Problemi della scienza/Capitolo II

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Capitolo II - Fatti e teorie

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capitolo ii.


FATTI E TEORIE




§ 1. Sogno e realtà.

Fra le novelle arabe che la tradizione ci ha tramandate sotto il titolo di «Mille e una notte», ci sovviene di quella ove si racconta la bizzarra avventura occorsa ad un «dormiente svegliato».

Per ordine del califfo di Bagdad, Abou Hassan, addormentato con un narcotico, viene trasportato nel palazzo e messo al posto del suo sovrano, che si diverte a fargli credere di essere il califfo.

Il pover’uomo si sveglia in mezzo ad una gran camera, magnifica per ricchezza di addobbo, avendo intorno a sè una corona di dame che tengono nelle mani strumenti di musica, pronte a suonare, e d’eunuchi neri sfarzosamente vestiti, tutti in piedi, atteggiati ad un profondo rispetto. Gettando gli occhi sulla coperta, si accorge che è di broccato d’oro a fondo rosso, ornata di perle e di diamanti; presso al letto gli appare un abito della medesima stoffa pure scintillante di gemme, e sopra un cuscino, accanto a lui, un berretto di califfo.

Ad una tal vista Abou Hassan rimane estremamente confuso. «Eccomi califfo», dice a se stesso; però subito correggendosi «non debbo ingannarmi, io sogno». Ma, come richiude gli occhi per dormire, gli eunuchi gli rivolgono rispettosamente la parola, chiamandolo col nome del sovrano «capo dei credenti».

Sorpreso delle parole che ascolta, e dolcemente cullato dalla visione a cui esse lo richiamano, si sente pur tormentato dal dubbio. «È mai possibile che non riesca a distinguere se sogno o se posseggo ancora il mio buon senso?» Quindi, fatto cenno ad una dama di avvicinarsi «Tenete, le dice porgendole la mano, mordetemi il dito, ch’io senta se dormo o se sono sveglio». E poichè la dama, obbediente all’ordine ricevuto, gli serra leggermente fra i denti l’estremità del dito ch’egli ha messo innanzi, Abou Hassan, ritirando subitamente la mano, esclama «sono proprio sveglio....». [p. 48 modifica]

C’è in fondo a questa pittura un vero spirito filosofico. Poichè noi vediamo nel procedere di Abou Hassan, il modo che generalmente viene tenuto da ogni uomo, il quale voglia chiarirsi intorno ad un’impressione qualunque, se abbia ragione di dubitare che essa corrisponda veramente a qualcosa di reale.

In casi analoghi, sia risvegliandosi dopo un sogno, sia quando l’apparire di alcunchè di strano, turbi il corso regolare delle nostre aspettazioni, noi cerchiamo di uscire da quello stato di passività dello spirito nel quale si cullano tutte le illusioni, sforzandoci di provocare volontariamente una sensazione nuova, preventivamente nota. Giudichiamo infine da questa, constatando il suo accordo coll’attesa anteriore.


§ 2. Illusioni dei sensi.

Alcuni esempii mettono in luce come all’osservazione precedente spetti un alto grado di generalità.

Una bambina di un anno, già si compiace a guardarsi nello specchio. Io mi diverto talvolta a farla passare al di dietro di questo; eccola fiduciosa di vedere, e pronta a ghermire colle mani, l’immagine che le appariva testè. Poichè non vi è più niente, essa rimane interdetta.

Allora vuol ripetere l’esperienza; ancora una volta, sebbene un po’ inquieta, si avanza a ghermire la sua immagine. Ma bisogna ricominciare di nuovo, poichè, man mano che la sua inquietudine diminuisce, essa prende al giuoco un piacere più grande.

Infine vedendo che, nelle medesime condizioni, il medesimo fatto si riproduce sempre lo stesso, finisce per ridere dell’inganno a cui non presta più fede.


I viaggiatori che marciano nelle lande sterminate del deserto sabbioso, sotto un sole cocente, apprendono a loro spese, in un modo del tutto analogo, che cosa sono i miraggi.

Per un effetto di refrazione, che Monge riconobbe dipendere dallo stato estremamente rarefatto degli strati inferiori dell’atmosfera, si vedono talvolta distinte le immagini diritte e capovolte degli oggetti posti all’orizzonte. Così agli assetati viaggiatori il terreno sembra terminato da un’inondazione generale, ogni monticello di sabbia rispecchiandosi nella sua immagine, come fosse circondato da acqua. Ma quando, affrettata la marcia, i miseri giungono sul posto ove la visione lusinghiera li chiama come una dolce promessa, che cosa scoprono essi, se non della terra infuocata e dell’arida sabbia?


Occorrono nell’Ottica varii casi analoghi d’illusione, che, sotto un diverso aspetto, interessano medesimamente il fisico ed il fisiologo. [p. 49 modifica]

In questi casi è sempre facile scoprire l’errore, mediante una prova espressamente preparata, in guisa da dare una risposta decisiva. L’essenziale è di variare le condizioni sotto cui il fenomeno si manifesta, il che si ottiene nel modo più sicuro se, in luogo della vista, si fa intervenire come giudice un altro senso, ad es. il tatto.

Ma si può anche rendersi conto di un’illusione ottica senza uscire dal campo dell’esperienza visiva, come appunto accade negli esempii sopra citati. Basta in ogni caso studiare le condizioni in cui la visione si effettua, e scoprire ciò che deve essere cambiato per eliminare la causa d’errore.

Del resto, non la vista soltanto, ma ciascuno dei sensi può illuderci in determinate circostanze.

L’orecchio ci trae in inganno col fenomeno ben noto dell’eco, che pertanto è facile a scoprire, cambiando opportunamente di posto.

Il tatto stesso, il senso nel quale riponiamo la più cieca fiducia, non è esente da alcune cause d’errore, fortunatamente assai rare. Basti ricordare la semplicissima esperienza che consiste nel toccare i due lati di una pallina colle dita incrociate; si ha la percezione che vi sieno due palline in luogo di una sola.


§ 3. Il criterio della realtà.

L’analisi dei procedimenti che impieghiamo quando si tratta di chiarire la realtà, c’illumina mostrandoci che cosa esiga la nostra credenza in un fatto reale. Essa ci aiuta così a determinare i caratteri del reale, e ci conduce quindi, naturalmente, ad una definizione positiva della realtà.

Appare, in ciascun caso, come non si tratti soltanto di dati di sensazioni passive; non basta vedere, ma occorre vedere ciò che si guardi da un certo posto o in tali o tali altre condizioni volontariamente disposte; non basta udire, ma occorre udire ciò che si ascolti, in tale o tale altro modo secondo ci piaccia, ecc. E bisogna che, secondo un aggruppamento fisso, tutte le sensazioni attese, della vista, dell’udito o del tatto, si producano in un modo preveduto sotto certe ben note circostanze nelle quali ci poniamo. Se ne manca una sola, che appartenga al fatto in modo essenziale, la delusione dell’attesa ci apprende che la nostra credenza al fatto era erronea.

Cioè la nostra credenza a qualcosa di reale, suppone un insieme di sensazioni che invariabilmente susseguano a certe condizioni volontariamente disposte.

E poichè il verificarsi delle condizioni accennate forma oggetto alla sua volta di altre sensazioni, la credenza nel reale suppone in ultima analisi un rapporto associativo fra sensazioni; sia che si tratti di uno di quei rapporti più fissi e familiari che ci figuriamo come un oggetto, sia di uno di quei rapporti (di 2º grado) che pensiamo come una relazione fra oggetti. [p. 50 modifica]

Occorre però tener presente che il concetto di «rapporto associativo fra sensazioni» è più generale di quello che abbiamo in vista di definire; sempre «la rispondenza delle sensazioni all’attesa voluta» costituisce il vero carattere del reale. Onde troviamo qui la definizione positiva della realtà.


Ma questo modo di presentare le cose urta a primo aspetto, non apparendo conforme alla loro ordinaria rappresentazione.

Si concepisce il reale, come qualcosa che sia fuori di noi, indipendentemente da ogni esperienza, e l’accordo fra certe condizioni subiettive e le sensazioni che ne seguono, come una prova della realtà, la quale tuttavia non cesserebbe di esistere di per sè stessa, se pur fosse rotta ogni comunicazione del nostro spirito col mondo esteriore.

Riflettendo però, come possa comprendersi un’esistenza di per se stessa, ci si avvede che l’espressione è vuota di senso, a meno che non si voglia significare l’impotenza della volontà a modificare le sensazioni che riferiamo al reale, senza mutare le condizioni a cui queste si riattaccano.


Abbiamo già avuto occasione di ricordare, come la filosofia moderna sia piena di questa grande controversia che tocca il cosidetto problema della realtà. Il nodo della difficoltà sta nella posizione del problema stesso. Se il reale viene preso in un modo trascendente, attribuendogli un significato di per sè, inteso come assoluto, si cade in un idealismo scettico, facendo sorgere innanzi ai nostri occhi il fantasma dell’inconoscibile. Ma se si respinge codesto significato trascendente, come vuoto di senso, ci si avvicina al fenomenismo di E. Mach, o alla interpretazione dell’idealismo del nostro G. Vailati, vedute in sostanza equivalenti. L’idealismo così interpretato non merita più neppure questo nome, perchè non include alcuna affermazione agnostica; non è una negativa del reale, ma (come dice il Vailati) una definizione di esso.

Tuttavia codesto atteggiamento del pensiero non toglie che il problema della realtà conservi un senso positivo, in quanto si tratti di «distinguere relativamente il reale dal non reale».

Per questo aspetto della questione (che fin dal principio delle nostre speculazioni ci apparve come fondamento necessario di ogni costruzione positiva), il nostro modo di definire il reale si distingue da quello del Mach, poichè il criterio del reale vien posto, non semplicemente nelle «sensazioni», ma nelle «sensazioni associate a certi atti volontarii».

D’altronde l’ufficio della volontà, in contrapposto alle rappresentazioni passive, emerge dalla Metafisica dello Schopenhauer, e sotto diversi aspetti viene riconosciuto nell’indirizzo empirico della filosofia inglese1. [p. 51 modifica]

Codesto riconoscimento ha una base nello studio dei fenomeni dell’attenzione, e segnatamente nei fatti rivelati dalla Psicologia fisiologica, che concernono l’adattamento degli organi di senso e l’ufficio dei nervi motori. Così, p. es., l’Ottica fisiologica ha chiarito quale parte spetti all’accomodamento dell’occhio, e ai movimenti volontarii di questo, nella visione.


§ 4. Il supposto nella realtà.

Cerchiamo di stringere più da vicino la definizione della realtà, e vediamo quindi come si estenda.

Il nostro criterio contempla direttamente la constatazione del reale, nell’atto in cui essa si compie. Tuttavia la credenza in qualcosa che fu percepito come reale, permane nella nostra mente come quella che ci dà un invariante, sia che si tratti di un oggetto materiale o di una relazione fra oggetti. Vi è in ciò la supposizione che, riproducendo le condizioni richieste, si riproducano le sensazioni che trovammo legate ad esse, in modo invariato.

Nel caso più semplice, codesta supposizione equivale a fingere una constatazione permanente che crediamo potere aggiungere alla realtà presente. Vi sono però altre cose reali che pensiamo come aventi un’esistenza nel tempo: p. es., un’azione, un movimento, ecc., che pure si possono riprodurre in condizioni determinate. Anche qui riconosciamo un invariante, ma in un senso più largo.

Ma altre riflessioni ci costringono ad estendere ulteriormente questo concetto della realtà.

Quando si tratta di un fenomeno, che riguardiamo compiuto nel tempo, noi ci poniamo la questione, indipendente dalla sua riproducibilità, se esso fu realmente in un dato momento. La sussistenza storica di un fatto, e l’invarianza di un certo rapporto fra condizioni e sensazioni riconosciuto in esso, appariscono due questioni ben distinte. La differenza è proprio irreducibile?

Sospendiamo il giudizio e volgiamoci ad un’altra riflessione.

Le condizioni di un fatto, non sempre sono riproducibili a volontà; talora s’incontrano per ciò delle difficoltà che vanno fino ad una impossibilità pratica; talora occorre aspettare il verificarsi di circostanze che non dipendono da noi o ne dipendono soltanto in parte. In questi casi la credenza nel fatto non può tradursi ad ogni momento in un’attesa; per dir così il reale non è sempre disponibile. Che valore ha allora il supporre che esso si aggiunga alla realtà presente?

Riflettiamo. I fatti che sono nella realtà presente vengono delimitati volontariamente da noi. Così, p. es., vediamo delle finestre, delle porte, ecc., oppure la facciata di una casa; degli alberi, delle piante, dei viali o un giardino, ecc. Insomma gli elementi associati a comporre più oggetti possono associarsi in un altro ordine di rapporti a formare altri oggetti, od un oggetto [p. 52 modifica]solo. E lo stesso può dirsi in generale delle relazioni fra oggetti. Un piccolo numero di atteggiamenti diversi del nostro pensiero, può svolgersi con quella intensità viva, che appartiene all’intervallo di tempo denotato come «presente»; e, dentro questo intervallo una cosa reale non è isolata, ma può entrare in diversi gruppi associativi. L’esistenza di una cosa reale nel presente, importa appunto la possibilità di codeste associazioni.

Ora la credenza in cose reali non attualmente percepite ha questo valore: permette di stabilire nuovi rapporti associativi fra gli elementi delle nostre percezioni.

Perchè questi rapporti si stabiliscano, non importa neppure che vi sia stata prima una constatazione diretta; in un modo più generale essi possono venire supposti per mezzo di altre associazioni date, ed, in quanto corrispondono a qualcosa che è pensato come invariante, costituiscono ancora per noi un reale (supposto).

Soltanto il modo d’acquisto della conoscenza è diverso nel caso di fatti propriamente supposti, e di fatti che furono percepiti: l’associarsi di certe sensazioni alla rappresentazione di certi atti volontari deriva in questo caso immediatamente da ricordi, in quello ne risulta più o meno mediatamente, attraverso un’operazione intellettuale, che nella sua forma più alta costituisce un ragionamento. Ma, all’infuori del modo d’acquisto, realtà percepita e realtà propriamente supposta significano ugualmente, nel presente e nel futuro, l’attesa di certe sensazioni in condizioni determinate, più o meno dipendenti dalla nostra volontà.

Se è possibile disporre le condizioni richieste, noi andiamo a constatare direttamente le sensazioni che vi si collegano, o a dichiarare il nostro errore, ove l’attesa sia delusa. Ma se ciò non è attualmente possibile, la nostra credenza conserva un valore, sia per riguardo a possibilità future, sia in quanto il fatto supposto implica alla sua volta nuovi rapporti associativi che possono essere constatati, e condurre ad una verifica indiretta di quello.

Si deve considerare la supposizione, nel suo più largo senso, come essenziale per riguardo alla realtà di cui viviamo; un incremento del reale in questo senso si accompagna allo svolgersi della nostra vita di relazione, di cui entrano a far parte nuovi paesi lontani non mai visitati, persone non vedute, relazioni inferite senza verifica diretta.


§ 5. Realtà del passato.

Siamo ora in grado di rispondere alla domanda «in qual senso sia possibile di trovare qualcosa d’invariante nella realtà storica di un fatto passato».

Il ricordo del fatto, se esso fu percepito, conserva già un certo rapporto associativo determinato fra le sensazioni rievocate. Ma, indipendentemente dalla percezione, la realtà o meno del fatto ha un significato che si traduce nella [p. 53 modifica]realtà del presente e del futuro, ed implica (per mezzo di associazioni indirette) certe attese determinate. Sotto questo aspetto diventa possibile di sceverare il reale e il non reale del passato, e di apprezzare l’errore dei ricordi. Un’impressione mendace è cancellata dal nostro mondo (a parte certi riflessi psicologici) ove sia scordata; ma non così un fatto, che annodandosi per via di rapporti col presente, vive ancora, intorno a noi, nelle sue tracce.

In questo senso la realtà storica importa essa pure la credenza in una serie di invarianti, quando essa sia presa in un largo senso come una supposizione, intermediario associativo delle sensazioni attuali e future.


Fin qui abbiamo assunto, anche nella visione del passato, quell’atteggiamento attivo dello spirito, che tiene gli occhi rivolti sul presente e sull’avvenire. Ma non si può disconoscere che un diverso atteggiamento contemplativo del passato, considera in altro modo il decorso delle sensazioni, idee, volizioni. Secondo questa intuizione propriamente storica, i ricordi vengono riavvicinati in guisa da ricostruire nella sua successione temporale la nostra vita psichica e rievocare quindi, in una rappresentazione sintetica, le emozioni che vi sono connesse.

Ora codesta ricostruzione storica interessa il problema del reale, proseguito secondo una intuizione scientifica, in quanto conduce ad analizzare meglio il concetto di sensazioni o volizioni riproducibili.

In tale concetto è implicita la possibilità di confrontare codesti dati elementari del presente e del passato, di riconoscere cioè una sensazione passata in una presente. Ma la ricostruzione anzidetta ci avverte che questo riconoscimento non è un giudizio d’identità; che almeno l’intensità delle sensazioni, e lo stato emotivo connesso, si affievoliscono nei ricordi; che insomma i nostri dati elementari, presi per riguardo ad uno stato di coscienza, posseggono una individualità caratteristica nel tempo.

Sembra che si sia abusato di questa osservazione, in certi recenti indirizzi antiscientifici del pensiero. La sola conseguenza legittima che se ne deduce, è che le sensazioni e volizioni considerate come uguali, possono distinguersi in un ordine più esteso di considerazioni (dica chi vuole, che sono soltanto simili), e che perciò codesti dati entrano a costituire il reale soltanto come elementi astratti, cioè rappresentanti di certi elementi (riconoscibili) che si corrispondono entro gruppi diversi di sensazioni e volizioni effettive.

Ora, se da ciò si vuol trarre che le attese contenute nella conoscenza del reale, e le stesse prove verificatrici, hanno sempre un carattere approssimato, onde al riconoscimento di sensazioni note si aggiunge ogni volta qualcosa di nuovo e si toglie dell’antico, non si dirà veramente nulla di peregrino, nulla di opposto al modo relativo di considerare la conoscenza, che la filosofia positiva ha comune colla gente del volgo. [p. 54 modifica]


§ 6. Realtà psicologica.

Il carattere sui generis del supposto psicologico merita di essere rilevato.

Che cosa significa per me la supposizione delle sensazioni, idee, volizioni, ecc., degli altri? Ed in qual senso posso riconoscere qui qualcosa di reale?

Allorchè si osservano in altri certe espressioni (azioni, ecc.), confrontandole con espressioni simili di un nostro stato di coscienza, oppure cercando di mettersi con questi in una certa consonanza spirituale, in guisa da reagire similmente a stimoli simili, nasce in noi una particolare sensazione o rappresentazione delle sensazioni, idee, volizioni, ecc. altrui, che viene così associata alle condizioni d’osservazione suddette. Tale coordinamento associativo costituisce una supposizione intermediaria, a cui si legano certe attese relative alle azioni degli uomini, e alle loro diverse espressioni in particolari circostanze.

Ma la credenza di cui si tratta, implica qualcosa di più che questo rapporto puramente esterno; vi si aggiungono taluni elementi che distinguono il supposto psicologico da altri oggetti supposti, cioè:

1) un valore emotivo proprio della «sensazione» di uno stato di coscienza altrui, sia, p. es., quello che si accompagna alla sensazione dell’altrui dolore, ecc.;
2) una determinazione o limitazione che ne risulta per la nostra volontà, paragonabile a quella che proviene dall’impotenza di modificare le sensazioni date dalla realtà fisica (§ 3), ma di genere diverso.

Per questi caratteri appunto la credenza psicologica si ravvicina al tipo già considerato della credenza nel reale; per l’ultimo soprattutto, la realtà di qualcosa di psicologico in sè, assume un significato proprio: le sensazioni, le idee, le volizioni altrui importano una modificazione della nostra volontà, simile a quella che gli analoghi elementi del nostro mondo psichico producono sulla volontà stessa.

In qual modo avvenga codesta modificazione, è un problema che noi ci proponiamo qui di risolvere e però ci asteniamo dal ricercare come il rapporto reciproco fra gli stati psichici e le sue espressioni esterne (a cui si legano recenti studi) possa spiegare la consonanza spirituale; e se, oltre a ciò, sia da ammettere anche un’azione diretta di una psiche sopra un’altra, quale in taluni casi, si presenta come ipotesi spontanea.


§ 7. Aspetto sociale della realtà.

Accettiamo le sensazioni (idee, volizioni, ecc.), altrui, come una supposizione fondamentale. Allora il concetto della realtà si allarga; mediante il consenso, il criterio di essa, che ci siamo sforzati di afferrare nelle pagine precedenti sotto l’aspetto individuale, acquista un significato sociale. Così appunto alla vista di un oggetto guardato si aggiunge la testimonianza che [p. 55 modifica]altri, nelle medesime condizioni lo vede egualmente. Questa testimonianza si traduce infine in un’aggiunta di altre sensazioni diverse, secondo il modo come essa è resa; tuttavia ha un valore particolare, quando sia apprezzata in base ad appropriati criterii, che costituiscono i canoni della critica storica.

Non è nostro intendimento di analizzare i principii di codesta critica. Basti rilevare questo: la realtà, concepita come un dato sociale, significa sempre, in definitiva, una rispondenza di sensazioni a condizioni volontariamente disposte.

Rispetto alla società degli uomini, presa nel suo insieme, si allarga il campo delle sensazioni e degli oggetti cui queste si riferiscono; ma tale varietà non porge più salda prova del reale se non sia più attento il volere.

Ecco perchè vediamo al tempo stesso più difficile e più facile ingannare una società, anzichè un uomo solo; più difficile quando un vivo interesse disponga gli animi ad ascoltare e ad intendere, come accade, p. es., in una società scientifica; più facile se, come in una folla eccitata, manchi la volontà di dubitare e, senza critica, ciascuno accolga la sensazione più lieve dell’altro, a conferma della propria.


§ 8. Allucinazioni.

Il consenso sociale si aggiunge al criterio della realtà individuale e rafforza la credenza che vi si collega, in quanto vi è accordo fra l’uno e l’altro, almeno nelle condizioni di una critica opportuna. Ma vi è un caso di eccezione che non può essere passato sotto silenzio.

L’esistenza di allucinati turba la nostra fede, non ostante il piccolo numero di questi, soprattutto perchè una inferenza analogica ci mostra possibile di essere colpiti noi stessi da un’allucinazione. Si domanda se in questo caso il criterio che abbiamo considerato come pietra di paragone del reale, sia atto a renderci conto dell’errore cui siamo esposti, o come e perchè esso si trovi in diffetto.

La questione è irta di difficoltà, perchè l’interpretazione eiettiva dei fatti psicologici, che si producono in uno stato patologico dello spirito, solleva dei dubbii difficilmente chiaribili.

Tuttavia si possono distinguere due specie di allucinazioni; quelle più frequenti che si riferiscono soltanto ad un gruppo di sensazioni, e le allucinazioni complete, che sembrano fortunatamente assai rare.

Nel primo caso manca l’accordo fra le sensazioni diverse, e perciò le condizioni del soggetto, relativamente all’oggetto dell’allucinazione, non sono le stesse che corrispondono all’esistenza di un oggetto reale. Dimodochè è agevole giudicare dell’errore dei sensi, quando un’affezione cerebrale non tolga per altre ragioni la possibilità di un giudizio.

Così, p. es., gli alcoolizzati affetti da delirium tremens vanno [p. 56 modifica]frequentemente esposti ad allucinazioni visive; vedono talvolta dei bicchieri di vino, ma, come stendono la mano per afferrarli, si accorgono che non vi è nulla.

Nel delirio dovuto alla cocaina, le allucinazioni colpiscono il tatto; nei paranoici sono piuttosto allucinazioni uditive, che i malati riattaccano alla loro idea delirante, secondo la quale danno una interpretazione della vita, sistematicamente errata.

Ma non si deve dimenticare che le allucinazioni turbano d’ordinario in modo profondo lo spirito del malato, suscitando sentimenti di terrore, di superstizione, di affetto. Per questa circostanza particolare, sembra la maggior parte degli allucinati, soprattutto se isterici o epilettici, non sieno capaci di fare uno sforzo della volontà fissando l’attenzione sui dati dei varii sensi, il cui confronto dovrebbe dissipare l’inganno nel quale si trovano.

Questa osservazione ci conduce a intravedere come il fatto allucinatorio, ove pure si tratti di allucinazione completa, si possa mettere in rapporto col criterio che applichiamo ordinariamente per giudicare della realtà, per modo che più non appaia un’effettiva eccezione.

Sembra invero che l’allucinazione completa, la quale non è sotto alcun riguardo distinta dalla sensazione complessa rispondente ad un oggetto reale, supponga uno stato mentale in cui la volontà si trova addormentata o quasi spenta. E difatti le allucinazioni complete più caratteristiche si presentano nel sonno ipnotico, quando il paziente è completamente soggiogato dalla volontà dell’attore.

Si può dire dunque che manca, in simili casi, la condizione preliminare pel controllo della realtà. Non è possibile dubitare, e sottomettere le impressioni mendaci ad una prova critica disposta dalla volontà.

Non pretendiamo di avere esaurito così, l’analisi delle questioni riferentisi ai fatti allucinatorii. Questo vasto tema, campo sempre aperto all’investigazione psicologica, esigerebbe uno studio più profondo, che qui non ci è dato intraprendere.

Basti aver accennato alle difficoltà che da questo lato possono sollevarsi contro le conclusioni della nostra critica, riguardo alla definizione positiva della realtà, e avere indicato, al tempo stesso, come codeste difficoltà non sembrino insuperabili.

Se si riesca a provare che l’allucinato, soggiacente ad un’allucinazione completa, non ha la possibilità di voler controllare le sue impressioni mendaci (e certe teorie relative ad una spiegazione corticale del fatto autorizzerebbero questa conclusione), il criterio del reale, sopra definito, si troverà inapplicabile in questo caso, ma non si potrà dire contraddetto. Onde verrà rimossa una eccezione che turberebbe le nostre idee riferentisi alla realtà. [p. 57 modifica]


§ 9. Valore biologico della credenza nella realtà.

Abbiam visto che la credenza in qualcosa di reale implica sempre una supposizione, alla quale si appoggiano le nostre attese o previsioni.

Il valore pratico di tale supposizione è la norma che ne deriva alla volontà, in quanto essa si proponga il conseguimento di dati scopi.

Sotto questo aspetto ogni discussione intorno alla legittimità del supporre appare oziosa, se non in quanto essa volga sui criterii che possono dare maggior fiducia alle singole previsioni. Nel qual senso l’esperienza ci ammaestra come si possa estendere illimitatamente la cerchia delle prime supposizioni, giungendo a rendere effettive le previsioni più remote.

Fuori di questa esperienza scientifica, una pregiudiziale resta priva di ogni contenuto positivo. Le conclusioni della filosofia scettica o idealistica possono insegnarci soltanto questo, che la supposizione di qualcosa di reale non può essere inferita da altro principio superiore. Ma d’altra parte ciò non le aggiungerebbe nulla, perchè nessun uomo può seriamente metterla in dubbio, cioè regolare le sue azioni come se non partecipasse alla credenza nel reale. Infatti questa credenza è fondamento necessario alla vita stessa; cui non ci è dato di rinunziare, fino a che si viva.

C’è dunque qui un’espressione della nostra attività volitiva, come fu giustamente rilevato dalla scuola empirica inglese.

Si noti però! ciò non significa punto che la credenza suddetta, come è voluta, possa essere disvoluta; poichè si tratta di una condizione primitiva per ogni esercizio del volere, la cui negativa implicherebbe l’assurdo di una volontà intrinsecamente contradditoria, che annulla sè stessa.

Soltanto in casi particolari, la volontà, mossa dal timore o dal desiderio, può influire sulla credenza, inibendo l’applicazione dei criterii coi quali riconosciamo la realtà o non realtà di una cosa; e tale influenza può anche divenire sistematica in certi ordini di questioni, ove la falsa previsione sia più difficilmente smentita. Ma codesti casi non ci toccano. Nel nostro studio, ispirato al solo scopo del vero, eviteremo per quanto sarà possibile, tutte le occasioni in cui la prospettiva di conseguenze, volute o non volute, turbi il sereno giudizio che si addice alla filosofia scientifica.


§ 10. Il postulato della conoscenza.

Abbiamo cercato di analizzare il concetto ed il valore della realtà, che risulta chiarito, sotto varii aspetti, nei paragrafi precedenti. Cerchiamo ora di riassumere schematicamente il resultato della critica, enunciando il contenuto della nostra credenza, col seguente postulato:

Vi sono degli aggruppamenti fissi e indipendenti da noi, fra le nostre volizioni effettive o supposte, e le sensazioni che ne conseguono, prese, le une e le altre, in un certo senso astratto; essi corrispondono a ciò che chiamiamo [p. 58 modifica]«reale». Una cosa reale implica sempre diversi rapporti associativi fra serie di sensazioni, producentisi in condizioni determinate. E in forza di tale molteplicità di rapporti illimitatamente estendibile, la supposizione della realtà si allarga, al di là del mondo che cade immediatamente sotto i nostri sensi; in ispecie, per mezzo della supposizione psicologica, la realtà acquista un significato sociale (conformemente alla veduta comtiana).

Il reale risulta definitivo, in tal modo, come un invariante della corrispondenza fra volizioni e sensazioni.

La parola «invariante» è stata introdotta prima di tutto nell’Algebra delle sostituzioni lineari, ed ha assunto un significato più generale, rispetto ad un qualsiasi gruppo di trasformazioni, nelle ricerche geometriche ed analitiche di F. Klein, S. Lie, H. Poincarè, ecc. Da qualche tempo l’espressione è stata portata, in un senso più largo, nella Scienza, e l’uso ne ricorre di frequente; in ispecie l’Ostwald discorre della energia come di un invariante, che può essere preso come oggetto di conoscenza allo stesso titolo della materia.

Ma la veduta che il reale sia un invariante, deve essere determinata, precisando il corpo degli elementi (volizioni e sensazioni), ed il gruppo o i gruppi di trasformazioni (di tempo, persona, ecc.), cui questo si riferisce. Tale è l’oggetto della critica precedente, e il senso della definizione della realtà, ricercata con essa.

Il postulato che abbiamo enunciato è ugualmente quello della conoscenza volgare, richiesta dalla vita, e della conoscenza propriamente scientifica. Della quale cercheremo ora di chiarire il significato, passando dalla considerazione del fatto bruto, cui si riferivano le osservazioni precedenti, all’analisi di ciò che costituisce un fatto per la Scienza.

Una più larga applicazione del postulato anzidetto, riuscirà quindi, non soltanto ad estendere la conoscenza volgare, ma anche a proseguire quella approssimazione, che abbiam visto appartenerle. Onde il concetto stesso della realtà risulterà progressivamente precisato.


§ 11. Fatti bruti e fatti scientifici.

Chi intende a cogliere le differenze tra il fatto bruto nel senso volgare della parola, ed il fatto scientifico, scorge anzitutto in quest’ultimo un carattere condizionale assai più netto.

Veramente abbiamo riconosciuto, che ogni conoscenza racchiude delle condizioni per il riprodursi di sensazioni ad esse coordinate. E questo è vero perfino del fatto che vive, per così dire, individualmente, come accidentalità del passato.

Ma si possono distinguere condizioni subiettive e condizioni obiettive. [p. 59 modifica]Se pur non si tratta di una separazione rigorosa, è tuttavia opportuno di stabilire una differenza secondo la loro relativa importanza.

La conoscenza volgare si attacca soprattutto alle condizioni subiettive; c’insegna come si deve guardare per vedere, come occorre muoversi per toccare, ecc.

Veramente c’è anche in questo caso una comparazione del fatto in vista, colla realtà che lo circonda; ma sembra si dimentichi tutto ciò che non interessa i mezzi di porci nella condizione di produrre le sensazioni attese.

L’opposto avviene nella conoscenza scientifica. Il fatto è concepito, non per riguardo a noi stessi, ma in relazione ai fatti che lo circondano; si dimenticano in questo caso, almeno nell’enunciare il resultato, le condizioni subiettive sotto le quali esso si rivela ai sensi, per riferirsi alle condizioni obiettive del suo sussistere.

Un tal modo di considerare i fatti aggiunge loro qualcosa che la conoscenza volgare lascia nell’ombra. Onde un fatto scientifico cresce, per così dire, di una moltitudine di fatti bruti in esso contenuti; guadagna in generalità mentre riassume in se stesso nuovi rapporti più estesi.


§ 12. Fatti fisici.

È facile chiarire le osservazioni precedenti con qualche esempio.

Picchiamo con un martello sopra una lastra di rame; ci accorgiamo poi, toccandola, ch’essa si è riscaldata.

Ecco due fatti bruti, i quali ci si presentano l’uno dopo l’altro. La descrizione precisa delle circostanze in cui essi si compiono e delle sensazioni provate, non esce dal dominio della conoscenza volgare. La quale c’insegna come deve essere maneggiato il martello per picchiare, o come è più opportuno di toccare il rame per constatarne il calore. Codeste sono condizioni subiettive, che non entrano invece nella conoscenza scientifica del fatto.

La Scienza non ritiene che questo: «il rame picchiato con un martello si riscalda». Spariscono dall’enunciato i minuti particolari dell’esperienza compiuta, ma ai due fatti bruti si aggiunge il loro rapporto di successione, concepito come invariabile.

Il fatto scientifico consiste nel suddetto rapporto. C’insegna appunto questo, che «si possono provare le sensazioni attestanti il riscaldamento del rame, ove si compiano, in un modo qualunque, gli atti che ne producono la percussione con un martello».

Ma se si osserva che altri metalli, o anche altri corpi qualunque, si scaldano colla percussione, e che il riscaldamento ha luogo comunque si adopri, per picchiare, un martello o un altro istrumento qualsiasi, si viene a concepire il fatto in un significato più esteso, enunciando che «i corpi si riscaldano colla percussione». [p. 60 modifica]

Si è così eliminata ogni condizione estranea al vero rapporto costituente il fatto, per ritenere soltanto questo rapporto, il quale acquista quindi un significato più generale. La conoscenza scientifica intesa in codesto modo diviene maggiormente istruttiva. Noi vediamo come oggetto di essa una gerarchia di fatti, salienti per gradi ad una più alta generalità e condizionalità.


Che cosa sia un fatto scientifico, appare il più chiaramente nella Fisica. La caduta dei gravi, la temperatura costante di fusione e d’ebullizione dei corpi, la riflessione, la rifrazione e la polarizzazione della luce, l’induzione elettro-magnetica, porgono altrettanti esempii caratteristici di fatti, generali e condizionati ad un tempo.

Nei quali si palesa un rapporto invariabile di successione o di coesistenza, secondo che si tratti di fenomeni riguardati nell’aspetto dinamico o statico.

Altre scienze ci daranno occasione di discutere se altri fatti, che si discostano da questo tipo, vi si lasciano ricondurre.


§ 13. Fatto e legge.

Ma prima di volgerci a ciò, importa che ci fermiamo intorno ad una questione di parole, la quale involge una grave controversia filosofica.

I fatti condizionati, di cui sopra abbiamo discorso, si chiamano comunemente «leggi», soprattutto ove il loro enunciato sia semplice e generale.

Il nome «legge» suggerisce alla mente l’idea di un rapporto volontariamente fissato, al quale i fatti, concreti o possibili, debbano soddisfare. Questo è appunto il significato politico della parola. E sebbene il savio legislatore si attenga alla massima di ordinare soltanto i rapporti aventi già una base di fatto, si può tuttavia concepire una legge che sia priva di un tale sostrato; così appunto narrasi, il sovrano di un popolo d’oriente avere disposto severe sanzioni pel duello, benchè l’uso ne fosse completamente ignoto ai suoi sudditi.

Come una tale concezione della legge si sia sovrapposta ai rapporti fisici, è facile comprendere. Essa riesce invero perfettamente chiara a chi si rappresenti un caos, dal quale Iddio tragga il mondo attuale, ordinato secondo un disegno prestabilito.

Ma, all’infuori di codesta rappresentazione teologica, resta associata al concetto di una legge fisica, l’idea di qualcosa di necessario, che debba essere all’infuori del verificarsi o meno dei fatti contingenti, di cui essa esprime il rapporto; così, p. es., quando si pensano le leggi geometriche e meccaniche, che pur esprimono alcune proprietà del movimento dei corpi, come indipendenti dall’esistenza di questi.

«Necessità» è una parola, che riceve spesso, dai filosofi, [p. 61 modifica]interpretazioni diverse, in rapporto ai più disparati giudizii apprezzativi. Che cosa esprime questa parola?

Anzitutto, ad ogni fatto, in quanto contiene un invariabile rapporto di coesistenza o di successione, si lega un certo sentimento di necessità, che attesta impossibile di vietare volontariamente la conseguenza, quando si è voluta la premessa.

Tuttavia il nostro potere sulla realizzazione della premessa è, in un certo senso, tanto più grande quanto più particolare è il fatto. In questo senso i fatti generali si sottraggono maggiormente al dominio della nostra volontà, e ci si presentano quindi accompagnati da un sentimento di necessità più forte.

Ma il sentimento della necessità di un fatto non ha soltanto questo significato, limitativo della nostra volontà. Esso interessa soprattutto la Gnoseologia, in quanto vi si collega l’illusione che certe rappresentazioni costruite a posteriori, sulla base di osservazioni o esperienze preliminari, abbiano un valore a priori, e si estendano quindi illimitatamente al di là del campo cui queste si riferiscono. Importa perciò di rilevare che una siffatta necessità di ordine psicologico, resta sempre un sentimento, il cui valore è puramente subiettivo, cioè che non può essere invocato come prova di sussistenza obiettiva.

La storia della Scienza ne porge documenti espressivi.

Basti citare ad esempio la spiegazione che, innanzi Torricelli, si dava, del salire dell’acqua nelle pompe, fatto riguardato come necessario da chi presumeva che la natura avesse orrore del vuoto. Codesta necessità è venuta meno, nonostante il suddetto orrore, quando l’uomo pretese di affaticare la natura, facendole tirare l’acqua al disopra di una diecina di metri!

L’insegnamento che scaturisce da simili esempii, diventa induttivamente chiaro anche per riguardo alle rappresentazioni più generali, quantunque sia da notare qui una forte presunzione, che i concetti coordinatori di molteplici osservazioni elementari, formati per una lunga elaborazione psicologica, sieno bene adattati all’insieme dei fatti, almeno in un certo campo. Ancora può dirsi che il valore obiettivo delle conoscenze contenute in tali concetti, può essere stabilito, in ultima analisi, soltanto dall’esperienza; la quale deve in ispecie delimitarne il campo di applicabilità e misurarne il grado di esattezza, mediante un confronto delle previsioni che vi si appoggiano.

Rimandando ai capitoli III, IV, V, per un più largo esame della questione, basti qui concludere, che non possiamo riconoscere un fondamento filosofico alla distinzione tra «fatti» e «leggi», accogliendo la veduta di A. Naville2, che vi sieno scienze teorematiche, le quali, indipendentemente dal contenuto, si volgano ad intrecciare «le canevas de la réalité». [p. 62 modifica]Una legge «indipendente dal contenuto» è un’astrazione trascendentale, che ripugna allo spirito della nostra critica.

Ritorniamo all’analisi del fatto scientifico, per vedere come taluni fatti, che apparentemente si discostano dal tipo tratto dalla Fisica, vi si lascino riattaccare.


§ 14. Fatti astronomici.

Se i fatti scientifici debbono distinguersi dai «fatti bruti» per un grado più alto di condizionalità e di generalità, riesce malagevole il considerare come «scientifiche» talune scoperte, delle quali d’altronde è innegabile l’interesse, aventi come scopo di stabilire la semplice esistenza di oggetti nuovi.

Senza uscire dal campo delle scienze fisiche, l’Astronomia e la Chimica ci porgono in proposito esempii istruttivi.

Si può disconoscere l’importanza della scoperta di un astro, non ancora scorto nei cieli? Eppure una tale scoperta, in quanto si tratti di una stella, della quale vengono stabilite le coordinate, non c’insegna molto di più che le condizioni subiettive per la visione di un oggetto nuovo.

Per comprendere il posto da attribuire a fatti di codesto genere nella Scienza, giova osservare che ogni rapporto obiettivo suppone dei fatti bruti, ai quali si riferisce. La conoscenza scientifica esige dunque un sostrato di conoscenze volgari, che possono esser lasciate senza menzione esplicita, soltanto nel caso in cui esse cadano frequentemente nel dominio comune, in vista della facilità di osservarle. Così appunto il fisico, dato che molteplici oggetti di ferro sono alla sua portata, non ha da occuparsi di farne l’inventario.

Ma quando si tratti di oggetti, che, pel loro piccolo numero o per altre ragioni, offrano qualche difficoltà particolare ad essere percepiti, è interessante per la Scienza il metterli in vista. La ricerca scientifica è costretta in questo caso a compiere, per conto suo, un’operazione preliminare, che in altri casi trova sufficientemente compiuta.

Con questa spiegazione veniamo a dire che la scoperta di un astro nuovo è veramente un resultato importante per l’Astronomia, ma non costituisce ancora una vera conoscenza scientifica (per quanto ciò abbia soltanto un valore di «grado»); che il suo interesse consiste nell’avere allargato il campo dei fatti bruti, i cui rapporti formeranno più propriamente oggetto della Scienza.

Sotto questo aspetto il prezzo di una scoperta di codesto genere viene ridotto alla sua giusta misura; ed appare come esso vada rapidamente diminuendo, quanto più diventi facile l’estendere il campo delle osservazioni, con perfezionati strumenti.


Vi è luogo però ad osservare una distinzione importante fra la scoperta di una stella e quella di un pianeta. [p. 63 modifica]

In quest’ultimo si possono riconoscere nel fatto i caratteri del tipo scientifico.

Vediamo, p. es., che cosa Herschell ci abbia insegnato colla scoperta di Urano.

Varii osservatori, prima di lui, avevano trovato quest’astro nel campo del loro telescopio, di guisa che esso era stato catalogato più volte fra le stelle fisse. Riattaccandolo al sistema planetario, Herschell ha dovuto seguire il suo movimento attorno al sole, e quindi determinare le condizioni obiettive, sotto le quali si può ripeterne l’osservazione.

Queste condizioni, o se si preferisce, i rapporti di posizione leganti l’astro al sole, costituiscono veramente il fatto nuovo, stabilito colla scoperta del pianeta.

All’epoca, di cui si tratta, aggiungevasi alla scoperta un altro interesse, relativo alla conferma o alla modificazione, che si aveva ragione di aspettarne, della teoria newtoniana.

Gli astronomi, pieni di fiducia nella legge che aveva spiegato così precisamente i fatti noti, videro con immenso stupore il nuovo pianeta sfuggire alle previsioni basate sopra di essa. Bisognava ammettere un’eccezione distruggente la regola, o ricorrere all’ipotesi di un altro pianeta ignoto, che colla sua azione perturbatrice spiegasse l’allontanamento di Urano dall’orbita ellittica.

Quest’idea, proposta da Arago, fu assoggettata al calcolo da Le Verrier. La così detta legge empirica di Bode (la quale si rivelò qui assai inesatta) dette modo di rendere determinato il problema. E la scoperta di Nettuno, che, per una fortunata combinazione, si trovò molto vicino al luogo assegnatogli a priori da Le Verrier, fu salutata come un trionfo dell’Astronomia planetaria, in quanto veniva a confermare in modo brillante la realtà dei rapporti semplicissimi, riassunti nella legge di Newton.


§ 15. Fatti chimici.

Le scienze terrestri offrono pure esempii di fatti, il cui riconoscimento importa soltanto la scoperta di qualche oggetto nuovo.

Sorvolando sopra la Geografia, che non ci suggerisce osservazioni diverse dalle precedenti, vediamo quale significato abbia per la Chimica l’aggiunta di un corpo nuovo al catalogo dei suoi elementi.

Nessun dubbio che questo sia un fatto della più alta importanza. Ma si avrebbe torto di riguardare una tale scoperta come l’acquisto di un semplice fatto bruto, e il suo interesse relativo soltanto al piccolo numero degli elementi noti.

Anzitutto una tale conoscenza esprime che certi corpi non han potuto essere ridotti o decomposti al di là di un certo limite, implica cioè una [p. 64 modifica]irriducibilità dell’elemento, rispetto ad un gruppo di reazioni; ma più ancora essa è da riguardare, in un aspetto positivo anzichè negativo, come il sostrato di una serie di rapporti fra i varii composti che contengono l’elemento suddetto.

Quando poi la scoperta sussegua ad una previsione, stabilita in base alla conoscenza di relazioni più estese, essa ci porge la conferma di un fatto più generale, a cui spettano i caratteri del fatto scientifico in un più alto significato. Così può dirsi in parte (tenuto conto della difficoltà di far rientrare nella teoria i corpi recentissimi) della scoperta dello Scandio, del Gallio e del Germanio, venuti a riempire una lacuna nel sistema periodico di Mendeleieff.


§ 16. Fatti delle scienze naturali.

Si assegna come scopo alle scienze naturali (biologiche), presa la parola nel senso ristretto, di classificare in modo sistematico gli animali e le piante sulla superficie della terra. Può dunque sembrare che si abbia così un intero ramo della Scienza, ove non venga proposto in alcuna guisa di andare oltre il riconoscimento di fatti bruti.

Per mostrare come questo concetto sia falso, si osservi anzitutto che la scoperta di una specie nuova non è mai stata riguardata sotto il medesimo aspetto dal collezionista e dallo scienziato.

A quest’ultimo poco importa di aggiungere un nome al catalogo già così vasto delle specie animali o vegetali; egli cerca invece di determinare, in ciascun caso, l’aggruppamento costante dei caratteri che costituisce il tipo di una specie.

Così un vero naturalista, salvo che non prosegua fini speciali, poco si inquieterà di mettere in luce i minuti particolari di struttura, pei quali un individuo si distingue nella sua specie. E neppure accorderà troppa importanza alla distinzione di varietà o sotto-varietà, moltiplicabili a piacere.

Lo conoscenza di un aggruppamento fisso di caratteri zoologici o botanici, è veramente conoscenza scientifica di un fatto ben condizionato; fra questo ed il fatto fisico vi è soltanto una prevalente considerazione dei rapporti di coesistenza, in confronto ai rapporti di successione.

Del resto si ha ancora una gerarchia di fatti di codesto genere salienti per gradi ad una più alta generalità; così, p. es., dalla descrizione precisa dei sistemi nervosi appartenenti a varie specie di anellidi o d’insetti, si trae la nozione generale di quel sistema, costituito dal cingolo esofageo e dalla catena gangliare, che è il tipo del sistema nervoso, per la maggior parte degli animali invertebrati.

Ma nelle scienze naturali, comunque intese nel senso ristretto della parola, non si studiano soltanto aggruppamenti fissi di caratteri, cioè fatti statici, ma anche veri rapporti di successione, analoghi a quelli di cui si occupa più [p. 65 modifica]spesso la Fisica. E non vi ha dubbio che conoscenze di questo genere abbiano un’importanza notevolissima.

Fatti dinamici s’incontrano già nello studio della Morfologia, pur limitato agli scopi della Sistematica. Così, p. es., nella zoologia, volendo classificare i varii casi di ermafroditismo insufficiente (dicogamia) si è tratti a considerare, accanto alla dicogamia legata a condizioni anatomiche, quale si presenta nei Lombrici, nelle Sanguisughe o nelle Aplisie, quella legata a condizioni di tempo, cioè dipendente dall’epoca diversa in cui maturano le uova e gli zoospermi (dicogamia proterogina delle salpe, e dicogamia proterandra dei crostacei isopodi appartenenti alla famiglia dei cimotoidi).

Del resto si può dire, in modo generale, che la classificazione sistematica delle scienze naturali non poggia soltanto sullo studio dell’Anatomia statica, ma anche sull’Anatomia dinamica (esempio la metamorfosi), e in particolare sull’Embriologia. Basti ricordare che la più retta distinzione fra animali superiori e piante superiori (metazoi e metafiti) è data dalla constatazione dello stadio della gastrula, nello sviluppo embriogenico dei primi.


Aggiungasi che le scienze naturali non esauriscono il loro compito nella classificazione, sicchè paiono già esorbitare da questo scopo molte ricerche importantissime, inerenti ai varii modi di generazione, anfigonica, partenogenetica, agama, degli animali superiori.

La scoperta della generazione alternante (distinta poi in metagenesi ed eterogonia) destò giustamente un grande interesse fra i naturalisti nella prima metà del secolo passato; ed essa costituisce certo una conoscenza scientifica elevata, che mette in luce varii modi di periodicità nella vita degli animali.

Ed ogni resultato relativo alla generazione, contiene un rapporto di generale interesse, sia che si tratti ad es., della generazione infantile (neotenia e pedogenesi) o del fenomeno singolare osservato dal Chun per le ctenofore, consistente nel succedersi di due periodi di fecondità interrotti dalla metamorfosi (dissogonia).

Infine, sotto l’impulso della teoria dell’evoluzione, le scienze naturali hanno esteso enormemente l’indagine dei rapporti dinamici, proponendosi di ricostruire il processo di trasformazione delle specie.


Con esempii tratti dalla Zoologia, abbiamo cercato di fissare la fisionomia del fatto, che cade nell’ambito delle scienze naturali, considerate secondo il significato ristretto della parola. Ma la visione di codeste scienze rimarrebbe veramente incompleta, se esse non venissero riguardate nel loro legame cogli altri rami delle scienze della vita.

Così, ad es., la separazione che si stabilisce fra la Zoologia sistematica e la Fisiologia degli animali, risponde soltanto alla necessità della [p. 66 modifica]divisione del lavoro, sicchè non si può acquistare un adeguato concetto dell’una, senza aver riguardo all’altra. Giacchè i due ordini di fatti s’intrecciano; una preventiva classificazione agevola la ricerca fisiologica, ed uno studio fisiologico porge nuovi criterii per correggere la classificazione, se anche nel momento attuale criterii di codesto genere vengono un po’ lasciati da parte.

Attraverso agli inevitabili ostacoli della diversa tecnica di osservazione e di esperimento, un solo e medesimo ordine di fatti si offre allo sguardo dell’investigatore che studii le scienze della vita, ed in questi, quanto più sale la ricerca scientifica, tanto meglio si ravvisa il tipo che ci è occorso di considerare nella Fisica.

Così, sotto l’impulso dell’allargato concetto, si compie oggi, nella direzione del lavoro biologico, un mutamento profondo, e la scienza si avvia all’indagine di rapporti più generali e condizionati. Promessa di immenso progresso, quando i divisi lavoratori, guardando colla mente al di là dei problemi suggeriti dalla loro tecnica particolare, si uniscano ad uno scopo comune; e dai laboratorii marittimi, ove si adunano folle d’invertebrati ancora poco noti o solo morfologicamente descritti, venga la risposta a tanti problemi della Fisiologia, riferiti ad organi più semplici e più varii!


§ 17. Fatti storici.

Fra il tipo del fatto, come è considerato nella Scienza, e quello che appartiene alla Storia, si vuol vedere da taluni una irriducibile differenza, che altri all’opposto tentano di comporre.

Una prima dilucidazione è in ogni caso necessaria: la Storia non è una raccolta di fatti bruti, poichè in essa il singolo avvenimento incidentale acquista un interesse soltanto dal rapporto con altri avvenimenti.

Ma, come già avvertimmo, il rapporto anzidetto può essere ricercato in due sensi diversi: o secondo una intuizione propriamente storica, o secondo una intuizione scientifica. Onde due modi di riguardare la conoscenza del passato, due ordini differenti in cui si può disporne il materiale, rispondendo a scopi che a nostro avviso sono entrambi legittimi. La questione, intorno a cui di recente si è tanto discorso, se la Storia sia Arte o Scienza, sorge appunto dalla differenza di codeste vedute, e non può essere risolta se non da una scelta, la quale implica soltanto l’affermazione di un interesse, e non può affatto escludere la legittimità di un altro interesse, che si può porre accanto al primo, ma non in contrasto con questo.

Or dunque i fatti del passato (soprattutto quelli che concernono la vita sociale umana) possono venire collegati in una sintesi, che miri ad una ricostruzione del momento trascorso, tanto più perfetta, quanto più piena di quelle note particolari che conferiscono al momento stesso, o alle persone che vi agiscono, la loro fisionomia caratteristica. In questo senso si prende come [p. 67 modifica]oggetto una rappresentazione artistica, sia per uno scopo puramente contemplativo, sia in vista dell’azione che questa può esercitare sui sentimenti degli uomini.

Nulla abbiamo da obiettare a coloro (come il nostro B. Croce) che sostengono essere questo il senso proprio della Storia; e ci sembra chiaro che a tale concetto artistico, non osti la domanda della verità dei fatti storici; questa appare, sia come una condizione per la possibilità di estendere la rappresentazione proposta senza urtare in contraddizioni, sia come una condizione particolare per l’interesse della rappresentazione stessa, cioè come un elemento del suo valore emotivo. Mentre il poeta non conturbato dal dubbio, ascolta la voce che sorge dal fosco carcere del castello estense a Ferrara, narrante di Parisina e di Ugo, lo storico inquieto interroga i documenti, se in essi possa scoprire alcuna traccia che valga a confermare o a negare la leggenda pietosa.

Ma, all’infuori del valore che la ricostruzione storica può avere come Arte, riman posto per la concezione scientifica di una Storia che, abbracciando largamente tutti i fatti del passato (anche quelli, come p. es., i geologici, che escono dal dominio degli uomini), intende a ricercarne i rapporti, nel senso che abilita alla previsione.

Il carattere proprio di tale veduta deve essere chiarito, determinando i limiti e la natura delle previsioni accennate, soprattutto nei riguardi della storia umana. Se, p. es., si tratti di ridurre la Storia ad un puro ufficio di preparazione rispetto a certe scienze, come la Glottologia, o la Economia politica, ecc., o se si voglia convertirla addirittura in una scienza sociologica, che dallo studio del passato tragga l’oroscopo della società avvenire, i cultori della ricerca storica protesteranno contro questo modo di considerare le cose.

Essi ci diranno, p. es., che il riconoscimento di talune leggi generali, costituenti l’oggetto della Glottologia, non può surrogare lo studio delle condizioni particolari secondo le quali il trasformarsi o lo svilupparsi di un dato linguaggio si è atteggiato in un processo concreto. E, similmente, la cognizione astratta di taluni generali rapporti economici, è ben lungi dal poter prendere il posto della conoscenza storica di un ordine di fatti sociali, in cui pure si ravvisi un’esplicazione di quei rapporti. Ancor meno le leggi sociologiche, dove se ne conceda la sussistenza, potranno insegnarci qualcosa di determinato nei riguardi di un’epoca o di un ambiente, poichè certe connessioni, estremamente generali nello spazio e nel tempo, sono ben lungi dallo stringere dappresso la multiforme realtà.

Se dunque alla Storia si attribuisca un valore scientifico di previsione, non può trattarsi, almeno di regola, di una previsione del futuro storico, sufficientemente determinata.

Ma in altro senso gl’indagatori del passato intendono l’ufficio delle [p. 68 modifica]cognizioni, relativamente generali, acquisite mediante il confronto dei documenti, attinenti ad un periodo o ad un ambiente; essi si valgono di queste come di un mezzo interpretativo e correttivo dei documenti stessi, e vengono così abilitati a completare con opportune supposizioni i fatti bruti già acquisiti, e ad intenderli nel loro significato. In tanto dunque la conoscenza storica ha valore scientifico, in quanto vale in un certo senso a prevedere quale possa essere il resultato di indagini che concernono lo stesso passato, in quanto cioè essa è capace di dirigere l’ulteriore ricerca storica.

Qualunque sia lo scopo più remoto (scientifico od artistico) per cui tale ricerca possa venir proseguita, lo scopo di ricostruire progressivamente la realtà del passato, basta già a formare l’oggetto di una Storia intesa come scienza, nella quale il valore di ogni cognizione si misura dalla sua capacità euristica; dove, per conseguenza, il rapporto relativamente generale (entro i limiti di una sufficiente determinazione), interessa più del fatto singolo, ed indipendentemente dagli elementi emotivi che vi si collegano. Così appunto nella storia dell’Architettura si ricercano sistematicamente, sopra i caratteri particolari delle opere individuali, quelli per cui si riconosce e distingue una scuola, sia, p. es., il bizantino o il gotico francese. Così nella storia politica di Roma, sopra gli avvenimenti singolari o alle vicende delle guerre, per cui si passa dalla repubblica all’impero, una analisi approfondita mette in luce tanti fattori di ordine generale che spiegano codesta trasformazione, e, all’infuori del modo particolare, ce la fanno apparire come il resultato di cause d’ordine generale; sia, p. es., il conferimento della cittadinanza romana, estesa ai soci italici nell’89 (console Lucio Cesare), per cui il funzionamento di un regime fondato sulla partecipazione diretta dei cittadini al governo della cosa pubblica, era divenuto impossibile. E nella storia moderna dell’Inghilterra, le fasi graduali dell’evoluzione liberale e democratica, ci appariscono illuminate e spiegate, in confronto alla storia di altri paesi, dalla veduta generale che il popolo e l’aristocrazia assunsero ivi tradizionalmente un atteggiamento concorde, rimpetto al Monarca.


Accanto allo sviluppo artistico, ed indipendentemente da esso, lo sviluppo della Storia nel senso scientifico, progredisce ai giorni nostri, dirigendo la ricerca a rapporti sempre più generali e profondi. L’indagine, oggi sistematicamente proseguita, dei fattori economici, è un’espressione di questa tendenza, per cui al disotto di ciò che è più appariscente, o artisticamente interessante, si cerca di penetrare le cause intime dei fatti, capaci d’illuminarli in una luce nuova, aiutando una più larga ricostruzione del passato.

In questo senso il tipo del fatto storico si riaccosta a quello scientifico; la realtà storica, come la fisica, si estende e si allontana da noi per via di supposizioni, e tende a presentarsi come una catena di rapporti, quasi una serie [p. 69 modifica]di invarianti delle fonti, progredienti verso l’astratto, e disposti in un ordine di determinazione.

Ma a chi voglia spingere il parallelismo alle sue ultime conseguenze, si oppone una particolare difficoltà, propria della storia umana, la quale esula invece da altri rami della scienza storica, sia, p. es., dalla Geologia.

Nella ricerca fisica siamo sorretti dalla fiducia di potere estendere progressivamente, senza arresto necessario, il determinismo causale. Codesta veduta non può trasportarsi senz’altro nel campo storico, perchè, ammesso pure il determinismo nel suo più largo significato, non ne segue affatto un determinismo storico, nel senso che tutti i fatti della vita sociale umana possano presentarsi come conseguenze di cause sociali, scopribili mediante un’indagine approfondita. Una spiegazione storica, in questo senso, può evidentemente urtarsi a circostanze, come la morte di un uomo o il sopravvenire di una tempesta decidente di una battaglia, che, relativamente alla storia della società, sono concepite come accidentali; onde appare inconfutabile la cosidetta teoria del caso di Cournot, che da simili osservazioni trae la veduta di un limite al determinismo storico.

Valutare l’importanza di codesti fatti accidentali, segnare insomma i limiti del determinismo suddetto, sembra, oggi ancora, il grande problema della filosofia della Storia.


§ 18. Il supposto nella conoscenza scientifica.

Ci siamo sforzati di riattaccare al tipo del fatto scientifico, quale viene offerto dalla Fisica, taluni ordini di fatti che da esso sembrano più lontani. Ritorniamo ora al tipo stesso, riguardato pure, se si vuole, nella sua espressione più perfetta, allo scopo di svolgere alcune riflessioni di carattere generale.

Anzitutto il fatto scientifico, di cui abbiamo delineato la fisionomia, ci appare in un continuo progresso, saliente per gradi ad una più alta condizione e generalità, e riassumente quindi un maggior numero di fatti bruti.

Ma un’altra circostanza attira la nostra attenzione. Nel progresso suddetto, ci si allontana ognora di più dalla realtà che cade sotto il giudizio immediato dei sensi; il cerchio delle supposizioni si allarga molto al di là di ciò che è richiesto dagli ordinarii bisogni della vita; il dominio della conoscenza si estende ad una moltitudine di fatti, che diventa praticamente impossibile verificare, i quali si tengono tuttavia gli uni cogli altri, come gli anelli di una catena di cui i capi sieno nelle nostre mani.

Soltanto l’abitudine c’impedisce di scorgere quanto vi sia di supposto in taluni fatti, che pur concepiamo come oggetto di una osservazione diretta.

Non si immagina nulla di più evidente, che l’esistenza di un sole costituito da una massa infuocata. Eppure questa affermazione dell’Astronomia suppone tutta una serie di sensazioni non verificabili. Tant’è vero che il fatto, [p. 70 modifica]oggi riguardato come oggetto di osservazione alla portata di tutti, non fu ammesso in epoche di civiltà assai vicine alla nostra. Sicchè il popolo elleno, che pur consideriamo modello di altezza spirituale, sorse contro il filosofo che, materializzando mostruosamente il Dio Apollo, osò vedere nel sole un corpo infiammato più grande del Peloponneso!


Esaminiamo il significato delle supposizioni contenute nella conoscenza scientifica.

Supporre un fatto significa:

1) attendere (o prevedere) date sensazioni in certe condizioni future;
2) porre fra i gruppi di sensazioni attuali o disponibili, un aggruppamento intermediario, che valga ad associarli in un dato ordine di previsione.

Il primo significato è relativo al campo delle esperienze che si concepiscono come possibili. Fissare i limiti di questo campo è una questione delicata, e dipendente, in parte almeno, dallo stato delle conoscenze, perchè certe condizioni difficili, che oggi sembra impossibile disporre, potrebbero essere realizzate domani.

Tuttavia, indipendentemente dalla possibilità concreta, si ammettono, come idealmente possibili, le supposizioni che implicano una semplice estensione delle condizioni in cui l’esperimento può attualmente compiersi, o delle sensazioni note che ad esso corrispondono. Così appunto si parla di fatti lontani, simili a quelli che constatiamo vicini, e di oggetti molto grandi o molto piccoli, dove i dati sensibili si suppongono soltanto moltiplicati o divisi, senza che ne sia snaturato il carattere proprio; certi istrumenti, come il telescopio o il microscopio, ecc., conferiscono un significato concreto alla estensione delle sensazioni suddette.

Relativamente al secondo significato, la possibilità di supporre non è in alcun modo limitata dalla impossibilità di realizzare le condizioni richieste; alla verifica diretta subentra allora una verifica indiretta illimitatamente proseguibile; ed in questa proseguibilità è un carattere delle supposizioni di fatto, cui corrisponde una rappresentazione integrale sotto ogni rapporto, senza arresto necessario.

Soltanto nel processo di acquisto della conoscenza, e non nella Scienza positiva formata, vi sarà luogo di considerare, accanto a queste, altre supposizioni (rappresentative), dove le condizioni e sensazioni associate sono non soltanto estese al di là dei limiti pratici attuali, ma anche snaturate, per modo che esse implichino un’astrazione necessaria da alcuni dati che l’esperimento fornisce in casi simili, e quindi un arresto nella rappresentazione del fatto supposto. Pertanto, gli oggetti che a queste corrispondono, non potranno più essere pensati come reali, ma soltanto come enti fittizii, che adempiono l’ufficio [p. 71 modifica]di un intermediario (non bene determinato) fra i fatti; così, p. es., le immagini dell’atomo, dell’etere, ecc.


§ 19. Valore delle conoscenze scientifiche.

Un’altra riflessione di carattere generale, concerne la questione che si è affacciata più volte, almeno come implicita, nella analisi del «fatto», cioè quella del valore delle conoscenze scientifiche.

Una critica approfondita intorno a ciò escirebbe necessariamente dal dominio della Scienza, perchè il fatto scientifico presentandosi finalmente come una somma di fatti bruti, il suo interesse si palesa pur relativo all’interesse di questi, ed è quindi materia di giudizii apprezzativi, che possono venire subordinati a criterii diversi, in rapporto a fini diversamente voluti.

Ma, entro i limiti della Scienza cade il giudizio che intende a valutare i rapporti generali ed astratti, misurandone la capacità a cogliere e rappresentare i fatti, le loro somiglianze e differenze, in un ordine già dato come interessante, cioè in relazione allo scopo conoscitivo. Sotto tale aspetto il numero dei fatti bruti associati in un fatto scientifico, ossia la generalità di questo, non ne costituisce l’unico elemento di valore; accanto ad esso è da mettere in conto un elemento subiettivo, cioè il modo di associazione dei fatti bruti medesimi, cui si collega la facilità della previsione concreta, la possibilità dell’ulteriore progresso scientifico.


§ 20. Conoscenza per concetti.

Riguardiamo più da vicino codesto aspetto subiettivo delle conoscenze scientifiche.

Mentre cresce in esse il contenuto reale di fatti, che vengono per così dire sommati negli invarianti più generali, la forma della previsione progredisce e si adatta alla varietà dei casi, acquistando una crescente indeterminazione.

Perciò i rapporti generali, presi da soli, non costituiscono integralmente «somme di fatti bruti»; c’è in essi, come già vedemmo, un’astrazione o eliminazione di dati. Il fatto scientifico riveste la forma di un fatto semplificato, tipo di una serie di fatti possibili; e la previsione concreta si effettua aggiungendo al tipo la conoscenza degli elementi riguardati come accidentali, che distinguono e fissano un fatto reale nella serie stessa.

Ora questo tipo prende il nome di concetto, e si può dire quindi che la conoscenza scientifica tende ad effettuarsi per mezzo di concetti: nel quale enunciato si ravvisa una veduta della più alta importanza, che può già riattaccarsi ad Aristotele, e che Kant ha posto a fondamento della sua «Logica trascendentale»; ma da cui sembra ognora possibile dedurre nuove e feconde conseguenze, in rapporto alla teoria della Scienza. [p. 72 modifica]

Rappresentare i fatti per mezzo di concetti, significa, come abbiam detto, associare ed astrarre, quindi riunire i dati bruti, poi separarli, scegliendo ciò che diverrà elemento essenziale costitutivo del concetto, lasciando da parte gli elementi accidentali.

Una scelta analoga si riscontra già, come notammo (§ 5), nella conoscenza volgare, e si può dire che fa parte della disposizione volontaria di sensazioni rispondente al fatto conosciuto. Il parallelismo si lascia proseguire; infatti la supposizione di un concetto costituisce come la premessa volontaria del fatto scientifico, in quanto implica una scelta di dati e quindi una disposizione di esperienze.

L’importanza di questo elemento volontario viene messa in evidenza ove si confrontino diversi concetti capaci di subordinare ugualmente un certo insieme di esperienze, poichè ne risulta allora una certa arbitrarietà della conoscenza scientifica, la quale può valutarsi appunto in ordine alla facilità della previsione ed al suo incremento estensivo.

Ma la discussione di tali questioni implica di considerare la Scienza, non più come formata, bensì nel suo progressivo sviluppo, dove in luogo dell’accettazione di fatti acquisiti si hanno ipotesi e teorie.

Procediamo dunque a trattare dell’acquisto delle conoscenze, accennando dapprima alla posizione storica del problema, e mostrando poi come la soluzione di esso si riattacchi alla dottrina della conoscenza per concetti, sopra enunciata.


§ 21. Empirismo e razionalismo.

L’esame critico della conoscenza che, incominciando dal dubbio, giunge ad una fede sempre più sicura e soddisfacente, ci conduce a parlare dei mezzi dell’investigazione scientifica. Sono l’osservazione, l’esperienza e il ragionamento.

Senza addentrarci in una particolare disamina, basti dire che i due primi vengono spesso contrapposti al procedimento razionale. La controversia fra l’empirismo e il razionalismo sorge appunto da questo falso modo di rappresentarsi le cose.

Ma essa è chiusa ormai per chi abbia compreso il posto che occupano i diversi metodi dell’investigazione nella Scienza moderna. Ed è notevole come ad uno stesso resultato sieno venuti per vie diverse, spiriti diversamente educati. Felice particolarmente ci sembra il modo come Claude Bernard tratta la questione, nella sua classica «Introduction à la Médécine expérimentale».

Ormai la pretesa di penetrare col ragionamento i segreti dell’universo, che si troverebbero misteriosamente rivelati nelle leggi del nostro spirito, va relegata fra le chimere. [p. 73 modifica]

Ma da un altro lato si scorge come ogni osservazione ed ogni esperienza abbia valore scientifico solo in quanto si appoggi ad un ragionamento; altrimenti ci si riduce ad attendere che la natura sia così gentile da istruirci, rispondendo per caso a domande che non sappiamo rivolgere nè interpretare.

Del resto basta ricordare come abbiam visto allargarsi il cerchio delle supposizioni, che entrano a costituire sempre di più il dominio della realtà scientifica, per scorgere quanto siamo lontani da quell’empirismo ristretto, che, secondo le massime di S. Tommaso apostolo, accorderebbe credito soltanto alle sensazioni immediate.

Il processo dell’investigazione ci appare oggi come un’operazione dello spinto, che muovendo dalle sensazioni vi ritorna per mezzo di un ragionamento, più o meno lungo.

Le differenti tappe di questa operazione vengono similmente descritte da varii autori, p. es., dal Bernard e dallo Stanley Jevons, il quale distingue l’osservazione preliminare, l’ipotesi, la deduzione e la verificazione. Quest’ultima può essere ugualmente un’osservazione o un’esperienza, secondo che si tratti soltanto di attendere sensazioni previste, o invece di produrle, cagionando volontariamente un cambiamento nei fenomeni che sono oggetto di studio.


§ 22. Acquisto delle conoscenze.

L’analisi di Jevons è irrefutabile sotto l’aspetto logico, e segnatamente per ciò che concerne il posto attribuito nella Scienza all’ipotesi; della quale E. Naville, in una interessante monografia su «La logique de l’hypothèse», ha messo in luce come i più chiari intelletti scientifici e filosofici, abbiano riconosciuto l’importanza.

Tuttavia, nella pratica del ragionare, l’ipotesi viene spesso sottintesa, sicchè l’aspetto del procedimento messo effettivamente in opera nell’acquisto delle conoscenze, si allontana dallo schema logico sopra definito. E, ad ogni modo, il suddetto schema non rende conto del sorgere dell’ipotesi, fatto psicologico che si riguarda come pertinente alle qualità divinatrici del genio.

Richiamiamo un esempio citato da Jevons: Torricelli scopre la pressione atmosferica partendo dall’osservazione che l’acqua sale nelle pompe fino all’altezza di una diecina di metri, e giungendo col ragionamento alla esperienza del barometro.

Qui l’ipotesi è nettamente concepita avanti l’esperienza. Ma in altri casi, forse più frequenti, essa rimane nascosta ed è difficile a mettere in luce.

Si ricordi, p. es., il ragionamento che ha permesso a Galileo di antivedere il resultato sperimentale che i gravi cadono al suolo con uguale velocità, distruggendo l’erronea supposizione di una velocità proporzionata alla massa. Galileo immagina due masse simili, cadenti l’una accanto all’altra: esse acquisteranno velocità uguali. Uniamo, egli dice, le due masse; l’una [p. 74 modifica]non potrà accrescere la velocità dell’altra, sicchè la massa unica, somma delle due, si muoverà ancora colla velocità medesima.

L’esperienza che verificò codesto resultato, fu agli occhi di Galileo una semplice conferma, della quale forse per suo conto non credeva avere bisogno, poichè il semplice ragionamento riferito gliene dava la certezza a priori.

Ma il suddetto ragionamento suppone che la caduta dei gravi avvenga per effetto di una forza, la quale agisca su ciascun corpo come se fosse isolato da tutti gli altri; e questa ipotesi equivale sostanzialmente al fatto stesso che si vuol dimostrare, generalizzato. Essa sembra tuttavia la più conforme al concetto della causa, ricavato dalla natura inorganica, ove le cause si sommano generalmente senza reciproca azione.

Si porti invece lo stesso ragionamento nell’ambito della vita! Si applichi, p. es., come si credette legittimo di fare, nell’ordine dei fenomeni psicologici. Si sarà condotti così a concepire la volontà e l’azione di una folla come la semplice resultante dei motivi agenti sugli individui che la compongono, e si perverrà quindi a stabilire delle previsioni smentite dalla esperienza. Poichè il concetto anzidetto della causalità non si accorda qui coi fatti, siccome viene chiaramente dimostrato dai recenti studi di Psicologia collettiva.


La teoria, secondo la quale la conoscenza tende ad effettuarsi per mezzo di concetti è propria a sciogliere le difficoltà gnoseologiche sopra accennate.

Poichè in realtà la tappa del ragionamento induttivo che precede la deduzione, non è l’ipotesi enunciata per una misteriosa divinazione dei fatti, ma il concetto, mediante il quale i fatti stessi si suppongono rappresentati, sorgente dalle osservazioni preliminari per un lavoro (spesso inconscio) di associazione e d’astrazione. Ogni concetto, così formato, contiene delle ipotesi, ma queste debbono essere rese esplicite da una critica, che enunci i resultati della visione immaginativa riferentesi ad esso.

Nel primo esempio citato, Torricelli ha subordinato il fatto della salita dell’acqua nelle pompe al concetto dell’equilibrio di due fluidi in vasi comunicanti, il quale suppone una misura della pressione, esercitata da uno dei fluidi sull’unità di superficie proporzionalmente all’altezza e alla densità dell’altro.

Nel secondo esempio come abbiamo già rilevato, Galileo ha subordinato la sua ipotesi al concetto generale di una forza provocante la caduta dei corpi, la quale agisca su di essi, indipendentemente dai loro legami.


Contrapponiamo dunque allo schema logico di Jevons uno schema psicologico del ragionamento induttivo comprendente i quattro stadi dell’osservazione preliminare, del concetto che ipoteticamente la rappresenta, della deduzione e della verificazione. [p. 75 modifica]

Ci avviciniamo così a cogliere nella sua realtà il procedimento di acquisto delle conoscenze, e a spiegarci le misteriose facoltà del genio, a cui si attribuisce il potere divino dell’antiveggenza. Ed invero riesce comprensibile che uno studio dell’origine dei concetti possa mostrare come una sensibilità più squisita ed una associazione più estesa permettano di trarre, da un piccolo numero di osservazioni, concetti formati in guisa da rappresentare adeguatamente i fatti. Mentre, d’altra parte, la rivelazione che una prima parte del ragionamento si compie spesso per un lavoro incosciente, ci richiama a considerare le molteplici cause d’errore che a codeste previsioni si accompagnano.

E qui si noti che le nuove teorie degenerative del genio (intorno a cui non abbiamo competenza per pronuziarci) non appariscono in contrasto col concetto delle facoltà geniali sopra accennato, quante volte si mostri che la iperestesia di certe vie associative del cervello vada legata ad una più bassa tonalità di altre funzioni cerebrali.


§ 23. Teorie scientifiche.

Il procedimento innanzi descritto, mentre si compie sotto l’aspetto obiettivo nella conoscenza del fatto scientifico, si presenta nella sua formazione subiettiva come una teoria. Il nome di teoria scientifica spetta dunque ad ogni concetto o sistema di concetti, sorto per induzione da osservazioni preliminari, cui, mediante uno sviluppo deduttivo, vengano subordinati dei fatti supposti, più o meno perfettamente verificati.

Accade per altro che le fasi induttiva e deduttiva, s’intreccino nello sviluppo effettivo, per modo che la riduzione di una teoria al procedimento innanzi descritto riesca soltanto possibile se questa si spezzi in una serie di teorie concatenate fra loro, dove le conseguenze dell’una vengano accettate come premesse della successiva, al posto di osservazioni preliminari.


§ 24. Teoria della gravitazione.

Riferiamoci ad un esempio classico, sforzandoci di ricostruire psicologicamente l’acquisto della teoria newtoniana della gravitazione.

Le osservazioni astronomiche preliminari, completate per interpolazione, trovansi espresse dalle leggi di Keplero seguenti:

1) i pianeti descrivono orbite ellittiche, di cui il sole occupa uno dei fuochi;
2) le aree descritte dai raggi vettori sono proporzionali ai tempi impiegati a descriverle;
3) i quadrati dei tempi periodici sono proporzionali ai cubi degli assi maggiori.

Le medesime leggi si applicano al movimento relativo dei satelliti di Giove [p. 76 modifica]e degli altri pianeti, salvo che la terra si riferisce solo al caso di più satelliti; in ispecie le prime due leggi valgono anche pel moto della luna intorno alla terra.

Il primo passo dell’analisi di Newton consiste semplicemente nel surrogare al concetto kepleriano di un sistema di orbite ellittiche, con un dato fuoco, il concetto di un centro attrattivo intorno a cui si muovono i pianeti (o i satelliti di un pianeta) riguardati come punti. E l’idea è evidentemente suggerita da una grandiosa associazione, per cui il pensiero ricorre ai casi studiati da Huighens, dove il moto di un punto, che gira in un’orbita chiusa, importa una forza attrattiva centripeta rivolta verso l’interno, che compensi la forza centrifuga. Nel caso di un punto, legato con un filo ad un centro, il quale descriva un cerchio con velocità uniforme, la forza attrattiva (misurata dalla tensione del filo) è anzi rivolta verso il centro suddetto, e la sua misura è inversamente proporzionale al quadrato del raggio.

Ora questo è un esempio particolare in cui trovansi soddisfatte le prime due leggi di Keplero. Una deduzione ben nota conduce (con Huighens) ad estendere la conclusione al caso generale: un punto che si muova attorno ad un centro, in un’orbita chiusa, per modo da soddisfare alla seconda legge kepleriana, ha un’accelerazione rivolta verso quel centro; e se l’orbita è un ellisse ed il centro di rotazione è un fuoco, l’accelerazione risulta inversamente proporzionale al quadrato del raggio vettore.

Il movimento si può quindi spiegare ammettendo una forza attrattiva, inversamente proporzionale al quadrato della distanza, che emani dal centro e si aggiunga ad un dato impulso iniziale ricevuto in un certo istante dal mobile in guisa da soddisfare ad una certa diseguaglianza.

Si è guadagnato intanto questo, di spezzare l’ipotesi kepleriana in due altre: forza attrattiva, ed impulso iniziale soddisfacente ad una certa diseguaglianza. Lasciamo cadere quest’ultima condizione; avremo allora possibili movimenti in orbite iperboliche e paraboliche, che rientrano nel concetto newtoniano, e si presentano come una diretta generalizzazione dei moti dei pianeti intorno al sole. I movimenti in orbite quasi paraboliche (e forse anche iperboliche) trovansi approssimativamente realizzati dalle comete. Ed alle comete si sono recentemente riavvicinate le stelle filanti (Schiapparelli).

Prescindiamo da questa estensione, supponendo che le due leggi kepleriane sieno enunciate con una generalità un po’ maggiore dell’ordinario; ed aggiungiamo la terza legge, che porta l’attrazione esercitata dal sole sui pianeti, e così da Giove sui satelliti, proporzionale alle masse attratte. Si può dire con ciò che i concetti, mediante i quali si traducono i fatti nelle teorie di Newton e di Keplero, sieno equivalenti?

Certo, se si arresta lo sviluppo della teoria newtoniana alla trasformazione logica delle ipotesi kepleriane, l’equivalenza deve essere perfetta. Nulla [p. 77 modifica]di più, e soprattutto nulla di diverso in contraddizione colle premesse, potrà uscirne.

Ma il valore della trasformazione sta nella circostanza che al concetto newtoniano:

1) vengono subordinati altri fatti, oltre quelli astronomici contemplati primitivamente;
2) si associa una nuova intuizione di rapporti che, in virtù di talune analogie e di una certa semplicità e simmetria di rappresentazione, suggerisce ipotesi nuove, correggenti quelle da cui si sono prese le mosse.

La leggenda narra come la caduta di un pomo richiamasse Newton a riavvicinare il moto dei corpi cadenti alla superficie della terra con quello della luna. Se l’attrazione della terra si esercita non soltanto sulla luna, ma su tutti i corpi, in ragione inversa al quadrato della loro distanza, diguisachè l’ordinaria gravità vi rientri come un caso particolare, deve esser possibile di dedurre il valore della costante g di Galileo (l’accelerazione dovuta alla gravità) dall’accelerazione della luna, immaginando questa trasportata alla superficie della terra. Il calcolo si effettua, in una prima approssimazione, moltiplicando l’accelerazione lunare per 60², attesochè la distanza media della luna dalla terra sia 60 volte il raggio terrestre; e così appunto si ritrova, già assai bene, il valore della costante g!

A questo punto le ipotesi nuove, correttrici del sistema kepleriano, sorgono dalla rappresentazione ottenuta dei fatti, in virtù di associazioni suggestive.

Il sole attira i pianeti, i pianeti attirano i satelliti; in particolare la terra attira la luna, e l’attrazione si esercita non sulla luna soltanto, ma su tutti i corpi che circondano la terra, e si rivela alla superficie di questa come gravità. Il passo da fare è un semplice allargamento delle ipotesi; anzitutto: l’attrazione si esercita da ciascuno dei corpi celesti su tutti gli altri, sempre proporzionalmente al prodotto delle masse e in ragione inversa al quadrato delle distanze.

Questa estensione, oltrechè dal rimuovere limitazioni di cui non si vede a priori il motivo, nasce già in parte dal proseguire l’analogia col movimento di un punto legato ad un centro, dove all’azione centripeta corrisponde una reazione centrifuga uguale ed opposta. Prima di tutto Newton fu tratto a porre in generale il principio d’azione e reazione e ne dedusse tosto che l’attrazione si esercita anche dai pianeti sul sole; ciò non importa ancora una vera correzione delle leggi kepleriane, finchè esse si considerino come espressione del moto relativo. Ora perchè la stessa attrazione non si eserciterebbe anche dai pianeti gli uni sugli altri? Se l’effetto di codesta attrazione fosse molto notevole, le leggi di Keplero sarebbero visibilmente false; ma poichè si tratta di perturbazioni assai piccole, durante tempi non troppo lunghi, è possibile [p. 78 modifica]ammettere che le ipotesi di Keplero rappresentino soltanto una prima approssimazione, e che, adottando l’ipotesi dell’attrazione estesa, si possa ottenere una approssimazione più precisa.

Tutti sanno che così accade difatti, e già abbiamo avuto occasione di ricordare, fra le verifiche della teoria newtoniana, la brillante scoperta di Nettuno.

L’ultimo passo consiste nell’estendere l’ipotesi d’attrazione a corpi materiali qualsiansi; l’attrazione dei corpi celesti viene allora riguardata non come una forza emanante dai loro baricentri, ma come una resultante di forze pertinenti alle loro particelle.

Ecco un fatto supposto interamente nuovo, che ha trovato conferma diretta nelle esperienze di Cawendisch, proseguite e perfezionate da numerosi sperimentatori: si aggiungono le indirette conferme di Airy, misurante la variazione della gravità nelle viscere della terra, di Carlini, che ha valutato l’influenza esercitata sulla gravità da prossime montagne, ecc. Nel campo astronomico l’ipotesi così estesa conduce d’altronde ad una correzione della teoria, dove si tenga conto della forma dei corpi celesti; in ispecie allo schiacciamento della terra ai poli corrisponde una effettiva perturbazione caratteristica del moto lunare, la quale fu determinata da Laplace.


La teoria, che ha preso nome della gravitazione universale, mentre risolve il problema del moto nel sistema planetario, con un grado d’esattezza non superato da alcuna teoria fisica3, si allarga, con meraviglioso progresso, in più direzioni.

I movimenti relativi delle stelle doppie, osservate da Herschell in poi nelle più lontane regioni dei cieli, si adattano alla spiegazione newtoniana4. La forma dei corpi celesti, ed in ispecie quella della terra, riesce pure spiegata sufficientemente in base all’attrazione delle varie parti, ammesso uno stato fluido originario del corpo (ellissoidi di Mauclarin); l’ipotesi di Clairaut che la densità della terra varii per ellissoidi concentrici, conduce anche ad apprezzare a priori quantitativamente lo schiacciamento dell’asse polare della terra, e si trova il numero

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che è in buon accordo col resultato delle misure geodetiche, le quali danno (secondo Clarke)


Si aggiunga, sulla terra, la determinazione delle maree, che già Newton aveva riattaccate all’attrazione lunare, e da cui Laplace ha tratto previsioni concrete, utili ai marinai.

Dove si arresterà questo sviluppo?

I fenomeni di adesione e di capillarità, mostrano che a distanze molto piccole si esercitano azioni più forti della newtoniana. Si è condotti quindi ad una nuova estensione dell’ipotesi: forze centrali dipendenti dalle distanze secondo uno sviluppo in serie di potenze negative; i termini dello sviluppo, oltre la potenza — 2, sarebbero trascurabili, allorchè si tratta di distanze sensibili.

Non c’inoltriamo a discutere le questioni che qui prenderebbero origine, rimandando per alcune di esse al cap. VI.

Ma vogliamo notare soltanto questo, che: l’ipotesi newtoniana e quella più generale accennata, presentandosi come equivalenti, nell’ordine delle approssimazioni astronomiche, rimane qui una libera scelta, la quale conduce ad adottare la prima formula, come istrumento di previsione più facile, entro il campo dell’Astronomia.


§ 25. Critica delle teorie.

L’esempio della teoria newtoniana, considerata nei suoi successivi stadii di sviluppo, illustra in particolare le seguenti circostanze:

1) La formazione dei concetti, ed il conseguente sviluppo delle ipotesi, dall’associazione di osservazioni diverse.
2) L’astrazione da taluni dati e quindi la progrediente indeterminazione delle teorie. Invero nel passaggio dalle leggi kepleriane alla legge newtoniana si eliminano prima di tutto certe costanti accidentali (posizioni e velocità iniziali) che vengono determinate, pei varii casi, dalle osservazioni verificatrici.
3) La subordinazione di nuovi rapporti ad una teoria generale mediante ipotesi ausiliarie.
4) L’equivalenza di diversi sistemi di concetti rispetto ad un certo gruppo di fatti rappresentati, e lo sviluppo da codesti concetti di ipotesi diverse in un ordine più esteso di rapporti.
5) L’equivalenza di ipotesi diverse relativamente ad una serie di osservazioni ed esperienze, prese in un certo ordine di approssimazione.

Dalle circostanze 4) e 5) scaturiscono diversi modi di semplificare le [p. 80 modifica]teorie entro un certo campo di previsione; e nel secondo caso la semplificazione è suscettibile di un apprezzamento quantitativo preciso.


Ora il processo di formazione dei concetti si può allargare enormemente, aggiungendo agli oggetti reali degli enti fittizii (cfr. § 18), a fine di spingere più innanzi certe associazioni, e di aiutarne la visione immaginativa.

A tale finzione non si può porre a priori limite alcuno, ma deve esigersi che, allo sviluppo delle teorie in questo senso, corrisponda una critica opportuna.

La conoscenza teorica così proseguita, non si riferisce più ad un insieme di rapporti reali, verificabili dall’esperienza; accanto al mondo fisico di questa, essa crea un mondo immaginario, metafisico, al di là di ogni esperimento possibile, e pensa l’uno e l’altro come due parti non distinte (se pure l’una visibile e l’altra invisibile) di una medesima realtà. Ora spetta alla critica di scernere le ipotesi e le conseguenze che si riferiscono a codeste due parti; infine soltanto ciò che si riferisce alla prima ha un senso reale, cioè costituisce una conoscenza effettiva; mentre, ciò che vi è di immaginario nella teoria deve essere pensato soltanto come un mezzo di acquisto della conoscenza. Codesto mezzo è efficace appunto perchè il sistema delle immagini si concatena con quello dei fatti, ma a tale efficacia corrisponde la difficoltà di valutare gli acquisti ottenuti. Pertanto la critica di una teoria dovrà condurre ad una trasformazione delle ipotesi rappresentative adottate, in guisa da separare le ipotesi fisiche in esse contenute, dalle ipotesi (metafisiche) indifferenti che si riferiscono soltanto agli enti fittizii, ed importano rappresentazioni diverse, ma equivalenti, di un certo gruppo di fatti.

Qui è opportuno rilevare subito che l’equivalenza di due sistemi d’ipotesi rappresentative, rispetto alla realtà, dipende dai legami che si pongono idealmente fra gli oggetti fisici e gli enti fittizii, e perciò le ipotesi indifferenti possono acquistare un significato fisico in una estensione della teoria, che subordini allo stesso sistema di immagini un gruppo più ampio di fatti.

Procediamo ad illustrare le cose dette con alcuni esempii.


§ 26. Teoria elettrostatica di Poisson.

È noto come Poisson sia riuscito a subordinare i fenomeni della elettricità statica ad una teoria, intimamente legata alla teoria newtoniana.

La parola elettricità risveglia la sensazione di una particolare scossa nervosa, la quale si accompagna ai fenomeni della scarica elettrica (scintilla, ecc.).

Osservando le circostanze che precedono o determinano codesto fatto, si constata l’esistenza di attrazioni e repulsioni fra i corpi posti in certe condizioni (elettrizzati), dove si tratta in ogni caso di forze di ordine superiore rispetto a quelle della gravitazione. [p. 81 modifica]

I fenomeni dell’attrazione e della scarica elettrica si accordano colla rappresentazione di fluidi attraentisi trattenuti dai corpi elettrizzati, i quali, al di là di un certo limite, vincano la resistenza opposta dai corpi stessi alla loro uscita. Per spiegare le due specie di azione, attrattiva e repulsiva, Poisson ha immaginato due fluidi: l’elettricità positiva e l’elettricità negativa.

Le ipotesi rappresentative si possono enunciare come segue:

1) Esistono nei corpi due fluidi elettrici, positivo e negativo, che in determinate condizioni (fenomeni statici) sono trattenuti nei corpi stessi, posti in un mezzo coibente, p. es., nel vuoto.
2) Vi sono corpi buoni conduttori e cattivi conduttori (coibenti): nei primi la distribuzione dei fluidi elettrici raggiunge quasi istantaneamente uno stato d’equilibrio, indipendente dal modo di caricamento e dipendente soltanto dalla forma del corpo e dalla quantità del fluido contenutovi; nei secondi i fluidi elettrici circolano lentissimamente e possono quindi ritenersi trattenuti dalle particelle della materia.
3) In ogni conduttore non elettrizzato vi sono quantità o masse uguali dei due fluidi (che si neutralizzano). In un conduttore elettrizzato vi è un eccesso dell’uno sull’altro.
4) Fluidi dello stesso nome si attraggono, fluidi di nome contrario si respingono, e l’azione è (per due elementi) proporzionale al prodotto delle masse.
5) L’azione attrattiva e repulsiva dei fluidi è, per due elementi di volume, in ragione inversa al quadrato della distanza.

Queste ipotesi si presentano in parte come relazioni dei fluidi fittizii fra loro, in parte come relazioni di questi coi corpi; ma è facile il ricavarne ipotesi fisiche, esprimenti taluni fatti elementari.

Così infatti la 1) rappresenta anzitutto la permanenza dello stato elettrico; la 2) certe circostanze fondamentali della elettrizzazione per contatto o per induzione; la 5) traduce la legge di Coulomb, e la 3) e 4) esprimono le altre condizioni sperimentali dell’azione elettrica:

a) la riunione di due corpi elementari elettrizzati esercita un’azione uguale alla somma algebrica di questi;
b) se due corpi elementari elettrizzati vengono posti a contatto e poi nuovamente disgiunti, di tanto aumenta algebricamente l’azione attrattiva dell’uno di quanto diminuisce quella dell’altro.

Rimane di più nelle predette ipotesi 3) e 4) l’ipotesi indifferente che: l’azione del fluido positivo sia uguale e contraria a quella del negativo a parità di massa. Invero, mancando un effettivo modo di confrontare direttamente le masse dei due fluidi, il rapporto delle masse che si neutralizzano può prendersi come una costante arbitraria, attribuendole un valore diverso dall’unità.

Dopo l’accennata traduzione, che cosa rimane di più nell’ipotesi [p. 82 modifica]rappresentativa fondamentale? quali conseguenze fisiche importa ancora l’esistenza fittizia dei fluidi elettrici?

Il valore dell’ipotesi anzidetta non è bene determinato, finchè non si prestino ai fluidi immaginari alcune proprietà dei fluidi reali; ed è chiaro che a priori non vi è alcun limite alla determinazione in questo senso del sistema di immagini. Si applichino ai fluidi elettrici i principii della Meccanica, e (ad es. con Gauss) si supponga quindi che:

6) la condizione d’equilibrio s’esprima rendendo massimo o minimo il potenziale delle masse elettriche sopra se stesse.

Il calcolo permette allora di determinare la distribuzione del fluido in un conduttore elettrizzato. La conseguenza è che:

L’elettricità si distribuisce in un conduttore soltanto sopra la superficie e non nell’interno, e la distribuzione superficiale dipende, in un modo analiticamente ben definito, dalla quantità d’elettricità (massa) e dalla forma della superficie anzidetta. Questo teorema di distribuzione costituisce il fatto fisico fondamentale a cui la teoria conduce; e se ne hanno differenti verifiche nelle esperienze di Faraday, che constatano la non esistenza d’elettricità all’interno dei conduttori, nel potere dispersivo delle punte, ecc.

Anzi può dirsi, in un certo senso, che il suddetto teorema di distribuzione equivale alla teoria di Poisson, cioè ne enuncia insomma tutto il contenuto positivo; e di più la prima parte del teorema equivale da sola all’insieme delle altre ipotesi, se si dice la rappresentazione meccanica dei fluidi elettrici. Infatti dalla non esistenza di elettricità all’interno di un conduttore (esperienze di Faraday) si deducono a loro volta le leggi dell’attrazione elettrica e in ispecie quella di Coulomb, che acquista in tal modo un grado d’approssimazione più grande di quello che le viene dall’esperimento diretto (Bertrand).


Ora notiamo che la rappresentazione posta a base della teoria elettrostatica di Poisson può mutarsi in modo grandemente arbitrario, costruendo una serie di teorie equivalenti.

Accenniamo soltanto all’ipotesi del fluido unico, e a quella di Maxwell che surroga al concetto di masse attraentisi e repellentisi, quello di un mezzo elastico interposto esercitante sui corpi elettrizzati delle pressioni e tensioni (cfr. cap. VI).

È difficile confrontare queste diverse teorie sotto l’aspetto della facilità di previsione o della economica descrizione dei fatti accennati, in esse ugualmente contenuti. Così la scelta viene determinata da altri criterii, cioè dalla adattabilità di esse ad un ordine più esteso di rapporti. Invero rispetto ad una estensione della teoria, le ipotesi rappresentative non sono più da considerarsi come indifferenti; così, p. es., la teoria del fluido unico si presta a render [p. 83 modifica]conto di certe differenze fra i due stati elettrici, positivo e negativo, non più considerati simmetricamente.

Ma soprattutto in due casi si presentano dei problemi di fatto dipendenti dalle sopra accennate ipotesi rappresentative:

a) Quando si voglia estendere la teoria ad abbracciare la spiegazione dei fenomeni elettrici che avvengono nei corpi in movimento (tempo di propagazione dell’azione elettrica, ecc.).
b) Quando, senza uscire dalla Elettrostatica, si voglia tener conto del modo come varia l’azione elettrica al variare del mezzo.

Se, p. es., si concepisce l’attrazione di due punti elettrizzati come trasmessa secondo la linea retta che li congiunge (rappresentazione del filo elastico), si viene a supporre che codesta attrazione non varii quando il mezzo sia modificato in una parte non attraversata da quella linea; ed ecco un’ipotesi falsa, la quale mostra come l’accennato concetto teorico non sia adeguato ai fatti.

Da tali considerazioni sorge un motivo di preferenza per la teoria maxwelliana (cfr. cap. IV); ma a noi basta qui di aver messo in luce come la determinazione degli enti fittizii, che vengono aggiunti a rappresentare certi fatti, varii e si vada progressivamente compiendo per rispondere alla estensione delle conoscenze.


§ 27. Teoria delle soluzioni.

Un altro esempio interessante è offerto dalla teoria delle soluzioni, costruita da Van’ t’ Hoff.

Il fondamento della teoria sta nell’associazione intima stabilita fra le soluzioni e i gas, sotto il concetto di sostanza diffusibile.

La diffusione di un gas ha trovato un’adeguata immagine nel sistema cinetico, ove il gas stesso viene pensato come un insieme di particelle liberamente mobili, che coi loro urti determinano la pressione. La stessa rappresentazione si può adattare alle soluzioni, attesochè il disciogliersi di una sostanza in un liquido si manifesti come una disgregazione progressiva; ed è suggestivo di paragonare questo modo di scioglimento al diffondersi di certi vapori nell’atmosfera.

La teoria cinetica dei gas (cfr. Cap. VI) conduce, anzitutto, in una prima approssimazione, alle seguenti leggi dei gas perfetti:

1) La proporzionalità della massa al prodotto del volume e della pressione (legge di Boyle).
2) La proporzionalità del volume alla temperatura (legge di Gay Lussac).

La massa, il volume e la temperatura di un gas corrispondono [p. 84 modifica]immediatamente alla quantità della sostanza disciolta, al volume del solvente e alla sua temperatura (densità = concentrazione).

Come si manifesterà la pressione di una soluzione?

Quando abbiamo un gas in un recipiente messo nel vuoto, la pressione sulla superficie si rende facilmente manifesta, in quanto si ha una forza che agisce normalmente alla superficie stessa dall’interno verso l’esterno. Ma se nel recipiente suddetto si avessero due gas, mescolati, codesta forza si presenterebbe come la somma delle pressioni di ciascuno di essi, che, in questo caso, non riusciremmo a distinguere. Supponiamo tuttavia che la superficie del recipiente lasci passare uno dei due gas, ma non l’altro; il primo si metterà in equilibrio coll’ambiente esterno, e la forza agente sulla superficie dall’interno verso l’esterno ci darà la pressione del secondo.

Questa condizione si può analogicamente riportare ad una soluzione. Istituiamo, a tale scopo, un’esperienza ideale.

Si abbiano due vasi comunicanti nei quali si trovi un liquido, p. es., dell’acqua; questa si disporrà in essi alla medesima altezza, secondo la legge dell’equilibrio idrostatico. Il suddetto equilibrio non viene disturbato se i due vasi sono separati da un setto permeabile all’acqua.

Ora fra i setti permeabili all’acqua se ne trovano siffatti che non lasciano passare una sostanza disciolta. Se dunque si hanno due vasi comunicanti pieni d’acqua, in uno dei quali si trovi una soluzione, i due vasi siano separati da un cotal setto semipermeabile, la pressione della soluzione, dovuta agli urti delle particelle mobili che la costituiscono, si eserciterà sopra il setto. Come potremo misurarla?

Immaginiamo che il setto possa muoversi in uno dei due vasi (di forma cilindrica) a guisa di stantufo. Noi lo vedremo spostarsi per modo da aumentare il volume della soluzione. Per impedire lo spostamento occorre esercitare sul setto, nel senso inverso, una forza, la quale misura appunto la pressione che vogliamo determinare.

Siano A e B i due vasi; A contenga la soluzione; sia s il setto al quale sia unita un’asta che sostenga un cilindro solido b di raggio quasi uguale a B (come mostra la figura), ed avente una densità uguale a quella dell’acqua in cui è immerso. Il cilindro b si solleverà, in parte, al di sopra della comune superficie di livello dell’acqua nei vasi A e B, ed il peso della parte emersa ci darà la pressione esercitata dalla soluzione su s, tostochè si abbia una condizione d’equilibrio.

Ma l’equilibrio del nostro sistema, su cui agiscono forze esterne ed interne, esige che queste e quelle separatamente si equilibrino.

L’emersione del cilindro b assicura l’equilibrio delle forze interne. Perchè sussista quello delle forze esterne, deve essere verificata la condizione espressa [p. 85 modifica]dal principio d’Archimede: l’acqua deve essere salita nel vaso A alla stessa altezza cui si trova la base superiore (emergente) del cilindro b. Ciò posto è chiaro che l’equilibrio di tutto il sistema non viene alterato se si fissa il setto al vaso B, e si toglie il peso del solido b emerso dall’acqua, il quale diventa così inutile.

Fig. 2.

Arriviamo pertanto alla seguente conclusione:

Se sono dati due vasi comunicanti contenenti un medesimo liquido, in uno dei quali si trovi una soluzione, e se i due vasi sono separati da un setto semipermeabile, la pressione della soluzione, in quanto si concepisca la soluzione stessa come un gas, viene misurata dalla differenza di altezza del solvente nel primo e nel secondo vaso.

L’esistenza di una pressione così intesa si traduce dunque nella ipotesi di un fatto, che fu osservato sperimentalmente da Pfeffer; e la pressione anzidetta prende il nome di osmotica.

«La pressione osmotica di una soluzione è proporzionale alla concentrazione, ed inversamente proporzionale al volume».

Questo fatto, che si verifica sperimentalmente in modo assai approssimato per le soluzioni diluite (Pfeffer), corrisponde dunque alle medesime ipotesi rappresentative che si traducono, pei gas, nella legge di Boyle.

Van’ t’ Hoff, ravvisando appunto questa legge nel fatto osservato da Pfeffer, fu tratto a prevedere che sussista ancora per le soluzioni la legge di Gay Lussac, la quale prende qui la forma: [p. 86 modifica]

«La pressione osmotica di una soluzione è proporzionale alla temperatura».

E ciò fu sufficientemente verificato dall’esperienza.


Negli sviluppi precedenti abbiamo adoperato la rappresentazione meccanica come un modo di determinare ciò che corrisponde alla pressione di un gas, nell’analogia stabilita fra gas e soluzioni. L’ipotesi cinetica può dopo ciò ritenersi fino ad un certo punto come indifferente, limitandone l’applicazione ai principii dell’energetica. Appunto in base al principio dell’equivalenza fra calore e lavoro, Van’ t’ Hoff è riuscito a spiegare i fatti dell’abbassamento della temperatura di congelazione e dell’innalzamento della temperatura di ebullizione, che, per le soluzioni diluite, è proporzionale alla concentrazione (esperienze di Raoult). Infatti, se ci si riferisce, p. es., al secondo caso, basta notare che per far bollire un liquido contenente una sostanza disciolta, occorre fornire oltre al calore di vaporizzazione, un calore equivalente al lavoro di compressione della soluzione.

Nel successivo progresso della teoria delle soluzioni, la rappresentazione cinetica occupa ancora un posto secondario. La legge chimica di Dalton (relativa ai volumi di combinazione dei gas) si estende alle soluzioni, in base alla teoria atomica (ipotesi di Avogadro), e si corregge allo stesso modo, ammettendo la decomposizione delle molecole in ioni.

Ma quando si tratta di render conto di certe particolari differenze fra i gas e le soluzioni, il ricorso alle ipotesi cinetiche rappresentative ritorna utile, giacchè, l’ipotesi di una azione del solvente sul movimento delle particelle in soluzione, conduce con Jahn, ad una correzione delle leggi delle soluzioni, in un ordine d’approssimazione maggiore.


§ 28. Economia e sviluppo psicologico delle teorie.

Gli esempii, scelti da alcune teorie fisiche più determinate, illustrano ciò che abbiamo detto innanzi sotto forma generale, e ci conducono a conchiudere la nostra critica delle teorie, con una nuova posizione di problemi.

Notammo già che una teoria scientifica può essere riguardata o come formata, da un punto di vista attuale, o nel suo sviluppo, cioè da un punto di vista genetico.

Sotto l’aspetto attuale la teoria si presenta come un insieme di fatti e quindi di previsioni; ma le stesse previsioni possono riuscire più o meno facili, dipendentemente dalla costruzione dei concetti.

La facilità della previsione viene considerata da E. Mach come lo scopo della scelta, che in ogni momento dello sviluppo scientifico si fa fra teorie equivalenti; più precisamente il Mach esprime questo scopo dicendo che la conoscenza tende ad assumere la forma più economica. E la legge di [p. 87 modifica]economia è pensata come un principio di selezione naturale, nella lotta fra le diverse rappresentazioni dei medesimi fatti, che si svolge nel campo individuale e sociale.

A questa veduta magnifica, si può aggiungere soltanto l’osservazione (messa in luce negli esempii precedenti) che il criterio di economia presenta, in diversi casi, un diverso valore determinativo; e mentre spesso impone la scelta entro un certo sistema di concetti o d’immagini, più di rado riesce a dirimere la questione di preferenza fra rappresentazioni diverse.

Ma se alla veduta della Scienza attuale si contrappone la veduta genetica, l’arbitrarietà delle ipotesi rappresentative va connessa anche alla possibile estensione delle teorie; e da questa spesso emerge un criterio di giudizio, risolvente il conflitto.

Ora in questo secondo aspetto, la teoria scientifica ci appare come uno sviluppo psicologico, che procede in un senso propriamente induttivo, cioè trae da nuove associazioni ipotesi nuove, e dalla verifica di queste s’innalza ad associazioni e ad ipotesi più estese e più precise.

Riprendendo il confronto biologico, in cui la vita delle teorie si confronta con quella degli esseri organizzati, si può dire che la legge d’economia pone soltanto un limite a codesto sviluppo, così come la selezione naturale opera una eliminazione degli esseri inadatti alla vita. Ma le cause positive dello sviluppo sono da ricercare nell’attività psichica, ed il modo di quello deve spiegarsi mediante una veduta delle leggi che a questa presiedono. Le ragioni storiche (che possono essere contrapposte all’eredità biologica) costituiscono un primo indirizzo di spiegazione; ma alla veduta storica si può aggiungere una critica dei processi mentali, che valga propriamente a dilucidare la formazione e la variazione dei concetti.

Pertanto sorgono di qui due ordini di problemi.

In primo luogo i problemi che si riferiscono allo sviluppo deduttivo della Scienza, cioè ai processi logici di trasformazione dei concetti e delle ipotesi, riguardati sia nell’aspetto puramente psicologico, sia nella applicazione propriamente scientifica. Dall’esame di questi scaturirà in particolare l’arresto necessario di ogni sviluppo deduttivo; sicchè l’alternarsi di una fase induttiva e di una fase deduttiva, che abbiamo scorto nelle costruzioni teoriche, si paleserà sotto un aspetto più generale come legge di sviluppo delle scienze.

Appunto allo sviluppo induttivo della Scienza si riattacca il secondo ordine di problemi cui accennavamo testè: si tratta di spiegare il significato reale e l’acquisto dei concetti più generali ed astratti della Geometria, della Meccanica, ecc., a cui fanno capo le varie rappresentazioni che formano oggetto delle particolari teorie.

Per tal modo la critica della Scienza ci mette in faccia a ben determinate questioni gnoseologiche.

Note

  1. Conviene citare particolarmente Julius Pikler: «The psychology of the believe in objective existence». (Williams and Norgate, London, 1890); opera che mi fu segnalata dopo la pubblicazione della prima edizione di questo libro.
  2. «Nouvelle classification des Sciences», Paris. Alcan, 1901. Cfr. la critica di G. Vailati nella Rivista di Biologia generale, luglio 1902.
  3. Cfr. in ispecie l’ultimo capitolo del «Traité de Mécanique céleste» di Tisserand (Gauthier et Villars, Paris, 1889-1896).
  4. Cfr. in particolare le note di Darboux e Halphen nei Comptes rendus de l’Acad. des Sciences de Paris, t. 84.