Storia segreta/Lettera del cav. Compagnoni a Francesco Giovannardi

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Lettera del cav. Compagnoni, al sig. avvocato Francesco Giovannardi, già presidente della Corte di Giustizia in Bologna, che serve di prefazione al volgarizzamento della Storia segreta di Procopio.

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Procopio di Cesarea - Storia Segreta (VI secolo)
Traduzione dal greco di Giuseppe Compagnoni (1828)
Lettera del cav. Compagnoni, al sig. avvocato Francesco Giovannardi, già presidente della Corte di Giustizia in Bologna, che serve di prefazione al volgarizzamento della Storia segreta di Procopio.
Introduzione
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LETTERA

DEL CAV. COMPAGNONI

AL SIG. AVVOCATO

FRANCESCO GIOVANNARDI

GIÀ

PRESIDENTE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA.

IN BOLOGNA

CHE SERVE DI PREFAZIONE

AL VOLGARIZZAMENTO

DELLA STORIA SEGRETA DI PROCOPIO




Noi siam giunti ormai, mio buon Amico, a tal parte della età nostra, che potendo da un giorno all’altro essere tratti colà d’onde non più si ritorna, sta bene che nella distanza de’ luoghi, in cui le combinazioni umane ci han posti, per ultima consolazione pensiamo a congedarci con lettera, nol potendo far di presenza con mutuo abbracciamento. Anche così possiam confermarci e ricordare con egual senso l’antico affetto che fino dai nostri primi anni ci congiunse. Or questo è ciò che oggi mi è venuto in animo di eseguire, giacchè l’anticipar quest’officio mi crea dolcissimo piacere in cuore, e l’averlo protratto potrebbe esporci a [p. 2 modifica]rincrescimento tristissimo. Io non posso dirvi le quante volte la memoria di que’ begli anni mi si sia in ogni periodo della vita presentata alla mente, e come ad ogn’istante meco stesso con infinita commozione ricordi gl’innocenti piaceri, che l’onestà dei nostri desiderii, e i comuni studii ci procacciavano. Ben sovverravvi come in mezzo alle applicazioni scolastiche la storia spezialmente formava le nostre delizie; e sapete con che ardente curiosità cercavamo quanto ne’ passati tempi era occorso tra gli uomini, avidi noi fra le altre cose di conoscere quanto per l’addietro era avvenuto nel mondo, e di sapere se gli uomini delle passate età fossero stati più saggi, e più fortunati di quelli del secol nostro. E in questo proposito godo rammentare un caso, che per assai tempo ci turbò; e fu quello, che avendo noi in non so quale compilatore di Storie del Basso Imperio veduto citarsi Procopio, che fiorì ai tempi di Giustiniano, e molto parlarsi della sua Storia segreta, gran desiderio ci venne di leggere quell’opera, e grandi cure ci demmo, ma inutili, per ritrovarne alcun esemplare. Non era gran copia di libri nella città nostra; e il più, di che abbondavano le biblioteche, nelle quali potevamo cercarla, riducevasi a volumi di legali, di teologi, di predicatori e di ascetici: scarsissimi essendo, come quelli della buona filosofia, così quelli ancora della buona storia. Memore delle angustie che noi allora provammo, [p. 3 modifica]dappoichè l’anno scorso quella Storia segreta, già in altri tempi poi letta, mi capitò di nuovo alle mani, trovandomi ozioso in villa mi cadde in pensiero di volgarizzarla, onde chiunque ama i buoni studii, desiderando di leggerla, possa averne la facilità che non potemmo aver noi: chè carità letteraria è questa, e degna di ogni animo gentile, al desiderio dell’altrui liberale curiosità soccorrere per quanto il consentano le nostre forze. Di questa singolarissima Storia adunque, che or dò alla luce, ragionerò volentieri con Voi, e prenderò Voi per primo giudice di quanto mi occorrerà dire a dilucidazione de’ dubbii, ch’essa ha eccitati in parecchi: nè temo che possa dispiacervi ch’essa sia il soggetto di questo intrattenimento nostro, quand’anche dovesse essere l’ultimo; e perchè appunto potrebbe essere l’ultimo, non vi sarà grave se sarò alquanto lungo nel mio discorso.

Certamente dee a Voi esser noto come, allorquando Niccolò Alemanno, trovato avendo nel cinquecento tra i codici della Biblioteca Vaticana il IX libro delle Storie di Procopio, e a buona lezione ridotto, e diligentemente voltato in latino, l’ebbe pubblicato, altissima fu la sorpresa in che caddero gli nomini di lettere di quel tempo, poco meno che scandolezzati di quanto contra l’opinione, che allora comunemente correva intorno al carattere e ai fatti [p. 4 modifica]dell'imperador Giustiniano, in quel libro leggevasi. Sino a quell’epoca stava per esso lui la voce delle tante città, provincie e regni, che in addietro dominati dall’imperio romano e poscia perduti, da lui colla forza delle armi erano stati ricuperati. Nè di altro parlavasi che delle molte Nazioni barbare innanzi a lui sì potentemente funeste all’Imperio, e da lui per somma ventura o distrutte affatto, o represse, o condotte ad utile alleanza. Per lo che veniva senza difficoltà paragonato agli antichi più gloriosi Imperadori, come quegli appunto che, mentre le romane cose da Costantino in poi venute erano ognor più declinando, parve sorto frattanto a felicemente raffermarle. Aggiungevasi poi che per le Costituzioni da lui pubblicate, per le leggi degli antecedenti Imperadori d’ordine suo compilate in un Codice, pei Responsi degli antichi Giureconsulti, numerosissimi, sparsi, e difformi, per cura sua raccolti, e con industriosa brevità renduti facili agli studiosi, e finalmente per le sue Istituzioni su quei monumenti dettate, un titolo singolarissimo erasi in favore di lui creato, come di benemerenza universale, così ancora di speziale e propria gloria: sicchè quanta sapienza, giustizia, e santità in quelle opere ammirabili traluceva, tutte nel nome suo concentravansi, sopra quello di ogni passato Cesare fatto sì chiaro e distinto, che nulla più che della sapienza di Giustiniano, e della giustizia e santità sua [p. 5 modifica]parlavasi, argomentate queste virtù dalle leggi, ch’egli avea promulgate. E i Giureconsulti massimamente, i quali nella intelligenza, illustrazione, e predicazione di quelle messo aveano lunghi e faticosi studii, e da tali studii ripromettevansi onori, dignità, ricchezze, naturalmente erano condotti a sostenerne per proprio interesse, e a propagarne la riputazione. E che lunghi proloquii non ci facevano sulle glorie di Giustiniano i nostri Maestri dichiarandocene le Istituzioni?

È dunque facile il comprendere come tanta massa di riprovevoli cose in questo IX libro di Procopio esposte rispetto alla condotta di Giustiniano non poteva ottenere pronta persuasione a fronte di una generale prevenzione sopra sì notabili considerazioni formata, e da si lungo tempo radicata negli animi. Chè da una parte, se alcuni meno onorevoli particolari intorno ai fatti di quell’imperadore sapeansi, questi presso le menti dei più rimanevano coperti dalla luce splendidissima delle grandi imprese accennate; e dall’altra parte è a tutti noto come i più degli Storici, o a Giustiniano contemporanei, o poco dopo lui fioriti, quando l’Alemanno pubblicò il IX libro delle Storie di Procopio o non conoscevansi gran fatto, o non venivano letti; perciocchè nella restaurazione delle lettere solamente a gradi a gradi gli antichi codici si andaron trovando, e per le cure laboriose, quale di uno, quale di altro [p. 6 modifica]investigatore vennero ripuliti, e messi in luce. Laonde non è meraviglia, se i molti in Europa, che tante belle cose di Giustiniano credevano, al sì diverso carattere che di lui esponeva Procopio, stato negli otto antecedenti libri espositore delle politiche sue imprese, turbaronsi, siccome di fatto avvenne.

Ed una particolarità tutta propria di questo IX libro di Procopio concorre a far vedere come il suo nuovo apparire colpir dovea in singolar modo le menti degli uomini di lettere. L’Autore, che lo intitolò Storia segreta, avendolo scritto, com’egli dichiara, in supplemento di quanto avea dovuto per propria sicurezza tacere nei libri antecedenti, prese sì giuste misure per occultarlo, che chiaramente apparisce come anche dopo la morte di lui dovè rimanere veramente segretissimo. Imperciocchè in nissun MS. che contenesse gli altri otto libri delle sue Storie, si è trovato congiunto ai medesimi: il che prova che non potè facilmente venire alle mani di tanti copisti, i quali pel corso di settecento anni andarono moltiplicando gli esemplari dei primi otto. Era esso dunque stato custodito separatamente, e passato in pochissime mani. La qual cosa è si manifesta, che veggiamo da Fozio non essere punto rammemorato, mentr’egli parlò de’ primi otto libri; e Niceforo di Callisto, scrittore diligentissimo, non ne avea fatta menzione che sull’altrui fede, giacchè parlandone egli non [p. 7 modifica]ne riferisce esattamente nè l’argomento, nè il titolo. Svida fu il solo, che dopo parecchi secoli avendolo avuto sott’occhio, ne facesse menzione esatta, e ne trascrivesse una parte nei suoi Collettanei.

Sulla fede appunto di Svida gli amatori de’ buoni studii incominciarono le ricerche di questo libro; e per molto tempo non altro seppesi, se non che Giovanni Lascaris ne avea recato in Italia da Costantinopoli un esemplare, donato da lui a Lorenzo de’ Medici: poi quando dietro a questa indicazione le investigazioni s’impegnarono più caldamente, non si seppe altro se non che tenevasi per probabile cosa che Catterina de’ Medici l’avesse portato seco in Francia. Mentre poscia alcuni pensavano di rivolgere le loro diligenze a quel paese, s’ebbe notizia, che un altro esemplare n’era stato posseduto da Giovanni Pinelli; e più che di quello del Lascaris, di questo si era accertati, posciachè Pietro Piteo, e Guido Pancirolo, da esso aveano tratti varii frammenti. Ma l’esemplare del Pinelli si disse perito in mare, essendosi per naufragio sommerso il legno, su cui si spediva a Napoli.

Fu bell’avventura di Niccolò Alemanno, custode della Biblioteca Vaticana, che ivi ne trovasse due esemplari: tanto più fortunato, che in quel tempo stesso i Francesi, i quali invano cercato aveano presso di loro quello che dicevasi recato seco da Catterina, eransi rivolti al Cardinale di s. Susanna, bibliotecario della [p. 8 modifica]Chiesa romana, non più sperando di trovarne traccia che in Roma.

In Roma adunque era infatti questo IX Libro di Procopio; e l’Alemanno ragionando de’ due esemplari da lui trovati avvisa come evidentemente appariva l’uno di essi tratto dall’altro; entrambi poi mancanti del principio, e rotti per diverse lacune; il più antico mancante eziandio del fine; e il meno antico, che il fine conteneva, o più veramente, che per alcun tratto continuava oltre al termine in cui l’altro finiva, era dell’altro più guasto, e malamente scritto. L’edizione, che quel valentuomo ne pubblicò, chiaramente dimostra il lungo e diligentissimo studio, ch’egli fece intorno a questo libro, perciocchè oltre avere con somma cura confrontati i passi estratti da Svida co’ suoi codici, se non ebbe modo nelle altre parti di riempiere le lacune, almeno ne chiarì la lezione dappertutto, e lo purgò di ogni macchia, di che il tempo e i copisti potessero averlo gravato. Egli fece anche di più. Con Note eruditissime andò seguendo Procopio nelle sue narrazioni, e dappertutto raccolse testimonianze a giustificazione di quanto pareva a prima vista da quello Storico detto con iscandalosa esagerazione.

L’Alemanno pubblicò in Lione la Storia segreta di Procopio l’anno 1623. Nel 1654 l’Eiscelio la riprodusse in Helmstadt: ma vi aggiunse virulente osservazioni [p. 9 modifica]contra l’Alemanno e l’Autore medesimo, e note stravagantissime in difesa di Giustiniano; e come se poca fosse tanta colluvie di sragionamenti da una parte, e d’improperii dall’altra, una fanatica declamazione vi aggiunse in difesa di quell’Imperadore scritta dall’inglese Rivio, il quale non altro fece in sostanza che ripetere quanto contra ogni principio di buon criterio, e di civile dignità detto avea l’Eiscelio. Permettete, mio buon Amico, che io qui dia un saggio del ragionare dell’Eiscelio, tanto più, che non essendo, certamente per onor delle lettere! molto divulgato quel suo grosso volume tra noi, potrebbe dalla fama di lui, come uomo erudito, rimanersi ingannato chi senza aver letto ciò che nel proposito egli dice, ne citasse di buona fede l’autorità.

Pien di livore contro i romani Pontefici, rispetto ai quali e nella prefazione alla Storia segreta di Procopio, e nelle aggiunte osservazioni non risparmia le più crude ed ignominiose espressioni, egl’incomincia a dire che l’Alemanno, custode della Biblioteca Vaticana, pubblicò quel IX libro di Procopio unicamente per adulare il nuovo padrone che s’avea dato, poichè quel valentuomo dalla Chiesa greca, nella quale era nato, passato era alla comunione latina. Voi, ne sono certo, e con Voi chiunque oda questa imputazione, domanderete con meraviglia in che potesse adularsi il romano Pontefice [p. 10 modifica]colla pubblicazione di un vecchio libro, in cui del carattere di Giustiniano e di Teodora, e del modo col quale entrambi condussero la cosa pubblica in tanti casi particolari, unicamente si tratta. Ciò che era occorso nel regno di questo Imperadore a Silverio, a Vigilio, ad Agapito, papi, era già stato da Procopio accennato negli antecedenti suoi libri; nè in questo, quantunque avesse promesso di toccare quanto di più delle già esposte cose avean sofferto ed essi ed altri uomini di Chiesa, di ciò trovasi poi fatto cenno. D’altronde la riputazione di Giustiniano era già presso i Cattolici formata per quello che altri antichi Storici aveano lasciato scritto di lui, siccome vedremo in appresso da quanto si legge negli Annali del Baronio. Come poi l’Eiscelio intende di rovesciare quanto a giustificazione di Procopio nelle sue Note storiche l’Alemanno adduce? — Per sostenere in suo senso Giustiniano egli non fa che riferire le buone cose da quell’Imperadore operate, o riguardarne superficialmente i fatti ed isolatamente, o dissimulare quante l’Alemanno addotte avea testimonianze di Scrittori contemporanei, o prossimi al tempo di Giustiniano, i quali nulla tratto aveano dalla Storia segreta, e che intanto consentivano poco più, poco meno, col contenuto nella medesima. È egli forse impossibile che chi ha fatto alcune cose buone ne abbia fatte anche molte di cattive? Per rettamente giudicare del carattere e [p. 11 modifica]delle opere altrui debbesi stare forse all’apparenza superfiziale, o prendere ciascun’ opera distaccata dagli oggetti, dai fini, e da ogni sua relazione? Nissuno certamente dirà questo.

Vituperato sì gratuitamente l’Alemanno, l’Eiscelio passa a Procopio; e la prima cosa ch’egli fa, è quella d’infirmare l’autenticità del libro. Al quale intento dice Svida solo parlarne; e Svida essere assai lontano dal tempo di Procopio, sul riflesso specialmente che se Procopio lo avea tenuto occulto a riguardo di Giustiniano, dovea poi essere messo in corso tosto che la stirpe di quell’Imperadore rimase estinta. — Ma e non fu esso dunque messo in corso, se giunse sino a Svida, e fino a noi? E non è evidente, che avendone Procopio naturalmente lasciato un solo esemplare, la diffusione del medesimo per trascrizione non poteva non rendersi lenta in paragone degli altri otto libri presentati alla corte, e pubblicati vivente l’Autore? — Forse l’Eiscelio ha sentita egli stesso la forza di queste considerazioni; e perciò passa a dire che facilmente questo libro potè interpolarsi. — Ma da chi, e per quale motivo? — Non potendo rispondere a questa domanda, dubita dell’argomento in favore dell’autenticità di questo libro tratto dalla somiglianza dello stile, dicendo nulla più facile a chi sappia bene una lingua, quanto l’esprimersi come un tale Autore, della cui lettura abbia fatto grande [p. 12 modifica]esercizio. — Con questo principio è manifesto che potrebbesi dubitare dell’autenticità di tutti i libri. Per combatterla voglionsi ben migliori argomenti. L’unico, ch’egli allega si è che Niceforo di Callisto non vide la Storia segreta e che ne parlò confusamente ed inesattamente. — Come mai l’autenticità di un antico libro può dipendere dal caso di un particolare Scrittore, che non l’ebbe sott’occhio, e che parlandone per alcun cenno avutone, ne parlò poco esattamente? — Noi farem conto che l’Eiscelio abbia premesse le accennate cose per pura vanità di discorso; e verremo a quanto aggiunge con maggiore fidanza. — I codici degli altri libri di Procopio, dic’egli, dalla prima loro pubblicazione furono conosciuti da tutti; e di essi n’è fatta fede da Evagrio, da Agazia, da Scolastico epifaniense, dal Metafraste, da Costantino porfirio, da Tazio, da Zonara, da Cedreno, da parecchi altri; e nessuno fa fede della Storia segreta. Gli altri libri di Procopio furono in diversi modi riprodotti, e questo venne omesso. — Ma il fatto non è esso abbastanza spiegato quando si considera che gli altri libri furono dall’Autore pubblicati solennemente, e questo venne occultato? — Tre soli esemplari, aggiunge l’Eiscelio, notansi di questo libro dall’Alemanno, due periti, uno trovato nella sola Vaticana. — Noi vedremo in appresso due altri sussisterne, che l’Alemanno non conobbe; e diremo intanto [p. 13 modifica]che come, perchè altri libri, sebbene stati per lungo tempo e liberamente in luce, perirono, è meraviglia appunto che questo dall’Autor suo occultato abbia potuto salvarsi. — L’Eiscelio crede suffragare alla opinion sua l’osservazione che un passo dell’estratto dal Panciroli fatto sul codice che fu del Pinelli, trovasi tradotto diversamente da quello, che l’Alemanno tradusse. — Ma perchè non nota ancora che il Panciroli tradusse a senso, e l’Alemanno tradusse alla lettera? — Finalmente a sostegno del suo assunto confronta questo IX libro di Procopio cogli otto antecedenti; e dice in quelli essere un ordine costante, in questo una confusione, ed una mole di cose indigesta; in quelli vedersi gravità, e virtù di scrittore; in questo virulenza e libidine diabolica d’ingiuriare e maledire; ed essere gli uni e l’altro sì distinti tra loro, che non possono supporsi scritti da una stessa persona a meno di dire che quelli furono scritti mentre l’Autore era di sano intelletto, questo mentre era preso da insano furore. Poi, che Svida stesso non dà a questo libro il titolo di Storia, ma di certa rappresentazione comica, appunto perchè non contiene che una massa di mere ingiurie esagerate a segno da non parere nemmeno possibile che cadano in mente umana. — Bisogna alcerto avere tutti i sensi alterati per venire a tal conclusione, quando si sieno letti codesti nove libri [p. 14 modifica]di Procopio, e siasi fatta attenzione al proemio dell’ultimo.

Consapevole l’Eiscelio di non poter togliere che questo libro non sia genuino, discende a screditare Procopio come acerrimo nemico di Giustiniano, e pienissimo di odio contro di lui. E perchè tutto questo? Perchè dice quanto Giustiniano fece di male. — Di che carattere e dignità fosse Procopio sarà detto in appresso: per ora diremo soltanto: che sarebbe della Storia, se quelli che ci lasciarono memoria dei vizii dei cattivi principi, dovessero supporsi nemici acerrimi di essi, e pieni di odio contro di loro? D’altra parte se l’odio e l’inimicizia alcune volte indussero scrittori a narrare i vituperi dei potenti malvagi, non è già detto che per questo essi mentissero. Ciò sarebbe stato contro gl’interessi stessi del loro odio, e della loro inimicizia. L’Eiscelio argomenta quest’odio, e questa inimicizia verso Giustiniano da ciò, che Procopio era pagano di religione, e idolatra. Piacemi di fermarmi alcun poco esaminando la forza delle prove, su cui egli fonda questa imputazione. Egli cita primieramente il seguente passo tolto dal libro I della Guerra gotica in occasione di parlare de’ legati spediti al Pontefice romano per cercar di sedare le discordie dei Cristiani, diversi tra loro di opinione su varii punti. Ecco le parole dello Storico. Quali sieno, dic’egli, le controversie loro, quantunque io non [p. 15 modifica]lo ignori, non ne farò al presente menzione, in mio pensiere tenendo essere pazzia da uomo prosuntuoso volere investigare qual sia la natura di Dio; e l’uomo mortale non potere nemmeno conoscere nel loro giusto vero le cose umane: tanto meno poi valere esso a conoscere la divina natura. In quanto a me si omettono senza differenza codeste cose, per sola credulità dai mortali venerate; e nel particolar mio null’altro in questo tempo ardisco confessare intorno a Dio, se non che egli è pienamente buono, e reggitore di tutte le cose, che in sua podestà tiene l’universo. E lascio poi che di tali quistioni dica come le intende chiunque o sacerdote o laico e zotico. Senza fare l’apologia di Procopio, il quale certamente qui non tiene linguaggio di teologo; senza dare a queste sue parole la mite, e forse giusta interpretazione che la carità cristiana in simili casi suggerisce, potendosi dire ch’ egli ebbe così parlando in mira le tante sette de’ suoi tempi, e l’audacia d’investigazioni a null’altro atte che a scandolezzare, massimamente riguardate per la parte di coloro, che senza o ministero, o studio e capacità, sorgevano a disputare e non già che intendesse comprendere nel suo discorso le verità ortodosse debitamente annunciate; senza dire in fine che quanto riguarda la professione di fede qui esposta non ad altro evidentemente tende che a fissare il principio fondamentale della religione, giacchè, come [p. 16 modifica]dice s. Paolo, chi vuole accostarsi a Dio primieramente deve credere ch’egli esiste; potremo bensì pensare che Procopio qui parli da filosofo, ma non già da adoratore degli idoli. Meno poi si può giustamente avere per tale negli altri passi che l’Eiscelio soggiunge. Uno è questo: Nell’universo romano imperio hannovi parecchie sette di Cristiani riprovate, le quali volgarmente chiamansi eresie, come de’ Montanisti, de’ Sabbaziani, e di altri molti, che travolgono le menti degli uomini; e a tutti questi ordinò che abbandonassero le loro credenze..... Comandò pure che tutti si accordassero nella medesima sentenza intorno a Cristo.... Interdisse agli Ariani i loro riti. Qui non v’ha che narrazione nuda di fatti. Un altro passo è il seguente: Metteva lo studio suo in ispingere l’animo alle cognizioni sublimi, e a perscrutare con soverchia curiosità la natura di Dio. Nè questo pure è di carattere diverso dall’altro esposto. Or dove è qui dunque spirito di paganesimo e d’idolatria? Ma, dic’egli, Procopio fa delitto a Giustiniano di queste cose come indegne di un principe. — E forse officio del principe l’occuparsi di teologia? Non ne prova in cento luoghi la Storia le pessime conseguenze? D’altronde i più saggi tra gli uomini di Stato non pensarono sempre non doversi usar violenza alla coscienza religiosa; e la tolleranza meglio corrispondere alla pubblica tranquillità? Qui stolta malignità ha guidato l’Eiscelio: [p. 17 modifica]maligna stoltezza lo guida ove interpreta intenzione irreligiosa la disapprovazione de’ tanti tesori da Giustiniano gittati, mentre l’imperio era in istrettissime angustie, e orribilmente si vessavano i popoli in ogni maniera, profondendoli in regali ai Barbari, in inutili e vani edifizii, in eccessiva moltiplicazione di chiese. Dove apparisce giusta ragione di politica economia per riprovare tanta intemperanza, non v’ha bisogno di dire che per buoni principii di saggia amministrazione, non per nulla apprezzare la conversione degl’infedeli, e l’onorificenza del pubblico culto, sieno fatti tali rimproveri. Procopio, uomo di Stato, e di fino criterio, è ben miglior giudice delle cose seguite sotto i proprii occhi, di quello che lo potesse essere nel secolo XVII un professore in Helmstadt.

Il maligno ingegno di costui va più innanzi. Siccome dalle Storie stesse di Procopio e da alcuni passi della Storia segreta risulta che non si ammetteva ai pubblici officii chi non fosse cristiano, e che molti per esservi ammessi fingevano empiamente d’essere tali contra la verità, nel numero di questi egli francamente pone Procopio; e nel sentire in fatto di religione diversamente da Giustiniano pretende trovar la ragione dell’odio, ch’egli chiama amarissimo e calunnioso, con cui scrisse di quell’Imperadore, citando in esempio Zosimo, ch’egli crede aver narrati i delitti di Costantino il grande, [p. 18 modifica]unicamente perchè egli era pagano; e per la ragione medesima Evagrio avere narrati quelli di Giustiniano, giunto a chiamarlo demonio scellerato e crudele. L’Eiscelio non valuta l’apologia che di Zosimo avea scritta al suo tempo il Leunclavio; e va ciecamente innanzi sulla sua sentenza non badando agl’intoppi: così egli s’immagina di aver ragione. Ma avrebbe almen dubitato alcun poco considerando che se Zosimo ed Evagrio ebbero coraggio di pubblicare quanto scrissero, l’uno di Costantino, e l’altro di Giustiniano, qualunque fossero le particolari loro affezioni, non sì facilmente può presumersi che volessero esporre la propria dignità alla giusta taccia di falsarii. La buona critica ci ha insegnato a che in tali quistioni dobbiamo attenerci.

Del rimanente invereconda, oltre l’essere calunniosa, manifestamente apparisce la sospicione dell’Eiscelio, quando di ciò che fecero malvagi uomini prostituendo la religione alla cupida loro ambizione, accagiona Procopio. Niuna crisi provò mai questo Scrittore nè a siffatto titolo, nè ad altro qualunque; e tutto c’insinua, che s’egli fosse stato di religione diversa dalla cristiana, o dato avesse in cuor suo il nome ad alcuna delle sette da Giustiniano perseguitate, scrivendo una storia che volea per alcun tempo segreta, e che seppe trovar modo di farla rimaner tale, niuna difficolta avrebbe avuto a dichiararlo: nè intanto lo ha fatto. Io potrei facilmente [p. 19 modifica]allegar passi de’ varii suoi libri, che uom pagano e idolatra non avrebbe voluto mai scrivere: la sola necessità di essere breve fa che da ciò mi astenga. Ma non posso a meno di non dire qualmente uno sciagurato modo di pensare si è questo, che la diversità di religione in uomo ben educato, e per tutta la vita stato grave e riputato, e non fanatico, nè in alcuna cosa mortificato, possa condurre a tanta frenesia da scrivere una lunghissima serie di calunnie. Se a tempi nostri si è veduto cadere in simile frenesia vigliacca un Goldsmith, non occorre dire che tutti i pubblici documenti appalesano l’impudentissimo suo attentato: basta osservare, che niuno vorrebbe disonorarsi paragonando Procopio a quel miserabile e stolto calunniatore. Mentre adunqne l’Eiscelio tanto violentemente insorgeva contro l’Alemanno, perchè dissimulare la forza dei documenti che nelle sue Note storiche quel valentuomo citò in confermazione di quanto Procopio avea detto? Io ho di sopra spiegato questo perchè; e qui aggiungerò, che non potendo smentirli, si è stoltamente avvisato di nasconderli recando in mezzo fatti diversi, che stanno da sè, ne possono infirmare gli altri. E quando egli oppone, che in questa Storia segreta Procopio dice cose contrarie alle dette negli altri libri, procede malignamente, dissimulando quanto nel proemio di questo Procopio dichiara. E se s’avesse a ragionare sul serio in proposito di un [p. 20 modifica]procedere contraddittorio, ben più fondata sarebbe l’imputazione di questo vizio applicandola all’Eiscelio medesimo. E perchè non ha tolto a difendere l’onore di Belisario e di Antonina, che pur sono anch’essi di assai riprovevoli cose accusati da Procopio? Perchè non ha giustificata Teodora? Fu Belisario prudente uomo, come valentissimo capitano? Fu modesta, fu casta, fu virtuosa donna Antonina? E se l’uno e l’altra furono tali, perchè l’Eiscelio non è sorto a smentire Procopio? Io non gli domanderò se Teodora fosse donna santissima. Dirò bene, che se non fu tale, come sarà stato santissimo Giustiniano, che non contento di avere sì vigliaccamente offesa la imperiale dignità, e il pubblico pudore, quell’avanzo infame di postribolo menando al suo talamo, ebbe inoltre la insensatezza di associarla al governo dello Stato, e di permetterle ogni genere di violenza e d’iniquità, e il favore della fazione da esso lui detestata, e quello perfino della setta religiosa che egli perseguitava? Non è Procopio solo che ei dipinga il superbo, crudele e tirannico cuore di quella, che Giustiniano sfacciatamente, o insensatamente, proclama datagli per divin beneficio a compagna della vita, e a consigliera ne’ più alti affari del pubblico reggimento. Che sapienza adunque, che virtù in un Imperadore che si avvilisce a tal segno? Il furore insensato dell’Eiscelio sale a tanto, che tutto ciò che tiene a intolleranza, a [p. 21 modifica]superstizione, a crudeltà, ad avidità, chiama virtù, travolgendo gli atti di Giustiniano, ove la grossa sua coscienza gli grida non potersi difendere quali la Storia li narra. Egli si contenta di confessare che Giustiniano potè forse al più avere qualche lieve difetto, qualche neo, come uomo, facendosi bello di una giusta osservazione, che leggesi in Zonara a proposito dell’Imperadore Comneno, quasi tra questo e Giustiniano potesse farsi un paragone.

Nel leggere questa massa di sragionamenti più di una volta m’è venuto il dubbio, se l’Eiscelio sotto l’apparenza di difendere il nome e la condotta di Giustiniano non intendesse di vieppiù farne sentire l’orribil carattere. Ma sarebbe stato in lui durezza poco civile anche questa. Più di una volta ancora ho sospesa la penna, domandando a me stesso, se meritava l’Eiscelio che tanto mi occupassi di lui. Se non che ho dovuto considerare, che col mio volgarizzamento dando una grande pubblicità alia Storia segreta di Procopio, era mio debito purgare e l’opera, e l’Autore dalle fallaci imputazioni di un erudito, che potrebbe col suo nome sorprendere la buona fede di parecchi facili a preferire l’autorità alla ragione. Non occorre poi che mi fermi a parlare del Rivio, che in quella declamazione sua a difesa di Giustiniano ha mostrato piuttosto cosa sia il [p. 22 modifica]vomito di un forsennato in delirio, di quello che esser debba la scrittura di un uomo di lettere.

Sarebbero bastati questi cenni a giusto corredo del volgarizzamento che pubblico, se un troppo celebre Scrittore, sul cui fino discernimento, congiunto a vastissima erudizione invano si potrebbe esitare, non avesse rinnovati i dubbii che si alzarono nel cinquecento. La Storia segreta di Giustiniano scritta da Procopio, dice Voltaire, è una Satira dettata dalla vendetta; e quantunque la vendetta possa far dire la verità, questa Satira, che contraddice alla Storia pubblica di Procopio, non pare sempre vera. Io dunque prenderò a dimostrare, I.° che la Storia segreta di Procopio non è una Satira dettata dalla vendetta. 2.° Che non contraddice alla Storia pubblica di Procopio. 3.° Che lungi dal non parere sempre vera, tutto anzi concorre a comprovarla verissima. Le cose che andrò dicendo aggiungeranno lume a quelle che ho dette fin qui.

Non è una Satira dettata dalla vendetta. — Chi era Procopio? Nativo di Cesarea della Palestina, egli andò a Costantinopoli regnando colà Anastasio; e come colto uomo in ogni genere di letteratura, e fornito di molta prudenza, presto chiamò sopra di sè l’attenzione degl’Imperanti. Giustino, succeduto ad Anastasio, mandando Belisario contro i Persiani, diede a lui per consigliere Procopio. Giustiniano fece [p. 23 modifica]accompagnare da Procopio Belisario nelle spedizioni d’Africa e d’Italia; e quando soggiogata l’Africa richiamò Belisario, volle che Procopio stesse ai fianchi di Solomone a cui dato avea il comando dell’esercito; e ciò perchè Procopio provvedesse a quanto poteva occorrere per conservar la conquista, e per istabilire nel paese il buon ordine. Procopio parla nelle sue Storie modestamente di quanto egli operò in Persia, in Italia, in Sicilia; e da ciò, non ostante il temperato modo con cui parla di sè, si vede come avesse ben meritato dell’imperio. In conseguenza de’ suoi servigii, ed in prova di quanto si sperava da lui in appresso, egli fu fatto senatore, ed in fine prefetto urbano, carica distintissima, ch’egli ebbe l’anno trentacinquesimo del regno di Giustiniano: nel quale anno appunto egli avea condotta la sua Storia segreta al termine, in cui la veggiamo.

Niun caso di lui intanto è noto, pel quale possiam sospettare o ambizione tradita, o vanità delusa, o dignità offesa. Non fu nel numero de’ tanti perseguitati, spogliati, avviliti. Altronde nè dagli scritti suoi, nè dal testimonio di alcuna Storia apparisce, ch’egli fosse uomo sì cattivo da corrispondere malignamente con ingratitudine calunniosa alle beneficenze di Giustino e di Giustiniano. A che mai può attaccarsi il sospetto ch’egli covasse odio, e volesse vendicarsi con una Satira? Egli lasciava negli altri suoi scritti buona [p. 24 modifica]riputazione di sè: perchè sarebbesi svergognato presso i posteri? Il sospetto adunque è meramente gratuito, e si risolve in calunnia. Se non apparisce alcun motivo di rancore, come mai parlar di vendetta? Fa meraviglia che Scrittore di tanto fino accorgimento qual’era Voltaire, e conoscitor sì profondo del cuore umano, sia caduto in questo sospetto riguardo a Procopio.

Nè sussiste poi che la Storia segreta contraddica, com’egli ha supposto, alla Storia pubblica, cioè a quanto egli scrisse ne’ libri da lui pubblicati. Intraprendendo le sue Opere storiche, splendida è la dichiarazione ch’egli fa di volere esser veridico. Agli oratori, dice, conviene la eloquenza; convengono ai poeti le favole: agli storici conviene la verità. Per questo egli non nascose i peccati de’ suoi più grandi amici; e scrisse con somma diligenza quanto a ciascheduno era avvenuto di fare, sia secondo la dignità di cui fosse investito, sia altrimenti. Per dire la verità lo Storico deve esser libero; ed egli si conservò libero; e questa libertà, sentita da lui per indole naturale, e per l’autorità del carattere d’uomo di Stato, non fu smentita in nessuna parte della sua Storia pubblica. Per lo che in essa lo veggiamo liberamente dichiarare l’empietà di Giovanni cappadoce, prefetto del Pretorio, l’avarizia di Triboniano questore, l’ indole fraudolenta di Areta: ed enumerare le regioni, i borghi, le città, o [p. 25 modifica]distrutte affatto, o cadute preda de’ nemici per la turpissima cupidigia dell’oro di Basso, di Acacio, di Giovanni Zibo, e dello Psallidio. Così lo veggiamo accusare l’ubbriachezza di Vero, la mollezza e il fasto di Sergio, l’ignavia di Massimino, e la niuna abilità di costui nelle cose militari. Così l’udiamo apertamente parlare e della cospirazione di Artabano, e del tradimento di Arsace, quantunque Giustiniano avesse di tali delitti dichiarati costoro assoluti. L’amor suo per la verità non gli lasciò dissimulare i peccati di Belisario, mentre pur questi era il soggetto principale di tutta la sua Storia, e la lode del quale essa pare espressamente scritta. Belisario, dic’egli, partì per Costantinopoli con niun decoro, mentre per cinque anni interi mai non potè piantar piede in Italia, nè con sicure marcie avanzarsi. In tutto quel tempo nascostamente fuggivasi coll’armata da un porto all’altro: onde tanto più i nemici si fecero sicuri e soggiogarono Roma, e tutti gli altri luoghi. Egli lasciò cinta di crudele assedio Perugia, città principale di Toscana, la quale, mentr’egli veleggiava per Costantinopoli, rimase presa.

Di questa maniera scrisse riguardo ai Senatori primarii, e ai Grandi dell’Imperio, anche a lui congiunti d’amicizia; e le scritte cose pubblicò francamente, severo sì, ma non esageratore: di che è prova che nissuno sorse a ribatterlo. Ed è in questo singolare [p. 26 modifica]Procopio, che sì liberamente scrivendo, e dappertutto i fatti riprovevoli di Giustiniano stesso chiaramente esponendo, a lui presentasse quei suoi libri medesimi, e questi corressero per le mani di tutti, nè alcuno reclamasse, nè se ne dolesse Giustiniano, il quale anzi a lui commise di scrivere l’Opera sugli Edifizii da esso Imperadore fatti in tante parti innalzare; e di più lo nominò prefetto urbano, quasi delle Storie scritte premiandolo.

E non è a dir certamente che intorno alla condotta di quell’Imperadore nelle Storie che diconsi pubbliche alcuna cosa dissimulasse: chè anzi in esse più diffusamente che nella Storia segreta espose di Giustiniano la crudeltà, l’avarizia, la perfidia verso gli amici, la fede violata coi nemici, l’odio verso i buoni, l’affetto verso i tristi, le umane e le divine leggi, ed ogni cosa infine pervertita a capriccio di Teodora. Egli dice francamente come Giustiniano non ardì liberare Giovanni cappadoce da Teodora perseguitato per ingiurie private, e falsamente accusato di ribellione. Dice, che Giustiniano gli spedì messi per informarlo delle insidie di Teodora; e che finì con condannarlo all’esiglio, e confiscargli tutti i beni, a ciò incalzandolo sempre più Teodora, non ostante che lo tenesse sommamente, e più di ogni altra persona, caro ed amicissimo. Dice, che fatta la pace con Cosroe Giustiniano istigò [p. 27 modifica]Alamundaro, e gli Unni a far la guerra ai Persiani, grandi cose promettendo, e somministrando gran denaro; nè asconde ciò essere stato di danno gravissimo all’Imperio romano. Dice, che per avere negato per molto tempo le paghe ai soldati delle guarnigioni, questi aveano disertato ai nemici. Dice, che Giustiniano, oltre i cattivi ministri urbani e domestici, due n’ebbe all’esercito insigni strumenti della sua avarizia, Giovanni questore, il quale per risparmiare all’Imperadore le spese dando cattivissimo pane ai soldati, fu cagione che un numero grandissimo ne perisse; ed Alessandro Forficula, tanto venuto in odio a’ soldati, che a bella posta seguitarono a far male la guerra in Italia.

Nè a queste cose Procopio si limitò: chè ovunque i casi, e i fatti lo richiedevano, nulla dissimulò di quanto la verità comportasse. Per questo non tacque che per sola avarizia Giustiniano creò i logoteti militari, ed in Roma abolì tutti gli antichi onori. Per questo non tacque che quell’Imperadore sempre promosse i più scellerati alle dignità e alle magistrature, fra i quali Acacio, a cui dopo l’assassinio di Amazaspe conferì il supremo comando in Armenia, e Giovanni Libo, che fu l’autore della defezione a Cosroe de’ popoli della Colchide.

Queste ed altre cose a queste simili diede Procopio a leggere a Giustiniano. E dopo avere scritto di questa maniera ne’ primi sette libri della sua Storia pubblica, [p. 28 modifica]mise fuori l’ottavo della medesima, in cui non si ritenne dal dire nuovi peccati di quell’Imperadore, le paghe, cioè, di nuovo negate ai soldati, le trascurate provvigioni di guerra, la prodigalità fastosa usata con Isdigiune, ambasciadore persiano. E in questo libro riferì tante ricchezze avere avute da Giustiniano quel barbaro, che giunto in Persia si trovò il più ricco di tutti i ricchissimi del suo paese. Aggiunge poi che oltre ciò sotto Giustiniano si pagò ogni anno alla Persia un tributo; che ogni anno si diedero magnificentissimi donativi agli Unni infestatori continui delle provincie romane; che colla intempestiva indulgenza da Giustiniano usata, spezialmente verso i capi dell’esercito, egli molto nocque all’Imperio. Ed è notabile questo passo, che in quel libro ottavo si legge: Giustiniano imperadore era per lo più solito a perdonare ai duci, dell’esercito delinquenti; e questa era la cagione, per la quale essi vedeansi gravissimamente peccare contro la militare disciplina e la repubblica.

Come dunque può affermarsi, che quanto è nella Storia segreta contraddica alla Storia pubblica? E non è in questa, siccome si è dimostrato, tutto ciò che può essere conforme a quanto in quella contiensi, se il carattere de’ fatti, se la sostanza delle cose, e se lo spirito dello Scrittore si considerino?

Piuttosto una considerazione di altra natura, e [p. 29 modifica]gravissima si presenta spontanea a chi alcun poco medita sulla franchezza da Procopio usata in questi otto libri della sua Storia; ed in questa. Com’ebb’egli coraggio di diffondere per tutto l’Imperio una Storia scritta con tanto ardimento? come Giustiniano non solamente non ne fu punto, ma conservò fede, ed accrebbe autorità allo Scrittore? Questi due atti formano nella politica e nella morale la materia di un problema, che sarebbe degno degli studii de’ filosofi. Non è di mio istituto l’imprenderne qui la risoluzione. Io mi limiterò a dire che ben a ragione da Giustiniano fu Procopio qualificato del titolo d’illustre, siccome Svida attesta, perciocchè chi meglio potè mai meritare sì onorevole denominazione, che un uomo di sì alto animo da presentare a monarca potentissimo, e di tanto basso sentire, come Giustiniano, lo specchio fedele de’ suoi peccati? Noi non abbiamo nella Storia l’esempio di altro eguale trionfo della verità.

Io credo, mio buon Amico, di avere dimostrato abbastanza che la Storia segreta di Procopio non è una Satira dettata dalla vendetta; e che non contraddice punto alla Storia pubblica precedentemente dal medesimo scritta. Penso che mi riuscirà egualmente di provare che lungi dal non parere sempre vera la Storia segreta di Procopio, tutto anzi concorre a comprovarla verissima. [p. 30 modifica]

La massima parte delle Note apposte a questa Storia segreta tende a giustificarne la veracità, sia confrontandone i riferiti fatti con passi conformi tolti dalla Storia pubblica dell’Autore medesimo, sia aggiungendo a confronto la testimonianza degli altri Scrittori. Ha somma forza quanto di conforme all’esposto nella Storia segreta si legge nella Storia pubblica perchè questa fu dall’Autore divulgata viventi molti ancora di quelli, dei quali in essa si parla, e vivente Giustiniano medesimo, siccome si è già accennato. E come quella presto si diffuse per tutto l’Imperio, e fu dall’Autore stesso presentata a Giustiniano, nissuno essendo insorto a contraddirvi, essa viene ad avere massima autorità; e le è di fatto universalmente accordata. Per lo che giusto è concludere, che la Storia pubblica in quanto essa è conforme alla Storia segreta, imprime a questa un carattere manifestissimo di veracità.

Ma lo stesso carattere viene ad essa impresso incontrastabilmente dall’autorità degli altri Scrittori, e contemporanei a Procopio, e susseguenti, singolarmente per questo che non può dirsi ch’essi abbiano tratto dalla Storia segreta di lui quanto di Giustiniano, di Teodora, e del mal governo d’entrambi riferiscono di simile a ciò, che nella Storia segreta dice Procopio: nè i contemporanei, nè gl’immediatamente susseguenti citano la Storia segreta, poichè non la conobbero. Ora [p. 31 modifica]lunga è la serie di codesti Scrittori, e molti hanno somministrati passi, coi quali nelle Note aggiunte si è illustrata e confermata la Storia segreta. Io mi restringerò qui alla citazione di pochi. Per esempio Esichio milesio mette in derisione l’animo leggiero di Giustiniano, il quale prestava fede alle adulazioni di Triboniano, giunto sfacciatamente a dire a quell’Imperadore, che sarebbe stato in fine rapito in cielo, anzichè cedere nella via comune al destino di tutti gli altri uomini. Ed Esichio intanto delle fraudi e delle fallacie di Giustiniano scrisse assai più a lungo, che non facesse forse Procopio nella sua Storia segreta. — Menandro Protettore racconta come Giustiniano venuto vecchio, sì di forze e d’animo illanguidì, che l’Imperio romano fece tributario non solo de’ Persiani, ma degli Unni ancora, e de’ Sarmeni, e de’ Cortigarii, e d’altri barbari. — Agazia mirrineo le arti espone, ed allega le lettere, colle quali Giustiniano eccitò tra loro a discordie e a guerre i Capi degli Unni, onde quella numerosa nazione venne a distruggersi. Nè tacque le rapine de’ patrimonii, e delle eredità, con che tante opulentissime famiglie mandò in piena ruina. Delle rapine di Giustiniano parlò chiaramente Corrippo, cattivo poeta africano, e adulatore, lodando Giustino II, il quale succeduto a Giustiniano fece alquante restituzioni. Gregorio Turonese ha tenuta memoria di Giuliana [p. 32 modifica]Anicia, ricca matrona che deluse l’avarizia di Giustiniano inteso a truffarle grossa parte di sue ricchezze. Vittore Junnense ha narrato come Giustiniano assassinò Vitaliano, maestro della milizia romana. Ed egli, e Liberato africano, riferiscono la sevizie di Giustiniano contro tutto l’Ordine ecclesiastico, e contro i Vescovi dell’ Oriente, e dell’ Africa, e contro i romani Pontefici. E mentre gli scrittori occidentali alzarono il grido contro la protezione prepotente data da Giustiniano alla superbia e al fasto de’ Patriarchi di Costantinopoli, a tanto che sostenne costantemente Giovanni Scolastico cappadoce, il quale pel primo si arrogò il titolo di Vescovo ecumenico, ossia universale, e solennemente gliel confermò nelle sue Costituzioni, e animò il successore di lui, Epifanio, a negare la mano al Pontefice andato a Costantinopoli, sicchè a grande stento, siccome narra Marcellino, cancelliere dello stesso Imperadore, e spiega Teofane, di mal’ animo cedette il destro trono nella chiesa a quel Papa; gli orientali ebbero a dolersi e della ipocrisia, e della crudele arroganza, con cui perseguitò i Vescovi, che non consentirono nella fallace sua teologia.

Ma ascoltiamo spezialmente Evagrio e Zonara, uditi i quali come potrà mai rimaner dubbio della veracità della Storia segreta di Procopio? Ecco ciò che dice Evagrio nel cap. 29, del libro IV. [p. 33 modifica]

«In Giustiniano fu tanto insaziabile la bramosia del denaro, e tanto turpe ed assurdo l’appetito delle robe altrui, che per avere oro vendè tutte le sostanze de’ sudditi a quelli che esercitavano magistrature, o raccoglievano tributi, o desideravano senza averne alcuna ragione di ruinar gli uomini. Parecchi, e dirò meglio, innumerabili, che assai beni possedevano, con falsi ed artifiziosi pretesti spogliò di tutte le loro fortune. Se alcuna meretrice adocchiando i beni di uno fingesse avere qualche pratica, o intimità con lui, immediatemente, purchè del turpe lucro chiamasse a parte Giustiniano, tutte le più sacre leggi venivano sovvertite a riguardo di lei; e tutte le facoltà della persona processata di delitto che non avea commesso, erano trasportate a casa di quella. Era poi Giustiniano sì largo in erogare il denaro, che molti e magnifici templi in diversi luoghi innalzava...: cose al certo pie, e che sarebbero a Dio accette, se od egli, od altri, che così faccia, impiegassero beni proprii; e a Dio offerissero le opere della loro vita esenti dalle macchie del delitto».

E al cap. 31 dello stesso libro. «Debbo dire di altro fatto di Giustiniano, il quale non so indicare se dalla viziosa sua natura, o da timore e spavento nascesse. Questo fatto ebbe il suo principio da quella sedizione popolare, che si chiamò Nika, cioè Vinci. Piacque sì [p. 34 modifica]fortemente a Giustiniano favorire la fazione di quelli, che diconsi Veneti, che costoro potevano impunemente trucidare in pien meriggio, e in mezzo alla città, i loro avversarii; e non solamente non temendo per ciò le pene dovute a tali delitti, ma standosi anzi sicuri di ottenere onori: d’onde venne che furonvi molti omicidii. A costoro era fatto lecito entrare violentemente nelle altrui case, rapire i tesori in esse nascosti, vendere alle persone la loro stessa salvezza e vita e se alcun magistrato cercasse frenarli, egli per quel fatto chiamava sopra il suo capo la sua ruina. E così accadde a certo personaggio, il quale era stato magistrato in Oriente: chi avendo voluto gastigare, facendo loro dare la frusta, alcuni di coloro, che a queste novità applicavansi, onde meglio in appresso si conducessero, fu per tutta la città strascinato e frustato egli medesimo gravissimamente. Callinico poi prefetto della Cilicia, perchè due Cilici, Paolo e Faustino di nome, entrambi omicidi, i quali lui aveano assaltato e tentato d’uccidere, punì a tenor delle leggi, fu pubblicamente crocifisso; e s’ebbe un tale supplizio in mercede della sua buona coscienza, e di avere osservata la legge. Da queste cose nacque che quelli, i quali erano dell’altra fazione, fuggironsi dai loro domicilii, nè trovarono ricovero presso alcuno. Così che cacciati da tutti come malfattori, [p. 35 modifica]incominciarono poi a darsi alla strada, ad assaltare i viandanti, a derubarli, e ad ammazzarli: a segno tale che tutti i luoghi furono pieni di morti immature, di rubamenti e di simili misfatti. Altre volte Giustiniano mutata affezione e parte, uccise gli uomini che prima avea favoriti, e diede in potere delle leggi anche coloro, ai quali avea per lo innanzi all’uso de’ Barbari permesso di commettere nelle città ogni empio delitto. Ma per esporre in particolare queste cose nè ho tempo conveniente, nè forza; e quanto ne dissi potrà bastare per vedere tutti gli altri suoi misfatti» .

Così Evagrio, che altrove raccontando gl’illustri fatti di Giustiniano, in ogni capitolo loda la Storia di Procopio già pubblica, e da essa trae lunghissimi tratti, onorandone l’autore, non così fa poi dove i misfatti narra e di Giustiniano e di Teodora: chè questi esponendo, la più parte aggiunge delle cose da Procopio nella sua Storia segreta omesse, e di quelle che Procopio non accenna se non leggermente, egli cita i luoghi, i tempi, i nomi delle persone, e le occasioni de’ fatti. Dal che comprendiamo non avere Evagrio seguita la Storia segreta, e probabilmente non averla conosciuta, ovversia, che da altri fonti ancora, e più copiosi, trasse quanto narrò di più. Ond’è che per tanta conformità splendidissima diviene la testimonianza di lui in favore della veracità di quella Storia. [p. 36 modifica]

Ad Evagrio si aggiunge Zonara, il quale parlando di Giustiniano si esprime di questa maniera. «Salito Giustiniano al trono, non uno solo ebbe in mano il potere, ma furon due: perciocchè sua moglie non meno di lui, anzi più di lui assolutamente potè. Fu questo Imperadore di facile accesso, pronto del pari a punire, e a credere veri quanti delitti gli venissero denunciati. Il denaro inconsideratamente profuse, e per ogni via e lecita ed illecita ne accumolò, spendendolo poi parte in edifizii, parte in mandare ad effetto i suoi disegni, parte nella guerra, e in perseguitar quelli, che alla sua volontà erano avversi. Per tal modo avendo sempre bisogno di denaro, se lo procacciava con ragioni poco oneste; e molto grati avea coloro, i quali gli additassero le strade di metterne insieme. Nè egli solo era fatto così; ma l’imperadrice ancora, la quale punto non cedeva a lui nè in licenza, nè in diligenza, onde in ogni maniera far denaro. Ed anzi di gran lunga superava il marito in prepotenza; e con sottilissimo ingegno sapea trovar nuovi e varii modi di averne. Perciò i sudditi erano oppressi da doppio peso; ed accrescevansi i tributi annui, e se ne escogitavano de’ nuovi. Venivano multati alcuni per cattive opinioni religiose; altri privavansi delle loro ricchezze perchè viveano senza moderazione, e con petulanza; altri per contese che [p. 37 modifica]avessero fra loro; altri finalmente per altre cagioni, che tutte non si possono brevemente riferire».

E negli allegati tratti di questi due Scrittori, superiori ad ogni eccezione, non si comprend’egli in sostanza il sommario di tutta la Storia segreta di Procopio? Con ragione adunque ho detto che lungi dal non parere la Storia segreta di Procopio sempre vera, tutto anzi concorre a comprovarla verissima, contro una troppo precipitata opinione, nata piucchè dalla ponderata considerazione de’ fatti, dal ribrezzo naturalmente suscitato in cuor d’uomo alla propalazione di tante scelleraggini accumolate nell’anima di un solo malvagio principe, che al paragone superano tutte insieme le sì decantate di Tiberio, di Caligola, di Nerone, e di Domiziano. E a ciò credo io avere singolarmente potuto contribuire questo spezial fatto, che Procopio nel suo IX libro ha di proposito raccolte una lunga serie di casi per varii aspetti collimanti ad un solo ed immediato intendimento: il che naturalmente colpir dovea l’immaginazione, e percuotere il cuore assai più, che far potessero le stesse cose sparse negli altri libri, e miste ad altre di carattere diverso. Intanto che questo libro presenta un doppio aspetto, storico cioè in quanto in esso veggonsi esposti parecchi fatti, che non trovarono sede opportuna nei precedenti, e morale-politico in quanto le cagioni e i fini occulti sviluppa di fatti [p. 38 modifica]antecedentemente noti. Per lo che io penso, che a questo libro abbia l’Autore dato il titolo di Storia segreta, non già, come l’Eiscelio e il Rivio pedantescamente credono, dall’avere il suo Autore voluto tenerlo nascosto, ma dall’avere in esso piuttosto riferite cose, per la più parte in quanto o all’origine, o ai mezzi, od ai meditati divisamenti, fuori della cognizione dei più. Il che si accosta eziandio al senso, che comunemente diamo oggi anche noi alla parola aneddoti, che siamo usi appunto ad applicare a fatti particolari, e generalmente non conosciuti.

Da ciò, che detto aveano i già citati Scrittori, e dai frammenti, che di questo libro di Procopio avea Svida conservati rispetto a Giustiniano e a Teodora, di entrambi parlò il Baronio coi termini, che lo zelo della religione da essi oltraggiata, e della chiesa in tante guise tormentata da essi, poteva suggerire a lui, scrittore piissimo, e padre della Storia ecclesiastica. Piacemi recare qui le sue parole, come quelle che giustamente sono attissime a salvare Procopio da ogni odiosità. Dice adunque il Baronio: «Tanti mali codesta rea donna fece, che può dirsi una seconda Eva, la quale badando al serpente fu causa di tutti i mali al marito; una nuova Dalida, che con arte fraudolenta cercò di levare le forze a Sansone; un’altra Erodiade sitibonda del sangue degl’uomini santissimi, una [p. 39 modifica]petulante ancella del Sacerdote, istigante Pietro a negar Cristo. Ma è poco il condannarla con questi nomi, poichè tutte le altre donne superò in empietà. Abbiasi ella piuttosto dall’Inferno il nome dato favolosamente alle Furie. Femmina fu costei furente, da dirsi Aletto, Megera, Tisifone, cittadina dell’ Erebo, amica del demonio, agitata dallo spirito di Satana, invasata da estro diabolico, nemica di ogni concordia a sì grande stento stabilita, e fugatrice della pace comprata col sangue de’ martiri, acquistata coi sudori de’ confessori».

Parlando quindi di Giustiniano dice: «Le opere stesse che, mentre Giustiniano da questo mondo si dipartì, lo accompagnarono, contro di lui fin qui gridano sulle carte; cioè quella continua guerra ecclesiastica, che cacciata in bando la pace che avea trovata, perpetuamente mantenne, e che morendo lasciò accesa; gl’immensi sacrilegii, poichè sì spesso mise le mani violente sugli unti del Signore, i santissimi Vescovi, come fu tra gli altri, sopra Vigilio, romano pontefice, ed Eutichio, santissimo patriarca di Costantinopoli; la crudeltà contro cittadini innocenti da Evagrio deplorata, e l’avarizia riprovata dal medesimo anche più fortemente, per lasciar di dire altre cose. Che sentenza poi, morto, innanzi al tribunale terribile della Maestà divina abbia avuta; [p. 40 modifica]quantunque non istia all’uomo giudicarne, ove ad alcuno si permetta pensarlo, sarà più facile trovare chi voglia seguir l’opinione intorno alla condannazione di lui, il quale pel tempo in cui visse è assai da preferirsi agli altri Storici; poichè di quello che lasciò scritto, fu testimonio; laddove gli altri assai dopo i tempi di Giustiniano le costui opere raccontarono: massimamente che lo stesso giudizio formò di lui Procopio, eccellente Storico della medesima età, posciachè lodatolo spesse volte innanzi, indi in un libro che avea scritto, ricredendosi, lui e la moglie Teodora grandemente vituperò, siccome veggiamo notato da Svida

Dimostrano queste ultime parole del Baronio ch’egli non avea avuto sott’occhi della Storia segreta di Procopio altro che i frammenti riportati da Svida; ma tutto il suo discorso comprova che intorno ai fatti di Giustiniano da altre fonti quell’uomo eruditissimo avea tratto quanto ampiamente giustifica la veracità della Storia suddetta. La quale veracità se dalle cose dette fin qui apparirà, siccome credo, perfettamente dimostrata, tutti quelli che hanno qualche amore per la virtù, e qualche rispetto per gli uomini, debbono certamente aver grato il generoso pensiero di Procopio di trasmettere alla posterità la memoria del sì crudele flagello che toccò al mondo nel regno di Giustiniano. [p. 41 modifica]Le ragioni di tale suo operato, allegate da lui sul principio del libro, sono sì giuste e sì degne dello Storico, il quale intenda la importanza nobilissima dell’officio assunto, che non hanno bisogno d’illustrazione. Confortandoci noi di vivere in tempi migliori, e dalla condizione in cui sono le cose pubbliche in Europa, argomentando i progressi, che per mezzo de’ buoni studii la civiltà ha fatti, conosceremo con nostro profitto gli eminenti vantaggi ch’essi recano alle nazioni, e la necessità che queste hanno di averli ognor più fiorenti; perciocchè per essi e s’introducono, e si conservano i buoni costumi sì privati che pubblici.

Queste considerazioni nella mia mente allargate dal complesso de’ varii sentimenti che la lettura della Storia segreta di Procopio può facilmente suscitare in ognuno, m’hanno condotto alla risoluzione di rendere più generale tra noi la notizia della medesima per mezzo del presente volgarizzamento. A proposito del quale alcune cose qui aggiungerò, che non dispiaceranno agli Eruditi, e mostreranno la mia diligenza.

Io eseguii da prima questo volgarizzamento sulla edizione, che di questo libro, come dissi da principio, Niccolò Alemanno fece colle stampe di Lione. Poscia cercando, se alcun miglioramento il testo di Procopio avesse in appresso avuto, consultai l’edizione fatta in Parigi nel 1663 da Claudio Maltret, che alle cure [p. 42 modifica]dell’Alemanno, alle quali nulla avea aggiunto l’Eiscelio inteso unicamente a ricambiare con ingiurie la benemerenza di quel valentuomo, le sue proprie unendo, fortunatamente perfezionò l’opera per la faustissima combinazione di un sussidio inaspettatamente venutogli. Fin verso quell’epoca non conoscevansi della Storia segreta che i due codici vaticani dall’Alemanno scoperti. Il Montfaucon nella sua Biblioteca delle Biblioteche tra i MS. dell’Ambrosiana non fa menzione della Storia segreta; ma parlando delle opere di Procopio ivi vedute, e individuandone alcune, termina dicendo et alia; ed accenna volumina IX. Fosse per queste espressioni, fosse per puro accidente, il P. Poussin, altro dottissimo gesuita, ch’ebbe mano alla pubblicazione di Scrittori bizantini, trovò nell’Ambrosiana la Storia segreta, ne trascrisse le lezioni varie, e principalmente quanto nell’incominciamento mancava ne’ codici vaticani: e tutte queste cose mandò al Maltret. Così questi potè in miglior forma riprodurre il testo di Procopio.

Sussistono in fatti in questa per tanti titoli preziosissima Biblioteca ambrosiana due esemplari MS. della Storia segreta, scritti entrambi di buona mano, uno de’ quali, il più bello e più antico, dicesi portato dalla Tessaglia, probabilmente al tempo dell’ illustre Fondatore di questa Biblioteca, ben sapendosi che spediti egli [p. 43 modifica]avea anche in Oriente ricercatori e compratori di MS. e credesi del secolo XIV. È stata bell’avventura, che per esso siasi avuto intero il Proemio di questa Storia, e a molte lacune notate dall’Alemanno siasi provveduto, per lo più riconoscendosi ch’ esse non sussistono: ma è deplorabil cosa, che nella estrema parte sia mancante per fino di quanto il minor codice vaticano ha potuto somministrare alla edizione dell’Alemanno. Io dico questo per un certo sospetto, in cui sono, che Procopio fosse nello scrivere la Storia segreta proceduto oltre quanto noi abbiamo. Imperciocchè qual ragione allegare, per cui sia egli vissuto alcuni anni senza proseguire quell’opera? E mentre per tre volte promette di parlare di quanto Giustiniano avea fatto a tribolazione della chiesa, e degli ecclesiastici, come non ragioneremo noi più sensatamente dicendo, che se nulla di ciò oggi si legge in quest’opera, al tempo, e alla incuria degli uomini dobbiamo attribuirne il vuoto, essendo stati rotti i primi esemplari appunto nella estrema loro parte, piuttosto che attribuire desidia a lui, che in quell’argomento erasi impegnato sì manifestamente, e che tutto ebbe l’agio di mantener la promessa? Forse chi sa, che un qualche giorno non si scopra codice migliore di quelli, che presentemente abbiamo!

Il mio volgarizzamento partecipa di tutti i miglioramenti, che alla Storia segreta pubblicata dall’Alemanno [p. 44 modifica]ha aggiunti il Maltret; e nelle Note unite ad esso ho compreso quanto di più scelto e più opportuno contiensi nelle Note storiche dell’Alemanno medesimo. Di lui e di esse il Maltret parla di questa maniera: So che valentuomo fosse Niccolò Alemanno: approvo la nitidezza del suo stile, e bacio le Note ch’egli disse storiche, piene di singolare erudizione. Io non ne ho soppressa che quella parte, nella quale arrischiò giudizii, che sicuramente non si permetterebbe oggi se vivesse tra noi: quelli furono errori del tempo, non suoi. Di ciò, che posso avere aggiunto io, poco importa che parli; e la temperanza che ho usata, può essermi di merito più di quello, che a taluno per avventura sia in materia di questa fatta una copiosa dottrina.

Ed eccomi, mio buon Amico, al fine delle cose, che m’avea proposto di ragionare con Voi rispetto a questo singolarissimo libro di Procopio. Riandando i giorni della prima nostra giovinezza piacer dolcissimo provo per la reminiscenza degli spessi intertenimenti nostri su quanto andavamo leggendo e studiando insieme. Il ragionamento presente parmi una immagine di quelli d’allora; e fatto nella età, a cui siamo pervenuti, m’è anche più caro, perciocchè mi rinuova gl’innocenti diletti di que’ primi tempi, e piacevolmente congiunge in certo modo insieme ambi gli estremi della nostra vita studiosa. Abbracciamci dunque collo spirito, se non ci [p. 45 modifica]è dato di farlo di presenza; e fermiamci nel più bel pensiero, che l’amicizia possa ispirare: nel rimanente abbandonandoci colla fiducia della buona coscienza all’ordin nuovo che ci sovrasta. Addio.