Fino a Dogali/Niccolò Macchiavelli

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Niccolò Macchiavelli

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La via Emilia Tragedia

[p. 213 modifica] VII. [Niccolò Macchiavelli]


— Che cosa pensi tu dunque del Macchiavelli? Mi ha chiesto improvvisamente Berti, volgendomisi dal caminetto con le molle in mano e guardandomi con quella sua aria intelligente e curiosa. Quindi senza darmi tempo di cominciare una qualsiasi frase di risposta, si è alzato e prendendo di sul tavolo da notte uno dei tre volumi del Villari, ha soggiunto:

— Li ho letti anch'io: è un lavoro largo e minuto. Tutta la critica moderna lo ha encomiato; Macchiavelli vi è seguíto giorno per giorno, passo per passo. La sua vita vi è esplorata collo scandaglio, commentata colla finezza di un avvocato e qualche volta colla penetrazione di un romanziere: il disegno dei tempi, nei quali passa ed opera, è sicuro. Pare che tutto vi sia detto; un volume descrive [p. 214 modifica]l'ambiente nel quale Macchiavelli sta per entrare, due altri quello che vi pensa e fa.

E arrestandosi improvvisamente, colpito da una idea più concisa per esprimere il tumulto di tutte le altre che il richiamo di quei libri gli aveva destato:

— Sai che cosa mi è risultato dalla lettura attenta dell'opera del

Villari? Mi pare di aver sempre vissuto con Macchiavelli e di non averlo capito.

— Ah! ho esclamato.
— Che te ne sembra?
— La stessa impressione che ne ho ricevuto io. L'opera del Villari ha

tutti i pregi e i difetti della scuola positivista alla quale appartiene. La vita dell'uomo non può mai spiegare interamente la vita del pensatore e dell'artista, come il quadro del tempo non rivela mai tutto il mistero dell'individuo. Il Taine, ben più potente del Villari, nella storia della letteratura inglese, servendosi dello stesso metodo, ha fallito in faccia a Shakespeare tentando di ricostruirlo. Ricostruire, ecco il motto della scuola positivista; Michelet invece aveva detto: la storia è una resurrezione. Hai letto lo Shakespeare di Victor Hugo? No, non importa. Victor Hugo falsa Shakespeare col proprio riflesso, ma penetra nella sua anima. Taine riunisce con dotta e sicura analisi tutte le sue opere, come un anatomico riunirebbe [p. 215 modifica]saldandole con fili di ottone le sue ossa, per dirvi: questo è Shakespeare.

— E non sarebbe che il suo cadavere.

Un gruppo di amici è sopravvenuto deviando la nostra conversazione.

— Studii? mi ha chiesto Fossa.
— No.
— Scrivi?
— Nemmeno.
— Non lo credo: è un pretesto per non dirci a che cosa lavori o per

non mostrarcelo. Macchiavelli! ha soggiunto pigliando dal tavolo lo stesso volume preso da Berti. Sentiamo, sentite, si è rivolto con scherzosa ironia agli amici: che cosa pensi tu del Macchiavelli?

— O del Villari? ho risposto barattando un'occhiata col Berti.
— Che m'importa del Villari! Il giudizio di un giudizio è come il

racconto di un racconto, il secondo è sempre peggiore del primo; non vi è che il terzo che essendo addirittura insopportabile ci possa consolare dell'averli ascoltati tutte due. Dimmi tu, piuttosto, che cosa pensi del Macchiavelli. Io non l'ho mai letto, ma l'ho visto nel mio viaggio a Firenze, in Santa Croce: mi è parso una vecchia testina di monello intelligente. Intelligente e monello lo era di certo, ma forse qualcos'altro ancora. Che cosa pensi tu del Macchiavelli? [p. 216 modifica]

L'insistenza di questa domanda cominciava a turbarmi.

— Napoleone avrebbe già risposto, ha replicato Fossa sorridendo al

sorriso degli amici, coi quali a ogni proposito cita sempre Napoleone I.

— E Napoleone I avrebbe risposto in due parole? ha interrotto Berti.
— Già! e una sarebbe di più se ogni fatto non è che un'idea.
— Ohè! filosofo....
— E Napoleone avrebbe detto giusto?
— Già.
— T'inganni, mio caro: nel Memoriale Sant'Elena Napoleone ha giudicato

Macchiavelli, in un periodo di molto imperfettamente.

— Io non l'ho letto e non lo leggerò mai; non ammetto Napoleone che

scrive.

— E così che cosa pensi tu del Macchiavelli?
— Troppo per potertelo dire qui.
— Allora sei nel mio caso, che non ne penso nulla e non ne posso

parlare affatto: parliamo dunque di Napoleone I.

Un urrah di sdegno allegro ha coperto quest'ultima minaccia di Fossa, che sedendo si è messo invece a parlare dei propri cavalli. Fuori nevicava. Malgrado che le fiamme brillino da tre mesi nel caminetto, la camera non è molto calda e g [p. 217 modifica]li amici debbono a ogni visita far crocchio intorno al fuoco. Io seguiva coll'avidità di un infermo, da quasi quattro mesi segregato dalla società, il loro cicaleccio che raccontava forse per la centesima volta una storiella del teatro.

Poi se ne sono andati tutti insieme, ma Fossa rimasto ultimo colla maniglia dell'uscio in mano, mi si è rivolto e:

— Che cosa pensi tu del Macchiavelli? Mi ha ripetuto burlescamente.

Bada che al mio ritorno mi dovrai una risposta; ti concedo di restare a letto tutti questi giorni per scriverla se ciò te la renda più facile.

Ed è fuggito ridendo.

Che cosa penso io dunque del Macchiavelli, di questa sfinge intorno alla quale si affatica da tanto tempo il pensiero dei dotti, e che mutata in simbolo sinistro esprime pei volghi quanto di più profondamente perfido e serenamente cinico possa essere la natura umana? Che cosa vi è di vero nella parola macchiavellismo per Macchiavelli? Quale fu il suo pensiero nel pensiero del suo secolo, nello spirito della storia? Ha egli meritato l'iscrizione ampollosamente semplice che in Santa Croce lo dice superiore ai due più grandi uomini dell'Italia, Dante e Michelangelo — Tanto nomini nullum par elogium? — La sua azione nel mondo fu uguale al [p. 218 modifica]la loro, e le sue scoperte ne mutarono il concetto come quelle di Galileo, che gli è modestamente accanto nel medesimo tempio?

Certo che di lui possa chiedersi questo è già tale complimento che vale poco meno dell'epitaffio fattogli dal Ferroni, oggi ancora citato fra i più belli della letteratura lapidaria.

Le vicende della vita e della fama del Macchiavelli si rassomigliano molto. Entrambe furono contrastate dal tempo, aspreggiate dalla miseria, quasi soffocate nell'oblio. Le sue opere maggiori stampate, lui morto, non ottennero subito troppa stima; il pensiero non ne fu giudicato grande, la forma perfetta. Solo il Principe colpì lo spirito del pubblico, e mantenendovisi come nello spasimo di un problema, parve salvare da una probabile dimenticanza il nome di Macchiavelli. I pochi contemporanei amici del Macchiavelli che l'avevano letto, non gli dettero, quantunque apprezzandolo, un briciolo dell'importanza che doveva poi acquistare: l'autore stesso non lo stimò mai tanto e non avrebbe osato ripromettersene la celebrità fino ad oggi triste ma universale.

La battaglia, che contro questo libro incominciarono primi i gesuiti, mutata presto in guerra, ne ebbe ogni vicenda gloriosa ed infame. Tutti vi entrarono, grandi e piccoli; uomini lo [p. 219 modifica]spirito dei quali doveva morire con essi, e uomini dei quali l'anima è rimasta nella storia mondiale. Poichè la politica è il motore e l'involucro della vita sociale, ognuno sentì il bisogno di decidersi in faccia al problema del Principe. Ma il suo concetto era vero nella politica umana? Il governo dell'uomo non essendo che l'azione del suo spirito collettivo sul suo spirito individuale, che debbono essere uguali sotto pena di essere inconciliabili, gli aforismi della politica possono davvero non essere che aforismi di psicologia?

La battaglia che il Principe ha sostenuto e sostiene ancora contro tutti, decideva dell'onore dell'umanità: il Principe la dichiarava naturalmente cattiva, essa si affermava naturalmente buona.

La durata della guerra è in favore del Principe, benchè la vittoria debba restare fatalmente all'umanità.

Il Macchiavelli nacque nel secolo forse più ricco d'ingegni per Firenze. I tempi erano grossi politicamente, la repubblica in continuo pericolo: la forma politica del Comune stava per tramontare in quella più larga e più alta degli Stati nazionali. La Spagna aveva già compito la propria unificazione, l'opera di Luigi XI in Francia era già sicura, Lutero preparava colla Riforma la grande costituzione dell'Alemagna. In Italia l'equilibrio studiato [p. 220 modifica]e ottenuto da Lorenzo il Magnifico, altrettanto fino politico che poeta, era cessato: i Francesi l'avevano invasa e non se n'erano andati che per ritornare.

Pisa ribelle a Firenze si avvicinava ad un'agonia senza gloria, profetando nella propria fine quella di tutti i municipii ancora liberi nei vecchi ordini, o indipendenti per le armi di qualche signorotto isolato nella disgregazione del sistema feudale. Genova era in preda alle ultime fazioni famigliali osteggiantisi per la supremazia: Venezia erede della universalità e del governo romano era cosmopolita nel commercio e aristocratica nel patriziato, palladio e tiranno della sua vita più ampia che nei regni recentemente riuniti, più florida che nei comuni meglio dotati, più duratura che nelle stesse monarchie destinate a prendere il posto delle repubbliche. La Romagna, la Marca e l'Umbria lacerate dagli ultimi feudatari conniventi o contrastanti coi papi vivevano nella miseria e nei massacri. Milano dopo il dramma astuto e infelice del Moro si accorgeva di non avere ormai più signore indigeno, e si preparava alla gloria umiliante di un vicereame conservando nella nuova tendenza alla servitù la cupidigia conquistatrice, che l'aveva resa nemica di Venezia e per un momento quasi arbitra d'Italia. Al di sopra dell'Italia oltre le Alpi si alzava l'ombra del sacro romano impero, autorità mistica e brutale, che pesava [p. 221 modifica]ancora sulla coscienza italica come un dogma, e discendeva tratto tratto su tutti i governi della penisola come una rapina.

La Francia più piccola ma più unitaria della Germania, nella quale la putrefazione della feudalità e il disgregamento dei Comuni impediva quasi ogni coesione di Stato, ricordava contro di essa le pretensioni imperiali di Carlo Magno, studiando intenta l'Italia come futuro campo delle battaglie che dovevano decidere quale sarebbe il primo popolo d'Europa. La Spagna sbarcata a Napoli sconfiggendovi gli ultimi Angioini e sovrapponendo la propria dominazione alla loro, vi aveva fondato una monarchia, la quale malgrado l'ostacolo di Roma immobile e invincibile nel mezzo d'Italia, non rinunciava alla brama di allargarsi in reame italiano. Al nord di Genova tra le Alpi, alla testa di montanari indomiti quanto astuti, poveri e capaci di tutto per arricchire, la casa di Savoia piccola, poco pregiata, male conosciuta, chiamata per disprezzo portinaia d'Italia, spiava notte e giorno colla passione instancabile del cacciatore l'occasione d'impossessarsi di qualche stanza nel palazzo che era pronta ad aprire a tutti gli stranieri.

Non vi era nazionalità, non stato, non governo, non politica italiana. Il papato solo poteva tratto tratto sollevarsi e parlare d'Italia o di giustizia, ma [p. 222 modifica]oltrecchè essendo universale per istinto non avrebbe potuto costringersi nella storia italiana senza annullarsi, i suoi istinti e le sue necessità di regno lo costringevano a maggiori contraddizioni e a più inintelligibili mostruosità. Talvolta il pontefice non era che il re di Roma, usufruttuario di un regno per lui intangibile come un fidecommesso; tal'altra un dinasta, che non potendo trasmetterlo alla propria dinastia tentava d'ingrandirlo per cederne così le accessioni. Poi il papa era pontefice capo della cristianità minacciata ora dal solo scisma che dovesse restare davvero importante nella sua storia.

Intanto il cinquecento si avanzava brillando. Tutte le arti rinate con Dante, il più grande artista dell'umanità, divenute adulte, si riunivano a Michelangelo quasi per finire come avevano cominciato; l'erudizione aveva disseppellito pressochè tutto il mondo classico e cominciava ad intenderlo; Colombo scopriva l'America, Copernico dava il moto alla terra, Lutero la libertà alla coscienza, Raffaello l'ultima bellezza alla forma, Ariosto l'ultimo poema alla poesia; Giulio II era l'ultimo guerriero del papato, Firenze doveva essere l'ultimo Comune italiano.

La coscienza italiana era vuota e torbida al tempo stesso; nessuna dignità di popolo o tradizione o ideale. Roma antica, straniera all'intelletto e [p. 223 modifica]al cuore, non viveva più che nelle memorie e nelle immaginazioni dei letterati e del volgo; la religione, divenuta superstizione in basso, traffico ed impero in alto, mescolata di magia, ignorante e scostumata, nata di una tragedia sul Golgota, sembrava finire in un carnevale che era un'altra tragedia per l'Italia e per la coscienza umana. La filosofia ospitata dalla religione nella bufera del medio evo n'era tuttavia la serva: San Tomaso guidato da Aristotile la signoreggiava; la scienza, senza vero passato, non accennava ancora a un sicuro avvenire. Però Copernico, Guttemberg, Colombo, sconosciuti l'uno all'altro, si erano misteriosamente intesi per guarantirla: la storia si dibatteva invano fra le fascie della cronaca, la lirica morta nei giardini di Lorenzo il Magnifico era già dimenticata, l'ultima epopea della cavalleria era più che mezza satira, la prima tragedia e la prima commedia non sarebbero state vitali.

Il rinascimento è un soldato, ha detto poeticamente il Michelet: il rinascimento è un assassino, non ha osato dire il Ferrari pur lasciandolo intendere, ma quando il Macchiavelli entrò nella vita, gli assassinii erano ancora frequenti e i grandi condottieri usciti dalla scuola braccesca e forzesca quasi finiti. I venturieri esteri avevano già preso il sopravvento. Nessuna figura di principe f [p. 224 modifica]olgorava nelle armi, nessun generale proseguiva la gloria di Niccolò Piccinino; l'ultimo soldato d'Italia e il suo ultimo eroe, Giovanni Dei Medici e Francesco Ferruccio erano ancora sconosciuti.

Ma l'Italia era nullameno l'unico paese nel quale brillassero la civiltà e la ricchezza. Oltre le Alpi molte fiaccole s'andavano accendendo per la tenebra medioevale senza che il loro chiarore potesse vincerne la notte: al di qua delle Alpi invece il sole dell'antica Grecia illuminava capolavori che avrebbero fatto dubitare di sè stessa la coscienza greca. I fieri feudatari mutati ora in pomposi signori riunivano la ferocia della barbarie alla crudeltà della decadenza, mentre il popolo, piuttosto cliente che vassallo, parteggiava per loro meglio che non li servisse, e le classi sociali distinte come nel resto d'Europa erano ravvicinate dal commercio più vivo che altrove, dall'industria più progredita, dall'arte passione di tutti, dalla religione complice delle passioni di ognuno.

La lingua, l'arte, il papato, l'antichità romana, il progresso presente, la stessa mancanza di stato in tutti i governi della penisola e la condanna che pesava sopra ognuno di essi di non potere unificare l'Italia nè fondersi con altre nazioni; Dante, Michelangelo e Colombo, ecco le glorie e le ragioni della ideale unità della vita italiana, mentre la storia [p. 225 modifica]delle altre grandi nazioni europee aveva già raggiunto o stava per raggiungere l'unità politica.

Dante aveva conchiuso il medio-evo, Michelangelo riassumeva il risorgimento, Colombo apriva l'avvenire: tutto il mondo si accodava a questi tre italiani. L'Italia, palestra dell'Europa, non doveva chiudersi in nazione per non negarle la propria civiltà.

Macchiavelli, è stato detto, fu la coscienza italiana che nelle proprie contraddizioni meglio riflettè ed espresse le antitesi di tale posizione storica.

Niccolò Macchiavelli nacque, come si direbbe oggi, di buona famiglia: la casa non era ricca, il padre morì presto. Non si hanno del giovine le solite notizie profetanti un grande avvenire; fu educato assai bene come usavasi allora che la coltura era al tempo stesso distinzione e passione di classe. Michelangelo a ventinove anni aveva già compito parecchi capolavori, Macchiavelli invece, non distintosi in Firenze tutta piena d'ingegni, che fra un cerchio abbastanza ristretto d'amici, ottenne a stento fra quattro concorrenti l'ufficio di segretario col titolo di cancelliere della seconda cancelleria del comune. Il posto era meno che grande, il grado non illustre, ed egli l'illustrò. Marcello Virgilio Adriani, umanista importante, allora segretario di Stato, lo predilesse: era gonfaloniere Piero Soderini, [p. 226 modifica]onesta mediocrità che posta fra due tragedie, la cacciata e il ritorno dei Medici, finì per sembrare comica a tutti.

La politica minuta, abile e feroce, di tutti i piccoli Stati italiani era allora nella massima attività. Ogni avvenimento non preveduto o mal calcolato poteva decidere dell'esistenza dello Stato. Firenze divisa fra le parti pallesca e piagnone viveva di ringhii; i nobili quasi tutti nemici della repubblica o nemici dei Medici solo per rivalità; la plebe delle piccole arti ancora memore delle lautezze medicee ne agognava il ritorno; le grosse arti rappresentate dalla borghesia propendevano a libertà che per loro era naturalmente impero nel comune.

Nessuna milizia, molte ricchezze, commercio incredibile, arte quale i secoli posteriori più non videro e forse non vedranno; poi Massimiliano imperatore di Alemagna, signore titolare del comune, sempre pronto alla minaccia e a quietarsi per danaro, Ferrara preda agognata da tutti e quindi pomo di discordia, Pisa ribelle e guerreggiata, Alessandro Borgia a Roma, Francia sulle mosse per calare in Italia, la Romagna contrastata fra i Veneziani e il Papa, i Medici espulsi che mestavano in ogni imbroglio diplomatico e in ogni diverbio cittadino.

Questa la condizione delle cose.

Il Macchiavelli giovane, agile nell'in [p. 227 modifica]gegno e nei modi, senza orgoglio di classe o di carattere, libero da preoccupazioni di studi o di gloria, assetato di azione per abbondanza di vita, fu presto adoperato. Era adatto a tutto, nulla gli ripugnava. Non si mostrò ambizioso nel profondo senso della parola, e non lo era: non parve a nessuno uomo vero di parte, si accontentava di essere usato osservando intorno a sè le cose e gli uomini. Non aveva che una passione, la politica. Letterato non era e non fu mai, come intendevasi allora; non aveva imparato il greco, passione di tutti gli eruditi del tempo, sapeva il latino come ogni persona colta, ma i forti latinisti d'allora avrebbero potuto sostenere che lo sapeva male.

In Firenze tutta piena di artisti, tra un popolo di statue e un sorgere quasi per incanto di palazzi e di chiese, era forse quegli che se ne occupava meno; in tutte le sue opere non si trova un periodo per le arti figurative, che costituivano allora la pompa e dovevano restar la più alta gloria, la vera originalità del secolo già decadente. I negozi politici attiravano tutta la sua attenzione snodandogli lo spirito; ma per sè stesso non faceva nulla. Eccellente impiegato, arguto nella conversazione e sagace nelle pratiche, era senza passioni: non si prescelse un partito, non aspirava a comando. Preparare un disegno, scoprirne un altro, calcolare le [p. 228 modifica]eventualità cittadine e italiane; comprendere e dell'aver compreso una volta servirsi per comprendere ancora estraendone regole, astraendo dal fatto e dalle persone per stabilire una massima, avendo messo nello studio dell'una e dell'altra la maggiore esattezza e il più vivo piacere: ecco il Macchiavelli dei primi tempi.

Amava l'azione o per dir meglio l'esercizio, ma non era uomo d'azione nel significato che si dà oggi a questa parola. Se fosse stato altrimenti, nato non in alto, corto a danari quanto proclive allo spendere e senza forti parentadi, avrebbe presto dovuto comprendere che per salire davvero bisognava attaccarsi a qualcuno che fosse al potere o stesse per giungervi, servendolo da complice per diventare poi suo padrone. Non solo Firenze, ma tutta l'Italia era allora piena di cotesti ambiziosi, che tramavano pel principato, e osavano tutto per conquistarlo o conservarlo.

Guicciardini, di lui più giovane e meglio nato, rinunciò non ancora trentenne a una dote relativamente grossa per imparentarsi coi Salviati, famiglia potente, creandosi aderenze. Ma Guicciardini era aristocratico e Macchiavelli democratico, l'uno sentiva come un gentiluomo, l'altro si lasciava spesso andare a modi e vizii plebei: entrambi osservatori eccellenti. Nel primo il calcolo personale [p. 229 modifica]vegliava sempre, e una equazione involontaria del proprio interesse con ogni avvenimento o disegno si formava in tutti i giudizi; nel secondo il calcolo personale non sorpassava mai lo stipendio e non si destava che a qualche maggiore ristrettezza economica, mentre il suo pensiero si alzava sulle osservazioni per ordinarle in serie e formarne un codice.

Quest'uomo, che quasi tutta l'umanità doveva condannare come il teorico della immoralità, è un moralista: non inculca il bene ma studia il male, pessimista come tutti i moralisti veri. La sua passione suprema è l'analisi, il suo trionfo la formula: un caso per lui non è bello se non perchè è un problema, non è utile se non perchè sciolto può preparare la soluzione di un altro. Un disinteresse d'artista e di scienziato lo distingue da tutti coloro che operano e studiano con lui. Egli s'oblia nella osservazione.

Del resto ha i costumi del suo tempo; non è ateo ma irreligioso, prende le donne come un balocco; solo gli affari gli paiono importanti, perchè allora gli affari decidevano spesso della vita. Nella politica del secolo la frode e l'assassinio erano mezzi talmente comuni, che la coscienza pubblica riconoscendoli malvagi, non vi trovava più nulla di anormale, e Macchiavelli li accetta. Il mondo andava così. Ma il cinquecento era, e si vide bene nelle [p. 230 modifica]arti, una reazione del realismo sul misticismo, nella quale la realtà diventava la sola verità. Politicamente l'unico ideale possibile era la gloria del proprio Comune, e Macchiavelli fonde con essa la propria passione politica, alzandola così da poter scrivere per essa le più belle pagine della letteratura nazionale, slargandola fino a fantasticare un'Italia intera, servendosene come di una soluzione morale alle osservazioni che le cose e gli uomini gl'imponevano fatalmente all'ingegno.

Poichè la realtà della vita era così e non si poteva cangiarla, il miglior modo di purificarla stava nel renderla utile alla patria, entro la quale solamente gl'individui per natura malvagi possono mutare sè stessi fondendo il proprio nel suo interesse generale. Ma in lui questa conclusione derivava piuttosto da un accordo spontaneo d'istinti, che da un processo tragico della sua anima respinta duramente dalla realtà e costretta a conciliarla in sè medesima per vivervi.

Allora Macchiavelli non meditava ancora sè stesso, come più tardi nella disgrazia del ritorno mediceo, quando scrisse per commissione del cardinale Clemente le storie; e s'abbandonava alla spontaneità della propria natura con tutta la foga di una gioventù, che vizii e passioni non avevano ancor [p. 231 modifica]a domato.

Le sue legazioni incominciate presto non gli dettero mai vero carattere di legato. La piccolezza della sua condizione che lo impediva allora, non crebbe mai abbastanza per la stima che il pubblico facesse del suo ingegno, da meritargli grado di ambasciatore di Firenze.

La prima fu a Forlì presso Caterina Sforza, la seconda presso il duca Valentino ad Imola. La forte e astuta donna, della quale riveggo ora nella memoria lo stupendo ritratto del Palmezzani conservato a Forlì nella biblioteca, battè il giovane e forse presuntuoso diplomatico, che in una lettera dovette confessare, e questa è una prova di forza, di essere stato tenuto a bada per otto giorni senza nulla indovinare o sorprendere. Il duca Valentino l'affascinò e diede la propria forma agl'incerti fantasmi che si agitavano nel suo ingegno di pittore della politica. Perchè Macchiavelli non fu mai veramente altro.

Forse questa affermazione sconcerterà il volgo delle persone colte e farà sorridere più di un dotto; nullameno, dall'attento esame delle opere del Macchiavelli interpretate colla sua vita, tale verità esce raggiante.

Non so se il duca Valentino fosse allora bello come lo dipinse Raffaello al ritorno di Francia in costume di gentiluomo francese, e quale nel divino ritratto posseduto dal principe [p. 232 modifica]Borghese a Roma è tuttora. Oggi dopo quasi vent'anni risento ancora la prima impressione del suo incontro, giacchè nel ritratto è vivo e vi guarda e pensa. Ero solo in una delle immense sale della pinacoteca Borghese: l'aria era umida e la luce si velava. Una figura pallida attirò il mio sguardo da una parete. Sembrava staccarsene ed inoltrare. Avevo in mano la tabella dei nomi dei quadri e l'occhio mi cadde proprio sul numero di quel ritratto; il duca Valentino. Diedi un balzo. Avevo letto il volgare romanzo del D'Azeglio, e la brutta figura fisica e morale che egli vi fa del Valentino m'era rimasta nell'animo; ero ancora un ragazzo. Raffaello m'illuminò.

Quello era il ritratto di un grand'uomo: non ho più veduto fisonomia così nobile, romantica e grande. Il ritratto è a mezza figura colla faccia di tre quarti, un berretto rotondo gli copre il capo: ha il giustacuore a righe, le maniche e i calzoncini a piccoli sbuffi, ma si notano appena. Il suo viso affascina. Un pallore che forse il tempo ha dato al quadro gl'imbianca tutto il volto immobile in un pensiero che rende più grande l'abituale superbia dei lineamenti: la fronte s'aggronda sugli occhi ma liscia e impenetrabile quanto il marmo, il naso leggermente arcuato fa pensare a quello di Napoleone I, le labbra strette, più rosse, sembrerebbero una cicatrice: il mento è quadro. I suoi occhi grandi hanno [p. 233 modifica]l'immobilità dell'occhio degli uccelli rapaci, ma quella immobilità è un effetto dell'anima. Tutta la sua fisonomia esprime la volontà appena dissimulata dalla bellezza, resa simpatica dall'ingegno.

Il duca Valentino ebbe comune coll'Aretino il fascino dell'ascendente, e la metà delle sue imprese e della vita d'entrambi rimane inesplicabile; ma sopra tutto fu il personaggio più complesso del suo secolo. Suo padre, Alessandro VI, era uomo di molto ingegno e politico non volgare, per quanto i vizii della vita fra le necessità della famiglia e nell'indole dei tempi gli facessero mutare troppo spesso i disegni e impiegarvi mezzi eccessivamente ribaldi.

Il duca Valentino avrebbe potuto menare la vita più pomposa ed epicurea del secolo, ma invece era dissoluto come Catilina, bruciato dall'ambizione come Cesare. La sua natura aveva impeti di tigre e lentezze di serpente, esigeva il comando, aspirava alla gloria. Gentiluomo perfetto, fu l'ammirazione della Corte francese; comprendeva le arti, viveva nella politica. Giovane capì subito i vizii di quella del padre e si affrettò a giovarsi del suo pontificato per costituirsi un regno. Essendogli fallito il matrimonio di Milano colla principessa Carlotta, il suo occhio di uomo di Stato non lo rese dubbio nella scelta: la Romagna sola, sempre agognata dai papi, poteva essere conquistata; ma per questo bisognava [p. 234 modifica]diventar capitano, destreggiarsi fra Firenze e Venezia raggirando i migliori diplomatici del tempo, giovarsi della Francia, tener l'occhio a Ferrara, non fallare un'occasione, mutar disegno ad ogni evento, calcolare l'impreveduto e fronteggiare l'imprevedibile.

Il cinquecento riassumeva, disfacendolo, il medioevo. Dal Municipio alla Signoria e al Regno tutte le combinazioni della libertà popolare di fronte ai nobili e al re si amalgamavano contrastando nell'Italia: gl'istinti e le vicende della nobiltà contro il popolo e la regalità si agitavano ancora; la mancanza di unità politica nella nazione deformava ogni ordine politico: il frazionamento degl'interessi che il commercio divideva meglio che non unisse, rendeva instabili tutte le relazioni; la tirannia straniera poteva aprir l'adito a tutti i disegni preparando con eguale facilità l'apoteosi e la decapitazione. L'Italia era inerme. Per la troppo frequente sovrapposizione dei domimii barbari e la loro fugacità e la mistura che ne era risultata, il popolo sempre servo da secoli non era stato armato: la forma della feudalità italiana, per essere l'impero lontano e il papato suo nemico presente, non aveva potuto prodursi veramente militare come al nord dell'Europa; poi l'Italia, agone sempre aperto di guerre che oltrepassavano i suoi destini, non v'era intervenuta che parzialmente, [p. 235 modifica]seguendo sempre il più forte e costituendosi in varie provincie che di vittorie non proprie approfittavano per ampliarsi. Così fra le battaglie di una guerra sempre diversa di nome e di guerrieri e pur sempre la stessa, l'Italia era rimasta perennemente ingombra di soldataglie, le quali disciplinandosi in bande avevano cangiato la guerra in mestiere.

Era una nuova forma di oppressione per il popolo agricolo ed industre, che non volle e non potè reagire. Il comune e la feudalità dovettero quindi usare l'uno contro l'altra queste bande, giacchè il nuovo armamento e la maniera del combattere rendeva il popolo nullo in una guerra, nella quale cento uomini d'arme bastavano a prendere una città. Allora sorse il condottiero, che fu il tipo più originale e complesso nel medio evo. La supremazia militare sopra un popolo inerme gli permise di far tutto e di arrivare a tutto; egli solo aveva il monopolio del coraggio e della forza, e riunendo tutti i problemi della diffidenza universale poteva ad ogni istante essere l'arbitro di tutti. Principi che non volevano armare nè il popolo nè la nobiltà, repubbliche sempre in sospetto di una dittatura militare, aristocrazie gelose della popolarità di un loro vincitore, tutti reciprocamente disarmati avevano dovuto reciprocamente accettare il condottiero. Allora sulla volontaria umiliazione di tutti, questi si eresse [p. 236 modifica]gigante. La scure che troncò il capo al Carmagnola non potè impedire a Francesco Sforza di farsi signore di Milano: poco dopo Lodovico il Moro era tradito da' suoi mercenari, e Firenze condannava invano Paolo Vitelli, per finire tradita dal Malatesta. La politica informandosi dal condottiero divenne vile, mentre principi e diplomatici, lontani dal campo di battaglia, dovendo anzi tutto assicurarsi di chi vinceva o perdeva per loro, finivano fatalmente per correre più volontieri i rischii delle congiure che quelli della guerra.

Il Valentino, mettendosi principe fra i condottieri, volle diventarlo per conto proprio. Il suo problema a distanza di secoli impicciolito nelle proporzioni storiche dell'Italia d'allora, ricordò quello di Annibale: costituirsi un esercito per impadronirsi dell'Italia. Se la famosa frase del carciofo non fu vera, basta alla gloria, del Valentino che gli sia attribuita. Ma incalcolabilmente superiore ai condottieri del tempo, che dagli splendori di Francesco Sforza e di Niccolò Piccinino precipitavano all'ultima decadenza, egli fu un politico profondo come i migliori veneziani, efferato come tutti i tirannelli di allora. Non bisogna dimenticare che gli Aragonesi, gli Estensi, i Riario, i Bentivoglio, gli Sforza, i Comuni, i Pontefici, le Repubbliche, tutti erano egualmente subdoli e feroci. Il pugnale e il veleno [p. 237 modifica]erano in fondo a tutti gli amori e a tutte le diplomazie.

Il Macchiavelli mandato dalla Signoria al Valentino nella più difficile crisi della sua conquista in Romagna potè studiarlo. Tutti i condottieri gli si erano ribellati; egli temporeggiò, li ingannò, li uccise tutti: era fatale, era morte per morte. L'impresa della Romagna lo esigeva, l'Italia politica approvò, Macchiavelli ammirò il coraggio e la destrezza di quel processo. Il duca Valentino gli si ingigantì nel pensiero. Infatti, quel figlio di papa gittato nella tormenta della politica d'allora senz'altro appoggio che quello precario del pontefice, e nullameno così forte da pretendere a un regno; parato ad ogni fine, capace d'ogni mezzo, gran signore, impenetrabile, romantico al punto da mescolare imprese galanti a tragedie di guerra, non obbliandosi mai: sobrio e dissoluto, spezzando impassibile i proprii migliori strumenti come Don Ramiro appena gli si appesantissero nella mano, era bene la più gagliarda figura italiana del secolo. L'orrore che adesso in noi desta il solo suo nome era allora quasi tolto dai costumi del tempo; solo la sua idea e la tragica costanza nel seguirla restavano grandi. Involontariamente il Machiavelli lo paragonò a parecchi eroi dell'antichità e il Valentino uscì trionfante dal paragone: Agatocle non era certo nè maggiore nè migliore di lui. [p. 238 modifica]

La relazione mandata dal Machiavelli alla Signoria sulla strage di Sinigallia pare scritta sul marmo, tanto freddo ne spira; mentre il suo disprezzo per Vitellozzo e Oliverotto, che non sanno coraggiosamente morire, rivela più che ogni altra frase, l'ammirazione inspiratagli dal Valentino impassibile nella buona come nell'avversa fortuna.

La figura del duca dominò quindi tutta la vita del Machiavelli, che la pratica della politica veniva riconfermando nella necessità dei mezzi da lui adoperati. Lo studio di Roma antica colla sua virtù puramente politica e la gloria universale lo attirava invece nel sogno di una nuova Italia libera e grande.

Ritornato a Firenze, la titubanza della Signoria e la timida insufficienza del Soderini dovettero ancora fargli sentire più vivamente quello che avrebbe potuto diventare il Valentino signore di Firenze. Quindi ebbe altre cariche; provvide all'ordinanza della milizia e vi accudì al punto di fanatizzarsene e farne la base di tutto un sogno politico, la ricostituzione dell'Italia mediante la costituzione di una milizia nazionale. Poi fu mandato a Siena incontro al Cardinale di Santa Croce legato del papa all'imperatore Massimiliano, che minacciava di scendere in Italia a cíngere la corona imperiale. L'incarico del Machiavelli era d'indovinare possibilmente dal legato quale potesse essere l'animo dell'im [p. 239 modifica]peratore. Allora la Francia colla sanguinosa repressione di Genova risorgeva in potenza, e Massimiliano naturalmente suo rivale era una testa così bizzarra da pretendere qualche volta di farsi persino papa; ma la Dieta, lesinandogli uomini e danari, gli impediva anche quelle imprese che sembrava consentirgli.

Massimiliano aveva chiesto a Firenze in nome dell'impero 500,000 fiorini. I Fiorentini che non potevano pagare così grossa somma, temevano di negarla, e non avrebbero osato concederla per non perdere l'amicizia francese.

Si pensò a mandare ambasciatori a Massimiliano, ma parve finezza farli precedere da qualcuno che saggiasse il terreno. Il Soderini nominò Machiavelli; ma questi era un subalterno. L'orgoglio fiorentino protestò; fu mandato il Vettori. Il Macchiavelli non era dunque arrivato, dopo parecchi anni di ufficio, questi che doveva passare ai posteri per il più furbo dei politici, a conquistare in Firenze nemmeno l'importanza di un Vettori, volgare letterato e politicante, che solo la sua amicizia con lui ha salvato dall'oblio.

Finalmente dopo molto armeggio il Soderini, che lo proteggeva, riuscì a mandarlo al Vettori come corriere apportatore di uno schema di accordo coll'imperatore, che il Vettori solamente doveva giudicare [p. 240 modifica]se presentabile o meno. Dalle lettere del Macchiavelli risulta che quel tenere a bada l'imperatore dilazionando il pagamento, gli pareva altrettanto inutile che pericoloso; ma i fatti gli diedero torto, poichè la tregua concordata nel Giugno 1508 fra Massimiliano e Venezia salvò i Fiorentini dal pagamento.

Il Machiavelli scrisse su questo viaggio nella Svizzera ai confini di Alemagna un rapporto, nel quale si è voluto vedere una grande profondità politica, I Tedeschi ne sono andati lieti per i complimenti alla Germania, gl'Italiani come di una scoperta fatta da uno dei loro. Fra i primi il Gervinus, solito ad ingannarsi sui letterati italiani, come nei giudizi sul Foscolo e sull'Alfieri, giudicò, cedendo al fascino del patriottismo, questo rapporto del Macchiavelli come un capolavoro di analisi sul governo tedesco e sull'imperatore; mentre il Mundt con più fine accorgimento vi notò l'influenza della Germania di Tacito; fra i secondi il Villari facile ad ammirare il Macchiavelli, deve pur confessare che le relazioni dell'ambasciatore veneto Quirini sono anche più acute, e che il Guicciardini a parità di caso è sempre più sicuro. La meraviglia davvero singolare di questo rapporto è invece l'oblio della rivoluzione religiosa e politica che agitava allora la Germania. Il Macchiavelli non sembra nemmeno sospettare che [p. 241 modifica]la Germania sia in preda a una delle più grandi rivoluzioni del mondo.

Le sue osservazioni sulle costituzioni svizzere e tedesche non oltrepassano le forme militari e politiche apparenti: raccoglie dati statistici, s'impressiona alla differenza del costume nordico, robusto perchè feroce, coll'italiano corrotto per troppa coltura, e ne fa un idillio di virtù nazionale che la Germania era ben lungi dall'avere in quel tempo. I libri stessi di Lutero, e lo studio fatto ora della grande riforma lo hanno largamente confermato. In questo primo rapporto si scopre già l'errore scientifico che informerà tutta l'opera del Macchiavelli, il barattare sempre il Governo per lo Stato, isolando le forme politiche dalle grandi ragioni sociali. La questione religiosa d'allora, che conteneva tutta l'odierna civiltà, gli sfugge quanto il cinquecento italiano collo immenso movimento artistico, nel quale viveva. In quel rapporto da lui parecchie volte rimaneggiato non fa alcun accenno alla storia tedesca; senza dubbio l'ignora, ma trascurandola del tutto sembra giudicarla inutile alla conoscenza del presente. Tutte le sue osservazioni sono sulla superficie; della coscienza del popolo, delle idee che compongono la sua civiltà, de' suoi bisogni spirituali, de' suoi ideali nessuna preoccupazione. Vessel e Huss non gli richiamano al pensiero Savonarola. Il Cantone svizzero non gli [p. 242 modifica]ispira alcun vero confronto col Comune italiano, la feudalità teutonica e italica per essere egualmente ostili al comune non hanno per lui essenziali differenze. Se gli Svizzeri e i Tedeschi sono militarmente superiori agli Italiani, egli spiega volgarmente tale inferiorità nazionale colla corruzione del popolo e l'insipienza dei governanti, senza sospettare che una causa più profonda, debba produrre questi effetti che gli paiono cause.

Così nei Ritratti delle cose di Francia non avverte il moto religioso che già vi fermentava e non analizza l'opera compita da Luigi XI: nota il Parlamento ma non l'esamina, coglie a volo la devozione e l'accentramento prodotto dall'eccessiva unità di comando, contentandosi di ripetere sul carattere francese le osservazioni di Giulio Cesare.

In questo torno il Machiavelli nominato commissario al campo di Pisa intese quasi esclusivamente all'ordinanza della milizia, confermandosi nelle idee che doveva poi esporre nei Dialoghi dell'Arte della guerra; e siccome finalmente Pisa gli si arrese, potè per la prima volta dopo molti anni di pratiche politiche, sfruttando l'opera dell'illustre e sfortunato Giacomini, acquistare in Firenze una certa importanza, la quale nè durò nè crebbe. A traverso tutte le conflagrazioni italiche d'allora il governo repubblicano del Soderini si approssimava fatalmente [p. 243 modifica]alla morte. Infatti, dopo la battaglia di Ravenna il cardinale Giovanni de' Medici, che doveva poi diventare Leone X, l'assalì: il Macchiavelli si illuse sulla vitalità del governo e sulla stabilità della propria ordinanza, che a Prato fu ridevolmente sbaragliata dal primo assalto degli Spagnuoli. I Medici rientrarono in Firenze, e il Macchiavelli, impiegato subalterno ma fedele del governo vinto, fu licenziato.

Questo, che fu il maggiore avvenimento della sua vita, rivela il suo carattere e il suo ingegno politico.

Democratico per istinto, Macchiavelli non aveva certo tempra repubblicana; pittore della politica, non era politico vero, giacchè a nessuno, anche minore di lui nell'ingegno, poteva o doveva sfuggire l'inanità del governo del Soderini e la forza crescente del partito dei Medici. Il Macchiavelli che disprezzava il Soderini, e morto lo colpì col migliore dei proprii epigrammi, lo sostenne sino all'ultimo per rivolgersi, appena lui caduto, ai Medici chiamandoli bassamente padroni. Voleva così ottenere da loro la riconferma nell'impiego, che invece gli fu tolto in quelle prime ore della diffidenza. La sua condotta non fu quindi nè abile nè forte: impiegato ligio al governo e senza fede ne' suoi uomini si limitò, egli che poco dopo doveva scrivere il Principe per consigliare [p. 244 modifica]ad un Medici l'arte d'imporsi con qualsiasi mezzo, a conservare in quel trambusto che decideva della fortuna e della vita di molti, il posto povero e inferiore di segretario; e ne fallì persino il modo. La fedeltà nel suo caso non poteva essere che eroica o volgare: politico del cinquecento, doveva tradire la repubblica condannata irremissibilmente a morte e cacciarsi nelle file dei Medici nuovamente arbitri dell'Italia; repubblicano, doveva cadere colla repubblica rinunciando all'impiego per esulare o congiurare. Invece sorpreso come Soderini dagli avvenimenti, non si mostrò che impiegato devoto a ogni padrone e preoccupato anzitutto dello stipendio.

Ma per Macchiavelli, come per la maggior parte degli artisti, scienza, religione, politica e filosofia, tutti hanno i proprii, la fibra del carattere non corrisponde sempre all'ingegno, mentre il suo ingegno stesso per essere speculativo si smarrisce nel tumulto dell'azione, alla quale poi ripensando rifà così facilmente il processo. Che cosa avrebbe detto il duca Valentino del diplomatico, che doveva diventare il suo storico, vedendolo in così triste arnese e con sì magra figura in mezzo ad avvenimenti tanto facili a prevedersi e a sfruttarsi? Macchiavelli decaduto dall'impiego rimase povero e sospettato. Il suo ingegno si offuscò, la sua abilità venne meno. Incapace di trovare adito ai nuovi padroni, dei quali non [p. 245 modifica]aveva saputo attirarsi l'attenzione nè col tradimento nè colla resistenza, ripiombava nell'oscurità e nella miseria con tutta la famiglia. Ma la sua era meno l'amarezza di una grande ambizione delusa che l'umiliazione di un gran disastro borghese. Le necessità della vita quotidiana sopratutto lo esasperavano, togliendogli di meditare un qualunque espediente per uscire di quella povertà, ora che il cardinale Giovanni diventato Leone X spiegava un fasto, che doveva poi restar celebre nella storia. Tutti correvano a Roma, venturieri, letterati, artisti, intriganti di ogni risma e capacità. Il nuovo papa, politicante come tutti i Medici quantunque troppo inferiore a Giulio II, tramestava moltissimi disegni. Una folla di segretari lo circondava; i letterati arrivavano a sciami. Il Macchiavelli che sentiva di non esserlo non osò muoversi, giacchè in Vaticano fra il Bembo e il Sadoleto sarebbe parso un ignorante. Si limitò quindi ad insistere presso il Vettori, legato a Roma, perchè gli ottenesse la grazia di un qualsiasi impiego dai Medici.

Ma a ciò faceva ostacolo sopratutto l'ultima congiura del Boscoli e del Capponi, infelicemente troppo simile a quella dell'Olgiati in Milano e nella quale il Macchiavelli era stato compromesso. Non già che egli avesse congiurato; il suo animo non era da tanto, ma come fautore del Governo [p. 246 modifica]caduto, il suo nome da quei giovani eroicamente sventati era stato scritto sopra una lista di persone che speravano aderenti. Il Capponi e il Boscoli morirono stoicamente; il Macchiavelli ricevette quattro o sei tratti di corda, e riconosciuto innocente fu rilasciato.

Su questo imprigionamento e sulla tortura patita le fantasie patriottiche, specialmente italiane della prima metà di questo secolo, hanno tessuto tutta una storia di martirio, facendo del Macchiavelli non solo un rivoluzionario moderno nato per eccessiva precocità nel quattrocento, ma un eroe. Il vero è che quasi all'indomani, poichè la lettera è del 13 Marzo e le prime carcerazioni dei congiurati erano avvenute il 18 Febbraio, il Macchiavelli scriveva al Vettori lagnandosi del tristo accidente e scongiurandolo ancora di ottenergli qualche impiego dai Medici; il vero si è, e molto brutto questa volta, che in prigione compose tre sonetti indirizzati a Giuliano de' Medici, in uno dei quali descrivendo il supplizio de' suoi compagni di corda e la tragica attesa dei condannati a morte, egli già sicuro di esserne fuori, usciva in questi versi pochissimo belli anche letterariamente:

     Quel che mi fè più guerra
   Fu che dormendo presso l'aurora
   Cantando sentii dire: per voi s'òra [p. 247 modifica]
     Or vadano in malora,
   Purchè vostra pietà ver me si voglia,
   Buon padre, e questi rei lacciuol ne scioglia

Il cinico egoismo di questa suprema imprecazione ai condannati repubblicani che l'avevano compromesso, e l'umile preghiera al buon padre Giuliano onde lo sciolga dai lacci, rivelano nel Macchiavelli l'uomo incapace di forti azioni e di eroici sentimenti, che piombato dalla nuova miseria in una impreveduta tragedia insultava e pregava, calcolando magari che l'insulto ai compagni sarebbe presso il tiranno più efficace della preghiera.

Ma qui finisce la vita politica del Macchiavelli e incomincia la letteraria. Nella prima non fu certo un politico, e i Signori che l'adoperarono e i contemporanei che lo conobbero, gli concessero ben poca importanza: non previde e non diresse avvenimenti, non fu di nessun partito e non se ne creò uno, cadde travolto nello sfacelo del governo come tutti i servitori che non sanno nè prevedere nè dividere nè profittare della ruina del padrone. L'attività politica non poteva avergli insegnato molto, giacchè non era mai riuscito ad applicare idee proprie, e non s'impara davvero che governando: aveva molto viaggiato, osservato, conversato, poco letto. Nella seconda elaborò quanto aveva raccolto e vi aggiunse quanto di latente si agitava nel suo spirito.


VIII. [p. 248 modifica]

Si è affermato, e il Villari è uno degli ultimi e più autorevoli in tale opinione, che con Macchiavelli comincia davvero la scienza politica, tanto meravigliosamente cresciuta in questo secolo. Se ciò fosse vero la gloria del Macchiavelli varrebbe quella del Galileo, giacchè le leggi della storia sono più difficili e non meno importanti di quelle dell'astronomia; ma se il Macchiavelli fu un osservatore solamente secondo al Guicciardini nello studio dei fatti politici e diverso in ciò da lui tentò ordinarli nel Principe entro una specie di sistema, non solo non ebbe nè coscienza nè potenza di una vera costruzione scientifica, ma le sue stesse osservazioni più spesso psicologiche che sociali gli riuscirono monche e insufficienti all'argomento. [p. 249 modifica]

Il medio-evo aveva avuto due scuole politiche: l'una guelfa e l'altra ghibellina. San Tomaso ed Egidio Colonna dominarono nella prima, Dante Alighieri e Marsilio da Padova brillarono nella seconda. Per San Tomaso la Chiesa era la sola vera unità della vita che cominciata sulla terra si compieva in cielo: il Papa riassumeva nella propria autorità questa unità e doveva dirigere la storia verso il fine che la trascendeva. Per Dante il fondamento della società è nel diritto, che divino anch'esso, essendo la giustizia voluta da Dio, à nullameno indipendente dalla religione e costituisce la base dell'impero. L'Imperatore sintetizza in sè l'Impero come il Papa la Chiesa: debbono armonizzarsi non sovverchiarsi; entrambi universali ed indiscutibili, non dipendono che da Dio, del quale hanno in deposito sacro l'autorità e la verità. Malgrado parecchie buone osservazioni storiche sul mondo romano e le inconscie ma innegabili tendenze alla emancipazione della società laica dalla ecclesiastica, Dante non ebbe e non avrebbe voluto avere il concetto dello stato laico, che molti apologisti si ostinano ancora ad attribuirgli. Il suo dissidio con San Tomaso rimane entro la cerchia incantata della scolastica, e il suo impero è piuttosto un riflesso che un avversario della Chiesa.

Con Marsilio da Padova, che la Germania sembra [p. 250 modifica]aver scoperto all'Italia, appare invece e sfolgoreggia il concetto dello stato moderno. Nel suo Defensor Pacis, il libro più meraviglioso del medio-evo, la polemica lo porta così alto da volere addirittura sottomessa la Chiesa allo Stato; quindi esamina i vari ordini dell'attività umana, determina molte funzioni sociali, separa il potere esecutivo dal legislativo emancipandosi primo dall'autorità tirannica di Aristotile. La monarchia di Marsilio è quasi una repubblica rappresentativa colla sovranità assoluta del popolo: la Chiesa risiedente nella universalità dei credenti e nelle Sacre Scritture non ha alcun potere coercitivo nemmeno sugli eretici. Se Dante nella sua Monarchia secondo la bella frase di James Bryce dettò l'epitaffio dell'impero, Marsilio nel Defensor Pacis scrisse la prefazione della riforma evocando dal futuro lo stato moderno. Certo egli non poteva dir tutto, nè tutto bene come il Villari vorrebbe, ma nessuno, il Macchiavelli compreso e venuto tanto tempo dopo, disse di più. Dopo questa grande vittoria di Marsilio sulla Scolastica, ottenuta con uno sforzo allora incompreso e oggi ancora quasi incomprensibile, non vi furono altri grandi tentativi. Fra l'Impero e la Chiesa non più così compatti avversari, avendo involontariamente colle loro discordie cooperato alla trasformazione dei Comuni in piccoli Stati entro i quali l'equilibrio degli [p. 251 modifica]sforzi e la moltitudine delle minime differenze favorivano in fatto la libertà, il grande dissidio teoretico parve sopito. Quindi l'erudizione dissuggellò il mondo classico traendone concetti e ragioni politiche prima ignote o trascurate. L'antico Stato pagano, già rievocato da Dante, abbacinò tutte le menti nel confronto involontario coi piccoli Stati del tempo; la sua virtù politica signoreggiò come ideale di grandezza storica la virtù cristiana.

Ma i molti eruditi, che scrissero allora trattati politici, fecero misture di massime cristiane e pagane piuttosto per esercitazione rettorica e con intendimenti di sermone che con vero scopo di battaglia politica o intenzioni di scienza. La quale doveva tardare ancora troppi secoli a nascere. In quella lotta di minimi Stati, che inermi e padroneggiati dai condottieri preferivano naturalmente la guerra degli imbrogli a quella delle armi, era sorta intanto una diplomazia ribalda ed astuta, nella quale lo studio degli uomini e il conflitto degli interessi menavano inconsciamente all'esame delle realtà storiche. Ma poichè mancava lo Stato italiano e la coltura intellettuale non si appoggiava sulla base solida di una coscienza nazionale, non era possibile trovare le vere leggi sociali e la media dei singoli interessi, o dalla morale puramente precettiva delta religione risalire al diritto per determinare [p. 252 modifica]di qualche guisa i rapporti dell'individuo collo Stato. Poi la storia avviluppata in quella molteplice tragedia di tutte le forme medioevali dissolventisi non mostrava indirizzo; il Comune era moribondo, lo Stato non nato, la Federazione impossibile, l'unità inconcepibile, l'indipendenza dallo straniero un desiderio mutevole negli interessi d'ognuno, la libertà libera, secondo la bella frase di Macchiavelli sugli Svizzeri, un mistero che solo l'unità dello Stato e l'eguaglianza politica degl'individui potevano rivelare.

Macchiavelli e Guicciardini capitarono in questo mondo e lo scrutarono.

Se San Tomaso ed Egidio Colonna avevano formulato nella loro teorica il concetto dell'universale politico del medio-evo, Macchiavelli e Guicciardini esposero in vari scritti le idee del particolarismo che era la caratteristica del loro secolo. Nessuno di loro due fu filosofo, ma cresciuti piuttosto nel disprezzo della filosofia che il neo-platonismo del Ficino aveva finito di screditare presso gli spiriti pratici, tendevano alla giurisprudenza senza raggiungerla, come alla migliore scienza del particolare e alla vivente tradizione di quella Roma nella quale tutti più o meno cercavano un modello.

E da Roma s'inspirò la maggior opera politica del M [p. 253 modifica]acchiavelli.

Ritiratosi, per evitare forse nuovi sospetti, nell'anno 1513 alla sua piccola villa in Percussina e disperato dell'aspettarvi sempre un ufficio non mai promessogli, si pose con più ardore allo studio. La politica che aveva amato come una donna, e dalla quale era stato respinto, lo perseguitava ancora con fantasmi e problemi. Non essendo mai stato abbastanza forte per dominarla imponendole le proprie idee, gli si acuiva ora naturalmente il desiderio di penetrare il segreto delle sue, scoprendo i reconditi motori delle sue così strane mutazioni e come si sviluppassero le sue forme; perchè si vincessero l'una l'altra con perpetua vicenda, in qual modo gli uomini cangiassero entro di esse e sopratutto come vi si potessero mantenere. Era come una rivincita della sua passione, l'estremo sforzo di un amante che cacciato dalla bella la decompone analizzandola e si rialza vittorioso dell'averla finalmente capita. Comprendere non è forse più che volere? Il pensiero non è sempre maggiore dell'azione?

Il fondo artistico della sua natura fermentava. Tutte le osservazioni e le esperienze di quei quindici anni d'esercizio politico gli si risvegliarono tumultuando nel pensiero. Era una ressa nella quale nessun fatto andava perduto, nessuna idea restava nascosta. Una luce bianca e fredda gli rischiarava la memoria, come il sole fa a certi giorni limpidi [p. 254 modifica]d'inverno quando la terra è tutta coperta di neve. Pensiero, anima, tutto gli si assorbiva nella memoria. Firenze col suo interessante esperimento del nuovo governo mediceo, e l'Italia stessa con tutta la sua tragedia di dolori e di pericoli, non esistevano più; in lui la curiosità del grande problema politico soffocava persino lo spasimo della sconfitta. Non gl'importava più nulla di essere un vinto. Voleva scoprire e sapere. Non era un filosofo e non si alzava troppo smarrendosi nell'astrazione, come più tardi doveva fare Vico cercando le massime leggi della storia; la sua era l'astrazione artistica che non oltrepassa la psicologia e non dissecca mai i fatti che analizza e non dissolve mai le forme che scruta.

Studiava la stessa politica, che aveva vissuto, fatta solamente di passioni, di bisogni, di idee individuali. Tutto quanto trascendeva l'individuo rimaneva inutile all'individuo stesso ed al problema. La vita era una realtà. Lo Stato non essendo composto che di individui, questi dovevano fatalmente contenere il secreto della sua vita, giacchè ogni società è basata sulla natura dell'uomo che pensa, sente, opera unicamente per sè. I più forti s'impongono, i più deboli subiscono. Ma come possono i forti imporsi? Studiando come e perchè i deboli subiscano.

Così la storia diventa un immenso dramma di [p. 255 modifica]cui la sola unità è nelle scene. Le parti non essendovi prestabilite, ogni attore può impossessarsi di quella che più gli talenta, salvo ad averne la forza. Una fantasmagoria sanguinosa si apre dinanzi al pensiero, ma così incessante ed immensa che il cuore non può sopportarla se non concentrandosi in qualcuno de' suoi quadri, mentre l'intelletto, cercando il nodo che stringe scena a scena, spia già quella che finisce per indovinare la fine di un'altra che incomincia.

È come un'altra visione ariostea trasportata dal sogno della cavalleria medioevale alla storia del mondo. I vari gruppi delle scene e dei personaggi vi rappresentano gl'imperi e le repubbliche dell'antichità. Le decorazioni contigue rimangono nullameno distinte, formando ciascuna un mondo a parte. Ma in questo caleidoscopio, che pare così vario e nullameno è così uniforme, ancora un'altra somiglianza con quello dell'Ariosto, giacchè la scena che vi si eseguisce è sempre politica ed è sempre un uomo che vuol comandare ad un altro che non vuol obbedire, solo l'eroismo di chi vince o di chi perde, tanto più bello se di un capitano che si sacrifichi per il proprio esercito o di un re che muoia per il proprio popolo, può apprendere all'intelletto qualche entusiasmo. L'eroismo allora sale oltre la virtù, la morte si complica di un olocausto che esaltando [p. 256 modifica]l'esercito o il popolo pel quale è compito gli assicura nuove vittorie. Ecco lo stato creato dall'eroismo del tiranno e mantenuto dalla sua grand'anima.

Ma veniamo ai Discorsi e al Principe.

Alcuni critici hanno voluto crederle due opere senza relazione, ma l'esame più superficiale di esse persuade subito che i Discorsi furono la preparazione, dalla quale si formò il Principe, per quanto premuto da un esterno bisogno, questo uscisse prima di quelli. I Discorsi non sono un trattato e non hanno costruzione scientifica: di essa il Macchiavelli non ha la più piccola preoccupazione. Dovevano essere nel suo pensiero un commento a Tito Livio, ma non gli riuscirono che divagazioni sparse di riflessioni, interrotte da raffronti, da quadri storici, da mezze biografie. Nessuna critica presiede al commento; Macchiavelli accetta il racconto di Tito Livio come verità accertata e indiscutibile. Sono divisi in tre libri, il primo dei quali discute come si fondino e si ordinino gli Stati, il secondo come s'ingrandiscano e si conquistino, il terzo come crescano e decadino. La distribuzione della materia è confusa, il richiamo da un libro all'altro, e l'inversione dello sviluppo quasi continua.

Il futuro storico fiorentino nel grande storico romano, attraverso la pompa magnifica dello stile, [p. 257 modifica]non cerca il critico o il filosofo, ma l'espositore: tutto è uguale per lui, il racconto di una magia e quello di una battaglia. La favola della fondazione di Roma non lo mette in sospetto, la simbolica delle prime forme giuridiche e politiche non nasconde nulla per lui quasi contemporaneo del Sigonio, che stava per aprire all'erudizione la grande via della critica. Macchiavelli non è nè un erudito nè un giurista. Il segreto della storia romana starà per lui nella vicenda delle guerre, nel gioco meccanico del governo. Dedicando questi Discorsi al Buondelmonti, dice di mettersi per una via non battuta da alcuno; ma questa originalità consiste per lui nell'insegnare l'imitazione degli antichi anche nella politica, mentre era già usata nella giurisprudenza, nella medicina e nell'arte. Per progredire retrocede, anzi il progresso per lui non esiste. La sua base essendo la psicologia nella quale l'uomo risulta sempre uguale a sè stesso, il progresso è impossibile. Non esamina la civiltà delle varie epoche, non ne interroga le religioni, le arti, il diritto, l'economia: per lui la storia è già perfetta come si trova in Tito Livio e gli basterà per risolvere i problemi che si propone o gli vengono a mano a mano suggeriti dalla lettura e dai ricordi.

Così l'origine, lo sviluppo, la morte d' [p. 258 modifica]uno Stato non può essere che quella d'un Governo, nel quale i mutamenti riusciranno inesplicabili separati dalla ragione della vita sociale. Per Macchiavelli l'anima di un popolo non esiste, nel Governo solo che lo regge sta il segreto della sua vitalità: se il Governo non decadesse, il popolo sarebbe immortale.

Il concetto scientifico informatore di questi Discorsi, così evidente per il Villari che nullameno ha dimenticato di dichiararlo, non si vede. Se il Macchiavelli avesse avuto un vero temperamento di scienziato, si sarebbe anzitutto preoccupato della forma e del metodo del suo libro: se il suo ingegno avesse posseduto un'idea originale, avrebbe intorno ad esso raggruppati tutti i fatti e li avrebbe con essa interpretati. Ora l'idea originale gli manca come storico, critico e politico. Dopo l'immenso monumento della Politica di Aristotile, nella quale lo Stato è concepito ed esaminato nella molteplice unità delle sue funzioni, il concetto angusto del Macchiavelli che lo scambia pel Governo, non è una originalità ma un errore.

L'uomo concepito dal Macchiavelli, indifferente ad ogni attività che non sia politica o militare, pensa solo a difendersi o ad aumentare la propria forza, cosicchè la difesa, mezzo alla vita, ne diventa lo scopo e la formula finale. Macchiavelli non imita Aristotile, lo ignora o non lo comprende. [p. 259 modifica]Questi, fondando il metodo induttivo nelle scienze naturali e il metodo storico nelle politiche, aveva affermato che i fenomeni della natura e i fatti della storia andavano egualmente trattati. Macchiavelli sembra non conoscere questo metodo che Leonardo da Vinci aveva già usato e Galileo doveva fra poco perfezionare; la sua induzione e la sua deduzione operano in un cerchio così stretto che i fatti debbono snaturarsi per capirvi. Il Villari trova ancora un'immensa differenza tra Macchiavelli e Aristotile, e quindi un merito di originalità nel primo, perchè mentre Aristotile già in possesso dell'idea concreta dello Stato mette a scopo della sua Politica la ricerca del migliore fra i governi, il Macchiavelli dichiara inutile questa ricerca e vuole invece indagare quali essi sieno o possano essere; ma per questo gli occorrerebbe l'idea dello Stato, e non avendola nemmeno quale la possedeva Aristotile, non solo tale indagine gli rimane impossibile, ma lo condurrà a maggiori errori. Aristotile trovò lo Stato greco quasi immedesimato colla religione e l'emancipò, esaminandolo, come un fatto naturale e dichiarando l'uomo un essere essenzialmente politico; il Macchiavelli prescinde anch'egli dalla religione, ma invece di svincolare lo Stato lo isola, lo amputa, ne fa un meccanismo governativo, che muove sè stesso senza ricevere e quindi senza poter comunicare ad altri il proprio moto. [p. 260 modifica]

La Politica di Aristotile è una delle tappe più gloriose nella storia del pensiero umano, forse il monumento più grande delle scienze storiche; i Discorsi del Macchiavelli non furono e non saranno mai che discorsi di un grande ingegno vagante nella storia colla penetrazione dell'arte politica e di una varia esperienza personale.

I Discorsi cominciando dal ragionare delle origini delle varie forme di governo s'appropriano, traducendolo, tutto un brano del settimo libro delle Storie di Polibio: le applicazioni che il Macchiavelli ne fa alla storia romana concludono a questo, che Romolo avrebbe potuto fondare diversamente Roma e diversamente informarne la storia, ma che i Romani risultarono così da lui costituiti e così durarono per gli scopi che dovevano realizzare. Secondo Macchiavelli la religione fu causa precipua della grandezza dei Romani, non per il suo contenuto, ma per avere conservato buono il costume; così la corruzione della religione cristiana organizzando la Chiesa a Stato diventò invece la vera cagione per la quale l'Italia non si potè mai riunire in nazione. E questo è un doppio errore del Macchiavelli, poichè i Romani furono un popolo pochissimo religioso e l'Italia non fu mai nazione nemmeno sotto di loro, durante la repubblica perchè non ancora unificata, nella monarchia perchè spezzata poi in provincie. [p. 261 modifica]

Quindi Macchiavelli arriva presto alla sua teorica prediletta, che suggeritagli dalla politica vissuta e verificata secondo lui dai racconti di tutte le storie, finisce non solo per sembrargli giusta, ma decisiva. — Ove si deliberi della salute della patria non vi è più nè giusto nè ingiusto. — L'uomo di Stato è al di sopra della morale. Ma questa verità essenziale nello Stato, che retto dalle leggi storiche non può soggiacere alla moralità delle leggi private, egli l'applica ai governi e ai tiranni senza accorgersi di scemarne il valore e di mutarne i risultati nell'applicazione. Poscia le tendenze democratiche gli si intromettono nel ragionamento guastandolo ancora: fra Catilina e Cesare per lui la differenza è solamente nel successo. La grandezza di Cesare gli sfugge perchè uccisore di una repubblica.

Strana contraddizione nell'autore del Principe che ammirava il Valentino!

Prosegue quindi ad esaminare la condotta dell'uomo di Stato, quando governi un popolo universalmente corrotto e intenda mutare la forma del governo passando dalla tirannia alla libertà o viceversa; e i suoi consigli e le sue osservazioni sono sempre della stessa maniera: atterrire o corrompere. Il governo dello Stato si muta in governo delle passioni o dei vizi dei governati. Talvolta le sue frasi sono terse ed acute come un pugnale, ma l'arg [p. 262 modifica]omentazione non gli si consolida; la causa della mancanza di nazionalità dell'Italia è sempre per lui la corruzione, alla quale non vede altra speranza o rimedio che la tirannia di un grand'uomo. Coglie a volo il guasto prodotto dalla putrefazione del feudalismo nella vita italiana e scorgendone immune Venezia crede che ciò dipenda solo dalla diversa forma della sua aristocrazia.

Quando si tratti di fondare un Regno, secondo lui bisogna disfare e rifare tutto, abbattere città e fabbricarne, tramutare da provincia a provincia i popoli come praticava Filippo di Macedonia: mai vie di mezzo. Per governare una città sottomessa vi sono tre soli modi: ammazzare i capi dei tumulti, rimuoverli, far fare loro la pace: l'ultimo è il più pericoloso, il primo il più sicuro. Questa è la sua scienza politica buona in tutti i secoli e con tutti i popoli. Quando la forza non basti, bisogna aiutarla colla frode, che da sola può vincere spesso mentre la forza da sola non vince mai; ma qui pare lo colga qualche scrupolo e cerca di spiegare il significato di questa frode, diminuendo il valore di quanto aveva prima affermato. Il capitolo delle congiure è uno dei più belli perchè schiettamente psicologico: quindi ritorna al problema della fondazione o dell'ampliamento dello Stato, affermando pessimo quello tenuto dalle repubbliche del medioevo [p. 263 modifica]che imponevano una servitù peggiore di quella stessa delle monarchie. Ma questa profonda osservazione, già fatta dal Guicciardini, non gli si slarga e non gli rivela la necessità che condannava tutte le repubbliche di allora, alle quali invece propone tre vie d'ampliare lo Stato: imitare gli Svizzeri e gli Etruschi, i Romani, gli Spartani e gli Ateniesi. Ottimo dei tre il modo romano.

Al principio del terzo libro si ferma per dire che i governi e le istituzioni per vivere lungamente debbano essere ordinati così da poterli spesso richiamare ai loro principî; frase mal capita e peggio combattuta da Gino Capponi, e di poco valore giacchè è ancora un accenno all'ipotesi iniziale del grand'uomo che fonda profeticamente lo Stato per la storia avvenire, e peggio ancora perchè misconosce una volta di più l'azione fatale della vita dello Stato sul governo. Ma il richiamo al principio informatore dello Stato il Macchiavelli lo afferma più facile sul popolo che sopra un principe, facendo così contro tutti e con accento e entusiasmo democratico l'apoteosi del popolo, nel quale solo riconosce la capacità di mantenere le leggi, che il principe è più atto a dettare. In varî altri capitoli sparsi per l'opera si occupa già della milizia stabilendo le idee, che svilupperà poi nell'Arte della Guerra, e condannando anzitutto le compagnie di ventura, peste [p. 264 modifica]e rovina d'Italia; ma non si propone e non si spiega il problema della loro esistenza. Ha una fede illimitata nella costituzione e nella bontà delle milizie cittadine malgrado le crudeli e quotidiane smentite dei fatti, che provavano l'impossibilità di costituirle e la loro nullaggine in faccia alle bande di ventura: disprezza assolutamente le armi da fuoco e le fortezze che dovevano di lì a poco creare la nuova tattica e la nuova strategìa.

Da questa preparazione uscì il Principe: questi fu la figura, i Discorsi rimasero il fondo del quadro.

Evidentemente la cosa non poteva andare diversa nello spirito del Macchiavelli. Quelle scorrerie attraverso la storia di Tito Livio prodotte dalla sua passione per la politica del tempo nella quale era stato battuto, dovevano conchiudere a un'impresa. La sua critica senza metodo scientifico non era che una riflessione circoscritta nei fatti storici e animata dai loro sentimenti. Macchiavelli osservatore artistico della politica e da essa trascinato a diventarvi attore subalterno aveva dovuto naturalmente prendere la propria facoltà di osservare per la potenza di agire, e battuto duramente nella lotta invece di ricredersi rientrando in sè stesso, alzare piuttosto la propria singolare capacità di analisi fino alle pretese di farne una scienza. Ma di questa [p. 265 modifica]non aveva nè il temperamento nè la conoscenza dei limiti nè la coscienza del metodo.

Quei Discorsi così slegati, soliloquio più atto a persuadere sè stesso che a convincere gli altri, non potevano bastare all'energia del suo spirito: bisognava condensarli in un sistema o in una figura. Macchiavelli era artista e scrisse il Principe. Un personaggio fra i molti conosciuti nella pratica del suo ufficio gli si era imposto tiranneggiandolo e lo tiranneggiava ancora — il duca Valentino, eroe e genio di quella politica, della quale egli credendo di essere il maestro doveva restare il letterato. Il duca Valentino era l'uomo più complesso del suo secolo, e teneva alla Chiesa e al Principato, alla milizia e alla aristocrazia, alla politica e alle battaglie. Ultimo nella storia dei piccoli principi medioevali, slargava l'ambizione fino al sogno d'un Regno italico, riflesso dei grandi Stati nazionali che si costituivano allora in Europa, sulla coscienza italiana. Il Valentino aveva sentito il bisogno di schiacciare e di dissolvere le ultime forme feudali attaccando Principati e Comuni, disciplinando colla propria forza, che diventava quasi virtù, tutte le loro forze disgregate.

La sua figura ritta dinanzi allo spirito del Macchiavelli illuminava le sue osservazioni, coordinando le riflessioni confuse che gli si sarebbero forse imbrogliate nella meditazione. Il Val [p. 266 modifica]entino aveva la chiarezza dell'azione; era il sistema fatto uomo, il secolo individualizzato.

La fantasia del Macchiavelli, così facile ad accendersi pel fuoco dell'interna passione, s'infiammò: in poco tempo come sotto gli occhi del duca interruppe i Discorsi e scrisse il Principe. Nemmeno questo è un trattato, ma una biografia di lui, spesso sottintesa, frequentemente raccontata a brani, richiamata con esempi, narrata e costrutta con osservazioni e massime riassunte dalla sua opera e dalla sua vita. Lo stile di una trasparenza di cristallo è squillante e tagliente. I due sogni di Macchiavelli, il grand'uomo e il grande Stato si fondono nel Principe, ma egli vi coopera, ne è la mente che spiega l'opera fatale del temperamento. Il duca Valentino è l'inconscio, Macchiavelli la coscienza. Nessun dubbio lo turba, è sicuro di sè stesso: agisce nella realtà; il cinquecento era così. Ma egli e il duca sono sulla soglia di un mondo futuro, alla vigilia di costituire l'Italia: il duca Valentino ne sarà il nuovo Cesare, più fortunato dell'antico costretto ad uccidere la repubblica romana; quanto a Macchiavelli non vi è nome cui paragonarlo nella storia e resterà Macchiavelli. La gloria splende di già.

Nei Discorsi il suo ingegno non sempre sicuro divagava richiamato ogni istante alla realtà della storia presente; nel Principe la realtà l [p. 267 modifica]o fortifica fino a renderlo invincibile e a fargli quasi dimenticare la storia antica. Guicciardini aveva potuto contestargli trionfalmente le sue osservazioni sui romani e sui greci, ma nell'analisi di quel mondo moderno, nelle affermazioni tratte dalla vita del duca Valentino e di tutti coloro che gli avevano somigliato, nessuno lo contraddirà. Il suo Principe è il duca Valentino ingigantito, trasfigurato da tutti i principi italiani vissuti nella politica, della quale questi era stato la maggiore figura.

L'arte non ha moralità propria, poichè deve entro sè stessa lasciar libera la manifestazione di quella dei fatti raffigurati; così il Principe non ha morale. Macchiavelli inconscio e sereno come tutti i grandi artisti muove la propria figura nelle massime e colle massime dell'ambiente nel quale gli si è presentata.

Il libro è piccino e compatto come un getto. Originale sino a non essere paragonabile a nessun altro anteriore e posteriore, ha tutto il fuoco e l'improvvisazione inconsapevole di un capolavoro. Il Principe è un ritratto in cui ogni massima è un lineamento: il cinquecento politico posa davanti al suo pittore. Macchiavelli senza saperlo lotta con Leonardo, con Raffaello e con Tiziano, i tre grandi ritrattisti d'allora, e il realismo della sua ideale figura è più sicuro che non nei ritratti del duca di [p. 268 modifica]Ferrara, della Gioconda e di Leone X. L'entusiasmo di una idealità trascendente sostiene il nuovo pittore e gli comunica nell'opera quella magica poesia, che tutti i grandi pittori di quel tempo avevano. La figura del suo Principe terribilmente sinistra, impassibile e serena, ha sulla fronte i vapori luminosi di un sogno — costituire uno Stato nazionale, rifare l'Italia. —

Questo desiderio vago di tutte le coscienze d'allora, acuito dalle sofferenze della politica interna e dal risveglio della coltura classica, diventa in Macchiavelli passione. Artista della politica, porta la propria anima in una politica che fatalmente non poteva avere coscienza: pare la fusione dell'assurdo e invece è la fusione della vita. Il suo libro che dovrà essere tanto discusso non è discutibile perchè i ritratti non si discutono; prendetelo per un trattato e non varrà che ben poco e non sarà più intelligibile.

Così fu preso.

Certo il Macchiavelli intendeva di fare un trattato o di riunire un codice, e qui sta la grande contraddizione della sua natura, l'inconscio della sua arte. Petrarca disprezzava i propri sonetti e si stimava un epico: Macchiavelli si crede prima un politico, poi uno scienziato della politica e non ne è che l'artista. L'ammirabile chiaroveggenza, la sicurezza [p. 269 modifica]d'analisi sugli uomini non gli hanno giovato nella pratica. L'arte invece è una seconda vista: può fallare un individuo, ma coglie il tipo e ricostruendolo nella idealità di un ritratto sorpassa coloro che meglio avevano conosciuto e trattato l'uomo reale. Balzac il più grande psicologo dei tempi moderni, il più fino pittore di tutte le furfanterie sociali, fu sempre vittima di tutti i furfanti. Quella insufficienza del Macchiavelli nell'azione che gli faceva spesso sbagliare gli uomini e le cose così ben maneggiate dal Guicciardini, è adesso abbondantemente compensata dall'inimitabile rilievo, col quale disegna i caratteri del suo secolo e trascendendolo nelle tendenze e nei sogni lo inizia al futuro.

La prosa non esisteva ancora e Macchiavelli la crea e la perfeziona nel medesimo tempo; ma il miracolo è così grande che passa inosservato. La coscienza nazionale mancava ed egli nel Principe le offre il quadro di sè stessa insinuandole nelle più intime latebre il ferro rovente della nazionalità. È un sogno! non importa: il sogno è la prima forma dei fatti storici e ne rimane l'ultima.

Il Principe non si può analizzarlo, bisogna leggerlo; per decomporlo come molti hanno fatto, bisogna crederlo un trattato secondo l'illusione del Macchiavelli, e allora non è più che una congerie di massime monche, tronche, superficiali ed [p. 270 modifica]immorali! Come trattato, benchè più serrato nelle parti e solido nella struttura, ha tutti i difetti dei Discorsi; come opera scientifica è senza metodo. Siamo ancora alla confusione fra Governo e Stato, all'oblìo di tutte le attività sociali, al concetto del popolo senz'anima collettiva: nessuna vera intuizione dei tempi moderni, nessun profondo esame dello stato d'Italia, non un accenno alla Riforma tedesca, alla scoperta d'America, a quella di Copernico, della stampa, della polvere. Col formulario del Principe non solo non si fonda uno Stato italiano, ma non si governa nessuno Stato; colla pretesa di massime capaci per tutti i casi non se ne risolve alcuno. Nel Principe il processo è sempre quello di un piccolo tiranno esercitato da congiure di trivio o di palazzo, intento a conquistare qualche terra vicina, pronto ad ogni efferatezza per vincere e per vivere. Il fondo di esso è la barbarie feudale, il suo ambiente il feudalismo in dissoluzione fra i Comuni, Roma e l'Impero.

La scienza della politica non ha molto da imparare nel Principe di Macchiavelli, la storia del cinquecento non può farne a meno: il libro rivela il secolo nel quale vi è posto per ogni meraviglia. Macchiavelli e Ariosto vi si ignorano, Michelangelo e Raffaello non vi si comprendono: l'uno è l'ultima grand'anima italiana e assomiglia a Dante, l' [p. 271 modifica]altro non somiglia a nessuno, è ingenuo, fa tutto, imita e trasforma tutti, trova la varietà e la perfezione della bellezza in un secolo che non sente e non crede più nulla. De' suoi letterati nessuno vivrà tranne i due che lo sono meno, Macchiavelli e Guicciardini nella prosa: nella poesia i due meno applauditi, Ariosto e Tasso. Nessuno s'accorge ancora della rivoluzione già incominciata, Lutero fa sorridere, Venezia non teme dell'America, Roma di Copernico, i letterati abbominano la stampa, i soldati non credono alla polvere. Giulio II grida: fuori i barbari, Massimiliano vuole farsi papa, San Pietro è costrutto colle indulgenze, le statue antiche valgono più dei santi, il progresso della coscienza storica deriva dal guardare indietro al mondo romano, le Corti sono accademie di letterati e antri di assassini, il Vaticano è un teatro di buffoni, la filosofia una rugumazione di Aristotile divenuto indigeribile, la letteratura una imitazione che solo il lazzo della satira e la lezia della pedanteria animano. Il Principe di Macchiavelli, apoteosi del tiranno, codice dell'assassinio, finisce colla più generosa apostrofe alla libertà rimasta nella letteratura nazionale e con quattro versi della più eroica fra le canzoni del Petrarca.

Ma appena finita l'opera quel mirabile accordo della fusione dei contrarii nello spirito dell'artista [p. 272 modifica]finisce, e riappare l'uomo che credendosi sempre un maestro della politica si muta in subalterno. Quindi Macchiavelli pensa di dedicare il libro a Giuliano dei Medici, pel quale Leone X stava intrigando un principato. A questo modo Macchiavelli sperava di poter diventare il Mentore del nuovo Telemaco. Ma procrastina tanto che Giuliano muore. Allora risolvendo di dedicarlo a Lorenzo vi antepone una lettera e forse non manda mai nè l'uno nè l'altro, giacchè non si è mai saputo se Lorenzo accettasse la dedicatoria o prendesse conoscenza della scrittura.

L'uomo nel Macchiavelli è sempre al di sotto dello scrittore.

Sebbene il Macchiavelli avesse nel Principe la più trasparente chiarezza, il libro, appena stampato lui morto, diede luogo alle più disparate e direi quasi alle più disperate interpretazioni. Il Mohl ne ha compiuto il migliore elenco fino al 1858, il Villari lo ha proseguito sino ai nostri giorni, ma finchè visse il Macchiavelli, le poche copie che girarono manoscritte del libro non destarono scandalo: le opinioni e le massime del Principe erano quelle medesime del tempo. Il secolo non aveva una coscienza morale che potesse offendersene, mentre la sua coscienza storica vi si vedeva mirabilmente ritratta. Guicciardini, che aveva combattuti i Discorsi [p. 273 modifica]non protestò contro il Principe, Leone X consultò poco dopo Macchiavelli sulla politica generale e sulle condizioni di Firenze; Clemente VII più tardi gli commise le storie. Nifo di Sessa, volgare filosofo, tradusse in latino il Principe, alterandolo per dedicarlo come scrittura propria a Carlo V, finchè il Blado nel 1531, cum gratia et privilegio, di Clemente VII e d'altri principi, stampò Discorsi e Principe.

Ma quando Firenze cadde, dopo l'eroica resistenza, per l'ultima volta sotto i Medici, lo spirito politico cominciò ad osteggiare il Principe, prendendolo per un codice vero della tirannide, e l'evidente intenzione consigliatrice e scientifica del Macchiavelli parve infame. Il secolo cominciava a mutare: la morte politica aveva messo nell'anima di Firenze qualche reazione di vita morale. Del resto la pretesa del libro di essere un trattato, la sua stessa forma, la contraddizione che nello spirito del Macchiavelli l'aveva prodotto, dovevano essere un problema insolubile fino a quando la critica moderna ricostruendo il cinquecento e comprendendone il carattere per mezzo della prospettiva e del raffronto cogli altri secoli, potesse assegnare all'arte ciò che vi si oppugnava come scienza, spiegando nel Macchiavelli le antitesi della sua natura amalgamate colle contraddizioni del suo tempo. Certo [p. 274 modifica]per la gente volgare, che divide gli spiriti in categorie, riuscirà piuttosto difficile non riconoscere nel Macchiavelli che un grande ed incompiuto artista, mentre il titolo e la materia delle sue opere sembrano tanti argomenti per negarlo; ma la storia è tutta piena di quest'ingegni che congiungono le più disparate attitudini, di queste indoli meravigliose che agiscono nelle zone più opposte del pensiero. E poichè lo spirito è uno e la divisione fra scienza, arte, filosofia, religione è in gran parte formale, ognuna di esse ha uomini insigni che nella forma dell'una inconsciamente lavorano la materia dell'altra. Di tutte le classificazioni degli uomini la migliore resterà sempre quella del temperamento spirituale, che aiutato dalla interpretazione della loro vita spiegherà meglio di ogn'altra le loro opere.

Ora il Macchiavelli nella sua vita fin qui analizzata non fu nè un politico nè uno scienziato: nel resto che doveva vivere vedremo che non si mutò. Discorsi e Principe non sono produzioni di un vero spirito scientifico, giacchè in tal caso l'intenzione e la tessitura mostrerebbero il tentativo logico per stabilire veri principii generali, le angoscie del metodo, l'impersonalità voluta se non raggiunta dell'opera. Discorsi e Principe hanno invece caratteri essenzialmente opposti. La materia loro certo è scientifica, ma la materia non è l'opera, nè la scienza nè lo scienziato. [p. 275 modifica]

Che il Macchiavelli avesse vere attitudini di scienziato sarebbe insensatezza negarlo e furono appunto quelle che gl'impedirono di svilupparsi grande artista, ma aveva troppe attitudini artistiche che gli contrastavano l'equilibrio e l'astrazione necessaria alla scienza. Fra una legazione e l'altra scriveva i Decennali, cronaca sua e degli avvenimenti in versi mediocri; in ogni ritaglio di tempo tentava un Capitolo, in prigione nella peggior crisi della sua vita scriveva sonetti, nell'esilio alla campagna, dalla quale dovevano uscire le sue due opere maggiori, s'abbandonava a una corrispondenza la più artistica del secolo per la forma dei racconti e delle cose. Le sue qualità politiche essendo le più duramente negate dai fatti e dalla poca stima dei contemporanei, egli vi condensa tutto lo sforzo dell'ingegno; crea uno stile, una lingua, ammonticchia ritratti, osservazioni, formule, apostrofi, ironie, eloquenze; sa essere breve come Tacito, largo come Livio, mentre l'istinto realista della sua natura e la sua poca educazione classica in quella necessità di vivere nella vita politica lo rendono il letterato più vivo e moderno del tempo. Ma appunto perchè troppo fuso col proprio secolo, che i secoli immediatamente posteriori non comprenderanno animati di un'altra coscienza, Macchiavelli e il Principe vengono mal giudicati. La [p. 276 modifica]ribalderia di questo diventa ribalderia di quello; il problema morale che per Macchiavelli nell'opera non esisteva, ne rimane il solo, gl'altri essendo tutti dileguati coll'ambiente che li aveva prodotti.

Se Macchiavelli avesse veramente fatto opera di scienza, il problema morale nel Principe avrebbe esistito anche per lui; egli doveva distinguere la moralità pubblica dalla privata, quella della storia da quella della vita, e poichè quest'ultima non può farne a meno e la politica è parte di essa, cercare quale potesse essere la sua morale. Il Principe in un vero trattato scientifico non avrebbe potuto avere la personalità assorbente che ha nell'opera del Macchiavelli, quella unità che in lui fa sparire potere legislativo ed esecutivo, polizia e diplomazia, diritto, guerra, tutto. Nel fuoco della sua creazione artistica il Macchiavelli era così poco scienziato che non se ne accorse nemmeno. Domandargli se il Principe dovesse essere morale sarebbe stato come domandare a Cellini se le sue modelle erano oneste. Infatti allora nessuno glielo domandò fra i tanti amici che lo lessero. Mutati i tempi gl'esuli fiorentini non gli perdonarono nè i favori nè i consigli dei Medici; i nuovi cortigiani si adontarono de' suoi sentimenti democratici, i protestanti gli rinfacciarono l'irreligione, il cattolicismo si offese de' suoi attacchi alla [p. 277 modifica]chiesa.

Ma la battaglia durata intorno al Principe, inutile per l'arte e per la scienza, giovò alla morale. A traverso le infinite stravaganze delle interpretazioni e le bizzarrie delle accuse e delle difese tutti riconobbero che nella politica vi è fatalmente una morale. Quale?

Primi all'attacco furono i gesuiti che fecero bruciare in effigie il Macchiavelli ad Ingolstadt e ottennero da Paolo V di mettere le sue opere all'indice: Carlo V e Caterina de' Medici lessero il Principe, Enrico III e Enrico IV si disse lo avessero indosso quando furono uccisi; Richielieu lo meditò, Sisto V ne fece di sua mano un sunto. Quindi entrarono in lizza i protestanti, pei quali Macchiavelli, che non s'era mai occupato della Riforma e non aveva nemmeno presentito il problema della libertà di coscienza, era diventato l'oracolo del dispotismo. Al Gentillet troppo superficiale nel criticarlo succede il Bodino quasi profondo, ma Bacone da Verulamio e Giusto Lipsio lo difendono; il Campanella, bizzarra mistura di misticismo e di realismo, stravagante sino ai confini del genio ed eroico fino all'olocausto, lo maledice. Cristina di Svezia, stramba e violenta figlia di un eroe del quale aveva in parte ereditato l'ingegno, annota di propria mano il Principe; Federico II di Prussia gli contrappone l'Antimacchiavello facendo il ritratto [p. 278 modifica]del vero e virtuoso sovrano, senz'avere per questo compreso il ritratto del Macchiavelli; Napoleone I che si trova personalmente nella condizione del duca Valentino, se si moltiplichi la Romagna per l'Europa, invece lo ammira pur sentendone l'angustia. Prima di Rousseau che nel Principe vede un tiro giuocato dal Macchiavelli ai tiranni esponendo i principii fatali della loro condotta, Alberico Gentile aveva già trovata questa interpretazione, che Foscolo appoggiato sull'Alfieri doveva cantare in versi immortali: e questa interpretazione, una delle più false, dilaga quando il patriottismo italiano s'impossessa della figura del Macchiavelli. Poi in Germania col Bollmann comincia una critica più seria: il Raumer e lo Schlegel credono di trovare la sorgente degli errori di Macchiavelli nel concetto pagano che egli aveva dello Stato, ma il Principe così spiegato non è meno impossibile nel paganesimo che nel cristianesimo.

Ranke, il grande storico, è il primo a comprendere che il Principe, ispirato dai tempi, senza di essi diventa inintelligibile: s'accorge che non è un trattato e che il modello ne fu Cesare Borgia, ma finisce col credere che il Macchiavelli scrivendolo davvero per Lorenzo dei Medici, nella disperazione di rianimare l'Italia osasse così propinarle il veleno. E non è vero che il libro fosse scritto per [p. 279 modifica]Lorenzo dei Medici, nè che il Macchiavelli perfettamente conscio e quindi in disaccordo colle massime del Principe, si buttasse a questo eroismo. Due anni dopo il Leo notò benissimo che il Principe era più che altro una pittura storica dei tempi, e limitando a più giuste proporzioni il patriottismo del Macchiavelli il quale non poteva davvero credere alla immediata costituzione di uno Stato nazionale, stimò falsamente che il libro, invece di sorgere spontaneamente dal suo spirito, gli venisse suggerito dal calcolo basso di ottenere un impiego giustificando i Medici.

Il primo saggio compiuto sul Macchiavelli fu quello del Macaulay, che pubblicato nella Rivista di Edimburgo suscitò entusiasmi. Scrittore splendido e fine il Macaulay era nullameno troppo poco filosofo per l'argomento: buon giudice letterario esagerò affermando la Mandragola un capolavoro shakspeariano e giudicò invece assai bene la superiorità dello stile del Macchiavelli su quello del Montesquieu; descrisse il carattere italiano, come usavano e usano ancora gli stranieri, per conchiudere che la corruzione del popolo italiano e del Macchiavelli era la chiave dell'enigma del Principe. Secondo il Macaulay le massime generali sono senza valore e il solo merito di quelle del Macchiavelli sta nell'essere più applicabili delle altre; ma via di questo passo non si accorse [p. 280 modifica]di annullare l'opera che intendeva spiegare e con essa tutta l'importanza delle scienze morali. Il Gervinus in largo e minuto studio storico anatomizzò invece tutte le opere del Macchiavelli, per ripetere nella spiegazione del Principe quello già detto dal Ranke, illustrando col proprio patriottismo germanico il supposto eroico patriottismo del Macchiavelli. Lo Zambelli nelle sue Considerazioni del Principe sembra riprendere con maggiore sicurezza la tesi del Macaulay, provando contro di lui la corruzione europea pari se non maggiore di quella dell'Italia, ma poi tira a scemare l'odiosità del Valentino colla solita necessità pratica e collo scopo patriottico, spiegando come il Macchiavelli, morto il Valentino, disperato del proprio sogno tornasse a fantasticare la repubblica. E repubblicano lo dipinse il Guerrazzi nell'Asino e nel primo capitolo dell'Assedio di Firenze mettendogli in bocca un discorso che il Macchiavelli per primo non avrebbe compreso. Il Desanctis critico più famoso che forte, nella sua storia della letteratura italiana girò per un lungo capitolo intorno al Macchiavelli e al Guicciardini senza intendere nè la natura artistica del primo nè quella politica del secondo, divagando in inutili teoremi morali e in confuse riflessioni storiche. Con ben altro ingegno il conte di Cavour alla prima lettura delle opere postume del [p. 281 modifica]Guicciardini lo giudicò sicuramente per vero politico contro e al disopra del Macchiavelli, del quale però non ha lasciato verun giudizio scritto.

Solo fra tutti Giuseppe Ferrari in un ammirabile opuscolo che il Villari non si è nemmeno degnato di citare nel suo lungo catalogo sui giudizi dati del Macchiavelli, quantunque valga per lo meno i tre volumi da lui consacrati al Segretario fiorentino, coglie con stupenda ed irresistibile critica tutti gli errori del Macchiavelli come legislatore storico politico e l’influenza su lui del secolo; ma trascurando il lato artistico della sua natura, è costretto a scemargli troppo l’ingegno nelle molte insufficienze storiche e legislative; mentre, spaventato quasi dal risultato della propria critica e seguendo la trascendenza del proprio pensiero filosofico, cerca poi di provare come da quegli errori derivassero tutte le verità della scienza politica moderna, ricostruendo in una visione profetica il Macchiavelli distrutto da una analisi troppo chiaroveggente.

Ma fra tutte queste più o meno illustri opinioni inconciliabili, la figura del Macchiavelli resterà sempre un enigma finché si voglia crederlo un filosofo che fonda un sistema: le sue innegabili qualità di scienziato disperse, impedite dal suo temperamento artistico non potranno mai in lui riunirsi per giustificare la sua stessa pretesa alla scienza. La sua [p. 282 modifica]opera esprime la contraddizione della sua vita, entrambe quella dei tempi. Così all'indomani dell'aver voluto consigliare Lorenzo dei Medici col Principe senza nemmeno conoscerlo o se fosse almeno uomo da comprendere il consiglio, interrogato sul governo di Firenze da Leone X, seguendo la propria natura democratica gli suggeriva di ristabilire la repubblica: consiglio ridicolo dato a Leone X che l'aveva uccisa, assurdo ed impraticabile nella condizione dei tempi. Il Guicciardini invece consigliò ai Medici gli espedienti e i modi che convenivano al loro problema.

Ma questa contraddizione nel Macchiavelli non è disperato patriottismo, bensì urto di facoltà spirituali e di tendenze che in lui non arrivavano ad armonizzarsi. Così nella vita fu volgarmente buono e non commise ribalderie: natura piuttosto arida, scarsa di sentimenti e quindi ironica, non si macchiò nè di danaro nè di sangue: ammiratore del Valentino e consigliere a tutti delle sue maniere non avrebbe poi avuto il coraggio di servirlo. Dimandare dunque se Macchiavelli fu onesto o disonesto, è supporlo un filosofo che stabilisce un sistema: invece artista, colpito dalla fatalità assassina della politica di allora, vi ragionò sopra descrivendola senza oltrepassarla.

Il vero problema della morale nella politica Macchiavelli nè vide nè poteva vedere mancandogli la [p. 283 modifica]visione sintetica di tutte le forme dello Stato; sentì solamente che la piccola morale privata non era quella della storia di nessun tempo, e non scorgendone altra in essa non pensò a cercarla. La storia gli parve ripetizione dei medesimi fatti prodotti dalle medesime passioni. La filosofia della storia rappresentata nella Bibbia colla elezione del popolo ebreo, quella schizzata da Zenone o da Sant'Agostino nella Città di Dio non potevano piacere a lui irreligioso e realista, incapace di sollevarsi tanto sopra ai fatti da vederli sparire in una idea; il cristianesimo che pure metteva un disegno nella vita, egli cinquecentista non l'intendeva, la critica non era ancora formata, l'erudizione non aveva che cominciato il proprio lavoro. Il quadro era angusto ma il suo sguardo non riuscì a sfondarlo, quindi osservazioni e conclusioni tutto gli riuscì falso.

Ma l'arte vera più confacente alla sua natura lo riprese. Quindi lo vedremo dopo un libro sull'arte della guerra, ultima illusione della sua capacità di Governo, scrivere molte commedie, un romanzo politico, una storia, una novella, una satira, un dialogo sulla lingua, molti capitoli, alcuni canti carnascialeschi; ritornare un momento sulla scena politica per prendervi qualche abbaglio e morire.


IX. [p. 284 modifica]

Il libro dell'Arte della Guerra deriva come il Principe dai Discorsi e in certo modo ne è il complemento; il Principe impersonava il sogno di uno Stato nazionale, il libro sulla milizia era lo studio del miglior mezzo per conquistarlo. Ma questo sogno non prese mai nella mente del Macchiavelli i contorni più o meno precisi di un disegno; il Guicciardini, che lo aveva egualmente accarezzato, in una ammirabile pagina ne dimostrò a sè stesso tutte le impossibilità politiche e storiche. Così rimase sogno che dopo aver inspirato al Macchiavelli le pagine più belle andò a morire in un troppo vantato sonetto del Filicaia per risorgere nei Carmi del Foscolo.

Macchiavelli ammesso nella brigata dotta ed aristocratica degli Orti Oricellarii, rimasta poi celebre nella storia, vi contrasse illustri amicizie che gli [p. 285 modifica]permisero di arrivare fino a casa Medici. In quel circolo, nel quale capitavano uomini di guerra, concepì la forma del suo libro che è un lungo dialogo immaginato tra Cosimo Rucellai, Zanobi Buondelmonte, Battista della Palla e Luigi Alamanni nel 1516, quando il Colonna ritornò a Firenze dalla guerra finita di Lombardia. La forma artistica del libro rivela l'indole dello scrittore: le sue idee sono quelle medesime dei Discorsi e del Principe, le sue illusioni e le sue pretese quelle stesse contratte occupandosi dell'Ordinanza nell'Assedio di Pisa. Soldato non era, guerre non aveva mai vedute giacchè l'assedio di Pisa e la rotta di Prato non meritano tal nome.

Comincia deplorando l'errore funestissimo che in Italia separando la vita civile dalla militare aveva creato le compagnie di ventura, ma di questo errore così pieno di problemi storici invece di cercare la spiegazione, enumera piuttosto le conseguenze; compito facile ed inutile allora per l'infelice esperienza di tutti.

Vorrebbe una milizia nazionale nella quale non si facesse il soldato per mestiere, e con uno dei soliti paragoni riunisce i tempi di Attendolo Sforza e di Braccio da Montone a quelli di Cesare e Pompeo: ma entrando presto in materia imita o traduce addirittura il famoso libro del Vegezio. Non [p. 286 modifica]ammette altro modo di guerra che il romano, ma cercando di rifarne gl'ordini mescola la legione col battaglione svizzero, riproduzione della falange greca, e le scema così quella mobilità e capacità ad atteggiarsi prontamente sopra ogni terreno, che rappresentava tutto il progresso dei romani sui greci. In quel mondo del cinquecento con altri costumi e diversa coscienza propone il servizio militare per tutti e l'educazione della gioventù alla romana. A questo punto, siccome uno degli interlocutori domanda perchè gli antichi ebbero maggiori virtù politiche e libertà dei moderni, Macchiavelli risponde: perchè erano repubblicani e pagani. Per lui il cristianesimo è ragione assoluta di decadenza politica; la differenza della individualità pagana e cristiana gli sfugge ancora. La sua poca stima della cavalleria e la grande importanza della fanteria sono idee romane: così pure la battaglia che dispone teoreticamente al terzo libro, nel quale si ride delle artiglierie. Nel quarto nel quinto e nel sesto ragionando dei movimenti dell'esercito e del suo alloggiamento, il Macchiavelli che di guerre non ne aveva vista alcuna, segue sempre l'esempio romano. A proposito delle pene militari, egli politico che pure avrebbe dovuto conoscere gl'italiani di allora, propone che a modo dei romani e degli svizzeri siano date popolarmente: consiglio che parrebbe ridicolo in bocca di ogni altro [p. 287 modifica]e che nella sua riesce addirittura inesplicabile. Finalmente nel settimo libro parla delle fortificazioni, ma nella sua niuna fede alle artiglierie e nella sua ignoranza della ingegneria, non arriva nemmeno al punto che la scienza d'allora aveva toccato: quindi mette in bocca al Colonna il ritratto del capitano ideale componendoglielo al solito con esempi di storia; e chiude colla inevitabile invocazione al principe liberatore.

L'opera scientificamente non ha dunque nè originalità nè valore; è un ritorno agli ordini antichi piuttosto ispirato da un sistema di idee letterarie e storiche che da vera conoscenza della materia. Così Macchiavelli studiando il modo e la difficoltà di comporre un esercito invece di guardare intorno a sè per vedere che differenza presenterebbero la Romagna, la Toscana, il Reame o Venezia si contenta di tradurre un brano di Vegezio sul soldato ideale: trattando della educazione guerriera, secondo la sua teoria l'uomo è sempre uguale e un cittadino del foro romano e un borghese del mercato fiorentino hanno le stesse attitudini; il cristianesimo, che aveva dieci secoli di guerre non interrotte, è per lui antimilitare e nullameno non cerca come controbilanciarne l'influenza; l'Italia non ha coscienza nazionale e tuttavia egli crede possibile riunirla in un esercito; vi sono armi nuove da fuoco, imperfette che non [p. 288 modifica]pertanto hanno già mutato parte della tattica, e non ne tien conto; non vi erano più generali italiani di gran nome, le bande stavano per finire, gli stranieri occupavano più che mezzo il paese, i Comuni più che inermi erano inetti alle armi, ed egli astrae da tutto. Risuscitare i romani ecco ancora il suo sogno d'artista; essi avevano coi loro ordini militari conquistato il mondo, e coi loro ordini militari l'Italia del cinquecento avrebbe riconquistata sè stessa.

Ma se gl'ordini militari romani avevano prevalso nel mondo antico era dipeso dalla inferiorità dei sistemi militari degl'altri popoli incapaci di ordinarsi come i romani per troppe ragioni d'indole e di civiltà, ragioni che l'Europa del cinquecento non avrebbe più avuto contro l'Italia. Il ritorno dell'ordine romano imitato naturalmente da tutti i popoli, lasciando intatte le loro differenze avrebbe conservato in faccia ad essi l'inferiorità militare dell'Italia.

L'argomento del Macchiavelli, che gl'italiani nei combattimenti isolati riuscivano spesso superiori agli stranieri, non provava la maggiore attitudine della nazione d'allora alle armi, ma piuttosto un effetto delle guerre continue e delle compagnie non mai congedate, nelle quali i migliori individui potevano raggiungere la perfezione degli antichi gladiatori romani.

E coll'Arte della Guerra e colla vita di Castruccio [p. 289 modifica]Castracane si chiude il ciclo politico-letterario del Macchiavelli.

In cotesta vita, che molti credettero una vera biografia e fu poi chiamata un romanzo, il Macchiavelli andato a Lucca per affari di certi mercanti fiorentini, sempre signoreggiato dalle idee e dalla figura del Principe, ripensando ai casi di Castruccio, il miglior generale del medio evo, ne compose un racconto come quelli di Diogene Laerzio e di Diodoro Siculo, mescolando il vero all'immaginario, amalgamandovi in un ammirabile getto le gesta di Agatocle. Nel racconto breve ma letterariamente perfetto la figura del duca Valentino è sempre dietro a quella di Castruccio, il quale si muove nullameno con personalità tanto viva da far credere quel romanzo una vera storia. Gli amici degl'Orti Oricellarii ammirati del nuovo stile consigliarono il Macchiavelli a scrivere storie e gli ottennero dallo Studio, cui era capo allora come vescovo pro tempore il cardinale Medici, la commissione di scrivere quella di Firenze in due anni con cento fiorini all'anno.

Macchiavelli si accinse subito agli studi preparatorii, ricusando l'offerta fattagli dal suo antico padrone Pietro Soderini di andare segretario presso Prospero Colonna con duecento ducati d'oro di provvisione e le spese. Era questo uno spiraglio che gli si apriva finalmente sulla politica, nella quale [p. 290 modifica]l'illustre capitano era attore importante; ma il Macchiavelli ancora atterrito dalla congiura del Boscoli, e sapendo che i Soderini congiuravano coi francesi per cacciare i Medici, rimase a Firenze nel codazzo del cardinale Giulio, al quale ripropose il disegno offerto a Leone per il ripristinamento della repubblica. E nemmeno s'accorse che quegli ben più fino politico di questi, domandando tali disegni a tutti intendeva di saggiare la pubblica opinione, niente disposto a largheggiare di libertà con Firenze; chè anzi i più giovani ed ingenui frequentatori degl'Orti Oricellarii, ai quali le declamazioni del Macchiavelli avevano scaldato il sangue, avendo congiurato contro il Governo, il cardinale fu prontissimo a reprimere la rivolta, decapitandone senza pietà due fra essi. Il Macchiavelli, nel quale il cardinale Giulio aveva fiutato la natura puramente letteraria incapace d'azione malgrado i grandi discorsi, non ne fu nemmeno disturbato, mentre dal canto suo non si mosse a favore degli amici proscritti.

Il suo patriottismo che doveva essere tanto decantato si scoperse anche questa volta di puro intelletto senza cuore e senza carattere. L'antico segretario di Pietro Soderini contro i Medici non volle seguirlo nella congiura da lui e dal fratello cardinale tramata a favore di Firenze, per non perdere coll'incipiente protezione dei Medici la provvisione [p. 291 modifica]delle Storie e la calma necessaria alla sua vita di letterato. Impiegato e cliente subalterno, la fede della quale si vanta così spesso nelle lettere, non è che troppo spesso docilità e poltroneria. Forse la viltà dei tempi lo scusa, quantunque anche allora vi fosse chi sentiva altamente e sapeva arrischiare la vita per idee, nelle quali Macchiavelli con artistica sincerità non realizzava che la bellezza incomparabile del proprio stile.

Quando il Macchiavelli si pose alle Storie, dice benissimo il Villari, v'erano in Firenze due scuole di storici, quella del Villani nella quale proseguivano annalisti e diaristi, e l'altra degli eruditi con alla testa Leonardo Aretino e Poggio Bracciolini non molti anni addietro segretari entrambi della Repubblica. Spregiatori della cronaca, pur nella forma rispettandone la divisione per anni, costoro avevano mirato alla dignità classica solamente trasformando ogni minima scaramuccia in battaglia e vestendo tutti i personaggi alla romana. Quindi in essi non critica degli avvenimenti, non ritratti, non aneddoti che mostrino il carattere dei tempi: l'aggruppamento dei fatti, determinato sempre da ragioni letterarie e decorative, finisce quasi ad annullarli. Nullameno questo esercizio rettorico della storia aveva inconsciamente condotto gli eruditi nel dilatarsi del campo storico verso la critica filosofica e filologica. [p. 292 modifica]

Flavio Biondo infatti v'era già entrato stampandovi un'orma di leone, ma scrivendo egli pure in latino per dispregio della lingua volgare. V'erano quindi storie di materia italiana piuttostochè storie italiane.

Al tempo del Macchiavelli, però, col nobilitarsi della lingua italiana e lo studio profondo che della politica aveva necessariamente iniziato la diplomazia di tutti i Governi, era cresciuto in tutti il desiderio di una storia che dettata nella lingua corrente e basata sulla realtà dei fatti ne fosse insieme specchio e spiegazione. Il Guicciardini giovanissimo, che del proprio secolo era senza forse colui che meglio doveva esprimerne il carattere e comprenderne i bisogni, aveva già scritto una Storia Fiorentina, rimasta inedita sino quasi ai nostri giorni, nella quale preludendo maestrevolmente alla sua futura grande Storia d'Italia, forzava primo il passaggio dalla cronaca alla storia. Chiaro, più elegante nello stile che non dovesse poi esserlo in seguito, con un giudizio già maturo in tutti i fatti e un'esperienza precoce di tutti gli uomini, sebbene non avesse allora che ventisett'anni e non fosse per anco entrato nelle pubbliche pratiche, analizzava già l'avvicendarsi dei partiti, metteva a nudo i caratteri, determinava le passioni degli avvenimenti. Imparziale coi Medici ammirava Savonarola, ricercava i documenti [p. 293 modifica]originali, esponeva le leggi, citava persino le frasi testuali delle ambascerie. Certo a lui pure sfuggiva la parte impersonale degli avvenimenti, troppo violentemente tirato dalle forti qualità della sua natura realista e politica; ma questo difetto in lui comune col Macchiavelli e col secolo, non era come nel suo rivale peggiorato dalle licenze di una fantasia teorizzante sui fatti e contro i fatti. Guicciardini aristocratico potè in seguito lasciarsi cogliere dalla passione della forma che era allora l'aristocrazia della letteratura, e mal sicuro nel gusto falsare il proprio giovane stile nell'imitazione ciceroniana; ma politico e storico nato non si curò mai di poesia, non scrisse come il Macchiavelli Commedie e Decennali fra quella ressa di tragedie che componevano allora la politica, non divagò dietro pretensiose e false teorie come nei Discorsi, non ebbe mai il sogno fantasmagorico del Principe, non si atteggiò a capitano precettore di guerra, non eccitò a libertà per poi abbandonarla timidamente in faccia al pericolo, non mendicò impieghi, non predicò la necessità della furberia; ma profondamente furbo, privo di coscienza come il suo secolo, coperse eminenti cariche, si rivelò uomo di gran Governo e non fu veramente vinto che vecchio da Cosimo II, politico ben altrimenti terribile del cardinale Giulio che aveva potuto così facilmente giocare il [p. 294 modifica]Macchiavelli colla proposta delle Riforme, accettando poi da lui con scettica indifferenza la dedica delle Storie piene di odio contro il papato e di riserbo cortigiano per Casa Medici.

Nel Proemio alle Storie il Macchiavelli annuncia subito il pensiero che lo dirige e sul quale baserà il proprio edificio: se l'Aretino e il Poggio «duoi eccellentissimi storici» non avevano parlato che di guerre esterne, tacendo delle civili discordie, delle intrinseche inimicizie, e dei loro effetti, egli intendeva riparare all'errore «perchè nessuna lezione è utile a coloro che governano quanto quella che dimostra le cagioni degli odii e delle divisioni, massime in una città come Firenze, in cui le divisioni furono per nome infinite; portarono esigli, morti, devastazioni e pur non poterono impedire la prosperità della Repubblica; anzi pareva che l'aumentassero.»

Il principio e l'intenzione delle Storie è dunque quello medesimo dei Discorsi, del Principe e dell'Arte della Guerra: una lezione di politica data agli uomini di Stato, una verificazione delle teoriche che Macchiavelli ha stabilito nelle opere precedenti. Guai ai fatti che le contraddiranno! L'artista politico non è mutato ma sta per ingrandirsi: il campo che gli si apre davanti è così vasto che il suo ingegno vi si può dare carriera, l'innegabile originalità del suo [p. 295 modifica]proposito storico nel quale Guicciardini lo ha preceduto senza che egli lo sappia, non gli viene da una meditazione filosofica della storia, ma dalle tendenze del suo spirito e di tutta la sua vita. I grandissimi modelli antichi, Tacito e Livio, non sono più presenti al suo pensiero e non gli compariranno che ad intervalli per suggerirgli qualche forma di stile o disegno di orazione: fiorentino, i suoi autori sono i cronisti che l'hanno preceduto. L'Introduzione generale che premette alle Storie, falsa nelle proporzioni architettoniche come vestibolo enorme di piccolissima casa, non sarà che un esercizio artistico, un ritardo volontario intorno a qualche massima o a qualche personaggio, una imitazione ed un plagio di Flavio Biondo e di Leonardo Aretino.

Il Villari costretto a notarvi la poca o nessuna originalità così nella erudizione come nell'ordinamento dei fatti, vi si ripiega giustamente sul merito letterario. Una figura però vi campeggia troppo simile al duca Valentino nel Principe e come questi salvatore d'Italia, Teodorico re degli Ostrogoti. La solita esaltazione riprende il Macchiavelli che, pur copiando dal Biondo, per idealizzare il proprio ritratto tralascia quanto gli nuoce e svisa addirittura fatti importanti, come l'espulsione di ogni italiano o romano dall'esercito decretata da Teodorico.

Ma presto il Macchiavelli arriva all'altro concetto [p. 296 modifica]determinante le sue Storie, la facilità colla quale l'Italia avrebbe potuto riunirsi in nazione se i papi non l'avessero invincibilmente mantenuta divisa per rabbia di regno. E qui è il Villari che si riscalda ammirando il coraggio di questa affermazione in un libro ordinato dal papa, e la sincerità dell'uomo che poi tutto il mondo doveva ostinatamente negare: ma poco dopo confessa egli medesimo che eroismo non vi fu mentre Clemente VII non mostrò nemmeno meravigliarsi della cosa, così i tempi erano scettici e scarso il sentimento religioso nel Vaticano. Senonchè il concetto del Macchiavelli per essere diventato popolare quando il patriottismo dovette per riunire l'Italia osteggiare il papato, non è storicamente meno falso. L'Italia non fu mai nazione. I Romani la conquistarono senza fonderla con sè medesimi nella repubblica; durante la monarchia fu pareggiata alle altre provincie conservando in sè stessa tutte le differenze che l'animavano. La civiltà romana divenuta troppo presto universale coll'assorbimento della civiltà greca, non potè attendere la fioritura italiana e non ebbe quindi nè arte nè scienza nè filosofia nè religione veramente originale; la sua grandezza derivò dalla giurisprudenza e dalla politica. Poi nel franare dell'impero i barbari ruinando sull'Italia vi portarono e vi produssero altre differenze. Rotta l'unità romana, [p. 297 modifica]l'unità cristiana anche più universale ed astratta non poteva riunire l'Italia. La lotta ricominciò fra la Chiesa e l'Impero: quella malgrado tutte le proprie contraddizioni era per la libertà, l'Impero per la tirannia; l'infallibile istinto storico fece guelfo il popolo e ghibellina l'aristocrazia feudale. Il Macchiavelli lo nota ma non arriva a comprendere neppure confusamente la vera posizione e l'azione storica del papato nel medio evo. Il suo pregiudizio irreligioso lo trascina, la sua inettitudine alla filosofia e alla critica lo paralizza. Egli che considerava il popolo senz'anima come cera in mano al Principe legislatore, non poteva nemmeno sospettare che la nazionalità derivasse dalla unità delle coscienze individuali. Così gli sfuggono tutti gli elementi spirituali del cristianesimo, del quale si ostina a non vedere che gli eccessi penitenziari e le mostruosità rituali. Per lui le crociate, il più gran fatto del medio evo, che iniziava tutto l'avvenire, è opera di Urbano II, il quale odiato a Roma ripara in Francia e vi predica contro gl'infedeli: le sole conseguenze di esso sono la fondazione dei due ordini di cavalieri, Templari e Gerosolimitani, e poche conquiste in Oriente. Nella grande contesa fra papato ed impero non vede Gregorio VII, figura gigantesca di cui l'ombra potè per un momento coprire tutto l'impero, mentre in ogni avvenimento scorge poi [p. 298 modifica]sempre una causa personale. Considera la religione solamente nella forma della Chiesa, la civiltà nell'azione di un Governo, l'uno e l'altra più volentieri ancora riassunte in personaggi politici. Sfiora la lotta dei Comuni col Barbarossa, tace dell'immenso sviluppo dato da Federico II alla civiltà del mezzogiorno, nomina appena i Vespri Siciliani, le discordie dei Guelfi e dei Ghibellini, le vicende del Reame di Napoli per non perseguitare che i pontefici e i capitani di ventura, fermandosi solo ai fatti che aiutano le sue teorie dei Discorsi e del Principe.

Questa l'Introduzione generale tanto vantata dai suoi apologisti; la quale se si prescinda dal merito letterario troppo in essa ancora disuguale quantunque a certi punti singolarissimo, non contiene nessun'idea, non inizia nessun metodo che possa attribuire al Macchiavelli un grande posto fra gli storici.

Il secondo, terzo e quarto libro abbracciano la storia di Firenze dalla sua fondazione sino al trionfo dei Medici, ma dell'origine del Comune dice appena poche parole per saltare subito alla tragedia di Buondelmonte nel 1215, dalla quale crede erroneamente derivare la divisione della città in Guelfi e Ghibellini. Il Villani da cui copia condensando con ammirabile potenza letteraria, e Ricordano Malaspina avevano pur narrato prima del triste caso una serie di guerre fra il Comune fiorentino e i [p. 299 modifica]baroni del contado, che vinti e costretti a vivere nella città vi avevano portato colla ferocia dei costumi la crudeltà di un odio di razza. Il Macchiavelli, tratto dal suo bisogno di mettere sempre una causa drammaticamente personale ad ogni avvenimento politico, muove dal caso del Buondelmonti, ma più acuto del Villani che andava smarrendo il filo della grande contesa, s'accorge subito che dietro i Guelfi e i Ghibellini non stanno solo l'Impero e la Chiesa, bensì la feudalità e il popolo: l'una rappresentante la razza dei vincitori sovrappostasi alle genti latine nell'invasione, l'altro ancora in gran parte latino malgrado la mistura del sangue e nemico inconciliabile della feudalità per la tradizione del suo passato e la necessità del suo futuro. Ma anche qui il Macchiavelli non arriva ad abbracciare tutto il problema, giacchè non cerca nemmeno di cogliere i veri rapporti della feudalità italiana coll'Impero e le sue affinità colla vita italiana, e fuorviato dall'odio alla Chiesa travisa l'opera del papato, del quale l'alleanza col popolo diventa un assurdo inesplicabile.

Inesatto nelle date, poco scrupoloso dei fatti, sospinto dalla passione politica verso le epoche che maggiormente si presteranno alle considerazioni e alle teoriche che lo signoreggiano, analizza distrattamente la Costituzione del Primo Popolo, oblia la Costituzione precedente dei Consoli e la Costituzione [p. 300 modifica]del Potestà: quindi narra rapidamente il ritorno dei Ghibellini, l'ingrossare continuo dei Guelfi, il mal ripiego della politica ghibellina per ottenere il favore del popolo aiutando la costituzione delle arti Maggiori e Minori, il magistrato dei Priori che affretta la rovina dei nobili, gli Ordinamenti di Giano della Bella che la compiono. Così prostrati i Ghibellini, sorgono i Guelfi che si dividono in Bianchi e Neri per suddividersi ancora vinti i Bianchi in Grandi e Popolani; la contesa fra l'aristocrazia e la democrazia muta nome e terreno conchiudendosi egualmente colla vittoria del popolo.

Ma se il Macchiavelli vede un certo nesso logico in queste discordie, non ne afferra bene l'idea e non ne sbroglia gli aggruppamenti che per lui hanno sempre come causa prima una scena drammatica. Poscia narrato dì Corso Donati e delle guerre con Uguccione della Faggiola e Castruccio Castracani come di avvenimenti casuali, entra nell'episodio del Duca d'Atene con sì calda eloquenza che dimenticando ogni proporzione nel quadro aggiunge episodi, inventa discorsi, s'allunga in considerazioni, drammatizza ogni circostanza per conchiudere alla terribilità dell'eccidio con una descrizione non meno terribile. In questo secondo libro, come nota egregiamente il Villari, sta il secreto della [p. 301 modifica]storia di Firenze; però se il Macchiavelli lo avverte a quando a quando e qualche piccola parte ne scopre, non è men vero che in lui come nei cronisti dai quali copia, le passioni, il valore e la fortuna sono sempre la ragione unica degli avvenimenti: l'idea dei quali risulta nel suo racconto piuttosto dal modo col quale il suo istinto artistico signoreggiato dalla loro seria logica li coordina, che non sorga in lui da vera coscienza filosofica di storico.

La letteratura storica è già nata preparando in sè stessa la storia; alla prima è bastato il letterato, alla seconda occorrerà l'uomo.

Col terzo libro, che va dal 1353 al 1414 e al quale il Macchiavelli premette, e seguitò poi nel costume, una specie d'introduzione filosofica richiamando una teoria dei Discorsi, comincia lo studio della decadenza della repubblica e il conseguente sorgere dei Medici. Gli autori prediletti sono questa volta Marchionne di Coppo Stefani e Gino Capponi, ma su questo nuovo terreno meglio adatto all'indole sua il Macchiavelli procede più cauto e forte. Il paragone fra Roma e Firenze, che apre il libro, è al solito così forzato che il Villari stesso ne conviene, mentre dalla profondità delle susseguenti osservazioni nelle quali molti si sono perduti ammirando non sfolgora nessuna idea. Il racconto si [p. 302 modifica]costringe tutto nella contesa fra gli Albizzi ed i Medici. La posizione dei primi vi è assai bene studiata, ma non appena entra in scena Salvestro dei Medici favorendo le arti Minori contro le Maggiori e sollevando destramente il tumulto dei Ciompi, per profittare poi solo della rovina degli Albizzi nella reazione succeduta naturalmente al tumulto col simultaneo abbassamento delle arti Maggiori e della plebe, si direbbe che un'inconscia antipatia scoppi tra il fine politico borghese e il terribile politico del Principe. La presenza del Valentino turba ancora lo spirito del Macchiavelli al punto di fargli idealizzare la mediocre figura di Michele di Lando, docile strumento in mano di Salvestro, e di non lasciargli comprendere tutto il merito della politica di quest'ultimo così abile e paziente e sicura che nelle Storie Fiorentine non se ne era ancora e forse non se ne vide più l'esempio. Gl'istinti democratici trassero il Macchiavelli a trasfigurare Michele di Lando, come la politica di semplice intrigo, senz'armi e senza gloria troppo diversa da quella conquistatrice del Valentino, gli dispiacquero in Salvestro. Oramai nel Macchiavelli la teorica politica e la forma drammatica si erano talmente fuse che a lui stesso non riusciva più di separarle. D'altronde la sua avversione ai Medici, dai quali colla cacciata dalla Signoria e le conseguenti miserie aveva pur [p. 303 modifica]ricevuto quattro o sei tratti di corda, malgrado i riguardi dovuti per quell'ultima commissione di scrivere le Storie, traspare dal libro. Così nel quarto pel quale si giova moltissimo delle Storie Fiorentine di Giovanni Cavalcanti altrettanto false nella forma che vere nei fatti, riprendendo l'analisi della contesa fra gli Albizzi e i Medici sembra non volersi accorgere della politica di Giovanni Medici, non meno fina di quella di Salvestro e velata anche da maggior bonomia. Quindi alla sua morte gli fa tenere ai figli Cosimo e Lorenzo un discorso privo di senso per dissuaderli in nome della virtù dall'aspirare al principato; e morto, gli fa un insolito e volgare elogio di uomo caritatevole quanto prudente. Discorso ed elogio sono presi dal Cavalcanti. Se non che l'averli solo corretti nella forma e il ricusarsi a studiare veramente la politica di Casa Medici, mentre nella Introduzione generale si era fermato troppo a lungo per le proporzioni del libro ad esaminare quella analoga di Matteo Visconti contro i Della Torre, mostra fin troppo che la paura dei nuovi padroni gli toglie il coraggio della sincerità storica.

Quell'eroismo che al Villari era sembrato di vedere nel Macchiavelli fieramente avverso alla Chiesa scrivendo per commissione di un papa, scompare trattandosi di narrare come Casa Medici rovinasse [p. 304 modifica]la repubblica impadronendosene con mirabile costanza di buone e pessime maniere. Il lirismo repubblicano del Macchiavelli ammutolisce: la sua fierezza di pensatore e di scrittore si ammansa, e ritorna l'uomo della congiura del Boscoli, il letterato di Clemente VII che non osava più parteggiare contro di lui pei Soderini in favore della repubblica. Nè con questo intendo rimbrottare aspramente il Macchiavelli di non essere stato un eroe, ma solamente di ribattere quegli apologisti che tirano a mostrarlo troppo maggiore nell'ingegno e nel carattere che veramente non fosse. Nel racconto della lotta suprema fra Rinaldo degli Albizzi e Cosimo de' Medici si scoprono nel giudizio del Macchiavelli una falsità e una costrizione insolita; fa di Cosimo il ritratto più umano, non vuole affermare la sua mira costante al principato, vede nell'ipocrisia della sua condotta una virtù piuttosto che un mezzo per raggiungerlo, s'intenerisce quasi per la sua prigionia all'Alberghettino e pel suo confino in Padova, non ha una frase per la repubblica morente, non ammira nemmeno l'altera risposta dell'Albizzi, nella quale sono pure, ed egli stesso forse ve le mise, parecchie delle sue frasi favorite.

Il periodo di Casa Medici così importante nella storia fiorentina è dunque in certo modo evitato dal Macchiavelli che non solo scansa di [p. 305 modifica]giudicarlo, ma vi si rattiene da quelle considerazioni che false storicamente la più parte, rivelano l'animo suo e qualche volta accennano a veri tentativi di critica filosofica.

Nei libri seguenti che costituiscono l'ultima parte delle Storie, il disordine della composizione e il cortigiano riserbo in faccia all'opera dei Medici degenerano in menzogna. Dopo aver accennato col solito disprezzo alle due scuole braccesca e sforzesca, che allora dividevano le guerre italiane sotto gli ordini dei due più grandi capitani del secolo, Francesco Sforza e Niccolò Piccinino, ed avere assai malamente raccontate le loro imprese nello Stato della chiesa, viene al ritorno trionfale di Cosimo e vi si imbroglia descrivendone le circostanze. Il suo odio democratico trapela dalla sua prudenza di letterato cortigiano, mentre la passione dell'analisi politica gli viene soffocata dalla paura di uomo povero alla mercede dell'ultimo papa dei Medici. Poi divaga in altre guerre italiane. Valendosi dei Commentari di Neri Capponi, descrive il gran torneo militare fra Niccolò Piccinino al soldo del duca di Milano e Francesco Sforza generale della Lega, e neppure qui l'odio ai capitani di ventura abbandona il romanziere di Castruccio Castracani, che non s'accorge d'avere davanti due soldati, ai quali solo i migliori dell'antichità sono paragonabili. Almeno [p. 306 modifica]Francesco Sforza nel mutarsi di venturiero in capitano sembrerebbe a prima vista dovesse sedurre la sua immaginazione; senonchè il Machiavelli dimentica a questo punto tutta la sua ammirazione pel Valentino, politicamente un imitatore dello Sforza, per abbandonarsi ai propri istinti democratici, denigrando in questi l'uccisore della repubblica ambrosiana. Eppure Francesco Sforza accarezzava nel forte pensiero il sogno di farsi re d'Italia, che altri forti prima di lui avevano ripetuto. Nel 1240 è Ezzelino da Romano che si vanta di voler fare in Italia più che Carlo Magno, e muore prigioniero; Mastino II della Scala ottant'anni dopo conquista tutte le terre di Ezzelino collo stesso proposito, e fallisce. Castruccio Castracani militarmente maggiore d'entrambi soccombe del pari, poi Ladislao re di Napoli, poi i Visconti i Medici i Borgia, ogni condottiero, ogni trionfatore, re e papi, tutti sono tormentati dal sogno di un regno italico infrangendo il patto medioevale fra papato ed impero, e nessuno vi riesce.

L'acciecamento del Macchiavelli contro i capitani di ventura è tale che dopo aver messo in ridicolo le loro battaglie affermando che nessuno vi morisse, nega perfino l'ingegno politico dello Sforza. Ritornando nel VII Libro a Cosimo dei Medici, il quale aveva pur condotto Firenze con meno valore al medesimo punto che lo Sforza Milano, muta ancora [p. 307 modifica]linguaggio: attenua i mali del nuovo governo o li attribuisce a malvagità di partigiani che Cosimo vecchio non riesce a frenare; e quando Cosimo muore si ferma a fargli l'elogio. Non una parola di biasimo, non un accento di dolore per la morta libertà di Firenze: accennando alla protezione da lui concessa alle lettere e alle arti, non trova nè modo nè tempo di analizzare quell'epoca unica nella storia del mondo. Poi le sue contraddizioni aumentano ancora. Dopo avere attribuito arbitrariamente l'assassinio di Niccolò Piccinino ad un complotto tra Francesco Sforza e Ferrante d'Aragona, raccontando della congiura tramata contro Piero dei Medici, uomo meno che mediocre, ne travisa romanzescamente le circostanze per fare di lui un grande personaggio. Il medesimo ripete nell'altra congiura del Nardi e del Nerone a Prato contro Lorenzo e Giuliano, inventando l'episodio della voluta impiccagione del Potestà alla finestra del Palazzo e il suo discorso per liberarsene e la seguíta liberazione colla sconfitta dei ribelli. È strano l'oblìo non solo di ogni verità storica ma persino di ogni possibilità drammatica nei discorsi, che il Macchiavelli inventa tratto tratto secondo le bizzarrie dell'immaginazione per ì personaggi delle sue Storie. La congiura scoppiata contro Galeazzo Visconti duca di Milano è invece narrata con molta efficacia, quasi preparazione a [p. 308 modifica]quella dei Pazzi contro Lorenzo e Giuliano, che occupa buona parte del Libro VIII, ed è forse letterariamente il miglior brano delle Storie. Le quali si chiudono colla morte e l'elogio di Lorenzo, di cui non osa riconoscere la tirannìa e non comprende intera nè la grandezza artistica nè quella politica. Il Guicciardini invece nella Storia Fiorentina scritta a ventisette anni lo giudica tiranno amabile nei modi, inferiore a Cosimo nella politica, governante col sospetto e premuovendo la corruzione. Tutto questo è da lui scritto colla massima calma, senza amore alla libertà o rispetto pei Medici.

I due grandi storici del secolo s'incontrano l'ultima volta per dissentire come quasi sempre. Il confronto dei loro ingegni e delle loro opere è così facile che nessuno ha potuto evitarlo e nullameno fino a ieri nessuno ha saputo ben precisare le loro vere nature. Macchiavelli parve grande e diventò popolare per la profondità dell'ingegno politico: il suo cognome si mutò in nome a significare con terribile complessità tutto quanto la scienza, l'arte, la natura, la società possano in un uomo solo condensare di valore politico. Guicciardini nelle scuole e nella coltura comune non era che un letterato cinquecentista, dalla frase italiana entro un periodo ciceroniano, e quindi un classico. Macchiavelli era il pensatore e Guicciardini lo scrittore, l'uno il filosofo [p. 309 modifica]l'altro l'artista, quegli l'uomo di stato questi il letterato; la verità invece è nel contrario.

Le ultime opere inedite del Guicciardini e i migliori recenti studi sul Macchiavelli cominciarono ad invertire i giudizii. Il grande politico, il grande storico è Guicciardini, l'artista il letterato lo scrittore è Macchiavelli. Le sue Storie Fiorentine non s'alzano troppo come metodo e concetto sulle cronache donde sono tratte, non iniziano critica, non hanno principio filosofico, non intendimenti elevati. Tutti i difetti e i pregi artistici del Macchiavelli vi si accoppiano con troppo maggiore prevalenza dei primi. La materia vi è mal distribuita, non sicuri i fatti, non sinceri i giudizii, non ben tratte le conseguenze. Il loro disegno è così angusto che nulla vi cape: la vita vi si compone di battaglie consciamente falsate la più parte e di congiure drammaticamente e spesso falsamente narrate. Il periodo dei Medici vi è condotto in modo da non capirvi nulla. Un urto continuo d'istinti democratici, di teoriche tiranniche, di pregiudizi militari, di romanzesche invenzioni, di concioni e di scene vi disordina gli avvenimenti che riassunti sempre nelle persone e nella forma politica vi diventano incomprensibili. Il vanto di correggere l'Aretino ed il Poggio coll'analizzare le cagioni intime e cittadine dei mutamenti nei governi non è certo realizzato; che se [p. 310 modifica]qualche volta lo sembri è piuttosto fortuito incontro o fuggevole accenno che proposito di sistema.

Invano i suoi ammiratori per resistere al paragone col Guicciardini hanno voluto sostenere che l'ampiezza del campo è nel Macchiavelli tanto maggiore, questi arrivando dalla decadenza dell'impero romano fino a Lorenzo il Magnifico e quegli da Lorenzo sino alla morte di Clemente VII; mentre nell'uno la lunghezza del periodo storico è piuttosto nel tempo che nelle Storie composte di pochi brani arbitrariamente staccati e tra loro cuciti con scarsi avvenimenti allineati e narrati a capriccio; e nella Storia d'Italia dell'altro se più breve il periodo è ben più vasto il campo. Gli avvenimenti sono simultanei, il loro aggruppamento più difficile, più complessa la loro logica, più molteplici le conseguenze. Mentre il Macchiavelli può sbrigliare e sbriglia la propria fantasia in episodii immaginarii o si attarda sui fatti che gli piacciono, s'abbandona a teoriche, cede ad antipatie, tace per riserbo, chiude gl'occhi per paura; il Guicciardini coll'impassibilità, che l'altro consigliò sempre e non ebbe mai, ripensa la propria vita nella propria epoca e ne vede l'ordine, lo riproduce, lo analizza. Diplomatico di prima forza, intimo dei più grandi personaggi, per lui non ci sono secreti: senza opinioni morali e senza sogni patriottici vede subito nei fatti il loro significato [p. 311 modifica]immediato; conosce l'Europa quanto l'Italia; non ama nessuno, non ammira che sè stesso. Di questo difetto, rimproveratogli accortamente dal Ranke, trionfa però facilmente. Il proposito politico che nel Macchiavelli risulta da troppo eterogenea congerie di qualità filosofiche, scientifiche e artistiche è in lui espressione di una natura non d'altro capace e di null'altro occupata. Politico prima che storico non scrisse che quando non potè più agire. Ma nell'azione era riuscito altrettanto bene che male il Macchiavelli. La sua superiorità nella politica si ripete nello studio della medesima. Se le Storie del Macchiavelli non avessero l'insuperabile pregio dello stile e non fossero tutte piene di bellezze letterarie non sarebbero così lette, e come hanno giovato meno delle cronache alla ricostruzione delle epoche narratevi e non molto più di esse alla scoperta dell'idea e del metodo storico, così non avrebbero avuto maggiore fortuna. La Storia del Guicciardini malgrado la pesantezza dello stile e la falsità del gusto letterario è rimasta il più gran passo fatto nelle scienze storiche dopo i romani. Nessuno dei maggiori storici antichi avrebbe potuto seguire con sì infallibile penetrazione e con tanta profonda sagacia la politica di quel tempo unico nella storia del mondo, che aveva tutte le corruzioni di una decadenza nelle fermentazioni di un [p. 312 modifica]rinascimento.

Solo un italiano in Europa poteva esserne capace e fra tanti italiani egualmente culti nessuno era meglio adatto di un fiorentino. I Veneziani non ebbero che uomini di governo e ambasciatori: la loro repubblica compatta e sicura disciplinava troppo presto e troppo fortemente gl'ingegni per lasciar loro la libertà necessaria allo storico; Firenze teatro ai maggiori mutamenti, primissima sede della gran contesa guelfa e ghibellina, centro dei migliori ingegni, e che condannata ad esaurire la vita di comune prima delle sue grandi rivali aveva anche minore coscienza politica, era meglio atta a produrre lo storico italiano. Ma città dell'arte accanto allo storico mise l'artista della storia: il critico ne nasceva già a Modena, il filosofo ne nascerebbe fra non molto a Napoli; Sarpi doveva esserne il primo combattente, Giannone il primo martire.

Ma il momento del Macchiavelli e del Guicciardini rappresentanti nella Politica e nella Storia la mancanza di coscienza passò presto. E quando colla Riforma cominciò a formarsi l'uomo morale e il cattolicismo si riformò e le scienze mutarono il concetto della natura e il mondo non fu più l'Europa e la stampa centuplicò le idee e alle tragedie cinquecentiste della passione successero i drammi del pensiero ricostituendo la spiritualità e l'intimità della vita, il Davila e il Bentivoglio assistenti colla [p. 313 modifica]impassibilità del Machiavelli alle stragi di Fiandra, o giudicanti colla neutralità del Guicciardini le infamie dei re francesi o spagnuoli, parvero abbominevoli e lo furono. La Politica era già costretta ad avere una coscienza come il popolo e la Storia a riunirle in sè stessa.

Ma fra tutti questi lavori di letteratura storico-politica il Macchiavelli non perdè la passione dell'arte vera. In ogni ritaglio di tempo andò riprovandosi in varii generi, dalla commedia alla satira, dai canti carnascialeschi alla novella. In nessuno riuscì a sorpassare la mediocrità, se si eccettui la Mandragola, commedia intorno la quale si urtarono in ogni tempo i più disparati giudizii e per la quale oggi i giornali iniziano un'impresa di esumazione.

La contesa sul teatro italiano è ormai troppo vecchia e sciaguratamente troppo risoluta contro di esso perchè convenga ancora risuscitarla: l'Italia non ebbe e non avrà quindi teatro nazionale. Le ragioni di questo difetto bisogna cercarle nella storia dalla quale si rileva la sua natura. Nella civiltà romana non vi fu arte veramente originale e nazionale. Popolo destinato nel disegno della storia del mondo a stringervi la prima unità, i romani non vi recano quindi che le qualità militari e politiche necessarie allo scopo: nessuna poesia ha cullato di canti la loro infanzia e non hanno epopea; la loro [p. 314 modifica]religione e i loro Dei sono l'espressione del più volgare antropomorfismo: la loro anima è arida, ma il loro senno è sicuro quanto il loro coraggio. Hanno la casa e il governo. Siccome la fatalità li spinge sul mondo vi marciano e lo conquistano. La loro originalità è la politica e creano lo Stato: la loro filosofia è la giurisprudenza e stabiliscono la giustizia, la loro astrazione è la personalità dell'individuo e dello Stato. A contatto coi greci dei quali debbono assimilarsi e spandere le idee, la grandezza intellettuale di questi li soggioga di buon'ora; prima ancora che possano fiorire i loro scarsi germi naturali l'imitazione li schiaccia o li inaridisce. Poi la loro vita nel lungo periodo della conquista è troppo piena d'azione, troppo riassunta nella sola azione politica, perchè vi sia posto per le arti; gl'Italioti sottomessi da loro perdono la libertà, la prosperità, la coscienza necessarie alle arti. Essi invece incapaci di sentirne la spiritualità le ammirano come lusso o decorazione di vittorie colla cupidigia rozza del soldato. Come cittadini invece le spregiano considerandole appannaggio di popoli deboli e corrotti.

Le feste e i divertimenti romani erano militari: il teatro che vi cominciò tardi fu di gusto plebeo, quasi degradante, autore e attore erano schiavi dei meno apprezzati. Solo coll'invasione della coltura [p. 315 modifica]greca, il teatro crebbe d'importanza perdendo ogni speranza di originalità. Poichè ogni arte ha d'uopo di libertà individuale e d'una certa compiacenza della vita, quando la civiltà romana vi sostituì invece la coscienza del proprio ferreo dovere politico, l'arte s'arrestò. Nel migliore e più vero periodo repubblicano mancò quindi la letteratura. Solamente allo sparire della civiltà nazionale sotto le molteplici tendenze ellenico-cosmopolite, la letteratura comparve a Roma manifestandosi grecamente in opposizione collo spirito nazionale; ma le esigenze della scuola vi sopraffecero gl'impulsi della natura, mentre l'imitazione anticipando sulla creazione atteggiava scuole e teatro antiromanamente e rivoluzionariamente. I primi autori romani sono greci come Livio Andronico, greche anch'esse di soggetto e di forma le prime produzioni, commedie non tragedie. Il teatro era quindi null'altro che un divertimento popolare, nel quale mancavano la coscienza e lo spirito. E poichè il teatro greco era in decadenza, l'imitazione romana fu la corruzione di una corruzione, con questo di aggravante che la grossolanità romana doveva gualcire quanto la decadenza greca aveva avvizzito.

Filemone di Soli e Menandro posano da modelli; Nevio, Plauto, Terenzio per non citare che i migliori sono i copisti. Nevio è il più [p. 316 modifica]originale, Plauto ha maggior vena, Terenzio miglior sentimento nella forma. Dopo di loro la commedia decade ancora: nè il sentimento nazionale, nè il costume politico, nè il carattere romano, nè l'epoca storica la consentivano. La scuola che generò e educò tutte le arti romane produsse più tardi la tragedia sullo stampo di Euripide, poeta decadente, dal quale gl'imitatori latini nullameno rimasero infinitamente lontani.

Dai romani bisogna venire al rinascimento per trovare ancora la commedia. Sopravvissuta nel popolo fra le atellane, mummificata nella tradizione letteraria ricomparve nelle sacre rappresentazioni per uscire poi dalle chiese e, ricoprendosi colle maschere che sintetizzavano la giovialità e il carattere speciale del popolo, riprendere il corso delle proprie rappresentazioni col nome di commedie dell'arte. Una coscienza nazionale e popolare che avesse bisogno di essa per rappresentare a sè medesima le proprie passioni, una società che volesse riprodursi col doppio senso della critica e dell'arte non v'era; l'individualità italiana forse troppo mista, senz'altra tradizione che il cosmopolitismo, scarsa nella fede religiosa, scema nella coscienza politica, colla vita troppo concentrata e contrastata da non potervisi mai affermare in una forma precisa, non potè ottenere in sè medesima la libertà e la [p. 317 modifica]condensazione necessaria alla commedia. Rappresentarsi significa ripensare, risentire sè medesimo nella individualità singola e collettiva con tanta forza e con tale chiarezza di visione da diventare sdoppiandosi in certo modo il creatore di sè stesso. L'individualità italiana non ebbe questa forza. Il teatro moderno doveva sorgere in Inghilterra, dalla nazione nella quale l'individualismo era il carattere più spiccato della vita e della storia, riassumendo tutte le sue potenze spirituali. Cosi l'Inghilterra non ebbe epica e non avrà mai nè filosofia nè musica. La potenza della sua obiettività così necessaria al teatro la rende inferiore nelle facoltà più alte come la filosofia, che è l'astrazione del pensiero, e la musica suprema impersonalità del sentimento.

La formazione del teatro italiano ebbe dunque due massimi ostacoli; il popolo era troppo basso nella vita, i letterati troppo fuori di essa. Quindi gli eruditi preferirono Terenzio miglior letterato a Plauto maggior artista. Si cominciò a tradurre e a rappresentare, le accademie pullularono. A Ferrara dove il romanzo cavalleresco amalgamandosi coll'erudizione classica trovò la sua vera forma, dalla mistura di Plauto e Terenzio con pochi elementi nazionali nacque la commedia italiana. D'entrambi fu padre il maggior poeta del secolo Lodovico Ariosto. [p. 318 modifica]

Ma se nel Bibbiena, nel Lasca, nel Berni il Decamerone riverberava una certa vita licenziosa e buffonesca da potere qualche volta simulare la vita comica, nelle commedie dell'Ariosto vissuto sempre fuori di tale ambiente in un mondo tutto pieno di erudizione, l'imitazione classica soffoca ogni spontaneità esaurendo l'azione in un puro gioco meccanico. Basti per esempio paragonare il suo Negromante col prete di Varlungo o col frate Cipolla del Boccaccio. La sua Cassaria che fece urlare al miracolo e i Suppositi sono rifazioni di Terenzio e di Plauto; migliore assai la Scolastica di contenuto e più agile nella forma, e nullameno pittura di superficie, rappresentazione incosciente di gente senza coscienza.

La Calandria che oscurò la fama dell'Ariosto, ricopiata dai Menecmi di Plauto non vi aggiunse di proprio che l'oscenità negli equivoci entro una forma esteriormente nuova, con un dialogo abbastanza vivo di frase per quanto strascicato nella forma. La sua maggiore originalità nella storia è rimasta la qualità e il grado del suo autore, prima segretario di Leone X poi cardinale di Bibbiena. Dopo di essa la Mandragola del Macchiavelli doveva restare il tipo vero, l'ultimo e unico progresso di quel teatro.

Intorno a questa commedia oggi ancora fioccano [p. 319 modifica]critiche acerbe ed elogi passionati. Alcuni sostenendola come sola gloria del teatro nazionale portano nella sua difesa tutto l'accanimento di un patriottismo agli estremi, altri la denunciano come opera immorale che basterebbe da sola a disonorare l'epoca nella quale fu prodotta e applaudita. Infatti recitata, come tutti sanno, al Vaticano fra un pubblico di cardinali e di dame vi ottenne le più festose accoglienze. Ma tutto ciò non è critica.

Il Macchiavelli s'era già provato prima della Mandragola, che doveva restare la sua migliore opera d'arte, in altra commedia, le Maschere, andata poscia perduta, imitandovi da lungi le Nuvole del gran padre Aristofane.

L'azione della Mandragola che par suggerita da un fatto avvenuto a Firenze, ha luogo nel 1504 ma fu scritta nel 1512 ai giorni meno lieti del Macchiavelli: questa circostanza rivela sempre più l'animo dell'autore, che poteva consolarsi di un insuccesso politico con una commedia. Infatti così accenna nel prologo.

Il fatto si racconta in due parole.

Callimaco giovane fiorentino, vissuto vent'anni a Parigi, sentendovi celebrare la bellezza e la virtù di Lucrezia moglie di Nicia Calfucci è ritornato a Firenze per vederla, e si è innamorato. Non può avvicinare Lucrezia, la sa onesta. Il ma [p. 320 modifica]rito vecchio scemo si danna di non averne figliuoli. Mezzano di questo amore entra un tal Ligurio, scroccone ammesso in casa Calfucci, al quale Callimaco promette danari se riesca a procurargli l'amore di Lucrezia. Il mezzo è questo. Callimaco si finge medico possessore di una ricetta, bevendo la quale Lucrezia resterà incinta, ma l'uomo che l'avvicinerà la prima volta ne morrà. Bisogna dunque persuadere a Lucrezia la pozione e al dottor Nicia di agguantare il primo gaglioffo che passi per strada a notte presso la casa, di bendarlo, d'introdurlo nel letto maritale al buio, e prima che spunti il giorno, sempre bendato, portarlo fuori di casa che non possa mai sapere dove abbia passata la notte e con quale donna.

Si capisce naturalmente che quel gaglioffo vorrà essere lo stesso Callimaco. Nicia acconsente presto, le difficoltà vengono dalla Lucrezia. Allora si mettono in gioco la mamma e il confessore che la persuadono. Si dispone lo stratagemma il quale riesce, gli amanti s'intendono, Nicia non intende, e tutti insieme vanno in chiesa a farsi benedire da frate Tìmoteo che ha procurato l'adulterio.

Questo l'ordito. L'intenzione e veramente più satirica che comica, la satira ancora più caricatura che satira. L'amore o meglio l'appetito che Callimaco sente di quella donna non è vero, la stessa esagerazione di venire da Parigi a quei te [p. 321 modifica]mpi per vederla e la prontezza dell'incendio al primo incontro, la fraseologia che Callimaco usa col mezzano, descrivendogli la propria passione e nella quale non trova né gli accenti del cuore nè le parole del vizio, lo dimostrano. Callimaco, mal disegnato, non è nè un innamorato nè un libertino: parla, si muove, si agita, sembra appassionato e non lo è; l'espediente al quale ricorre, non urta la sua coscienza d'innamorato e non sorride alla sua depravazione di dissoluto. Egli è vuoto sotto tutto quell'apparato di azione, freddo con tutto quel calore di frasi. L'amore è più contradditorio quando domina una coscienza, il vizio vi è più calmo. Callimaco è un manichino per Macchiavelli che concepisce la propria commedia come una burla, nella quale il vero e solo personaggio è il burlato. La Mandragola non deriva da Plauto o da Terenzio ma dal Boccaccio: è la sceneggiatura di una novella.

Nicia è un imbecille, parente, discendente di Calandrino: Macchiavelli ha presente allo spirito i migliori tipi boccacceschi, qualche cosa dell'antica ed eterna gaiezza fiorentina gli scoppietta nell'anima. Il suo Nicia non è un uomo, ma una caricatura, che egli si diverte a caricare di ridicolo: lo fa ricco perchè possa essere frodato, dottore per farlo asino, marito per farlo cornuto, quasi impotente per farlo padre; ma accarezzando troppo questa figura del [p. 322 modifica]Nicia la mano gli si aggreva. Macchiavelli non è Boccaccio, il critico e il dialettico non sono in lui rattenuti dalla mano dell'artista. Nicia troppo imbecille arriva all'incoscienza e perde ogni interesse: egli, che non saprà mai la burla e non sarà mai al caso di scoprirla, le toglie ogni sapore; viene così a mancare il pericolo che non riesca, il pregio quando sia riuscita. La commedia non rivela nulla dell'intimità fra Nicia e la moglie, che possa fare vivo contrasto colle intenzioni di Callimaco: se Nicia è una caricatura, la quale non ha altra vita se non quella che la burla di cui è oggetto gli comunica, Lucrezia, che vi fa da scopo, non è che un'ombra. Nella sua posizione di donna giovane, bella, ricca, maritata a un vecchio scemo che non può nemmeno renderla madre e la deve tremendamente annoiare coll'assidua presenza e la senile gelosia, a rovescio di Callimaco che è tutto azione, ella non si muove, non parla, non sente, non pensa. È come un fantasma: arriva, si ferma, se ne va dalla scena senza lasciarvi orma e senza avervi fatto nulla. È più che la passività, siamo all'inanità.

Macchiavelli avrebbe potuto scegliere fra i molti caratteri femminili per Lucrezia, ma per torsi d'imbarazzo non gliene ha dato alcuno; persino la femmina è morta in lei è non risorgerà che in un gesto impaziente all'ultimo atto. La resistenza che [p. 323 modifica]ella oppone alla madre, incaricata nel complotto di persuaderle la pozione, non erompe nè dalla coscienza nè dal temperamento: è un'altra forma della passività colla quale Macchiavelli l'ha composta, e Lucrezia resiste meno ancora per scrupolo che per insegnamento religioso. Ella non ha nè cuore, nè sensi, nè testa.

La madre, che nella commedia è del medesimo stampo e della medesima pasta, riesce anche meno disegnata, senz'altro rilievo che quello attribuitole dalla parte. Non sospetta della burla, non s'offende dell'espediente come non si era afflitta della posizione creata alla propria figlia con Nicia. Lucrezia è quindi condotta da lei al confessore per sottoporgli il caso e accettare la di lui decisione.

Qui riappare il solito Macchiavelli. Il mediocre imitatore del Boccaccio scompare, la burla s'interrompe e una figura s'inoltra nella commedia riempiendola. Se Nicia era la preoccupazione artistica del Macchiavelli, Frà Timoteo ne è il proposito critico. Il terzo atto, che si apre con un monologo magistrale, ha subito una scena breve e stupenda. Frà Timoteo cicaleggia con una fante; il dialogo non potrebbe essere più vero, le due figure più vive. Macchiavelli deve averle colte nella vita o sorpreso quel dialogo che ripete. La scena rapida è piena di rivelazioni: i costumi, i tempi, tutto vi [p. 324 modifica]è espresso; quella fante è uno schizzo che farebbe meraviglia ed invidia al Boccaccio, Frà Timoteo una figura disegnata colla verità dei migliori quattrocentisti.

Ma la fante se ne va portando seco la maggiore verità della commedia. Timoteo resta e si muta. Nicia e Ligurio, che arrivano, lo persuadono tosto: il frate non oppone loro nè gli scrupoli della coscienza, nè i riserbi della furberia. Alla prima parola di denaro si abbandona; non è uomo, non è frate: pel primo il mercato sarebbe infame, pel secondo un sacrilegio, per entrambi quella posizione di manutengolo susciterebbe difficoltà di testa se non di cuore, di avarizia se non di paura. La prontezza, la schiettezza ribalda del frate, così ben disegnato nell'apertura dell'atto, non sono umane; non ha un dubbio sulla secretezza dei due compiici, non ha uno scrupolo sull'obbrobrio dell'azione, non un'incertezza riguardo alla docilità delle due donne, non una vera passione di avaro che tremi di commozione in faccia all'oro o qualche altro vizio cui quell'oro sia necessario. Non mercanteggia, non si accanisce sulla somma, non sdrucciola sulla lubricità della scena, non si diverte della scempiaggine di Nicia; è cinico senza l'acredine e la sensualità del cinismo. Perchè acconsente egli? Pel danaro: e perchè vuole il denaro? Non si capisce. Non ha [p. 325 modifica]la passione del proprio convento, non confessa di avere altri vizi. L'ironia troppo viva delle frasi, colle quali persuade Lucrezia, è piuttosto del Macchiavelli che sua. Frà Timoteo in quel lenocinio non si scalda il sangue. Rimasto solo, filosofeggia secondo il costume del Macchiavelli, ma senza rivelare altri lati del proprio carattere.

Anche qui il filosofo e il critico dei Discorsi e del Principe hanno appesantito la mano dell'artista. Frà Timoteo, per farlo troppo privo di senso morale, è rimasto del tutto senza coscienza, caricatura non ritratto di frate. L'odioso in lui toglie il vero. Come frate corrotto ha poca ipocrisia, come uomo ipocrita non abbastanza corruzione, giacchè le sue azioni non hanno scopo e non conducono lui a un risultato. Il denaro guadagnato in quell'impresa per lui non soddisfa alcun bisogno preciso; la gratuità del male ne scema la credibilità e l'importanza.

Macchiavelli ha sfogato in Frà Timoteo il suo odio e il suo disprezzo per il clero, guastando la migliore figura della sua migliore commedia.

Se Nicia gli si sciupa nella esagerazione di una imitazione dal Boccaccio, Frà Timoteo gli si àltera sotto la penna per le considerazioni che dai Discorsi e dal Principe gli ritornano alla memoria; invece di compiacersi in lui come ogni artista si compiace creando, egli si diverte a odiarlo, a re [p. 326 modifica]nderlo più brutto, facendolo diventare impossibile. Il critico insiste dove l'artista doveva appena sfiorare. Per colpire l'istituzione del monachismo sfonda l'uomo nel quale la raffigura.

Il complotto immaginato da Ligurio, vacua figura evidentemente staccata dal teatro romano, trionfa: in una scena abbastanza viva, ma eccessivamente giocosa, Callimaco vestito da gaglioffo e fingendosi mezzo ubbriaco, si fa sorprendere da Nicia, da Ligurio e da Frà Timoteo che lo bendano, lo aggirano, lo trascinano sino al letto di Lucrezia.

La burla è riuscita, ma non produce alcuna impressione; era troppo facile. Callimaco è un falso innamorato, Nicia un'imbecille incredibile, Lucrezia un fantasma, la madre un'ombra, Frà Timoteo una caricatura, Ligurio una maschera: non un uomo o una donna sono vivi nella commedia, la quale rimane una novella. Come tale, coi gusti e coi costumi del tempo, sarebbe divertente in una brigata di artisti e di signori, di gentildonne e di monsignori che non domandano di credere ma di ridere, non vogliono la verità ma la baia; l'esagerazione e l'inverosimiglianza in questo caso sono redente dalla arguzia di un motto, dalla scabrosità di una situazione, dall'arditezza di una proposta. La novella si ode e non si vede. Per essere ricordat [p. 327 modifica]a le basta un razzo finale in una risposta, l'oscenità o la delicatezza di una qualunque soluzione. In una novella non tutti i personaggi hanno obbligo di essere vivi basta che essa sia tale come racconto per il divertimento che dà ascoltandola, per l'impressione che lascia ascoltata. Nella commedia, troppo più alta, non è così. La vita ha da esservi intera e l'azione, svolgendovisi, deve mostrare il fondo dei caratteri che vi agiscono.

Macchiavelli non lo sospetta nemmeno. Poichè l'arguzia boccacciesca del suo carattere e l'acredine satirica del suo spirito avevano bisogno di uno sfogo, scrisse la Mandragola sui modelli d'allora, transigendo fra le novelle del trecento e le commedie romane, mirando solamente a divertirsi e a divertire. Non volle e non fece pittura di società. Solo Frà Timoteo lo trasse più lungi che non avrebbe dovuto andare, irritando tutta la sua irreligione di politico e di uomo; invece di colpire il frate colla invettiva, Macchiavelli lo deformò colla caricatura. Lo scopo per lui era egualmente raggiunto.

Ma l'elegante e briosa agilità dello spirito del Macchiavelli apparisce nel monologo che, trascinato Callimaco in casa di Nicia e quindi interrotta l'azione contro i vecchi precetti rettorici, Frà Timoteo pronuncia raccontando argutamente a sè stesso che cosa faranno quella notte tutti i personaggi di quell'imbroglio. [p. 328 modifica]Era impossibile vincere più bellamente una difficoltà allora invincibile, dicendo con più graziosa mordacità cose più indicibili.

Al mattino per tempissimo Callimaco è cacciato dalla casa di Lucrezia, che si alza assolutamente diversa da come vi si è coricata. Il fantasma, la donna, la femmina che non pensava, non sentiva, ha mutato di colore e di accento: i suoi occhi scintillano forse perchè è anche più pallida, le sue maniere sono brusche, è ancora un po' nervosa. Nicia, che le si accosta tutto ilare, è respinto da un gesto violento di disprezzo che quasi lo rovescia. Qui Macchiavelli è davvero grande artista. La ribellione, l'odio al vecchio rispettato sino allora, che scoppiano improvvisamente, inconsciamente, nel cuore di Lucrezia e si condensano per l'impossibilità di qualunque altra espressione in un accento più stridulo delle solite parole, nell'irritazione irrefrenabile di un gesto, sono uno di quei tratti comici che bastano a stabilire la natura di un ingegno. In Macchiavelli v'era del grande artista malgrado che nessuna delle sue opere sia artisticamente grande.

Finalmente arriva Callimaco, accolto con festa da tutta la famiglia, e si va in chiesa a ringraziare Dio.

Di questa commedia, che Macaulay nel suo Saggio su Macchiavelli è stato può dirsi il primo a circondare di gloria mettendola al di sopra d [p. 329 modifica]i quelle di Goldoni e uguale quasi alle migliori di Molière, si dissero le cose più strane. Siccome Macchiavelli aveva scritto i Discorsi e le Storie, opere gravi, vi si vollero vedere grandi intenzioni politiche e si affermò che la Mandragola era la commedia di una società della quale il Principe era la tragedia. Bella frase, null'altro che frase. La Mandragola non è una commedia nel vero significato di questa parola giacchè vi manca il primissimo elemento dei caratteri, che la sceneggiatura e il dialogo vivissimo non possono sostituire. Nata da una novella, rimane novella, malgrado l'abilità della scena: concepita a burla, arriva alla caricatura senza passare per la satira. Perchè satira fosse, le occorrerebbe quella coscienza che manca nell'autore e negli attori. Recentemente Ruggero Bonghi volle vedervi la condizione e il concetto che allora si aveva della famiglia; ma la società del cinquecento, priva di coscienza politica e licenziosa di costumi, non arrivava a questa empietà morale, o almeno le classi medie cui apparteneva il Macchiavelli e che avrebbe inteso dipingere nella commedia, non erano così. Certamente non vi sono nella Mandragola intenzioni morali malgrado alcune critiche alte e minutissime nel personaggio di Frà Timoteo, ma nessun severo o amaro proposito presiedette alla sua concezione. Essa non è la riflessione d'un grande spirito o l'opera [p. 330 modifica]inconscia del genio che scolpisce sè stesso e il proprio tempo in un'opera d'arte, bensì uno spasso artistico, di una natura artistica tutta piena di qualità contradditorie, la quale non trova nulla, non inventa nulla, nè figure, nè idee, nè forma, ma combina e maneggia con maggiore sicurezza quelle che tutti usano: Una sola cosa è miracolosa nella Mandragola, il dialogo. Giammai commedia o racconto nella letteratura italiana lo ebbero tale; Macchiavelli creatore della prosa ne esaurisce tutti i generi, in tutti egualmente perfetto. Fu la verità del dialogo che fece sembrar viva la commedia, la vivacità delle parole che animò i personaggi. Macchiavelli che scriveva come pensava, senza falsarsi attraverso modelli classici, fece nella propria commedia parlare gli attori come nella vita; ecco il solo miracolo, e non è dei più piccoli.

Ma l'Italia non poteva e non doveva avere teatro. Se la Mandragola fosse stata una vera opera d'arte, la sua vita si sarebbe ripetuta e comunicata ad altre opere; invece rimase sola. I capolavori solitari sono impossibili e inconcepibili. Così quando Machiavelli ritentò la prova nella Clizia abbandonando l'ispirazione del Boccaccio per l'imitazione di Plauto, secondo la tendenza degli eruditi non riuscì che a peggiorare il proprio modello: nell'Andria si limitò a tradurre assai bene Terenzio, ma poco forte nel latino, non l'intese sempre [p. 331 modifica]sicuramente.

Delle altre opere minori del Macchiavelli scritte in quegli stessi anni non è il caso di parlare molto. Nell'Asino d'Oro, inspirato da Apuleio, l'intenzione di satireggiare Firenze s'impaluda nelle solite considerazioni politiche senza trovare un accento di vera satira: la forma è inelegante, il verso slombato. Nei Capitoli il migliore è quello dell'Occasione, il peggiore quello dell'Ambizione, tutti egualmente inquinati di ragionamenti teoretici; invece i suoi Canti Carnascialeschi richiamano involontariamente alla memoria quelli di Lorenzo il Magnifico, per far poi nel confronto ben magra figura. La novella di Belfegor arcidiavolo, nella quale la solita critica volle vedere una satira di Macchiavelli ai tormenti ricevuti dalla moglie, buonissima donna che egli amò sempre, è invece presa dal libro turco dei Quaranta Visiri derivato da fonte araba e questa da indiana, del quale il Macchiavelli ebbe forse conoscenza, almeno oralmente, per mezzo dei mercanti fiorentini allora in gran commercio con Costantinopoli. Macchiavelli stesso aveva colà un nipote; ma la novella non ha che un valore letterario.

Singolare per acume di buon senso è il Dialogo sulla lingua, che se non profetizza tutta la scienza filologica come vorrebbe il Villari, è nullameno la più notevole scrittura di tale argomento per allora.


X. [p. 332 modifica]

La battaglia di Pavia richiamò sulla scena politica Macchiavelli.

Clemente VII, che gli aveva commesso le Storie, era succeduto ad Adriano VI sul trono di Leone X, del quale era stato segretario così accorto e stimato che pareva, secondo il giudizio del Guicciardini, piuttosto guidare il papa che servirlo. La politica era allora intricatissima per opera del papato, che mirando alla propria ricostituzione si mutava di guelfo in ghibellino, tenendo dalla Francia e dall'imperatore, imbrogliando sè medesimo colle pretese dinastiche dei varii papi, ma in fondo seguendo la politica che la sua Storia e il suo istinto gl'imponevano.

Macchiavelli in quel giuoco non aveva compreso nulla. Pieno di tutti gli istinti del risorgimento, che tendeva alla costituzione delle nazionalità esaurendo [p. 333 modifica]le forme feudali colla unità delle monarchie e dell'impero, fuorviato dal sogno di un'Italia libera, non intese la posizione che le faceva la grande contesa della Francia coll'impero e del papato con ambedue. Nè guelfo nè ghibellino non penetrò entro la logica di nessuno dei due partiti. Il movimento del Savonarola, insurrezione guelfa contro il pontefice aiutata dai sentimenti repubblicani del Comune e dal nuovo spirito religioso latente in tutti gli spiriti non gl'inspira che una lettera mezzo satirica, nella quale Savonarola è un furbo impostore che tira a comandare. La seconda calata francese di Luigi XII, che annulla per sempre tutte le speranze del risorgimento italiano mutando Milano e Napoli in una parentesi di forze straniere che soffocano l'Italia, non gl'ispira un lamento, non gli svela il secreto della politica italiana: più tardi nel 1502 a Rouen parlando col cardinale d'Amboise, primo ministro di Luigi XII, per impegnarlo ad estendersi in Italia combattendo il papa, consiglia di piantarvi colonie in Lombardia tramutandone gli abitanti: consiglio di storia antica e di odiosa impossibilità politica. Anche questa volta non s'avvede che il movimento guelfo è favorevole alla Francia, la quale deve secondarlo per poter conquistare. Col permesso di Luigi XII i Borgia opprimono i feudatari della Chiesa per costituirsi uno stato; Machiavelli [p. 334 modifica]inviato da Firenze presso il Valentino, lo vede all'opera, s'entusiasma d'ammirazione, dimentica l'impossibilità della sua impresa che alla morte di Alessandro VI doveva urtare nella politica impersonale del papato, inverte la propria posizione di legato fiorentino per proporre alla Signoria di aiutare il Valentino in una conquista che già la minaccia. E quando Giulio II detronizza, imprigiona Cesare Borgia, Macchiavelli non comprendendo che la Chiesa trionfa sola fra gli Stati italiani del risorgimento attribuisce la catastrofe del duca alla fortuna.

Giulio II prosegue la politica del papato e dei Borgia risuscitando tutti i vecchi diritti della Chiesa; e Macchiavelli non vede in lui che un prete prepotente ed armato, che ogni principe italiano potrebbe rattenere e che il signor Baglioni ha fatto male a non pugnalare immortalandosi. Giulio II stringe la lega di Cambray e prostra Venezia per strapparle l'esarcato di Ravenna; avutolo, si volta con Venezia contro la Francia per conquistare Ferrara, Parma e Piacenza: mutatosi in ghibellino favorisce i Medici contro i guelfi a Firenze, gli Sforza contro i guelfi a Milano e ingannando tutti, forse sè stesso, urla: fuori i barbari!

Macchiavelli non prevede il ritorno dei Medici come non aveva previsto il trionfo di Giulio II [p. 335 modifica]in quella politica prettamente papale. Salito al pontificato Leone X, il primo consiglio ch'egli dà in una lettera al Vettori è di richiamare Luigi XII alla conquista di Milano, ricadendo così fra le due occupazioni spagnuola a Napoli e francese a Milano distruggendo tutta l'opera di Giulio II; e questo per premunirsi contro il pericolo immaginario di una conquista svizzera. Non suppone nemmeno che Leone X debba seguire la politica del suo antecessore complicandola colle aspirazioni regali della propria casa.

Perfino il tentativo del concilio di Pisa contro Giulio II, che in quell'epoca fra Savonarola e Lutero poteva pure ad un pensatore politico ispirare qualche riflessione, non ne suggerisce alcuna degna di un grande ingegno al Macchiavelli; il quale rituffato dalla sua buona sorte nella vita privata, potè scrivendo i Discorsi, il Principe, le Storie, la Mandragola acquistare nella letteratura quella gloria che la politica gli contendeva giustamente. Nessuno ha colto con maggiore profondità e finezza di Giuseppe Ferrari tutti questi errori politici del Macchiavelli.

La battaglia di Pavia dando a Carlo V una supremazia incontestata su tutta l'Europa gli subordinava pure la politica del papato.

Perciò Clemente VII alleatosi per abbassare la Spagna con Francesco I, dopo la prigionia di questo, rimase [p. 336 modifica]solo contro il vincitore irritato. La posizione era terribile; se i pericoli della Riforma non avessero costretto papato ed impero ad allearsi, tutta l'opera di Giulio II andava forse perduta. Il problema politico si avviluppò allora così stranamente che Guicciardini, la miglior testa del secolo, vi si sgomentò. Per resistere all'imperatore si pensò ad una Lega italica contro di lui, aiutata dalla Francia. Clemente VII ne pareva invasato, tutti aderivano, la Francia prometteva; ma l'uno non si fidava dell'altro, nessuno aveva fede in nessuno, tutti trattando fra loro della Lega, per tenersi aperta una porta, ne avvisarono Carlo V. Quindi ebbe luogo la congiura rimasta nella storia col nome del Moroni, che ne fu il mestatore e che consisteva nell'offrire al Marchese di Pescara la corona di Napoli e il grado di generalissimo della Lega. Il Moroni, finissimo diplomatico meglio che grande politico, non ne conchiuse altro che perdervi provvisoriamente la libertà per opera dello stesso Marchese di Pescara, che glie la ridonò morendo. Congiura e lega concepiti come espedienti finirono naturalmente in un aborto.

Il Guicciardini allora Presidente della Romagna coll'incarico di pacificarla, fra le cure del nuovo difficilissimo governo, nel quale mostrò le più eminenti qualità politiche, non solo non perdeva di [p. 337 modifica]vista gli avvenimenti, ma preveduto mirabilmente l'esito della battaglia di Pavia, ne aveva anticipatamente dedotte tutte le conseguenze con tanta singolare nettezza di visione da far prendere i proprii giudizi per profezie.

A lui venne mandato dal papa il Macchiavelli, che recatosi a Roma per ottenere qualche altro sussidio alle storie s'era fatto riprendere dalla smania di azione politica e dalla vecchia utopia della Ordinanza. Sognava già di sollevare il popolo e di lanciarlo armato ed invincibile contro gli eserciti di Carlo V. Il Guicciardini naturalmente ne sorrise: opporre Giovanni dalle Bande Nere con un esercito raccogliticcio, e come raccoglierlo? a Carlo V; un condottiero al padrone della Spagna, dell'Impero, delle Fiandre, di Milano, di Napoli, dell'America, vincitore esasperato della Francia, ecco quanto seppe concepire l'ingegno politico del Macchiavelli. Così discutendo col Guicciardini sulla prigionia di Francesco I, egli sostenne che Carlo V o non l'avrebbe liberato mai, o che Francesco I, sarebbe poi stato fedele alla propria parola e avrebbe rinunziato al ducato di Milano: Guicciardini affermava precisamente il contrario, e la storia gli dette prontamente ragione.

Macchiavelli partì desolato da Faenza, giacchè l'assicurazione datagli dal Guicciardini, che la Romagna, [p. 338 modifica]guerriera d'istinti, era meno che atta per le proprie divisioni di guelfi e ghibellini a dare un esercito, recideva l'ultima ala al suo ultimo sogno. A Firenze si distrasse ancora occupandosi della rappresentazione delle proprie commedie, tenne corrispondenza col Guicciardini, e tanto fece che fallito il disegno dell'Ordinanza e l'altro su Giovanni dalle Bande Nere, ottenne di essere cancelliere e procuratore della commissione nominata dal Consiglio dei Cento per la fortificazione delle mura. Ma anche questa volta, sebbene l'aiutasse Pietro Navarro, il primo ingegnere militare d'allora, la sua febbrile attività non potè vincere il disaccordo degl'ingegneri, nè ottenere danari all'opera. Era destinato che Firenze non riuscirebbe a difendersi se non nell'entusiasmo della libertà e sotto lo scudiscio della disperazione, e che un ingegnere ben altrimenti grande del Macchiavelli, Michelangelo Buonarotti, fortificherebbe le sue mura.

I tempi ingrossavano, Carlo V per impadronirsi dell'Italia doveva inoltrarsi coll'esercito, ma difettava di danaro: Francesco I uscito di prigione contro le supposizioni del Macchiavelli armava; il cardinale Colonna, nimicissimo di Clemente VII, alla testa di 800 cavalieri e di 3000 fanti irrompeva nella città eterna per imprigionarvi il papa, che potè a stento riparare in Castel S. Angelo, [p. 339 modifica]e furioso della fallita impresa saccheggiava chiese e palazzi cardinalizi. Il papa scese a patti, il cardinale abbandonato da Carlo V si ritirò a Grotta Ferrata, chiamandosi tradito. Intanto i soldati di Clemente fuggivano sotto Siena, Frundesberg nel Tirolo alla testa dei lanzichenecchi giurava di venire a Roma per impiccarvi il papa, e il Guicciardini luogotenente generale pontificio non riusciva a persuadere il duca d'Urbino, generale di Clemente VII, a più risoluta azione in tanto frangente. Il papa irresoluto non si decideva nè alla pace nè alla guerra.

Macchiavelli andò due volte al campo della Lega per conto della Signoria, e ne tornò sconfortato: tutto andava a rifascio. Firenze esposta ai primi colpi poteva essere da un giorno all'altro presa e saccheggiata. Intanto gli imperiali comandati dal Borbone, congiuntisi ai lanzichenecchi avanzavano su Bologna: il duca di Ferrara, il grande artigliere d'allora, sempre minacciato dalla politica assorbente del papato li spalleggiava. Firenze abbandonata dal papa, che trattava coll'imperatore, mandava di nuovo Macchiavelli al Guicciardini; il quale non riuscendo a smovere il duca d'Urbino dal proposito timido o traditore di non attaccare gl'imperiali, promise di accorrere al primo pericolo della patria colle genti del papa, anche malgrado [p. 340 modifica]la volontà del duca generale. Ma gl'imperiali presero tumultuando la via di Roma. Allora il papa concluse una tregua col Lannoy, vicerè di Napoli, impegnandosi a reintegrare i Colonna e a ritirare le armi dal Napoletano, lasciando il reame a Carlo V, Milano allo Sforza e pagando 60000 ducati al Borbone, il quale si sarebbe ritirato. Il popolo romano indignato si ribellò: il Borbone, che aveva ordini secreti di procedere, dichiarò insufficienti per il suo esercito i 60000 ducati, e passò il Reno presso Bologna.

Nessuno ci capiva più nulla. Il povero Macchiavelli, vecchio e ammalato, ritornò a Firenze, nella quale il terrore di un assalto e lo sdegno contro il cardinale Passerini, reggente pel papa, erano al colmo. Bastò l'occasione di un tumulto provocato da un soldato perchè tutti si levassero al grido di popolo e libertà. Si dichiararono decaduti i Medici e ripristinata la repubblica. Ma il cardinale Passerini accorse alla riscossa con pochi archibugieri e colle guardie medicee assediando il palazzo; si temeva una strage e non ne fu nulla: tutto parve finito con una promessa di perdono generale e l'elezione di nuova Signoria. Poco dopo arrivò la notizia del sacco di Roma e del papa prigioniero in Castello: allora il tumulto mutandosi in vera rivolta, il cardinale dovette andarsene coi due pupilli, Ippolito [p. 341 modifica]e Alessandro dei Medici, mentre si proclamava la repubblica.

Questa fu per Macchiavelli l'ultima e la maggiore disgrazia. Già repubblicano col Soderini, quindi piaggiatore dei Medici cui dedicava il Principe e le Storie, loro servo fino allora senza prevedere la nuova e suprema rivoluzione repubblicana, fu sospetto a tutti; la sua vita, il suo carattere, la mutabilità delle sue opinioni, tutto lo accusava. Invano oggi il Villari e molti altri vorrebbero difenderlo ripiegandosi sul patriottismo delle sue vaghe aspirazioni a uno stato nazionale, e sulla fatalità che lo aveva costretto a servire casa Medici; il patriottismo necessario d'allora non poteva essere compensato da un patriottismo immaginoso e immaginario come quello del Macchiavelli, che non fece mai nulla nemmeno per esso e lo disdisse troppe volte e non arrivò a dargli mai i contorni di una vera utopia. Firenze non era e non poteva essere l'Italia; l'infedeltà alla repubblica fiorentina non era scusabile con un'aspirazione a una repubblica o a una monarchia italiana. Poi nulla giustificava la servilità del Macchiavelli verso i Medici così nelle Storie, come nel Principe; solo l'egoismo e i bisogni domestici di un letterato di molto ingegno e di poca coscienza potevano spiegarla. E a quei tempi, nei quali fazioni e partiti si combattevano [p. 342 modifica]e si esiliavano ancora a vicenda, la fede alla propria parte era tuttavia abbastanza sentita in tutti. Macchiavelli servì fedelmente tutti i padroni, ma non serbò fede a nessun principio. La mollezza del suo carattere e lo scetticismo del suo spirito come gli scemarono il valore politico nell'azione, così gli tolsero quello morale nella vita. I repubblicani di quest'ultima repubblica, nata in tanto difficile ora per morire tragicamente, dovettero guardare con disprezzo questa figura di vecchio impiegato e letterato, che credendosi un gran politico aveva sempre dato a tutti consigli non mai seguiti da alcuno e che nelle crisi dolorose della patria aveva sempre separato il proprio dal suo interesse. La congiura del Boscoli, nella quale egli aveva fatto così magra figura, non poteva essere dimenticata: il rifiuto opposto alla congiura Soderini doveva essere noto.

I duecento fiorini delle Storie a lui commesse dal Medici e nelle quali i Medici erano falsati ed elogiati, saranno sembrati a più d'uno di coloro, che si disponevano a morire per Firenze repubblicana, come il prezzo di un tradimento, il danaro di Giuda.

E la coscienza del proprio torto oppresse il Macchiavelli. Scartato dalla nuova commissione per la difesa delle mura, dimenticato nella nomina del nuovo segretario dei Dieci della Guerra e che fu [p. 343 modifica]certo Tarugi, un ignoto rimasto ignoto, mentre egli si era illustrato nel medesimo ufficio, non protestò. Egli, lo scrittore più eloquente del secolo, il letterato che avrebbe bastato alla sua gloria, non scrisse su ciò una sola pagina, grido sublime di dolore e di amore di patria. Il suo patriottismo soccombette. Era quello il grande momento per una grande anima. La tragedia che minaccia ogni uomo nella vita lo aveva finalmente colto: la patria risorta per morire diffidava di lui, non voleva morire con lui. Nessun'offesa, nessun maggior dolore per una coscienza di cittadino e di poeta. Respinto dalle cariche, isolato dalla diffidenza, colpito dai dispregi, vecchio, povero, solo con se stesso, col suo ingegno, col suo cuore, colla sua anima, Macchiavelli avrebbe potuto, sentendosi grande e calunniato, scrivere il proprio testamento politico e dettare così l'epitaffio per la tomba che aspettava la repubblica fiorentina.

Non lo fece, non lo poteva fare. Egli era una piccola anima in un grande ingegno.

Quando, morta la repubblica, Buonarotti si trovò costretto a servire i Medici, si nascose per lungo tempo a tutti nella loro cappella e scolpì sulle loro tombe le più tragiche figure, che vanti ancora la storia dell'arte: così sfogò il proprio dolore, e interrogato lo spiegò in una quartina, che Dante [p. 344 modifica]invidierebbe e vale sola tutta l'opera letteraria del Macchiavelli.

Ma Buonarotti era un genio, e il genio deve avere l'intelletto pari al cuore.

Dopo quest'ultimo sfregio, sciaguratamente meritato, Macchiavelli ammalò e morì con tutti i conforti della religione. Fu suprema ipocrisia, suprema indifferenza, che consente nel costume universale, o una vera conversione? Forse un po' di tutto, perchè le opinioni del suo ingegno non bastarono forse alla debolezza del suo carattere nell'ora estrema.

Sepolto in Santa Croce nella sua cappella gentilizia, non ebbe pompa di funerali nè rimpianto di popolo. La sua famiglia si estinse presto; la cappella, passata in altre mani, cadde in tale abbandono che non si potè più indicare il luogo preciso della sua sepoltura. Quasi tre secoli dopo per opera di lord Cowper, auspice Leopoldo, si fece la prima grande edizione delle sue opere, e gli si eresse nella stessa cappella un piccolo monumento, sul quale il dottor Ferroni pose l'ampollosa iscrizione:

TANTO NOMINI NULLUM PAR ELOGIUM.

E Dante e Buonarotti e Galileo, che gli dormono accanto, dottor Ferroni?!

Poichè di ogni uomo, per quanto grande, una parte muore, quale è dunque nell'opera del Ma [p. 345 modifica]cchiavelli quella che rimane? I suoi Discorsi hanno davvero fondato la scienza storica, il suo Principe stabilito la scienza politica, le sue Storie iniziato il metodo storico? Lo si è affermato molte volte, ma nessuno de' suoi più ferventi ammiratori è riuscito a provarlo.

Come reazione al medioevale concetto mistico della vita i suoi Discorsi non sono che una negazione; all'ipotesi della legge divina Macchiavelli sostituisce come verità suprema la realtà effimera del fenomeno. La sua teoria è quindi più angusta e più falsa della precedente. La sua storia non ha perciò altra legge che la gravità di un fatto, il quale ne sposta o ne schiaccia un altro. La sua legislazione prescinde dal diritto, il suo Principe è la soppressione di ogni governo nella unificazione personale di tutti i poteri. La sola idea che in esso valga è la negazione della moralità privata nell'azione storica ma negazione impotente che non si converte in affermazione trovando quale possa essere la moralità della storia. Macchiavelli non sente che l'umanità non può essere diversa dall'uomo; se l'individuo ha una morale, l'umanità deve averne un'altra, e ambedue sono egualmente vere. Il loro antagonismo apparente nella vita dovrà conciliarsi nella storia.

Macchiavelli sacrificò egli le proprie teorie [p. 346 modifica]all'ideale della patria? La sua utopia, se pure può chiamarsi così, fu in lui coscienza di filosofo o di uomo? Come coscienza filosofica sarebbe stata sistematica, come coscienza umana sarebbe stata operosa; Macchiavelli la contradisse in tutte le opere e la dimenticò sempre nell'azione. Una utopia e un disegno, la sua fu un'aspirazione. Desiderare uno stato nazionale non è concepirlo; concepirlo allora sarebbe stato trovare una combinazione inattuabile ma organica, nella quale tutti gli Stati di allora o si fondessero o si confederassero in un corpo, mettendo in questo corpo una coscienza, tracciando una legislazione, coordinando le varietà nell'unità, le differenze nelle funzioni, le funzioni nei poteri. Macchiavelli espresse l'aspirazione che era in tutti gli spiriti colti di allora, potè appassionarvisi meditando o fantasticando, ma non passò mai dal sogno al disegno, dal disegno allo studio dei mezzi.

Le sue Storie non afferrarono nè il concetto del medio-evo nè quello del rinascimento. Il medio-evo per raccontarlo bisognava intenderlo, e Macchiavelli lo sopprime. Il medio-evo è il mondo delle invasioni sul mondo romano, col cristianesimo sul paganesimo, colla scolastica sopra Aristotile, col papato sopra la chiesa, coll'impero sopra la feudalità, colla nuova individualità sopra l'antica, con un'altra unità nella storia, un altro principio e un [p. 347 modifica]altro fine in entrambe. Il mondo antico ebbe la città, il mondo nuovo ha il comune: il mondo antico si basava sulla servitù, il mondo nuovo sulla libertà; in questo l'uguaglianza spirituale preparava tutte le altre, in quello le differenze storiche distrussero tutte le forme nelle quali si erano realizzate. Il mondo barbaro si riunisce nelle invasioni, il mondo cristiano nelle crociate. Macchiavelli, che cita una volta sola Dante, non sospettò il medio-evo. Le sue Storie sono una successione di drammi, nei quali la politica è al tempo stesso anima e decorazione.

Il risorgimento è un fiore che spunta sopra un albero che muore.

Il mondo di S. Tommaso e di Dante, di Gregorio VII e di Barbarossa, delle crociate e delle invasioni, della fede e delle barbarie, dei santi e dei vassalli, dei signori e dei comuni, dell'imperatore e del papa scompare; l'uomo moderno libero nella coscienza, nella vita e nella storia s'inoltra. Tutto rovina intorno a lui; Copernico gli dà il cielo, Colombo l'America, Lutero la libertà, Guttemberg la cultura universale colla stampa, Cesalpino il moto nel sangue, frate Bacone l'uguaglianza militare colla polvere, gli artisti il senso della vita, gli eruditi i secreti della tradizione, gli scienziati la padronanza della natura, i filosofi la sovranità [p. 348 modifica]del pensiero. Nel risorgimento la prima tendenza politica è la nazionalità, conseguenza della individualità: si costituiscono i regni sulla base delle razze, nell'orbita del possesso storico. Per arrivare all'unità bisogna quindi passare per l'unificazione, che avrà un processo dispotico. Ecco la necessità che uccide i comuni. Il dispotismo per sopprimere tutti gli antagonismi deve divorare tutte le Signorie: la sua livellazione produrrà l'eguaglianza, e la sua pressione fortificherà la coscienza. L'Italia, che ha troppe e troppo antiche differenze, non potrà costituirsi in uno Stato solo: le piccole Signorie si fonderanno in reami e ducati; lo straniero è necessario a quest'opera. La contesa fra papato ed impero è esaurita, il papato dovrà battersi colla Riforma, più tardi unito ad essa contro la scienza.

L'Italia nel risorgimento non è conquistata come credette il Macchiavelli; non è lo straniero che la soggioga, ma italiani che combattono contro italiani. I minimi governi scompaiono, e siamo allo stato col sovrano e col suddito.

L'Italia allora non era guerriera ma artistica, commerciale, industriale, erudita; la sua coscienza era fiorentina, veneziana, milanese, genovese, napoletana, non italiana; il suo ideale non poteva essere diverso. Solo nell'orbita di un maggiore Stato, nell'uguaglianza sotto un re potevano fondersi queste [p. 349 modifica]diverse coscienze in una sola. Le ultime passioni d'allora erano medioevali, libertà di comune, odio di fazione. L'Italia, i cui eserciti si battevano così male, aveva dei partigiani che si battevano fin troppo bene; tutta piena di eccellenti capitani, aveva dei venturieri e non una milizia.

Il risorgimento sfuggì al Macchiavelli. Predilesse la repubblica quando diventava impossibile, credè al Valentino che era l'ultima espressione del principe fuso col condottiero, sognò la milizia quando cessava la patria, lo Stato mentre mancava ancora la nazione, offrì ai Governi futuri la politica dei Governi passati, non s'accorse che la religione stava per rinnovarsi, il diritto per prodursi, la libertà per regnare. E il suo regno dovendo essere nella coscienza, la libertà religiosa era la prima.

Come i suoi Discorsi sono senza l'idea del progresso, così il suo Principe è senza quella della morale, e le sue Storie senza l'altra del diritto, e la sua arte senza passione.

Macchiavelli nel proprio secolo è uno straniero; se ne ha i vizi, non ne ha le idee e non ne sente le passioni. Ha l'istinto del nuovo, ma non lo afferra e si avviluppa in contraddizioni insolubili; chiarissimo nella visione dei fatti, l'intorbida appena ne cerca la ragione: realista, è un sognatore. Non comprende e nessuno lo comprende, vuole agire e non [p. 350 modifica]può, insegnare e non gli si bada; consiglia il dispotismo ed è un democratico, adora il proprio comune e vorrebbe una patria italiana, odia Roma e non si volge verso Lutero: è un artista e non parla mai d'arte, è un indipendente sempre in cerca d'un padrone, un libero che ignora la libertà.

Così diventa a sè stesso e agli altri inesplicabile, ma la sua spiegazione sta nel suo secolo, nel quale muore tutto il medioevo e nasce il mondo moderno. Egli vi è il vertice di tutte le contraddizioni, la vittima di tutti gli antagonismi. La sua coscienza era solo nell'intelletto, la sua infallibilità nell'istinto; vuole l'impossibile e l'impossibile diventa la verità del futuro; si stima un politico e rimane un letterato. A Boccaccio, a Petrarca non era succeduto altrimenti; divennero celebri per le opere cui davano meno importanza, il Canzoniere e il Decamerone. Del resto questa incoscienza è la caratteristica del tempo. Uno solo, il più grande fra i grandi d'allora, sente il vuoto e la morte intorno a sè: la sua anima è tragica, Michelangelo Buonarotti. La diversità delle sue attitudini e la varietà delle sue opere non lo distraggono come Leonardo, la bellezza non lo appaga come Raffaello, la ricchezza non lo soddisfa, la gloria non lo consola. In un secolo dissoluto è casto, in un'epoca irreligiosa sente sopratutto la religione; ha [p. 351 modifica]tutte le fierezze di un cittadino nella dignità dell'uomo. Rimane scapolo, non lascia figli.

Come Dante, il suo grande antecessore, sovrasta al medio-evo, Michelangelo domina il risorgimento; entrambi tragici ma sereni, riassumendo il loro tempo, sono universali.

Il cinquecento, che pare tutto corruzione, ha pure una grande sanità nel popolo, che Michelangelo rappresenta: ecco l'avvenire.

La generazione che sta per sorgere avrà tutta la coscienza che manca a quella che tramonta; Campanella, Telesio, Bruno, Tasso, Sarpi, Galileo, filosofi, scienziati, storici, poeti, tutti diventeranno martiri nella coscienza e per la coscienza. Tragedia e carnevale sono finiti, comincia il dramma. La vita diventa una conquista del mondo interiore ed esteriore. La Mandragola e il Principe non si capiscono più; alla delicatezza della forma è succeduta quella del sentimento.

L'indagine si sostituisce alla ipotesi, la prova alla autorità; il papato, che aveva accettato la dedica dei libri di Copernico e di Macchiavelli, processa Galileo, pugnala Sarpi, imprigiona Campanella, brucia Bruno. Le corti respingono Tasso, il grande poeta che muta l'eroe classico e il cavaliere romanzesco nel gentiluomo moderno.

Ma nessuno di questi grandi scritt [p. 352 modifica]ori, nemmeno il Galileo, supera il Macchiavelli nella prosa. Quasi sempre più fluido, spesso più limpido del Macchiavelli non ne ha l'eloquenza, il rilievo, la sicurezza dei moti bruschi ed improvvisi. La prosa del segretario fiorentino considerata nel suo tempo è un miracolo di potenza e di originalità. Non vi si sentono influssi latini nè contorsioni scolastiche, tutto vi è vero, tutto vi è fuso; ha la bellezza greca alla quale non occorre la grazia e che ignora gli ornamenti. Pensiero e parola, frase e periodo, tutto è colato in un solo getto: l'argomento, che vi si svolge, l'avviluppa, la conduce seco, l'anima e n'è animato. Il colore viene alle parole dalle cose, la sonorità vi è ritmata sul sentimento senza che una volontà straniera o un gusto posteriore l'àlteri per abbellirla.

Macchiavelli, che non era un letterato nel senso attribuito allora a questa parola, e che credendosi un politico non scriveva per scrivere ma per esprimere il proprio pensiero reso lucido dall'evidenza della percezione artistica e dalla sicurezza di una dialettica che nessun dubbio filosofico inceppava, trova senza cercarla, come doveva fatalmente accadere, la prosa italiana. Se fosse stato più artista, forse non avrebbe saputo sottrarsi al gusto dell'epoca; se fosse stato un filosofo o un vero politico, le difficoltà della materia gli avrebber [p. 353 modifica]o disturbata l'armonia della forma. L'entusiasmo col quale si obliava nelle proprie teorie e la passione che metteva nei fatti loro favorevoli, erano la sua coscienza e la sua verità di scrittore, giacchè senza l'una e senza l'altra non si può esserlo.

Macchiavelli si è contradetto spesso, ma non ha mentito mai a sè medesimo; nessuno fu meno macchiavellico di lui.

La sua prosa è uno specchio, il quale riflette tutto il suo pensiero con tale nettezza che a nessuno può venir in testa di credere che fra quella e questo l'ipocrisia abbia calato i proprii veli.

Che se questa gloria di aver fondato e perfezionato nel medesimo tempo la prosa italiana paresse troppo scarsa agli ammiratori del Macchiavelli, la gloria di Dante fondatore della poesia non dovrebbe sembrar loro molto maggiore, giacchè fra prosa e poesia la differenza non è poi grande quanto il volgo immagina, essendo entrambe egualmente necessarie alla vita del pensiero nazionale. E alla prosa solo Macchiavelli deve la popolarità delle sue sentenze, che luoghi comuni al suo tempo la coscienza non potè poi ratificare e nullameno lette una volta non uscirono più dalla memoria nemmeno di coloro che le respingevano dall'intelletto. Questa immortalità della bellezza se non vale quella della verità, non è seconda a nessun'altra, e Macchiavelli [p. 354 modifica]smentito dalla storia, abbattuto dalla scienza, misurato dalla critica, non più temuto o vagheggiato dalla coscienza moderna, può rimaner calmo nella sicurezza dalla propria gloria, poichè fino a quando in Italia si pensi e si scriva la mente di tutti ricorrerà involontariamente alle sue opere, invidiandone quella bellezza d'espressione, nella quale sola il pensiero trova la coscienza di sè medesimo e l'immortalità.