunge da te per l’aere rapito
sull’ale de la Gloria alto volanti:
975et indi a poco sorgerai, qual prima
gran semideo che a sé solo somiglia.
Fama è cosi, che il di quinto le Fate
loro salma immortai vedean coprirsi
giá d’orribil scaglie, e in feda serpe
980vòlta strisciar sul suolo, a sé facendo
de le inarcate spire impeto e forza;
ma il primo sol le rivedea piú belle
far beati gli amanti, e a un volger d’occhi
mescere a voglia lor la terra e il mare.
985Fia d’uopo ancor, che da le lunghe cure
t’allevi alquanto, e con pietosa mano
il teso per gran tempo arco rallenti.
Signore, al ciel non è piu cara cosa
di tua salute; e troppo a noi mortali
990è il viver de’ tuoi pari util tesoro.
Tu adunque, allor che placida mattina
vestita riderá d’un bel sereno,
esci pedestre, e le abbattute membra
all’aura salutar snoda e rinfranca.
995Di nobil cuoio a te la gamba calzi
purpureo stivaletto, onde il tuo piede
non macchino giammai la polve e ’l limo
che l’uom calpesta. A te s’avvolga intorno
leggiadra veste, che sul dorso sciolta
1000vada ondeggiando, e tue formose braccia
leghi in manica angusta, a cui vermiglio
o cilestro velluto orni gli estremi.
Del bel color che l’elitropio tigne,
sottilissima benda indi ti fasci
1005la snella gola; e il crin... Ma il crin, signore,
forma non abbia ancor de la man dotta
dell’artefice suo; ché troppo fòra,
ahi! troppo grave error lasciar tant’opra
de le licenziose aure in balia,
1010Non senz’arte però vada negletto
su gli omeri a cader; ma, o che natura
a te il nodrisca, o che da ignota fronte
il piú famoso parrucchier lo tolga,
e l’adatti al tuo capo, in sul tuo capo
1015ripiegato l’afferri e lo sospenda
con testugginei denti il pettin curvo.
Poi che in tal guisa te medesmo ornato
con artificio negligente avrai,
esci pedestre a respirar talvolta
1020l’aere mattutino; e ad alta canna
appoggiando la man, quasi baleno
le vie trascorri, e premi ed urta il vulgo
che s’oppone al tuo corso. In altra guisa
fòra colpa l’uscir, però che andriéno
1025mal distinti dal vulgo i primi eroi.
Ciò ti basti per or. Giá l’oriolo
a girtene ti affretta. Ohimè! che vago
arsenal minutissimo di cose
ciondola quindi, e ripercosso insieme
1030molce con soavissimo tintinno!
Di costi che non pende? avvi per fino
piccioli cocchi e piccioli destrieri,
finti in oro cosi, che sembran vivi.
Ma v’hai tu il meglio? ah si, ché i miei precetti
1035sagace prevenisti: ecco che splende,
chiuso in picciol cristallo, il dolce pegno
di fortunato amor. Lunge, o profani,
ché a voi tant’oltre penetrar non lice.
E voi, dell’altro secolo feroci
1040ed ispid’avi, i vostri almi nipoti
venite oggi a mirar. Co’ sanguinosi
pugnali a lato, le campestri ròcche
voi godeste abitar, truci all’aspetto
e per gran baffi rigidi la guancia,
1045consultando gli sgherri, e sol gioiendo
di trattar l’arme che d’orribil palla
givan notturne a traforar le porte
del non meno di voi rivale armato.
Ma i vostri almi nipoti oggi si stanno
1050ad agitar fra le tranquille dita
dell’oriolo i ciondoli vezzosi;
ed opra è lor, se all’innocenza antica
torna pur anco, e bamboleggia, il mondo.
Or vanne, o mio signore, e il pranzo allegra
1055da la tua dama: a lei dolce ministro
dispensa i cibi, e détta al suo palato
e alla sua fame inviolabil legge.
Ma tu non obliar, che in nulla cosa
esser mediocre a gran signor non lice.
1060Abbia il popol confini; a voi natura
donò senza confini e mente e cuore.
Dunque a la mensa o tu schifo rifuggi
ogni vivanda, e te medesmo rendi
per inedia famoso, o nome acquista
1065d’illustre voratore. Intanto addio,
degli uomini delizia, e di tua stirpe
e de la patria tua gloria e sostegno.
Ecco che umili in bipartita schiera
t’accolgono i tuoi servi: altri giá pronto
1070via se ne corre ad annunciare al mondo
che tu vieni a bearlo; altri a le braccia
timido ti sostien, mentre il dorato
cocchio tu sali, e tacito e severo
sur un canto ti sdrai. Apriti, o vulgo,
1075e cedi il passo al trono ove s’asside
il mio signore. Ahi te meschin, s’ei perde
un sol per te de’ preziosi istanti !
Temi ’l non mai da legge o verga o fune
domabile cocchier; temi le rote
1080che giá piú volte le tue membra in giro
avvolser seco, e del tuo impuro sangue
corser macchiate, e il suol di lunga striscia,
spettacol miserabile! segnâro.