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Alle porte d'Italia/I difensori delle Alpi

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I difensori delle Alpi

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La rocca di Cavour La scuola di cavalleria


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I DIFENSORI DELLE ALPI




Al Colonnello Federico Queirazza

Comandante del 2° Reggimento Alpino


Riuscii a infilarmi nell’ultimo grande palco di destra nel punto che v’entrava il signor Rogelli, spingendosi innanzi la lunga cugina inglese, la signora Penrith, venuta apposta da Torino, e non trovammo più che tre palmi di panca all’entrata, dove stava aspettando da un’ora quella beata faccia d’agronomo, che mi aveva accompagnato a Cavour. Il buon Rogelli era trionfante. Quell’idea del ministro della guerra, di radunare nella sua città natale, nell’occasione delle grandi esercitazioni estive, tutti e venti i battaglioni alpini, per celebrare il decimo anniversario della loro istituzione con una sfilata solenne davanti al Re d’Italia, era, per lui, un’idea sublime; e da quindici giorni urlava quell’aggettivo per tutti i caffè di Pinerolo, offerendo del Campiglione a quanti gli facevano coro, e dicendo roba da chiodi dei giornali che avevan gridato allo sperpero del danaro pubblico. Vi son dei capi originali dei [p. 327 modifica]cittadini maturi e pacifici, che s’innamorano d’un Corpo dell’esercito, come certi artisti dilettanti, d’una data scuola di pittura; e non bazzicano che quelli ufficiali, s’infarinano dei loro studi, ripetono i loro discorsi, in modo che a vederli e a sentirli chi non li conosce li scambia con antichi ufficiali del Corpo che adorano: il che è la più dolce delle loro soddisfazioni. Il signor Rogelli era di questi, e aveva la passione degli Alpini: una passione che gli vuotava la borsa, ma gli riempiva la vita. Egli era amico intrinseco di maggiori e di capitani, teneva dietro alle compagnie nelle escursioni in montagna, pagava da bere ai soldati, raccoglieva fotografie di gruppi, conosceva a fondo il servizio, e aveva sulla palma della mano la topografia delle zone e sulla punta delle dita la tabella del reclutamento. Non vedeva nell’esercito che gli Alpini, e gli pareva che riposassero sopra di loro tutte le speranze d’Italia. Non era proprio un ramo, era un ramocello di pazzia: il suo amor di patria aveva le mostre verdi e portava la penna di corvo. Una passione schietta, peraltro, e nobile, in fondo: nata dall’amor della montagna, dov’era cresciuto, e dalla simpatia per l’esercito, in cui aveva un fratello, e da vari altri gusti e sentimenti, di cacciatore, d’acquarellista, di gran mangiatore e di buon figliuolo, mescolati e riscaldati da una fiammella segreta di poesia, che mandava fuori una volta all’anno la scintilla d’un cattivo sonetto. E per ciò era raggiante di gioia quella mattina, e appena mi vide, mi gettò un sonoro: — Ci siamo! — accennandomi [p. 328 modifica]la lunga fila di palchi imbandierati che il Municipio aveva fatto inalzare nella gran piazza, a destra e a sinistra del padiglione del Re. Il Municipio aveva fatto le cose per bene. Il signor Rogelli si stropicciò le mani, levò dal braccio della signora il canestrino di fiori, per ridarglielo al momento opportuno, e prese posto in piedi, appoggiato a una delle antenne della tenda, nell’atteggiamento d’un generale vittorioso.


La sfilata doveva cominciare alle dieci. I palchi eran già tutti neri di giubbe, variopinti di signore, scintillanti di divise, brulicanti come vasti alveari; e un mare di gente, in cui mettevan foce molti torrenti, fiottava, rumoreggiando, su tutto lo spazio che corre dalla porta di Torino alla porta di Francia. Nelle grandi case della piazza pareva che si fossero ammontati tutti gli abitanti di Pinerolo, e che volessero schizzar fuori dalle finestre, come gocce di liquido compresso dalle commettiture del recipiente; i terrazzi rassomigliavano a enormi giardiniere, riboccanti d’ogni specie di fiori di montagna; e nei palchi e per la piazza innumerevoli fogli volanti, sui quali erano stampati i nomi dei venti battaglioni, e dei paesi dove si levano, s’agitavan per aria e giravano per tutte le mani, macchiettando la folla di mille colori, come grandi farfalle prigioniere. Dal giorno dell’entrata d’Emanuele Filiberto, Pinerolo non aveva più visto, certo, ribollire tanto sangue, fremere tanta festa tra le sue mura. A grande stento era tenuto sgombro un angusto [p. 329 modifica]spazio per il passaggio dei battaglioni, tra i palchi e i portici, ed anche quel piccolo solco, aperto di viva forza nella piena umana, continuamente si richiudeva, quasi che la folla ne soffrisse come d’una ferita. Gli Alpini dovevano sfilar per plotoni, venendo giù dalla valle del Chisone: da due giorni erano accampati là, dall’abbadia fino a Perosa, e ne formicolava tutta la valle, come se fosse calato un esercito dal Delfinato. La testa della colonna era già alle prime case di Pinerolo. Tutto era proceduto e procedeva bene, anche lassù, dove s’eran dileguate fin dall’alba, sotto gli sguardi severi del Rogelli, le ultime nuvole d’un breve temporale della notte.

Allo scoccar delle dieci, annunziato dagli squilli di cento trombe e accolto da un applauso che parve il fuoco di fila d’una divisione, comparve il Re.

Nello stesso punto si videro spuntare in fondo alla piazza la penna bianca del Comandante del primo reggimento, e le penne nere del primo battaglione.

Un aiutante di campo portò l’ordine di cominciar la sfilata, le bande suonarono, la folla immensa si scosse, come corsa da una scintilla elettrica, e poi tacque per alcuni secondi, profondamente.



Il colonnello del primo reggimento s’avanzò. Il battaglione Alto Tanaro si mosse.

All’apparire delle nappine bianche della prima compagnia, scoppiò un applauso e un evviva che fece rintronare la piazza, e dalle finestre [p. 330 modifica]e dai palchi venne giù un diluvio di fiori. Tutti quei soldati alti, forti, e la più parte biondi, con quei cappelli alla calabrese, con quelle penne ritte, con quelle mostre verdi, d’un aspetto poderoso a un tempo e leggiero, e quasi arieggianti un’altra razza, e pure così italiani negli occhi, destarono un primo senso vivissimo di maraviglia e di simpatia. E anche l’applauso fu più caldo perchè era un battaglione singolare, composto di piemontesi e di liguri, levati in quel triangolo delle antiche Provincie, che poggia a Oneglia e a Savona, e tocca col vertice Mondovì: figli della montagna e giovani della marina, dai visi bianchi e dai visi bruni, diversissimi d’occhi, di lineamenti, di capelli. La folla acclamò alla rinfusa i paesi delle due parti delle Alpi: — Viva Garessio, viva Albenga, Bagnasco, Finalborgo, Pamparato, Diano! — E a tutti balenò alla mente, come visto per uno squarcio della catena, un declivio grigio d’olivi, e il villaggio bianco, circondato d’orti e di boschetti d’aranci, spiccanti sul mare azzurro, picchiettato di vele. Sfilavano in una maniera ammirabile. E nel voltarsi tutti a sinistra, di tratto in tratto, per correggere l’allineamento, mostravan le teste ben costrutte, i colli taurini, le guance vivamente colorite. La signora Penrith, piena di benevolenza protettrice per l’Italia, prorompeva in esclamazioni ammirative, dicendo che non avrebbero sfigurato accanto alle guardie della regina Vittoria. Il Rogelli non toccava più terra, pareva che li avesse impastati e modellati lui tutti quanti. E sclamava: — Guardi che casse forti di toraci! — Veda che travatura di corpi! — [p. 331 modifica]Magnificava il sistema di reclutamento: quello dell’esercito dell’avvenire. Non eran battaglioni misti di gente d’ogni provincia: erano pezzi viventi d’Italia che passavano, coi loro nomi e con le loro tradizioni; e avevan ciascuno una propria alterezza di famiglia, innestata sul largo sentimento dell’amor di patria e dell’onor nazionale. — Guardino che frontispizi di galantuomini! — Montanari di cervello dritto, coi concetti del tuo e del mio ben distinti, logici come quattro e quattr’otto, dai quali s’ottiene tutto ragionando, persuadendoli che le mancanze sono “cattive speculazioni„; affezionati ai loro uffiziali, coi quali prendon familiarità, senz’abusarne, nella vita comune della montagna; punto attaccabrighe, neppur quando trincano; sani e schietti come l’aria delle loro vallate. — Viva il battaglione Alto Tanaro! — gridò, alzando il cappello. — Viva Savona! Viva Mondovì! Viva Oneglia! — gridò la folla. E tutto il primo battaglione passò, — fra quelle rumorose acclamazioni della patria, ch’egli sentiva per la prima volta, — tranquillamente, — come se non fosse il fatto suo; e portò al Re d’Italia il primo saluto delle Alpi e del mare.


E vennero innanzi le nappine rosse di Val Tanaro, salutate due volte da diecimila grida. Mi parve di riveder passare il primo battaglione. Ma non v’erano più i visi bruni della marina. In questo erano i figli di tutti quei villaggi segnati dalla storia, i cui nomi sono per noi come [p. 332 modifica]schianti e lampi di fulmine, che rischiarano il viso pallido di Buonaparte: i figli di Cairo, di Montenotte, di Dego, di Millesimo; di quei memorabili monti, dove i piemontesi contrastarono per quattro anni, di rupe in rupe e di gola in gola, il passo alla Francia. Erano soldati delle terre dove il Genovesato e il Piemonte si toccano, confondendo i linguaggi e le costumanze; nati fra gli alti boschi di castagni e di faggi, tormentati dai venti del mare, che spandono per le solitudini un lamento pauroso e solenne; degni veramente di chiamarsi liguri fra i loro vicini della marina e piemontesi tra i loro fratelli del Monferrato; saldi al lavoro, arrendevoli alla disciplina, bravi come i molti padri loro che onorarono il sangue italiano nella legione immortale di Montevideo. E venivan tra loro i piemontesi pretti di Murazzano, di Donesiglio, di Dogliani, i figliuoli dell’altera Ceva, già dura ai denti di Napoleone, e quelli che le madri portarono in fascie a baciar l’altare della Madonna di Vico. — Viva Ormea! — gridò la folla. — Viva Bossolasco! Viva Sassello! — L’agronomo avrebbe voluto gridare: — Viva il vino Dolcetto; — ma confidò il suo pensiero a me solo. Il Rogelli, pratico di quei paesi, ricordava le belle prese di pernici e le grandi canestrate di tartufi bianchi. E riprese a decantare il reclutamento alpino, grazie a cui una buona parte dei giovani nei battaglioni son conoscenti vecchi. Vi si trovano accanto il padron di casa e il suo inquilino; e molte volte il proprietario d’un podere, soldato semplice, e il suo affittavolo, caporale; o i figliuoli di due consiglieri comunali [p. 333 modifica]nemici, che si riconciliano al fuoco del bivacco; od anche i corteggiatori d’una stessa ragazza, per i quali il servizio nell’esercito è come un periodo di pace armata, dopo di che ricomincierà più ardente la lotta. Bisogna sentire le loro conversazioni, che sapor locale! E come commentano il Popolo del sabato, che porta la cronaca del comunello! — Guardino quei zappatori! — esclamò, e gongolò in fondo all’anima all’applauso che salutò i zappatori dell’ultima compagnia: otto colossi, che parevan stati scelti fra mille, e che s’avanzavano maestosamente, a passi da commendatori di pietra, col coltellaccio alla cintura, armati di badile, di gravina, di picozza e di maranese, sorridenti e disinvolti sotto quel carico come se portassero degli oggetti d’ornamento. E gittò un grido squillante: — Viva Val Tanaro! — al quale rispose la moltitudine in coro; e poi si voltò dall’altra parte urlando: — Viva Val Pesio! — e la folla rispose: — Viva Val Pesio! — e si girò verso il nuovo battaglione, che mostrava già in fondo alla piazza le sue cinquecento nappine verdi.


Il battaglione Val Pesio s’avvicinò, in mezzo ai battimani e alle grida. Eran daccapo piemontesi e liguri confusi, compaesani dello statista Botero e del romanziere Ruffini, del presidente Biancheri e dell’autore di Monsù Travet; figliuoli di Taggia piena di viole, di Bordighera coronata di palme, di San Remo inghirlandata di ville, di tutti i più incantevoli paesi della riviera di ponente; e con loro i soldati di Carrù, [p. 334 modifica]di Trinità, di Villanova, della Chiusa, dalle rudi voci, dagli aspri dialetti, dai fieri volti. — Giovani di nerbo e di testa, — esclamò il Rogelli; — dopo cinque settimane di servizio son soldati! — Vini forti e secchi, — disse l’agronomo; — dopo cinque anni di bottiglia, sono un’essenza da principi! — Sono bella gente, — osservò la signora. — Sono Alpini, — rispose modestamente il cugino.— E come ci tengono! Lei dovrebbe vedere alla visita di leva, quando si dice a un aspirante Alpino: — Sei troppo debole, — come si fanno rossi dal dispetto e dalla vergogna. — Ma io ne porto un paio di zaini! — rispondono; perchè vogliono entrar negli Alpini a ogni costo; anche per non allontanarsi da casa, si capisce; ma molto più per amor proprio, in faccia alle ragazze del paese, a cui voglion far la corte con la penna in capo. La signora avrebbe voluto ritrarre il battaglione con la fotografia istantanea. — Ma che! — esclamò il Rogelli.— Questi non sono Alpini! — Bisognava coglierli in marcia, all’apparire d’un villaggio, dove sperano di ballare la sera, quando tutti si rianimano e s’aggiustano sul cappello le stelle di montagna, che non c’è verso di fargliele levare, a quei don Giovanni alpestri ambiziosi. Bisognava vederli dall’alto, quando formano una striscia nera e serpeggiante su per i fianchi nevosi del monte, lunga a perdita d’occhi, che si spezza, si riannoda e lampeggia facendo risonare la valle deserta di risa e di canti, ripercossi dall’eco di cento gole. Bisogna vederli sfilare come fantasmi sulle vette altissime, velati e ingigantiti dalla nebbia, o far la [p. 335 modifica]catena nei passi pericolosi, con la neve fino all’anche, stretti per mano gli uni agli altri, o legati con le corde alla cintura; o camminar brancicando nella tormenta, col berretto calato sugli occhi, col fazzoletto annodato intorno al capo, col bastone in pugno e le crapette ai piedi avvolti e accecati dal nevischio; o correre di notte per la montagna, come un branco di pazzi, in mezzo ai tuoni e ai baleni, dietro alle tende portate via dall’uragano. Bisogna vederli quando precipita un loro compagno non si sa dove, e occorrendo quattro arditi per andarlo a prendere, venti buttan via il cappello e la daga, e sono già sotto a rischiar la pelle, che gli ufficiali gridano ancora: — Prudenza! — Là si vedon gli Alpini! — E come se avesse inteso quelle parole, la folla salutò l’ultimo plotone di Val di Pesio con uno scoppio tonante di evviva, che parve l’urrà d’un assalto.


Un’altra penna di colonnello biancheggiò in fondo alla piazza, e vennero innanzi le nappine bianche del battaglione Col di Tenda, i giovani nati tra le foreste brune e le forre cupe delle due alte valli, in cui scrosciano il Gesso e la Vermenagna; i grossi Limontini dalle facce color di giuncata e di sangue, i fratelli delle Tendesi robuste che portano come un diadema intorno al capo biondo il nastro di velluto nero, e i pastori del vasto altopiano di Vallasco, tempestato di fiori azzurri e bianchi, e delle montagne di Valdieri; molti dei quali, giovinetti, incontrarono mille volte per le loro erte viottole Vittorio Emanuele solitario, vestito da [p. 336 modifica]alpigiano, che li salutò col ciau famigliare. Duri soldati, nati in villaggi di duri nomi, stridenti come comandi soldateschi: Entraque, Roccavione, Robillante, Roaschia; cocciuti come quel loro comune famoso, che negò al Re per molti anni il privilegio di cacciare nelle sue terre. E venivano innanzi a passi lunghi, calcando il piede come per provar la saldezza del terreno, e guardando diritto davanti a sè, senza badare agli applausi e agli evviva. — Questi sono solidi! — esclamò il Rogelli. — Frammenti di roccia; tutte ossature di zappatori; trentatrè chilogrammi addosso e via come caprioli; quattr’ore a quattro gambe per la neve a cercare i sentieri coperti; tre giorni filati in mezzo alla furia dei temporali; dei capitomboli da sbriciolarsi il capo, e su, dopo una fregatina di neve alle orecchie, come se niente fosse, con un compagno ferito sul dorso, se occorre; e gelati dal vento che fende la faccia o saettati dal sole che affoca le rocce, su ancora, su sempre; e quando arrivano alla tappa, capaci di scaraventar lo zaino in un burrone per far la scommessa d’andarlo a riprendere, o di scivolar per tre miglia giù da un monte, facendo slitta della giacchetta, afferrati alle maniche come a due briglie. E con questo, in ottantasette giorni di seguito, non un malato nella compagnia! Degli appetiti da Gargantua, e tutti matti per la vite. Li sanno a mente come i dì della settimana, per nome e cognome, i sindaci e i farmacisti che hanno la buona abitudine di offrire il bicchiere ai bravi Alpini! E nelle osterie meglio provviste ci fanno piazza pulita in un quarto [p. 337 modifica]d’ora. — E a una domanda della signora: — Dei soldi? — rispose; — sono i Nabab dei soldati degli Alpini; ci pensano i padri e i fratelli che fan quattrini fuor di patria; piovono i vaglia internazionali. Viva il battaglione Col di Tenda! — E quel grido, risuonando in un momento di silenzio, destò l’eco d’altre mille grida, e fece cadere un nuvolo di fiori davanti ai soldati dell’ultimo plotone, che li guardavano stupiti, come per dire: — Fiori?... Bottiglie avrebbero ad essere. E il plotone passò, urtando con l’ala sinistra, spinta in fuori da un ondeggiamento del centro, contro lo steccato d’un palco, che scricchiolò come per un colpo di catapulta, provocando un nuovo scoppio di grida festose e d’applausi.



Ed ecco le trombe arrabbiate e la lunga penna d’aquila del comandante del battaglione Val di Stura. Io vidi lontano il villaggio severo di Vinadio, aggruppato sul pendio della montagna, come un pugno d’armati alla difesa, e il forte minaccioso in alto, e la strada ferrata in fondo alla valle, serpeggiante sui ponti mobili e sotto i voltoni a feritoie, accanto al torrente rotto dalle rocce; e più in là la gola sinistra delle Barricate, allagata di sangue francese; e il colle dell’Argentera, sfavillante delle legioni di Pompeo. L’agronomo vide invece il villaggio di Castelmagno in Val di Grana, celebre pel suo formaggio azzurreggiante, e le belle colline di Caraglio, di cui conosceva il vino, grosso, ma buono. Il battaglione procedeva nella piazza, franco e ordinato, mostrando le sue cinquecento [p. 338 modifica]facce rosate e virili, su cui pareva espresso un pensiero solo. Mistress Penrith credette di vedervi un’espressione generale di tristezza, e domandò se quella fosse l’indole degli abitanti delle due valli. — Lei mi fa celia! — rispose il Rogelli, ridendo; — qui fanno gli impostori. — Era da vedersi, come aveva visto lui, con che matta furia, dopo dieci ore di marcia “effettiva„ davano la caccia ai corvi, per l’ambizione di quelle benedette penne, o gareggiavano a far ruzzolar pietroni dai precipizi per snidar camosci dai nascondigli, con la speranza d’assaggiare un boccone da buongustai. E descriveva le scene amenissime dei pasti: gli Alpini su in cima che salutano festosamente l’apparizione dei muli carichi giù nella valle, chiamandoli per nome un per uno, come fratelli; lo squillo del rancio accolto con cento grida di gioia; e via tutti di volo a cercar legna e rododendri a mezzo miglio all’intorno; e in pochi minuti rieccoli carichi di fasci enormi e di tronchi d’alberi interi; i fuochi brillano, le gamelle bollono, gli esperti di culinaria tiran fuori l’erbe colte per la via, lo zucchino o il pomodoro portato in tasca per sette miglia, qualche volta il porcospino o lo scoiattolo cacciati la mattina; e allora salti e allegrie; e chi trita, e chi pesta, e chi soffia: impasticcian salse maravigliose e soffritti incredibili; s’ingozzano di fragole spiaccicate, s’annerano il viso di sugo di moro e di bacche di mirtillo, succhiano la borraccia fino all’ultima gocciola, e su, che è risonata la tromba: tutto quel festino è durato trenta minuti, tra apparecchi e primo chilo, e sono già [p. 339 modifica]in fila un’altra volta, che ricomincian la salita, affettando e macinando pane placidamente per spazzare il canale cibario, che tornerà a gridar soccorso fra un’ora. — Brochi! Brochi! Brochi! — gridò improvvisamente il Rogelli, dando in una risata di cuore. — Chi è? Cos’è? — domandarono intorno. Aveva visto nell’ultimo plotone un soldato di sua conoscenza, un mangiatore famigerato, privilegiato di doppia razione e sempre rimpinzato dai compagni, e pure eternamente famelico. Ma il suo grido andò perduto nel clamore della moltitudine che dava l’ultimo saluto a Val di Stura.



I figli del Monviso, signori! — gridò uno studente. Era il battaglione Val Maira che veniva avanti; un battaglione levato nella valle di quel nome e nelle due valli di Saluzzo; i nati su


Le alpestri rocce di cui, Po, tu labi;


cresciuti lungo le umili sponde del rigagnolo che porterà all’Adriatico il tributo di dieci fiumi e di mille torrenti. Giovani di alta statura, di viso pacato e benevolo, con quell’andatura a ondate della gente avvezza a salire; soliti in buona parte di emigrare in Francia l’inverno, o di scendere al piano per le mietiture e per le vendemmie. La folla gridò: Viva val Varaita! Viva Saluzzo! — La prima compagnia ricevette una canestrata di miosotidi da un gruppo di signore saluzzesi affacciate a un terrazzo. Molti soldati avean tra la folla le loro famiglie scese dai monti per salutarli. C’eran dei nativi di [p. 340 modifica]Crissolo, che da ragazzi s’erano avventurati tremando nelle tenebre della grande caverna del Rio Martino, echeggiante di fragori misteriosi; e dei Paesanesi, usati a indicare al forestiero la casa leggendaria dove spirò Desiderio; e montanari di Casteldelfino, pratici della foresta stupenda di pini cembri, a cui il Monviso deve il bell’aggettivo di Virgilio. Villaggi, borgate, dove durano ancora costumanze bizzarre antichissime. Parecchi di quei soldati, per esempio, — quelli di Sampeyre, — li aveva portati a battesimo il padrino, con le spalle ravvolte in un fazzoletto bianco, simboleggiante il suo ufficio donnesco. Essi medesimi, al desinare degli sponsali, sarebbero passati in piedi sopra la tavola per andar a schioccar un bacio alla sposa, sotto la cuffia carica di trine fatte in casa. Altri riceveranno da lei, il dì prima del matrimonio, il regalo consacrato del pagliericcio e il loro corteo nuziale sarà romanamente preceduto da un giovinetto portante una conocchia fasciata di lana. E per molti il letto matrimoniale sarà il primo letto in cui avran la consolazione d’allungarsi, poichè nei paesi loro, per tradizione, il celibato non ha diritto che al fenile. — Sono sposi di buona stoffa, — disse il Rogelli; — lo garantisco io! — E tutti risero; ma egli non rise. Sì, certo, egli li aveva visti lavorar senza zaino. Con lo zaino, maraviglie; senza zaino, prodigi. Salgono su per l’erte più ripide, diritti come statue, col respiro inalterato; camminano su per massi mobili di roccia bilicati sull’orlo dei precipizi; s’arrampicano su per le nevi ghiacciate, per pareti di sasso quasi verticali, attaccandosi [p. 341 modifica]a crepe, a sporgenze leggerissime, a bassorilievi di pietra liscia appena afferrabili, e sotto i loro piedi c’è la morte, e sopra il loro capo una croce; che importa! Dove gettan la mano, è un artiglio; dove piantano il piede, è inchiodato; e mentre chi li guarda trema, essi ridono! — Evviva! Viva! Viva! — gridò con quanto n’aveva in gola. E vedendo che la folla non aveva bisogno d’eccitamento all’applauso, il buon chauvin delle Alpi rimase un minuto immobile, con lo sguardo come smarrito dietro alla fantasia prepotente, che lo trasportava forse nei valloni silenziosi e profondi e nelle grandi foreste di larici e di abeti, da cui eran discesi i suoi “figliuoli.„ Lo riscossero le trombe “laceratrici„ di Val Chisone.



Allora si vide una festa di famiglia bellissima, un battaglione che entrava trionfalmente in casa propria, soldati nati a un passo fuor di Pinerolo, figliuoli della forte Fenestrelle, della ridente Perosa, della bella Giaveno, ricevuti nella loro piccola capitale, dove li aspettavano i parenti, gli amici, le belle, che s’erano conquistati i primi posti tra la folla a furia di gomitate, e che aspettavano da varie ore quel sognato momento: non v’erano d’estranei che quei di Cesana e della città di Rivoli, l’Auteuil di Torino. Si vedevan nella calca molte donne dell’alta valle di Fenestrelle con quegli strani cuffioni bianchi, che paiono grandi elmi di carta; molte di quelle vispe montanine di Pragellato, che nei loro balli tradizionali, a una nota convenuta del violinista, s’arrestano, e danno e pigliano dal ballerino [p. 342 modifica]ballerino un lungo bacio sulla bocca; e centinaia di ragazze degli opifici, con gli occhi lustri e antiche facce di nonni, ch’eran forse calati dai loro villaggi per l’ultima volta. Non aspettarono che passasse le prima compagnia: scoppiarono all’apparire dei zappatori. Pareva che non li avessero più visti da anni. Urlavano e ridevano, agitavan le braccia, chiamavano i soldati per nome, si cacciavano in mezzo ai plotoni, volevano romper le file. Gli altri spettatori, commossi, non applaudivano più. La signora inglese inumidì le frange del suo ventaglio. Essa credeva che quell’espansione affettuosa fosse l’effetto di una lunga separazione. Ma il Rogelli la disingannò. Si vedevan molto sovente, anche troppo. Era il lato debole degli Alpini quello di passar troppo spesso vicino a casa. Si poteva dire che le uniche mancanze loro erano gli scappamenti. Innamorati del loro angolo di mondo, come tutti i montanari, quando vedono di lontano il campanile del villaggio, sono affascinati: sanno quello che li aspetta dopo la scappata, non monta; svignano che il diavolo li porta, e ritornano poi col capo basso e col viso lungo, rassegnati al castigo previsto, che scontano senza rifiatare, ruminando i lieti ricordi; e se qualche cosa li trattiene talvolta, non è il timor del castigo, è il terrore d’esser ripescati a casa dall’arma benemerita, e di farsi vedere nella propria valle in mezzo ai cappelli a due punte. — Poveri uccelli di montagna! — esclamò il Rogelli. — Bisogna vederli poi l’inverno nelle città grandi, dove non han mai messo piede, che altra gente diventano, come [p. 343 modifica]paion piovuti dalle nuvole! Tornano dal teatro sbalorditi, si smarriscono per le vie di pieno giorno, corron come matti al suono della ritirata, scantonando a casaccio, presi dalla furia e dall’affanno; e guai alle costole degli urtati! E sempre sospirano l’estate che li ricondurrà alle loro montagne e ai loro parenti; ai quali, nel frattempo, scrivono delle lunghe lettere faticose, su fogli comprati uno alla volta, col soldato alpino sul margine. E intanto il battaglione Val Chisone era passato, e i soldati degli ultimi plotoni si scotevano in fretta dai cappelli e dalle spalle i rododendri e le margherite, che cadevano insieme ai pensieri della famiglia e dell’amante, nel cospetto del Re.



Un’altra indiavolata musica di trombe, un altro battaglione d’atleti rosei, e di nuovo mille grida in un grido: — Ecco i Valsusini. — S’avanzava il battaglione Val Dora, il meglio dei figliuoli della valle famosa, del canale d’eserciti, a cui dà il nome la vecchia Susa, chiave d’Italia e porta della guerra, che vigila le vie del Monginevro e del Moncenisio, e guarda le Alpi Graie e le Cozie. Eran giovani d’ogni parte della lunga valle, dal ventaglio di vallette che s’apre intorno alla fredda Bardonecchia, fino ai bei laghi di giardino, che danno grazia e fama a Avigliana. — Che pezzi di colonne! — esclamò il Rogelli, inorgoglito; — veri pilastri di cattedrale! — Tali erano infatti. Si trovavano là in mezzo degli intrepidi pastori che avevan passato l’adolescenza a guidar pecore fra gli aquiloni che flagellano le cime del Rocciamelone e [p. 344 modifica]della Ciaramella, dei tenaci lavoratori delle cave di Bussoleno; dei membruti contadini d’Oulx, nati in fondo a un sepolcro immane di montagne. L’agronomo lanciò un’esclamazione solitaria, ch’era come il frammento vocale d’un soliloquio muto: — Il vino di Chiomonte.... ah lo credo! — Lepide usanze! — disse, come fra sè, il Rogelli. C’eran lì i soldati di Gravere, che quando si presenteranno alla casa della sposa per condurla in chiesa, troveranno sull’uscio una vecchia sformata e cenciosa, la quale vorrà darsi in cambio della ragazza, e ne seguirà un diverbio di commedia, fin che la vecchia butterà una mestolata di riso in faccia al giovane, che scapperà coi compagni ridendo. Quelli di Monpantero, invece, avranno il comodo di poter calcolare la dote delle ragazze dal numero di strisce rosse che portano in fondo al gonnellino nero nei dì di festa. Altri vedranno scappar la sposa di chiesa dopo il sì, e dovranno andarsela a cercare per molte ore, fin che la troveranno in un nascondiglio... che sapranno prima. V’erano nel battaglione anche dei giovani di San Giorio, i quali, nel giorno del Santo Patrono della cavalleria, accompagnano la processione, vestiti d’ogni sorta di carnovalesche divise, brandendo mostruosi spadoni, e battendosi per via, a capriole e a versacci, fin che si ribellano al loro duce, e ammazzatolo, lo copron d’erba, e ne eleggono e portano un altro in trionfo. Chi avrebbe sognato mai quelle fantocciate guardando quei visi composti e quegli occhi fissi! Curiosa gente, a cui le montagne enormi, e i giochi strani della luce e le oscurità spaventose [p. 345 modifica]dei luoghi ove vivono, volgono la mente alle superstizioni. E credono e raccontano storie miracolose d’inabissamenti di monti e di apparizioni terribili, e consultan gli stregoni e ragionan coi morti la notte. — Con quelle facce lì, sì signori! — gridò il Rogelli guardandoli, col suo largo riso paterno. — E porteranno nelle marce le tasche piene di minerali per il loro tenente, od anche una marmotta viva, o un miriagramma di muffa per farsi il letto; ma un teschio trovato fra le rocce, per il museo alpino del maggiore, ah! mai al mondo.... Ah i miei cari semplicioni! Evviva la faccia vostra! Evviva Val Dora! — E la folla ripetè entusiasticamente: — Evviva Val Dora! Evviva Susa! Evviva Avigliana! — fin che fu intronata alla sua volta dalla fanfara infernale di Val Moncenisio.



Era il battaglione gemello di quel di Val Dora, levato nella stessa Comba di Susa e nelle tre valli sorelle per cui scendono a salti sonanti i tre rami della Stura di Lanzo, e sui poggi ameni di Corio, di Rivara, di Fiano, di Ceres, seminati di borghi floridi e di ville. O belle memorie di scampagnate domenicali, di cene sotto le pergole e di balli nei giardini illuminati! Bei valloni boscosi e freschi, e santuari altissimi, luccicanti come perle bianche sull’immenso manto verde della montagna! A veder le facce di melagrana di quei soldati, venivano al pensiero le fiorenti balie di Viù, ingioiellate come madonne, che spandono intorno un odor di latte e di salute, e le vezzose montanine di Lemie, [p. 346 modifica]col loro cappello di feltro nero calcato baldanzosamente sur un orecchio. Mi parve di riconoscerne molti, di averli veduti ragazzi, con le racchette ai piedi, scendere per le viottole coperte di neve, che conducono a quelle povere scuole della valle, dalle cui finestre non si vede cielo. Certo v’eran fra loro dei frequentatori della Comba selvaggia, dove andavano a cacciar l’orso i principi Savoiardi, e di quei che vivono sotto la minaccia perpetua di Roccapendente, e dei nati in quel triste villaggio di Bonzo, al quale per sessantanove giorni dell’anno non si mostra il disco del sole. Quante ne dovevano aver già passate a vent’anni, quali dure prove doveva aver già vinto quella loro gagliardissima tempra! I figli dell’ultima Balme, più di tutti; molti dei quali avrebber potuto raccontare orrende istorie di parenti schiacciati dalle frane, e di tristissimi mesi di prigionia, trascorsi nelle case sepolte, in mezzo alle provvigioni accumulate come per un assedio, che poteva finir con la morte. — Qui ci son degli orfani delle valanghe, — disse il Rogelli, scotendo il capo. La signora Penrith buttò giù una manata di semprevivi. — Viva Lanzo! — gridò improvvisamente la folla. — Viva Viù! — Viva Groscavallo! — Anche i figli di Groscavallo passavano, i discendenti degli audaci minatori che i Duchi di Savoia portavan con sè nelle guerre, i figli di Chialamberto, del piano d’Usseglio, d’Ala di Stura, che scendono l’inverno a fare i brentatori o gli spaccalegna, o vanno fuori di Stato a guadagnarsi la vita coi più duri mestieri, con quell’unica suprema ambizione di [p. 347 modifica]riuscire a mettere l’una sull’altra quattro pietre dei loro monti, per morirvi sotto, dicendo: — Muoio nella mia valle e in casa mia! — Ed era ancora l’amore appassionato dei loro monti che metteva in tutti quei capi un solo proposito, visibile negli occhi intenti e nelle fronti corrugate; l’impegno di mantenere le file diritte e parallele a prova di spago, perchè si dicesse: — Come hanno sfilato bene quelli delle tre valli di Stura! — E i cinquecento montanari passarono, allineati come veterani, rispondendo appena con un leggerissimo sorriso degli occhi immobili all’acclamazione della folla; la quale li seguitò con lo sguardo e col grido, fin che apparve dall’altra parte della piazza una nuova penna candida di colonnello, che annunziava i figli d’altre valli e d’altre montagne.


Dal movimento che si fece nella folla si poteva argomentare che il primo battaglione che veniva innanzi dovess’essere un battaglione di conoscenti e di vicini. Era quello di Val Pellice, infatti; formato di giovani di Torre, di Bobbio, di Rorà, d’Angrogna, del fiore dei montanari scomunicati; ma già dimentichi del passato, nati già oltre a dieci anni dopo la redenzione civile dei loro padri; e frammisti ai figli della Rocca di Cavour, ai compaesani del Pellice, del Denina e del Brignone, e ai soldati di Cumiana e di Villafranca. Appena il primo plotone comparve, qualcuno gettò un grido: — I Valdesi! — E quel grido, quell’idea di veder confusi con gli altri quei soldati, in un battaglione nominato dalla loro valle, destinato a combattere sulle [p. 348 modifica]loro montagne, in difesa della patria di tutti, fu come una scintilla che fece divampare e prorompere in grida altissime mille sentimenti generosi. Si videro agitarsi tra la folla centinaia di cuffiette bianche di Valdesi; da una finestra cadde una corona con l’emblema della candela della fede; e mistress Penrith, balzata in piedi, ricacciò dentro a stento un grido d’entusiasmo protestante. Cinque barbuti ministri delle valli, ch’erano in un angolo del nostro palco, s’alzarono, scoprendosi il capo. Ma al Rogelli passò un triste pensiero. — A chi sa quanti di costoro, — disse, — è già entrata in capo l’America! — All’agronomo era entrato in capo il vino di Bricherasio, come se l’alito di quei soldati gliene avesse portato alle nari l’aroma. — E rimangon così calmi, — osservò la signora, — così placidi, in mezzo a tante dimostrazioni! — Che vuol lei! — riprese il Rogelli; — sono Alpini. Son tutti così. Ma vedono e sentono tutto, non dubiti. Come in montagna. Vanno su zufolando, e paion distratti; ma nulla sfugge al loro sguardo e al loro orecchio: nè il pietrone accanto alla via, che l’anno passato non c’era; nè una scorciatoia che faccia risparmiar cinque passi; nè il suono d’una voce lontanissima che noi non udremmo neppure un miglio più avanti. Ah! i sensi degli Alpini, signori! Dove noi non distinguiamo una casa da un masso, essi distinguono una donna da un uomo; odorano l’erbe da insalata a dieci passi di distanza, sentono al fiuto l’acqua nascosta e la nebbia che s’alza; indovinano il sentiero invisibile, prevedono il burrone lontano, capiscon dallo [p. 349 modifica]scroscio del torrente se si può o no guadare, vi segnano la pioggia e la neve dove voi non vedreste una grandine di formaggi d’Olanda, e riconoscerebbero le orme d’una cavalletta. E son quei lupi di montagna lì, quelli lì proprio! — esclamò, accennando i soldati. E in quel momento appunto i lupi della prima compagnia sfilavano davanti al palco reale, e quelli dell’ultima davanti al nostro, rilevando il largo busto e la fronte ardita sotto la calda carezza della patria.



Avanti il battaglione Val d’Orco! Avanti il bel Canavese verde, padre dei vini generosi e dei gagliardi lavoratori, dall’anima aperta e dal sangue bollente, impetuosi nell’ire e nell’allegrezza come le piene dell’Acqua d’oro! Avanti i calderai infaticati di Cuorgnè sonora, i fabbricanti di cucchiai d’abete della romita Ceresole, e i vignaioli dalle gaie canzoni, che rompono i silenzi dei castelli d’Agliè e di Valperga! In mezzo a questi, venivano i montagnoli dell’industriosa Val Soana, gli zingari del Piemonte, buoni ad ogni arte e ad ogni mestiere, e parlanti fra loro uno strano gergo furbesco; e quelli di Valchiusella, curiosi e cortesi, e di bell’aspetto; — i più tenaci faticatori delle tre valli; — i quali, per compenso di non poter pronunciare le esse, posseggono le più appetitose ragazze della regione; dei visetti provocanti di santarelle fallite; — quelle di Rueglio; — vestite d’una sottana che stringe il ventre e s’arruffa dietro in mille piegoline, e d’un giubbetto ricamato, su cui s’appoggiano e [p. 350 modifica]tremano i più sodi tesori del Canavese. La folla salutò il battaglione con grida gloriose di: — Viva Ivrea! Viva Castellamonte! Viva Locana! — quando una voce stentorea dal palco vicino urlò: — Viva Pietro Micca! — Perdio, aveva ragione: v’erano nel battaglione i figliuoli della Manchester d’Italia, i compaesani di Quintino Sella; v’erano i giovani di Val d’Andorno. Mille grida echeggiarono: — Viva Micca! Viva Andorno! — E tutti gli occhi cercarono in mezzo alle file gli abitanti di quel fresco paradiso di Val del Cervo, ordinato e pulito come un parco reale, dove tutti san leggere e nessuno tende la mano; cercarono quei muratori nati, quei minatori d’istinto, quelli scalpellini partoriti apposta, che vanno a fare il gruzzolo e a onorar la fibra italiana in tutte le plaghe dei venti; altrettanti rozzi Quintini per ardimento, pertinacia e buon senso; e a tutti passarono per la mente le loro grandi ragazze, curve sotto l’ampia gerla, in cui porterebbero l’amante sulla Mologna; biancorosate che paion dipinte dal Rubens; con quegli occhi color di zaffiro, e quel fazzoletto a colori serrato intorno alla fronte bianca, e quelle maniche di camicia tagliate al gomito, che lascian vedere le braccia di lottatrici. — Ah che bellezza di battaglione! — esclamò il Rogelli. — Ah! il buon vino di Valdengo! — sospirò l’agronomo. E la signora buttò una rosa per aria dicendo: — A Pietro Micca! — E la moltitudine vibrò un lunghissimo grido, in cui si sentì un fremito d’affetto per il salvator di Torino. E tutti quei giovani passarono, sorridendo di gratitudine, come per dire [p. 351 modifica]che nei lontani paesi dove sarebbero andati a guadagnarsi il pane per la vecchiaia, non avrebbero dimenticato quel grido.



E allora si sollevarono dinanzi a noi i quattro prodigi delle Alpi: fu come una rapidissima sfolgorante visione del Monte Rosa e del Monte Bianco, del Cervino e del Gran Paradiso, di dieci valli, di cento laghi, di mille picchi, e di formidabili abissi, e di castelli merlati, e di torri e d’archi romani, e di vasti boschi d’abeti e di pini, imbiancati dalla luna e squassati dal vento dei ghiacciai. Benvenuti i granitici figli della grande vallata. A tutti parve di veder guizzare tra le file le gonnelle rosse delle ragazze di Gressoney, e alzarsi i larghi cappelli rotondi e i capricciosi berretti neri delle montanare di Challant e di Cogne. E tutti intesero gridare il nome del loro paese, le guide di Valsavaranche e i pastori di Valpellina, i vignaioli di Valtournanche e gli spazzacamini di Rhèmes, i tessitori di Valgrisanche e i figliuoli d’Aosta, italiani tutti nel cuore, qualunque sia il linguaggio che suoni sulle loro labbra, e prodi, certo, alla prova, come i loro padri della vecchia brigata, che il Piemonte venera ancora. — Viva Aosta la veja! — gridò la folla, rimescolandosi. — Viva Crodo! Viva Domodossola! Viva Val Sesia! — Poichè v’erano pure nel battaglione i figli di quella nobile valle, sulla quale spira come un’aura gentile la gloria di Gaudenzio Ferrari, che suscita e tien vivo nelle anime più incolte un sentimento amoroso dell’arte; di quei recessi profondi e tranquilli, di [p. 352 modifica]dove si vede lì come a un trar di mano sorridere e arrossire il Monte Rosa sotto il primo bacio del sole; di tutti quei bei villaggi di linguaggio e d’aspetto tedesco, che presentano ciascuno, come un fiore proprio, un costume di donna tutto grazia, colori e bizzarria. Passavano dei cacciatori d’aquile e di marmotte, degli stuccatori e dei marmoristi, dei giovani altissimi, delle teste bionde come il grano, dei nativi di Fobello, che ha fama di dar le più belle ragazze delle Alpi, graziosamente incoronate di nastri verdi e vermigli, ricadenti sopra le spalle: dei fratelli, dei fidanzati forse di quelle forti Margherite dell’alta valle di Sesia, che veston i giustacuori neri e scarlatti, trapunti d’oro e d’argento, scintillanti al sole come corazze di principesse guerriere. E la moltitudine gridava: — Viva Ivrea! Viva Vercelli! Viva Novara! — Era l’ultimo battaglione piemontese che passava, gli ultimi figli del grand’arco dell’Alpi che va dal Monte Rosa al Colle di Cadibona; i cuori batteron più forte, i fiori piovvero più fitti, i saluti presero il suono d’un addio, e si prolungarono.... Quando a un squillo delle nuove trombe che venne d’in fondo alla piazza, tutta la folla si voltò da quella parte impetuosamente, e il cielo risonò d’un grido solo: — La Lombardia!



Fu un’apparizione splendida e cara, un’ondata di poesia manzoniana che c’entrò nell’anima. Il battaglione Valtellina, i figliuoli del Resegone, chi non li conosceva? i compaesani di Lucia, d’Azzeccagarbugli e di Don Abbondio; le [p. 353 modifica]cui sorelle e le amanti portano ancora nelle trecce la raggera di lunghi spilli e il busto di broccato a fiori e la gonnella corta di filaticcio di seta. Ah! quelli sì avrebbero fatto la meritata accoglienza ai lanzichenecchi del Conte Rambaldo! Buona e prode Valtellina, che si gloria di non aver lasciato combattere battaglia nazionale, dal quarant’otto al sessantasei, senza farvi correre un rigagnolo del suo nobilissimo sangue. Devota morti pectora liberae, ancora, come contro alle legioni di Claudio Marcello e di Publio Silo. Venivano, e a noi pareva d’attirarli con la forza della simpatia profonda che c’ispiravano. La folla salutò il battaglione con un grido d’allegrezza. Erano bei soldati, d’aspetto montanino; ma singolarmente sereni, e quasi brillanti nel viso, che facevan pensare a cinquecento Renzi vestiti a festa, che andassero a domandare il giorno al curato. L’agronomo, invece, pensò al buon moscadello bianco e grigio dei loro paesi, lamentando la crittogama che aveva rovinato quei preziosi vigneti per dieci anni. — Ah! se fosse vivo Donizetti! — esclamò il Rogelli; — Donizetti che sentiva la montagna, che marce avrebbe composto per il suo battaglione alpino! — V’eran lì dei compaesani di Tommaso Grossi, dei giovani cresciuti fra i giardini deliziosi di Bellagio, dei figli delle tre pievi della riva occidentale, e della pianura infame, e della malaugurosa gola di via Mala, confusi a pescatori di Riva, e lavoratori della bella e selvatica Valassina chiusa nell’abbracciamento amoroso del lago, e a pastori dei monti bergamaschi, avvezzi al fragore della [p. 354 modifica]cascata del Brembo, o scesi dai villaggi che sentirono primi il fremito e l’eco del giuramento di Pontida. — Buona e brava gente, — disse il Rogelli; — dai petti di ferro e dai cuori d’oro, belli egualmente a vedere quando porgono la mano all’ospite e quando l’alzano sul nemico. Molti di quei soldati avevano padri e fratelli nella Nuova Zelanda o in Australia, dove lavorano al taglio dei boschi o alle miniere, e ricevevan denari di là; e non pochi di essi vi sarebbero andati, forse; ma per ritornare, certamente, poichè per la patria essi rovesciano il proverbio: Lontana dagli occhi, vicina al cuore. Una rosa alla Valtellina, mistress Penrith! — Viva i Valtellinesi! — gridò la folla. — Viva Lecco! — Viva Bergamo! — Viva Chiavenna! — E ci parevan più belli e più trionfanti quei soldati italiani, perchè vedevamo con la fantasia, di là da loro, come il fondo oscuro d’un quadro lieto, la miseranda Lombardia del seicento; e pioveva fiori da tutte le finestre e da tutti i palchi; e brillava negli occhi di tutti un sorriso, un’espressione di gaiezza insolita, come se vedessero tutti all’orizzonte la riva maravigliosa del lago di Como, fuggente sulle acque azzurre e sotto il cielo rosato.



Un altro battaglione, un’altra visione. Si levano a destra i monti scoscesi ed altissimi che fanno cintura da settentrione a Val Brembana e a val Camonica e le cime bianche della giogaia del Tonale, di là dalla quale è il Tirolo tedesco; a sinistra la muraglia immensa delle Alpi, una fuga di coni e di guglie che fendon [p. 355 modifica]le nuvole, un ammasso prodigioso di ghiacciai, oltre i quali è il Canton dei Grigioni; e fra queste due formidabili pareti salta l’Adda giovane e sfrenata, disputando il fondo della valle alla grande strada che risale dalla pianura lombarda ai gioghi dello Stelvio, e trapassa l’intera catena. — Viva l’alta Valtellina! — s’udì gridar da ogni parte, e da un capo all’altro della piazza. — Viva la madre delle valli! — gridò il Rogelli. — Qui ci sono i figliuoli di quei temerari tiratori bormiesi che condussero per il passo della Reit la colonna dello Zambelli a sorprender la compagnia austriaca nel fortissimo sito dei Bagni vecchi. C’è dei giovani della gola del Ponte del diavolo che hanno visto da fanciulli fuggir gli austriaci sotto le fucilate delle guardie nazionali del Guicciardi. — E voi non v’entusiasmate? — domandai all’agronomo. Questi rispose che non conosceva i vini della valle. Ma ammirava l’aspetto guerresco dei soldati: carnagioni più sanguigne, occhi e capelli più chiari di quelli del battaglione della valle bassa, visi ossuti e gravi, su cui pareva improntata l’austerità selvaggia dei loro luoghi nativi. Erano vigorosi montanari del bel bacino di Sondrio e delle valli solinghe del Livrio e di Venina, giovani nati nella spaurevole bellezza di Val Malenco e alle falde del monte delle Disgrazie; figli della turrita Bormio, triste della sua gloria caduta; cresciuti in quel labirinto di valli, di balze, di gole, d’abissi, gioia e disperazione degli alpinisti, che si stende e s’inalza intorno a Bormio fino al gruppo dei giganti dal capo eternamente candido, a cui impera l’Ortler [p. 356 modifica]titano. — Ludri! — gridava Rogelli pien d’entusiasmo; — ragazzi con le gambe d’acciaio e col fegato di bronzo, che cimentan la vita per andar a strappar gli ultimi fili d’erba sull’ultime roccie che pendon sui loro villaggi; lestofanti che, dopo una marcia da ammazzare i muli, domandano un permesso di dodici ore per andarne a passare una e mezza a casa loro, e partiti a piedi a mezzanotte, ritornano al campo a mezzogiorno, a restituire la penna d’aquila che si son fatti imprestare dal compagno per far colpo sull’amorosa. Questo particolare fece sventolare il fazzoletto alla signora Penrith, che s’attirò uno sguardo riconoscente d’un caporale della terza compagnia. Molte persone si levarono in piedi, le grida raddoppiarono. Alcuni gridavano a caso dei nomi sconosciuti di paesetti rimpiattati fra le rupi, — nidi di fabbricatori invernali di sedie e di culle, nei quali il parroco è maestro, medico, oste e scrivano; — e qualche soldato, ai suon di quei nomi, voltava il viso, con una vaga espressione di curiosità e di compiacenza; e allora molte voci e molte mani lo salutavano. E così passò l’ultima compagnia assordata dagli evviva, ricacciando a destra e a sinistra, coi suoi plotoni inflessibili, le onde irrompenti della folla.



Seguirono alcuni momenti di silenzio e poi scoppiò una di quelle tempeste di voci umane, di cui si porta l’eco nell’anima per la vita. Erano i figli della lionessa d’Italia, era il battaglione della valorosa Val Camonica, che s’avvicinava, bello, serrato, superbo; svariato di tipi [p. 357 modifica]singolarissimi, dai giovani tarchiati, di viso largo e diritto, di naso ricurvo e d’occhi neri, rivelanti l’antica immigrazione umbra ed etrusca in Val dell’Oglio; alle alte figure bionde, dal viso rotondo e dagli occhi celesti, che tradiscono gl’innesti slavi, longobardi e alemanni; un mirabile battaglione davvero, un torrente di sangue caldo e generoso, di gioventù audace e possente, altera del nome bresciano, pronta in pari modo alle violenze dell’ira e alle ispirazioni d’ogni affetto più nobile; dal cui linguaggio tronco e vibrato traspare la bontà risoluta e sincera. Nell’altissimo grido: — Viva Brescia — che alzò la moltitudine, v’era un saluto agli eroi della grande difesa del 49: — i soldati capirono; — e tutti quegli occhi corruscarono come carboni accesi. Erano abitatori degli aspri monti forati come madrepore dalle cave di ferro; figlioli del solitario Bagolino, discendenti dei bellicosissimi hominum, rispettati da Bruto; ardimentosi cacciatori d’orso di Monte Vaccio; e aitanti mandriani di Mù e di Saviore; eran lavoratori di metallo di Val Gobbia, lavoratori di marmo di Rezzato, tagliatori di pietra di Cortenèdolo, e carbonai di Pezzo, cresciuti sotto la selva sacra degli abeti e dei larici giganteschi, da cui scende a valle di notte il prete favoloso che cresce di statura a ogni passo. E ci balenava alla fantasia il romantico lago d’Iseo, mentre passavano, e l’Idro alto e triste, e la faccia tetra del Lago nero, e i riflessi argentei del Lago bianco; e la piccola Salò madre gentile di figliuoli forti; e tutti quei poggi e tutte quelle valli, già rosseggianti [p. 358 modifica]di divise e di sangue garibaldino, i cui nomi ci avevan fatto tanto battere il cuore nel 66; e sentivamo tra gli squilli delle trombe sibilare al vento le fitte selve di quel piccolo Eden alpestre di Val di Scalve, e ruggire precipitando l’Ario furioso, coronato di mille arcobaleni. Chi sa che non ci fosse un soldato di quell’indimenticabile villaggio di Cimbergo, appiccicato alle altissime rupi come un nido d’aquila? o l’ufficiale che battezzò il passo della tredicesima ai piedi del Monte Adamello? Il Rogelli conosceva tutti, chiamava dei sergenti per nome, salutò con espansione il comandante della fortunata compagnia che si gode l’estate all’ombra dei colossali castagni d’Edolo, nell’antico luogo di passo dei pellegrini diretti a Roma e a Terra Santa; e non sentiva la voce insistente dell’agronomo che gli chiedeva notizie del vin di Volpino; mentre la folla gridava freneticamente, agitando fazzoletti e cappelli: — viva Val Camonica! viva Brescia! viva gli eroi del 49! e gli ultimi due plotoni passavano, con l’anima e gli occhi rivolti al Re, lasciando come un ribollimente di procella in tutto quel sangue italiano.



Altre trombe squillarono, un nome sonò, e mille nuove immagini, come un getto di scintille di mille colori, ci luccicarono alla mente: colli verdi, antiche torri, un gran fiume, e Giulietta, e l’Arena, e le tombe, e Dante esule, e Catullo, e i grandi quadri del Veronese: quanta Italia! S’avanzavano le compagnie dei Monti Lessini, dei giovani alti, di forme fatticce e svelte, e d’occhio vivo: nati in buona parte su quei [p. 359 modifica]benedetti colli che sentirono tuonare il cannone della speranza nel 48, nel 59 e nel 66, e tre volte videro la speranza svanire all’orizzonte col fumo delle ultime cannonate. La folla li accolse con una musica strepitosa di battimani e d’evviva, dominata dal bel nome di Verona. — Son facce simpatiche, — disse la signora; — ci son già dei tipi veneziani. — Ci son dei nativi di Valpolicella, — osservò l’agronomo, scotendo il capo, come per dire: — fortunati mortali! — Il Rogelli inneggiò alle bellezze dei Monti Lessini, vestiti d’un verde di smeraldo, picchiolati di centinaia di fattorie, dove si beve un latte da principini ereditari, di cui gli alpini si fanno delle spanciate da vitelli. Egli era stato l’anno innanzi con una compagnia alpina nella valle di Bertoldo, dove l’illustre Bertoldo è nato, ed era andato ad affacciarsi al grande baratro del vallon di Campegno, a quello spaventevole pozzo, dove si conserva il ghiaccio eterno; — e aveva tirato indietro per i capelli, appena in tempo, uno di quegli scervellati ragazzi, che faceva la marionetta sull’orlo. Aveva praticato tutt’e quattro le compagnie. V’erano giovani di tutte le parti del Veronese; di quelli degli ultimi gioghi del regno, nati alle porte sospirate del Trentino; coltivatori dei campi di battaglia di Pastrengo e di Rivoli; e colligiani cresciuti sulle ariose alture da cui minacciano ancor la campagna i castelli diroccati degli Scaligeri. — O bel paese! — esclamò. — O Caprino! O Bardolino! O San Pietro Incariano! — Ah sì, gli si poteva far eco. O bel monte della Rocca di Garda, dai burroni fasciati [p. 360 modifica]d’ulivi e di mirti, che si dipingon sull’acque! O bell’orto d’Italia, monte Baldo glorioso, dalle smisurate radici, che vedi da una parte ai tuoi piedi la calata maestosa dell’Adige, aspettato all’amplesso dalla sua metropoli armata, e dall’altra quella bellezza infinita d’isole e di penisole, di castella e di porti, e d’inaccessibili rupi e di fosche selve, e i battelli scorrenti sull’acque limpidissime del Benaco, o i cavalloni furibondi che sollevano sino al tuo capo il muggito della tempesta! Bella e cara terra, amata d’un amor sacro e triste da chi ti vide per la prima volta dalle alture insanguinate di Monte Croce! — Bei e cari fioi pieni de cor e buon umor! — esclamò il Rogelli. Marcerebbero tutto il giorno per poter ballare tutta la notte! E raccontò che mentre egli arrivava morto alla tappa, essi facevano sbucare le montanine non si sa donde, e ballavano a suon di tromba e a lume di luna per tre ore gonfiate, e poi andavano ancora a implorar dal capitano un’ultima polka, con l’aria di chi chiede la grazia della vita. — Viva gli Alpini, ost...! — gridò. — E mille voci ripeterono: — Viva gli Alpini! Viva i Monti Lessini! Viva Verona! — E un visibilio di fiori cadde sui talloni delle ultime file, che disparvero nel polverio della piazza, insieme alla visione del Lago di Garda.



E s’avvicinò il battaglione Val di Schio. A noi parve d’udire uno strepito diffuso d’opifici, e di veder sorgere alle falde dei bei monti vicentini centinaia di case d’operai, fiancheggiate d’orti: una piccola città americana, piena di scuole e [p. 361 modifica]d’istituti benefici, formicolante d’operai lanaioli con la gazzetta spiegata fra le mani; e davanti tutte le alture, la forma graziosa di Monte Summano, colorito di fiori. La folla si cacciò innanzi dalle due parti, curiosa, gridando viva Vicenza, viva Schio, viva Thiene. Eran soldati vivaci, facce espressive, fisonomie di montanari sagaci e ragionatori. Il Rogelli si vantava di distinguere una valle dall’altra, di riconoscere i valdagnesi d’origine nordica, scesi dai monti dirupati di Recoaro, da quelli dell’angusta valle dell’Astico, nati all’ombra del Capel del Dose. Ma era pura millanteria. Il battaglione, peraltro, presentava una varietà notevole di volti, e tutte le sfumature immaginabili del biondo dei capelli e del rosso delle carni. Erano bei fusti di giovanotti, degni rampolli di quegl’indefessi contadini del Canale di Brenta che lavorano da tre secoli a convertire in campi fecondi le nude rocce; figli della antica lega dei Sette Comuni, gloriosa dei suoi cinquecento anni di governo autonomo, e della sua fedeltà cavalleresca a San Marco; ingagliarditi alle aure “pregne di vita„ dei boschi e dei pascoli sull’ubertoso altipiano che si leva tra la provincia di Vicenza e Valsugana. Chi sa! Ve n’eran forse parecchi nati in quei villaggi fuori di mano, dove si parla ancora il dialetto cimbro; v’era certo qualcuno di quegli ossuti ed agili montanari che tiran giù le slitte al fondo della valle dal bel villaggio d’Enego; e non pochi, senza dubbio, che avevan già fabbricate molte migliaia di quei milioni di scatole e di secchie che portano sin di là dall’Oceano il modesto nome del loro paese. Vaghi [p. 362 modifica]paesi, leggiadre borgate dai tetti aguzzi, dove suona il canto melanconico delle bionde intrecciatrici di paglia, solitudini predilette dalle fate bianche che regalano le matasse miracolose, o infestate dai nani rossi, che scarmigliano i capelli alle ragazze; riposte valli dalle leggende eroiche e dalle tradizioni misteriose, piene di poesia e di bellezza, troppo ignorate da noi, vagabondi cercatori d’ispirazioni straniere! E tu pure ci avevi in quelle file il tuo sangue, o bella madre di pittori, vecchia Bassano dai verdi poggi, donde


scende la Brenta al mar tacita e bruna,


e tu Marostica industre, che tendi al cielo, come un braccio titanico, il nero torrione di Can Grande; e tu, tomba famosa dell’insuperabile cantor maccheronico, o Campese; e tu, Asiago ridente, che spandi per monti e per valli gli accordi armoniosi delle tue campane, vibranti ancora nell’anima dei tuoi figli lontani come la dolce voce dei parenti! — Viva Bassano! — gridò la folla. — Viva Recoaro! — Viva Valdagno! — Il Rogelli urlò: — Viva i Sette Comuni! — Ma la signora l’interruppe per domandargli se sapeva delle parole cimbre. Ed egli disse rapidamente: — Kersa, pluma, langez, sbalbala, taupa, veuer, stearn, sela, engel, Got. — E siccome l’entusiasmo lo metteva in vena di galanteria, tradusse con un crescendo appassionato: — ciliegia, fiore, primavera, rondine, colomba, foco, stella, anima, sole, angelo, Dio. — E matto, come si dice? — domandò mistress Penrith. — Narre! [p. 363 modifica]egli rispose, esaltandosi. Ebbene? Sì, oggi son matto, e dico che un vecchio italiano che non diventa un po’ matto, al veder passar tutti insieme per la prima volta i figliuoli armati delle Alpi, ha meno cervello in capo di quelli che lo perdono! Ah! poveri patriotti morti, poveri nostri vecchi sepolti, che non li potete vedere! — Ed eccitato com’era, si sarebbe lasciato soverchiar dalla commozione, se gli applausi fragorosi che salutavano Val di Schio, non fossero stati interrotti improvvisamente da uno squarciato grido: — Val Brenta! — che annunziò un nuovo battaglione.



— Val Brenta! — rigridò la folla voltando le diecimila teste verso il battaglione che s’avvicinava. Fu come un soffio d’aria di Venezia che ci venne in viso. — L’agronomo fece l’atto della deglutizione, socchiudendo gli occhi, e sclamò: — Ah! l’eccellente Verdiso! — Ecco gli Alpini di

là dove il Sile a Cagnan s'accompagna.


Era Treviso che veniva innanzi, la prediletta amica di Venezia, la giovanile e arguta Treviso, felice della divina ricchezza d’acqua, d’aria e di verde che le dà salute e fragranza. Eran soldati d’aspetto geniale, d’occhi sfavillanti, d’andatura viva e sciolta; figure di montanari, molti, ma come ingentiliti anche di fuori dallo spettacolo d’una bella natura, illeggiadrita dall’arte; molti visi che facevano supporre una vena di bizzarria piacevole, estri di capi originali, fantasie vivide e mobili come fiammelle agitate. — [p. 364 modifica]

Questi son di buon umore! — esclamò il Rogelli. — Non c’è caso che lascin languire la conversazione al bivacco o morire il canto per via. E una destrezza a menar le forbici! Ma da ragazzi di garbo, senza forare la pelle. Hanno il folletto in corpo. È uno spasso. — La folla li assordava d’evviva, essi sorridevano. Si pronunziavano da ogni parte, come nomi d’amici, i nomi dei loro paesi, così noti e simpatici a tutti; e la prode Conegliano passò, con le sue torri e i suoi cipressi, bella come un sogno di pittore, e quel beato angolo di terra di Valdobbiadene, quasi diviso dal mondo, e i colli di Montebelluna, sparsi di ville, vestiti di pampini, irti di frutteti, e l’adolescente Vittorio, chiusa fra le braccia dell’Alpi. — Ah signori, Asolo! — esclamò la signora Penrith, appuntando il dito bianco sulla tabella di reclutamento. — Pensare che ci saranno dei soldati di Asolo! Cugino, indicatemi i soldati d’Asolo! — Questo superava la percezione e la presunzione anche del Rogelli. Ma la signora non insistette, che già l’aveva portata l’immaginazione all’Asolo del cinquecento, davanti alla pomposa Regina di Cipro, seduta all’ombra dei baldacchini di broccato d’oro, in mezzo a una corona di letterati e di principi; e udiva le grida delle cacce e delle giostre, e come la musica lontana di quel breve regno gentile. — Viva Treviso! — gridò la folla. — Viva Conegliano! — Viva l’amorosa marea! — gridò il Rogelli. — Signori, vent’anni sono, in questo medesimo giorno, entrava in Treviso il primo drappello dell’esercito italiano! — Queste per Asolo! — disse la signora, gettando [p. 365 modifica]una pugnata di viole ciocche. E tutta la moltitudine, come obbedendo al cenno d’un solo, gridò in coro anche una volta: — Viva Val Brenta! — E gli ultimi soldati passarono, poderosi ed alteri come le quercie della loro “magna selva Fetontea„ girando sugli spettatori le pupille chiare e potenti, come quando nei dì sereni si voltano dalle loro alture a guardare all’orizzonte Venezia, somigliante a un’isoletta azzurra perduta tra i vapori dell’Adriatico.


E altri squilli di tromba echeggiarono, e un altro battaglione s’avanzò, d’un aspetto nuovo.... Salve, Belluno antica, cinta di monti superbi che affondan le fronti bianche nel cielo; salve, piccola Pieve immortale, sfolgorante della gloria del tuo Tiziano; orrida gola del Cordévole, tagliata a picco nelle alte rupi dolomiche, dalle forme mostruose; salve, o conca paradisiaca d’Agordo, cerchiata di montagne splendide, simili a sterminate piramidi di candido marmo, o maravigliosa muraglia di Monte Civita, o gigante Antelào, o inespugnabile nodo di gioghi e di boschi. Scozia d’Italia, popolata di villaggi di legno, su cui brillano le chiesuole nivee, e s’alzano come lance i campanili snelli ed acuti, gloria a voi, poetiche valli dal sorriso triste, così belle allo sguardo, così dure alla vita; e ai figli vostri, e ai figli dei lottatori impavidi del 48, ai Cadorini dal saldo petto, così pronti sempre a invermigliare di sangue le loro rocce per ricacciar gl’invasori. La folla li salutò con uno slancio d’affetto caldissimo, gridando parole che scotevan tutte le fibre, ed essi [p. 366 modifica]passavano composti, con una cert’aria di curiosità riflessiva, come di gente venuta da lontano. — Viva Auronzo! si gridava da ogni parte. Viva Pieve di Cadore! — Viva Perarolo! — Viva Lorenzago! — E a quei nomi alzavan la faccia, e guardavan qua e là, come se dovessero veder qualche cosa dei loro paesi; ed eran facce che dicevano una vita di sacrifizi e di ardimenti: facce di cavatori di rame dei monti d’Agordo, di conduttori di zattere del Piave, di boschieri, abituati a parlarsi a cenni nello strepito assordante delle cascate d’acque e dei venti, e a giocar la vita ogni giorno fra i torrenti e le rupi; facce d’antichi scottoni, che da fanciulli avevan portato il cibo ai boscaiuoli, a prezzo di pericoli mortali e di stenti terribili, visi dai lineamenti risentiti e gravi, che nella loro freschezza giovanile raccontavan già la storia di molte emigrazioni oltre l’Alpi, di fatiche, di privazioni di molti anni accumulate in pochi mesi, per metter da parte e riportare a casa qualche scudo; visi d’una bellezza loro propria, irradiata dall’anima indomita, che faceva correr la mano al saluto reverente prima che all’applauso festoso. Era il penultimo battaglione, eran del Cadore; la folla li costrinse due volte a fermarsi; una tempesta di fiori cadde su quelle larghe spalle e su quelle braccia di ferro; le acclamazioni copersero il suon delle trombe. La signora Penrith, consapevole della particolare simpatia dei concittadini pel Cadore, si credette obbligata a mostrare una commozione insolita, ricordando con rotte parole la sua gita a Pieve, alla casa del Tiziano, [p. 367 modifica]convertita in beccheria. Il Rogelli gettava ai soldati delle frasi cadorine: Fra nos, nos bos, nos vacis, faron nos fatis; ma morivan a mezz’aria negli applausi. Il comandante dell’ultima compagnia lo riconobbe, passando, e gli fece un cenno. — Ah! capitano, — gli gridò dietro il Rogelli, esaltato da un ricordo improvviso, — la nostra gita a Caprile con gli alpinisti! L’abbraccio alla vecchia colonna col leone di San Marco! La colezione davanti alle due bandiere della Serenissima! Ah! il mio Cadore adorato! — Ma gli portò via la parola il doppio acutissimo grido della moltitudine, che mandava l’ultimo addio a Val Cadore e il primo evviva a Val Tagliamento.



Ed ecco il Friuli, finalmente; il Piemonte orientale d’Italia, gli ultimi figli delle Alpi carniche, i lavoratori invitti e pazienti, ponderati e accorti, forti come tori, e mansueti, quando il vino non c’entra, e buoni, quando il cuore li muove, come i canti affettuosi e mestissimi delle loro montagne; e quando calano il pugno, tremendi; alti della persona, e di viso onesto; belli agli occhi nostri della poesia dei lontani, e della fierezza pensosa di avanguardie della patria. Al primo scoppio di grida, succedette nella moltitudine un mormorio lungo e quasi carezzevole, come d’un mare che bacia le sponde; e in mezzo a quella musica sommessa di saluti, più eloquente e più cara d’ogni plauso, s’avanzarono a passi pesanti, coi visi alti e seri, atteggiati a una certa espressione di stupore di gente ignara del mondo, i bravi figliuoli di [p. 368 modifica]Cividale, di Gemona, di Tolmezzo, i nati ai piedi delle Alpi Giulie, in faccia alle sentinelle avanzate dell’Austria, i campagnuoli delle terre di Venzone, che restituiscono intatte dai secoli le salme umane, i pastori cresciuti fra gli urli selvaggi del Tagliamento, e nel triste canale del Ferro, ai confini delle nevi eterne, frammisti ai biondi Slavi di San Pietro al Natisone e agli Slavi solitari dell’altopiano di Resia. Salute! Salute a voi, fratelli austeri e fedeli! Salute ai vostri operosi padri emigranti alla valle del Danubio! Salute alle vostre donne fortissime e dolci, che la fatica atterra e l’amore risolleva! Salute, Friuli bello e onorato! Tutto questo sentiva ed esprimeva confusamente la folla con le grida potenti che le usciron dal profondo dell’anima quando passaron le ultime file. E allora l’entusiasmo divampò come un incendio al soffio d’un aquilone, e in mezzo a quel delirio di tutti, nessuno s’accorse del buon Rogelli, che scaraventò il cilindro in mezzo alla piazza. Non era più il popolo d’una provincia, era l’Italia intera che salutava i suoi nuovi battaglioni, che battezzava il suo nuovo corpo di difensori, che consacrava il principio della sua storia; era la grande patria, che gli affidava solennemente i varchi della sua sacra frontiera, e gli diceva: — Confido in te, e sii benedetto! — Tutte le fronti si scoprirono, gli spettatori dei palchi sorsero in piedi, la moltitudine innumerevole agitò le braccia convulse, sprigionando un ultimo formidabile grido. E poi, come per incanto, tutto tacque. Tutti rimasero muti ed intenti a guardare quella fiumana [p. 369 modifica]d’armati che si perdeva lampeggiando nel polverìo dello stradon di Torino, — tutti immobili, e come stupefatti ancora d’un sogno prodigioso, come se dietro a quei venti battaglioni avesse girato rapidamente intorno a loro, dal colle di Cadibona al Picco dei due signori, sonando le glorie di tutti i suoi popoli con le campane di tutte le sue valli, la giogaia sublime che ci divide dal mondo.