I giuochi della vita/Per riflesso

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Per riflesso

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Freddo

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PER RIFLESSO.

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Da lunghi anni nessun fatto interessante turbava la pace dello stazzo1 di Larentu Verre, quando accadde un avvenimento straordinario.

Era una giornata calda di ottobre. Le donne, Coanna la vecchia serva e Millèna la giovane padrona, facevano il pane; zio Larentu era appena rientrato dai campi e se ne stava ritto vicino alla porta spalancata, accomodando la correggia di un fucile.

— Io ho fame, — diceva alla giovane moglie, mentre stava tutto intento al suo lavoro. — Cosa mi daresti, Millè?

— Cosa? — domandò Millèna, volgendosi alla domestica. [p. 4 modifica]

Le due donne si guardarono bene in viso, interrogandosi a vicenda; poi Coanna si alzò e disse gravemente:

— Vorresti un pane col lardo?

— Benissimo! — esclamò il padrone. Allora zia Coanna tagliò una fetta di lardo sull’asse che serviva per preparare il pane, e ne fece tanti pezzettini che dispose sopra un pane crudo, largo e rotondo; poi mise il pane a cuocere dentro il forno.

E serva e padrona stettero attente, col volto curvato sulla bocca del forno, premurose che la cosa riuscisse bene.

Ma da qualche minuto Larentu Verre aveva dimenticato il suo appetito, e trascurato il suo fucile, e guardava fuor della porta, lontano, con la stessa attenzione con cui le donne guardavano dentro il forno. Ad un tratto gridò:

— Coanna! Vieni a vedere una cosa!

La vecchia gli fu tosto vicina.

— M’ingannano gli occhi? — chiese il padrone.

— Gli occhi non t’ingannano.

— Viene qui?

— Qui viene. Va e nasconditi; resto io! — disse fieramente la donna.

— Io non devo nascondermi! — gridò non [p. 5 modifica]meno fieramente il padrone. — Nasconditi tu, se vuoi!

— Non c’è ragione perchè io debba nascondermi, Larentu Verre!

— E neppur io!

Intanto Millèna aveva ritirato il pane col lardo sull’orlo del forno, e dopo averci soffiato sopra per toglier la cenere, veniva anche essa a vedere.

— Cosa è? chi è? — domandò, guardando fuori. E tosto si turbò.

Vedeva una donna e un fanciullo venire alla volta dello stazzo, attraverso il sentiero tracciato tra il verde tenero della pianura: la donna indossava un costume povero, di panno scuro, il fanciullo un modesto vestitino di fustagno.

Millèna riconobbe tosto nella donna una povera parente di suo marito, che undici o dodici anni prima era stata serva nello stazzo, e aveva avuto un figlio da Larentu Verre. Tutti sapevano che solo per le istigazioni e i pettegolezzi di zia Coanna, che da quarant’anni dominava nello stazzo, il padrone, non più giovane, non aveva sposato Andreana Verre. E pei maneggi di zia Coanna, egli aveva invece tolto in moglie una parente della vecchia serva, di vent’anni più giovane di lui. [p. 6 modifica]

Dopo le loro nozze, Millèna non aveva mai veduto Andreana nello stazzo, nè si era accorta che il marito ricordasse la donna e il fanciullo che ora venivano, quieti e composti, attraverso il sentiero soleggiato.

— Perchè viene? Cosa vuole colei? Vattene, Larentu Verre, va’ e nasconditi: resto io, va’! Viene certamente a chiederti del danaro! — borbottava la vecchia serva.

— Dio mio, Gesù mio, Dio mio.... — diceva timidamente Millèna, sospirando.

Larentu si volse: guardò il viso infantile di sua moglie, guardò il volto bianco e rugoso di zia Coanna; poi si mise a ridere, ma tosto parve pentirsi di aver riso, e disse rudemente:

— Tornate al vostro lavoro, donne!

Millèna tornò subito verso il forno, ma zia Coanna non si mosse.

— Va là, vecchia, fa il fatto tuo!

— Larentu Verre!

— Va là, fa il fatto tuo! Saprò arrangiarmi da me! Va!

La vecchia s’allontanò a malincuore; ma pur stando in fondo alla cucina guardava attraverso la porta, e borbottava.

— Non vuoi dunque mangiare? — domandò Millèna a suo marito. [p. 7 modifica]

Zio Larentu non rispose. Egli fingeva di accomodare ancora la correggia del fucile, dandosi molto da fare; però guardava ogni tanto fuori, e provava una vaga inquietudine, o meglio una collera sorda e segreta.

— So perchè quella donna e quel fanciullo vengono, — pensava, annodando dispettosamente la correggia. — Ora cominciano a rompermi davvero le scatole. Ieri l’altro è stato il maestro, il quale mi ha fatto sapere che quel ragazzo è il primo della scuola, e che io devo mandarlo a studiare. Poi anche il parroco. Vadano al diavolo tutti! Ma che lo mettano a lavorar la terra o lo facciano studiare a loro spese! E quella sfacciata che osa venir qui; ma guarda! Ebbene, che venga! La piglio a calci!

Eppure, nonostante il suo coraggioso proposito, egli sentiva una strana trepidanza, non per sè, ma per sua moglie e per Coanna. Aveva paura della serva e vergogna della moglie, della quale egli amava la giovinezza e la bontà.

— Ebbene, che vengano! Calci quanti ne vogliono! — ripeteva fra sè, pensando ad Andreana ed a quel fanciullo che egli non amava: ma intanto avrebbe voluto andare loro [p. 8 modifica]incontro e pregarli di non avanzare. Per un momento sperò che la donna e il ragazzo passassero dritti davanti allo stazzo, ma quando li vide vicini e diretti alla sua porta egli si scostò, appese il fucile al solito posto, poi si avviò per uscire.

— Fa quell’altra bestialità, — disse zia Coanna con disprezzo.

Egli si sentì inchiodato sul limitare. “Quei due„ s’avanzavano; eccoli presso la siepe del cortile, eccoli davanti la porta. Dietro la siepe i cani abbaiavano forte.

— Ave Maria, — salutò umilmente la donna, sollevando verso Larentu i suoi limpidi occhioni.

Egli non rispose, ma quasi istintivamente si scostò per lasciar passare i visitatori.

Andreana non esitò un minuto ed entrò a viso alto in quella casa donde era uscita disonorata. Ella veniva per chiedere l’avvenire di suo figlio e sentiva un coraggio da leonessa. Ma il fanciullo guardò, coi suoi grandi occhi color nocciola, limpidi e un po’ spauriti, quell’uomo piccolino, rossigno, dal viso malevolo, che con la sua sopragiacca di pelo rassomigliava ad una volpe maligna, e arrossì.

Nonostante tutto il suo ardire, sulle prime [p. 9 modifica]Andreana non vide nulla, e dopo aver salutato tacque, confusa e commossa.

Ma a poco a poco riprese coraggio e si guardò attorno. La cucina era ben sempre la stessa, intonacata con terra gialla, e quasi a metà occupata dal forno: nell’angolo dietro la porta pendeva sempre il fucile; un po’ più in là stava attaccata ad un chiodo una gonna d’orbace della vecchia serva, vicino alla gonna un tagliere di legno con l’incavo per metterci il sale. Ecco, il focolare di granito era sempre nel centro della cucina; attraverso il vetro sporco della finestra si scorgeva uno dei pochi soveri che sorgevano per la pianura. I cani abbaiavano sempre. Ah, ecco, ella ricordava uno per uno i vecchi cani dello stazzo: quello che nell’abbaiare sembrava un fanciullo rauco piangente, era Maccioni, il cane rosso favorito di Larentu. Ah, le donne facevano il pane? Ella conosceva gli arnesi che adoperavano; solo una pala di legno bianco era nuova. E zia Coanna era sempre la stessa, la vecchia strega, con gli occhietti di faina e le mani adunche, gialle come zampe d’astore. Due persone sole erano nuove per Andreana, in quell’ambiente conosciuto: il piccolo Andrea sedutole accanto, e Millèna seduta davanti al [p. 10 modifica]forno. E sebbene il piccolo Andrea e Millèna, rossi e confusi, tenessero gli occhi bassi, erano le sole persone che davano soggezione alla madre coraggiosa.

Zio Larentu andava di qua e di là, come cercando qualche cosa che non rinveniva: e dovunque guardava vedeva due grandi occhi limpidi, color nocciola, che lo fissavano spauriti. Ad un tratto però incontrò davvero i piccoli occhi di zia Coanna e gli sembrò di scoppiare fra sè in una risata.

— Ebbene, — pensò, — cosa ti accade, Larentu Verre? Pigliali a calci, mandali via!

Si fermò ritto davanti alla donna e al fanciullo; incrociò le mani sulla schiena, e domandò con ironia:

— Ebbene, cosa significa questa visita?

— Sono venuta.... Sono venuta....

— Bene, perchè sei venuta? Se hai da dirmi qualche cosa in segreto andiamo là dentro; spicciati perchè ho da fare!

Ella arrossì, e rispose con una certa fierezza:

— Non è un segreto. Anzi ho piacere che vi siano le donne, e desidero rivolgermi a tutti voi, anche a zia Coanna, a tutti: vi prego di rimaner tutti. [p. 11 modifica]

Zia Coanna parve alquanto rabbonita, ma stette all’erta, vigilando sul padrone.

Egli prese uno sgabello e sedette rassegnato. Gli pareva di essersi comportato con disinvoltura, ma anch’egli, come Andreana, aveva soggezione di Millèna e del piccolo Andrea, sebbene Millèna ed il piccolo Andrea non osassero neppure sollevare la testa.

— Ecco, — cominciò Andreana, con voce commossa, — il maestro di scuola te n’ha già parlato, Larentu Verre. Questo ragazzo è studioso, ha fatto tutte le scuole, ed è riuscito il primo. Egli dice che vuol diventare un professore (il fanciullo arrossì di nuovo) ma è povero e non può studiare. Molte persone allora m’hanno detto: Ebbene, perchè non ne parli con Larentu Verre? Egli è ricco, non ha figliuoli, e fa tante elemosine all’anno che con esse potrebbero vivere sette famiglie. Perché non potrebbe mandare questo ragazzo a studiare?

— Eh, — proruppe Larentu, — perchè queste persone che sanno dare questi consigli non si rivolgono a me?

— Il maestro e il parroco, però, te ne hanno parlato....

— Ah, è vero! — egli disse, ricordandosi. [p. 12 modifica]

La donna continuò a parlare, umile e rispettosa, senza mai ricordare a Larentu che egli era il padre del fanciullo, ma accennando spesso alla loro parentela.

Il piccolo Andrea ascoltava, e non perdeva una parola di quanto diceva sua madre e di quanto rispondeva “quell’uomo„: e ogni parola di “quell’uomo„ gli sembrava beffarda, umiliante, e gli destava in cuore un impeto sdegnoso di vergogna. Gli pareva di esser sospeso fra cielo e terra, sopra un abisso: non vedeva l’ora d’andarsene, di fuggire; e si proponeva di non passar mai più vicino allo stazzo, a costo di far il contadino o il pastore per tutta la vita. Ad un tratto però dimenticò tutta la sua vergogna, e sollevò gli occhi spauriti. La voce di “quell’uomo„ era improvvisamente diventata dolce.

— Bene, bene, vedremo, vedremo, lo manderemo a studiare....

— Sarebbe bene che tu ci pensassi.... prima, — disse Coanna con voce dispettosa.

Andrea volse gli occhi verso la vecchia e provò un impeto di odio: avrebbe voluto gettarsi sopra di lei o graffiarla.

La voce di “quell’uomo„ cambiò ancora di tono; si fece quasi timida e vergognosa: [p. 13 modifica]

— Vedremo, vedremo, ne parleremo ancora in famiglia, e poi ti darò una risposta definitiva: puoi tornare, Andreana Verre.

— Tornerò; quando?

— Quando? Ebbene, domenica mattina.

Andreana e il fanciullo s’alzarono: la speranza brillava negli occhi di entrambi.

Zia Coanna intanto deponeva in un canestro il pane che Millèna estraeva dal forno, e non nascondeva il suo malumore.

— Scusate il disturbo, — disse Andreana congedandosi; — buon giorno e Dio vi guardi.

Millèna, che non aveva aperto bocca, sollevò gli occhi e guardò con tenerezza il fanciullo. Poi fece un gesto alla vecchia serva, ma questa rispose con una smorfia. Però anche zio Larentu capì a volo l’intenzione buona della moglie; si curvò, prese un pane e, secondo l’antico costume, lo porse ad Andreana, come l’avrebbe dato a qualsiasi altro visitatore.

La donna prese e avvolse il pane nel suo grembiale, poi salutò di nuovo e uscì seguita dal figliuolo. I cani abbajarono nuovamente, dietro la siepe del cortile.

— Gettatelo ai cani, quel pane! Non avete visto come faceva le smorfie, quella vecchia strega? — disse il fanciullo. [p. 14 modifica]

— Io non ho veduto nulla, — rispose con serietà la madre, — ma anche se avessi veduto, il pane non lo getterei ai cani, perchè Nostro Signore ha detto di non gettare il pane ai cani.

Andrea alzò le spalle e tacque.

Attraversarono la pianura già verde delle prime erbe d’autunno. Per lungo tratto, dove si stendevano i prati che servivano di pascolo alle greggie ed agli armenti del Verre, non sorgevano che radi soveri secolari, alti, contorti, solitari, smarriti nella quiete del paesaggio lievemente ondulato.

Timi, lentischi e cespugli aromatici profumavano l’aria. In lontananza si scorgevano altri ovili, altri stazzi, una chiesetta bianca, il villaggio bruno, macchie e linee di boschi, strade bianche battute dal sole; poi, in fondo, montagne velate dai vapori azzurri dell’orizzonte.

Numerosi stormi d’uccelli si raccoglievano e cantavano tra i rami dei soveri; e al più piccolo fruscìo volavano via rumorosamente.

— La giovane che cuoceva il pane è moglie di “quell’uomo„? Avete osservato, madre? Taceva sempre e diventava rossa rossa.... — disse ad un tratto il fanciullo. [p. 15 modifica]

— Anche tu non parlavi. Eppure la lingua ce l’hai, e lunga.

— Io avevo vergogna. È stata quella donna, la giovine, che accennò di darci il pane: la vecchia strega non voleva. Deve esser buona, zia Millèna. Sì, dopo tutto è mia zia....

— Sì, deve esser buona: sta zitto, però: ogni piccola macchia porta orecchie.2

— Parlo forse male? Dico solo la verità. C’è forse male a dir la verità? Non è vero che quella vecchia è una strega? Se domenica.... — concluse Andrea minaccioso, — se domenica non ci dicono di sì, sarà colpa della vecchia.... ed io....

— E tu? — chiese la madre, volgendosi a guardarlo.

— Nulla! — egli rispose pronto, e cambiò discorso.

— Sentite, che uccello è questo? Come canta bene! Chiù, chiù, chiù, chiù, chiù, cinque volte, e poi si ferma, poi riprende a cantare cinque chiù ogni volta. Che uccello è?

La madre ascoltò, guardò.

— Forse un merlo.

— No, non è un merlo. [p. 16 modifica]

Camminavano sempre verso il villaggio. Oramai lo stazzo di Larentu Verre era lontano, dietro il sovero verde della spianata, ma Andrea vedeva sempre davanti a sè le figure dei suoi parenti ricchi, il viso rosso di Millèna, il viso pallido e la corta barbetta rossa di “quell’uomo„ dalla sopragiacca di pelo aperta sul giustacuore paesano, e soprattutto l’odiosa faccia di zia Coanna.

I Verre poveri, come li chiamavano per distinguerli dai Verre ricchi, abitavano una casupola fabbricata sopra un’altura rocciosa, circondata da un muricciuolo sul quale sporgeva un pero selvatico. Davanti si stendeva la campagna, sparsa di ovili solitari, fresca e pura dopo le prime pioggie di autunno. Quell’estremo lembo di villaggio, composto di casette brune, pareva disabitato: non si vedeva anima viva. Solo qualche gallina picchiava il becco sui muri e sulle pietre della via scoscesa.

La madre di Andrea salì svelta i gradini rozzamente scavati nella roccia, aprì la porta e rientrò in casa, mentre il fanciullo, rimasto vicino al muro ombreggiato dal pero selvatico, guardava lontano, verso lo stazzo del Verre. Confuse impressioni gli sfioravano l’anima. [p. 17 modifica]Egli non sapeva ancora che zio Larentu era suo padre, ma più volte zia Andreana gli aveva additato il ricco parente che appena si degnava salutarli, e gli aveva detto:

— Egli non ha figli; forse lascerà a te ogni suo avere.

Andrea dunque si considerava già come erede del Verre, ma non amava quel parente superbo.


Andreana, che lavorava per campare la vita, riprese il suo fuso e si mise a filare, ritta sul limitare della porta. Era un po’ triste, ma tranquilla come sempre. Andrea si volse a guardarla. Sua madre, a cui egli rassomigliava, gli piaceva tanto, gli sembrava la più bella donna del villaggio, così alta e dritta, con la pelle color rame e il viso un po’ quadrato; gli pareva rassomigliasse ad una figura egiziana che aveva veduto in un libro del maestro.

— Andrea, — ella gli disse, — ora puoi andare dal maestro e dirgli ciò che tuo zio ha promesso.

Egli si scosse dalla sua contemplazione, si turbò, s’avviò senza parlare. [p. 18 modifica]

Furono per lui giorni indimenticabili: non poteva mangiare, nè bere, nè studiare. Non vedeva l’ora che giungesse la domenica; sperava, ma sempre gli persisteva in fondo alla piccola anima un vago sentimento di umiliazione.

Il venerdì mattina, assai per tempo, mentre guardava dalla piccola finestra senza vetri della stanzetta ove dormiva, Andrea scorse il Verre che veniva a cavallo verso il paese. Molte volte egli aveva veduto così “quell’uomo„ appollajato sull’alta cavalla grigia, col fucile ad armacollo; mai però aveva sentito l’emozione che provò quella mattina. S’immaginò che il Verre venisse da loro, e quando il ricco parente giunse sotto la finestra, egli rattenne il respiro. Ma zio Larentu passò oltre senza fermarsi, senza guardare, come sempre.

Verso il meriggio, però, venne dai Verre poveri il maestro di scuola, il signor Giacinto Tedde, un bel giovine di vent’anni, alto ed elegante, tutto roseo in volto.

Vedendolo salire i gradini della roccia, il piccolo studente arrossì e si sentì battere il cuore, anche perchè provava un vivo sentimento di ammirazione e di rispetto, tanto per [p. 19 modifica]il talento quanto per l’eleganza del giovine maestro.

— Ebbene, buon giorno, che notizie da ieri ad oggi? — chiese il maestro.

— Favorisca, venga su, — disse Andrea, tutto vergognoso per la miseria della sua casetta. Ma il giovine volle stare in cucina, e non si guardò attorno: del che Andrea gli fu grato.

— Nessuna notizia, — disse Andreana, sedendosi su uno sgabello, e curvandosi, con le mani giunte in grembo. — Andrea però mi disse di aver veduto.... “quell’uomo.„ Lo ha veduto, lei? Non è vero, Andrea?

— Sì, — rispose con un soffio il fanciullo.

— Bene! — esclamò il maestro; poi sorrise come fra sè, e diede la gran notizia: — Sì, quell’uomo è stato da me, e mi disse che acconsente....

— Ah!

— Ah! — fecero madre e figlio.

— Sì, acconsente. Ma ascoltatemi bene. — I due poveretti ascoltavano con l’anima sospesa. — Pare ci sia stato consiglio di famiglia. La serva, mi pare si chiami zia Coanna.... — Sì, così.

— Ebbene, zia Coanna pare abbia fatto del [p. 20 modifica]chiasso. Egli era ben disposto fin dall’altro giorno, ma la serva, appena usciti voi, cominciò a gridare, a dire che era il primo passo, e che Andrea finirebbe col diventare padrone di tutto. — Il padrone sono io, — disse Larentu, — e appunto perchè sono il padrone voglio fare questa buona opera. — E l’altra a gridare, a opporsi. E avrebbe finito col dissuaderlo, senza l’intervento della moglie.

— Millèna! — disse Andreana.

— Giusto, Millèna o Maddalena, non so; deve essere una giovine molto buona e divota....

— Ah, sì, molto divota....

— Ebbene è intervenuta lei, come dicevo.

— Ella desidera grandemente un figliuolo, — mi disse Larentu Verre, — ed è convinta che Dio non glielo abbia concesso perchè.... Insomma disse al marito: fa studiare il figlio di Andreana Verre. Forse il Signore, dopo quest’opera buona, ci concederà un bambino. Così Larentu Verre si è deciso, ed è venuto per darmi la risposta, pregandomi di comunicarvela. Però fa un patto. Senti bene, Andrea, e pensa bene se ti conviene. Egli vuole che tu diventi medico.

Un’ombra passò sul viso intento del [p. 21 modifica]ragazzo. La madre lo guardò ansiosa: anche il maestro lo guardò intensamente.

Qual pensiero occulto ferveva in fondo alla piccola mente? Quali progetti fantastici passavano già nella piccola anima?

— Farò quello che egli vorrà, — disse Andrea, senza sollevare gli occhi.

La madre guardò il maestro, sorridendo felice; ma il maestro alzò le sopracciglia e fece cenno di no, rispondendo ad una sua interna domanda.


II.


Gli anni passarono.

Andrea Verre frequentava l’Università, ma da qualche tempo viveva miseramente perché zio Larentu, venuto a conoscere che invece di studiar medicina suo figlio seguiva il corso di belle lettere, gli negava ogni sussidio. Più che studiato, Andrea aveva letto: Nietzsche, Bourget, Shelley, Sant’Agostino, Orazio, un miscuglio di autori terribili e di poeti soavi, le cui dottrine gli fermentavano nella mente come i semi nella terra, quando sta per giungere la primavera. [p. 22 modifica]

Da qualche mese egli vivacchiava dando lezioni di italiano e di.... mandolino, e menava una vita ritirata e triste.

Perchè si era presentato invano al concorso per una borsa di studio, e perchè due giornali avevano rifiutato un suo articolo, gli pareva che tutti i suoi sogni fossero caduti.

Non soffriva per la miseria, ricordando la sua infanzia povera, ma si sentiva improvvisamente piccolo, umile, smarrito nel tumulto della grande città.

Un tempo gli era parso di essere un giovine d’ingegno: aveva cominciato a scrivere un romanzo; aveva fatto molti versi, aveva sognato la fortuna: ora più nulla. S’avviliva, si rimpiccioliva, passava rasente ai muri perché non gli si vedessero le scarpe sdrucite, ma non provava rancore nè vergogna. In fondo sperava che suo padre (oramai sapeva che zio Larentu era suo padre) si rabbonisse e continuasse a sovvenirlo; ma non voleva umiliarsi per il primo. Fu in quel tempo — era ai primi d’inverno — che lesse, tradotto in italiano, Delitto e castigo di Dostojewsky. Cominciò a leggere il terribile romanzo una domenica, una sera tiepida ma annuvolata, nebbiosa e triste. [p. 23 modifica]

Fin dalle prime pagine, provò una impressione profonda; gli parve di riconoscersi in Raskolnikoff. Anch’egli miserabile, vicino a perdere le sue poche lezioni per indecenza di vesti e di scarpe.

Gli sembrò si rassomigliassero anche fisicamente: anch’egli alto, con lineamenti fini, e limpidi occhi castanei: e subito sentì una grande simpatia, una pietà accorata, per l’immortale studente russo. Ma a poco a poco questa impressione dileguò: non rimase in Andrea che la potente suggestione del terribile racconto. Per due ore egli lesse, visse nel libro con l’anima sospesa angosciosamente.

Ogni parola gli si ripercoteva nel cuore, come una voce in luogo deserto, destandovi echi profondi. Solo allorchè cominciò a mancargli la luce grigia del crepuscolo melanconico egli lasciò il volume, si alzò, si scosse. Gli sembrò di ritornare da un mondo lontano, nel quale si dolorasse e si vivesse con terribile potenza: la realtà della sua vita gli apparve in tutta la sua meschinità desolata, ed egli si sentì ancor più piccolo del solito; un piccolo, un meschino essere senza passioni né sogni.

Per qualche momento s’aggirò attorno alla [p. 24 modifica]sua cameretta ordinata e pulita, dove le cornici di alcuni graziosi quadretti, e il mandolino capovolto sopra un quaderno di musica, splendevano tenuemente all’ultimo barlume del crepuscolo.

E pensò alla cameretta di Raskolnikoff; quel buco stretto, polveroso, soffocante, che tanta influenza aveva avuto sul destino dello studente assassino, e si domandò se anche nella sua incolore esistenza non influisse la suggestione della sua cameretta borghesemente pulita e comoda.

Accese il lume, ripigliò la lettura e ritornò in quel mondo lontano, nel quale si viveva con terribile potenza di sentimenti. Ad ogni svolger di pagina gli pareva di provare le angoscie, le ansie, i tragici sogni di Raskolnikoff.

Per lunghe ore visse quella strana vita di riflesso, e dimenticò la realtà. Udiva appena un rumore monotono, continuo, cupo, e solo quando gli mancò il lume, e dovette lasciare il libro, si accorse che pioveva dirottamente. Si coricò, ma appena fu al buio, fra quel fragore melanconico di pioggia dirotta, sentì un gran freddo, e di nuovo fu colto da una cupa tristezza, dalla desolazione della sua vita [p. 25 modifica]meschina. Ripensando alla rassomiglianza che aveva creduto scorgere fra lui e lo studente russo, sorrise con amarezza; no, egli era infinitamente piccolo davanti a quel miserabile eroe. E si fece una domanda strana.

— Sarei capace io di un delitto? — No, — si risposo tosto: ma pensò: — non per onestà, ma per debolezza, per viltà....

Non seppe perchè, una figura odiosa passò nella sua mente confusa, come un fantasma fra la nebbia: zia Coanna, la vecchia serva dello stazzo.

Ma fu un momento: l’impressione del romanzo lo riprese tutto: ricordando il brivido che provava quando doveva interromper la lettura per tagliare i fogli del volume, egli si domandò: — Ma perchè questo libro mi suggestiona tanto? Impressionerà così tutti i lettori appena intelligenti? O io mi trovo in uno stato speciale, forse anormale, per impressionarmi così?

Gli parve di no. Pensò piuttosto alla grande potenza artistica del Dostojewsky: poi ricordò una novellina amorosa, convenzionale, che aveva scritto qualche tempo addietro, e gli sembrò di arrossire.

— Ma, perchè devo arrossire? — si [p. 26 modifica]domandò poi. — Io sono un ragazzo. Che ho provato io, che ho veduto io? Nulla; ho sempre vegetato. Dostojewsky ha sofferto, era epilettico, ed è tutta la sua sofferenza, tutto il fosforo del suo terribile cervello, tutta la febbre della sua esperienza che palpita nelle sue pagine: egli deve aver commesso il delitto di Raskolnikoff, e deve aver provato tutti i tormenti del castigo, per aver potuto fare questo libro. Come non avrebbe scritto il Sepolcro dei vivi senza esserci stato.

Fu in questo momento, appena formulata questa idea, che Andrea Verre ebbe il mostruoso pensiero di commettere un delitto, per studiarne le impressioni e scriverne poi un’opera potente.

La figura di zia Coanna ritornò. L’impressione fu così forte che per qualche istante Andrea dimenticò ogni altra cosa. Il cuore gli pulsò con violenza; fu un momento di ansia e di terrore....

Poi tutto dileguò. Egli rise di sè, si chiamò pazzo, cercò di addormentarsi.

Passò una notte agitata. Sognò, si svegliò, poi sognò ancora, e nel secondo sogno gli pareva di esser sveglio, ricordava il primo sogno, e ricordava il sogno di Raskolnikoff, [p. 27 modifica]quando lo studente assassino piange per pietà del cavallo martoriato.

Cosa strana; in questo secondo sogno pareva ad Andrea di aver deciso il delitto; non solo, ma egli pensava già al modo di rappacificarsi con suo padre per potersi introdurre nello stazzo e assassinare zia Coanna: e intanto analizzava le sue impressioni per riprodurle nelle pagine del suo futuro libro!

Svegliandosi, sentì un’angoscia indefinibile: gli sembrò che qualche cosa di mostruoso pesasse sul suo destino.

Ma intanto, come nel sogno, cercava di analizzare le sue impressioni pensando di servirsene un giorno, quando il suo destino sarebbe compiuto.... Poi rise ancora di sè, riebbe tutta la coscienza della sua nullità.

— Eh, — pensò scoraggiato e stizzito, — sono un pazzo, solo a pensarci. Anche se commettessi un delitto, non saprei mai riprodurre sulla carta le mie impressioni. A che mi servirebbe? Sono un piccolo, e basta.... Sono un essere normale, d’ingegno molto limitato, e il mio destino si compirà semplicemente, senza ardimenti, nè buoni, nè cattivi!

S’alzò, aprì la finestra, tornò alla sua piccola realtà; i mostruosi sogni svanirono. [p. 28 modifica]

In quel giorno e nei seguenti egli proseguì a leggere il romanzo, ma senza affrettarsi, senza più provare le febbrili impressioni della prima notte. Raskolnikoff gli apparve qual era, un paranoico ambizioso e infelice.

Poi restituì il romanzo e a poco a poco le impressioni provate impallidirono e disparvero.

Però, dopo quella lettura, uno strano cambiamento s’avverò in lui. Progetti indistinti, idee di lavoro, improvvise umiliazioni, tenerezze accorate, gli fermentarono nell’anima. La musica umile e tenera del mandolino, certe poesie, certe voci, certe visioni, gli causavano emozioni profonde, talvolta tristi, talvolta liete.

Si isolò ancora di più, cadde in una specie di sogno.

Talvolta, solo nella sua cameretta, mentre al di fuori la città rumoreggiava come un mare mosso dai venti primaverili, egli suonava il mandolino, intendendo l’anima a voci lontane, che lo commovevano. Pensava alla patria lontana, ai suoi verdi paesaggi silenziosi, alla pianura sparsa di ovili e di soveri, alla casetta sulla roccia, ove sua madre filava pregando per lui; ed era allora che provava tenerezze improvvise, umiliazioni e nostalgie da lungo tempo dimenticate. [p. 29 modifica]

La sua miseria, intanto, aumentava. Dovette vender libri, oggetti rimastigli del bel tempo antico, e infine il mandolino.

Le lezioni venivano a mancargli perchè egli s’inselvatichiva, fuggiva i compagni, non frequentava l’Università nè le poche persone che conosceva.

Fu in quel tempo che gli giunse una strana lettera di sua madre, e che egli ripensò con intensità a Radion Raskolnikoff, al cui destino paragonò ancora il suo.

La lettera, scritta malamente da sua madre, diceva così:

Amatissimo figlio,

È da un mese e più che tu mi hai scritto una cartolina, e dopo non ho saputo più nulla di te, la qual cosa mi tiene inquieta e pensierosa; penso che tu sii malato o che ti sia capitata altra disgrazia. Ti mando questo vaglia di lire trenta; ti faccio sapere che sono stata ventidue giorni in casa del signor Tedde, ad assistere la moglie che era in parto.

Tra il compenso e le mancie avute il giorno del battesimo, ho messo su quasi quaranta lire; te ne mando trenta, perchè le altre dieci occorrono a me. Il signor Tedde ha avuto un bambino maschio, bellissimo, che ha tanti [p. 30 modifica]capelli come non ne avevo visto mai in un bambino appena nato.

Lo abbiamo chiamato Nicola Andrea, e il Tedde, che è allegro come un pesce, ti saluta caramente.

Inoltre ti faccio sapere che è morta Millèna Ibbas, la moglie di Larentu Verre. Poveretta, era molto buona, era innocente come una bambina, e tutti, in paese, hanno pianto per la sua morte. Dicono che in questi ultimi tempi, Larentu Verre, che è sempre ubbriaco, la maltrattasse molto, perchè non ha avuto figli. Mi assicurano che Millèna diceva sempre a suo marito: “giacchè vuoi dei figliuoli, perchè non riconosci Andrea? Dio ti ha castigato appunto per il tuo peccato.„ E che egli rispondeva: “Lo riconoscerò quando tu creperai.„ Io credo però che queste sieno dicerie del paese; ad ogni modo forse è meglio per lei che Millèna sia morta. Larentu Verre sembra tuttavia molto triste: l’ho veduto ieri; indossa il cappotto, col cappuccio calato sul viso, e tiene la barba lunga, in segno di lutto. Ti dirò ora come e perché l’ho veduto. È venuto ieri a casa nostra, sull’imbrunire, e mi ha proposto di andar serva nello stazzo, perchè zia Coanna è molto vecchia e non ha più forze. Io non gli nascosi la mia meraviglia e gli dissi che zia Coanna mi avrebbe mangiata viva. Egli allora mi disse: zia Coanna starà a suo posto. Allora io replicai: no, sarebbe uno scandalo se io [p. 31 modifica]venissi ad abitare nello stazzo: la gente è maligna e mormorerebbe. Egli rispose: lascia che la gente mormori; del resto l’acqua non mancherà al molino.

Con queste parole egli voleva dire che avrebbe finito con lo sposarmi.

Allora io gli dissi che avrei scritto a te per sapere il tuo parere.

Egli, alquanto arrabbiato, disse: sta a vedere che quel morto di fame faccia lo schifiltoso!

Io lo pregai di lasciarmi prima pensar bene ai casi miei; e questa mattina mi informai bene da Anna Ibbas, la cugina di Millèna, che frequenta lo stazzo. Le chiesi: per l’anima della povera morta, informami bene che intenzioni ha verso di me Larentu Verre.

Anna mi confidò che Larentu Verre aveva buone intenzioni, e che egli aveva espresso a zia Coanna il desiderio di sposarmi, perché nello stazzo occorre una padrona.

Quella serpe di zia Coanna, mi disse Anna Ibbas, ha protestato ed ha gridato: Sei pazzo! Non occorre sposarla, quella donna! Proponile di venir qui al tuo servizio, chè non le sembrerà neanche vero!

Può darsi che tutto questo sia falso, ma Anna Ibbas è una donna divota, rassomiglia alla morta, e la credo sincera; quindi ho quasi deciso di non accettare la proposta di Larentu Verre. Però desidero prima sapere cosa tu ne pensi. Io non sono più una [p. 32 modifica]ragazzina, e so fare il mio dovere, e del resto zia Coanna, già tanto vecchia, morrà presto, e Larentu finirà col mantenere le sue promesse; per questo non vorrei irritarlo, non per me che ora non conto più, ma per te.„

Andrea non finì di leggere. Torse nervosamente la lettera, e la buttò lontano.

— Vili, vili, vili! — disse a voce alta, stringendo i pugni. — E lei che è così stupida, così santamente stupida! Per me! per me! per me!...

Una convulsione di rancore e d’angoscia disperata, lo assalì: tutto il rancore e l’angoscia che lo rodevano silenziosamente da tanto tempo. Si chiuse nella sua cameretta e si gettò sul letto. Non potè rileggere la lettera; il solo vederla gli causava un senso di umiliante vergogna, simile a quello provato il giorno in cui sua madre era andata a mendicare per lui l’obbrobriosa elemosina di Larentu Verre.

Ora egli rivedeva “quell’uomo„ quale sua madre lo descriveva, col cappuccio calato, la barba rossiccia lunga e rada, le labbra livide e gli occhi arrossati dall’alcool; e ne provava un disgusto fisico: accanto a lui la vecchia serva sogghignava.

Fu allora che, d’un tratto, l’idea di uccidere [p. 33 modifica]zia Coanna gli ritornò nella mente; e gli parve di aver covato quest’idea nelle profondità incoscienti dell’anima, in tutto quel tempo di miseria e di melanconia.


III.


Zia Andreana Verre filava, ritta davanti alla sua porta, sull’alto della piccola roccia. Ella era di molto invecchiata, ma conservava la sua simpatica fisionomia d’egiziana. In quei giorni ella attendeva il ritorno di suo figlio; egli le aveva scrìtto che, anticipando alquanto le vacanze pasquali, sarebbe venuto per passare un mese con lei; ma ella sapeva che Andrea ritornava per impedirle di andare a servire nello stazzo, e che egli forse, per mancanza di mezzi, non sarebbe ripartito mai più.

Ah, ella conosceva bene il carattere fiero di colui che per lei era sempre un fanciullo! Anche se Larentu Verre la sposava, ciò che era improbabilissimo finchè viveva zia Coanna, Andrea avrebbe rifiutato ogni aiuto.

Intanto ella aveva ripulito la casetta, messo sul letto di Andrea la coperta di lana, a [p. 34 modifica]striscie gialle e nere; aveva lavata la panca posta accanto al focolare, sotto la quale e sulla quale stavano le masserizie di cucina; e in fine aveva fatto il pane bianco, e comprato delle uova, e zucchero e caffè.

Il ragazzo non era vizioso, non fumava, ma beveva molto caffè. Così tutti i risparmi di Andreana Verre se n’erano andati. Ora ella aspettava l’arrivo di suo figlio, ma con tristezza ansiosa: ella sentiva istintivamente che Andrea era infelice, e che la casetta pulita, il caffè bollente, il letto ben messo, non sarebbero bastati per rallegrarlo.

Infatti Andrea arrivò, bevette il caffè, vide la coperta gialla sul letto, ma non si rallegrò.

Sua madre lo seguiva con lo sguardo inquieto: le pareva uno straniero, così pallido, scarno, mal vestito, e ne provava dolore e soggezione; soggezione che egli non le aveva mai imposto, quando ritornava bello e ben vestito.

— Ebbene, — egli chiese, dopo che ebbe messo a posto le sue cose, — che notizie mi date?

— Che vuol che ti dica, figliuolo mio? Le notizie son sempre le stesse.

— Quell’uomo non è più tornato qui? [p. 35 modifica]

— Non è più tornato, ma spesso passa in questa via, e guarda sempre quassù.

— Perchè guarda?

Andreana arrossì un poco, perchè zio Larentu veramente passava e ripassava guardandola come un innamorato di quindici anni.

— Che vuoi che ti dica! Siccome egli sa che tu deciderai se io devo o no andare al suo servizio, forse guarda per vedere se sei arrivato.

— Quell’uomo osa tanto?... — proruppe Andrea, con gli occhi scintillanti: ma tosto si frenò, e disse: — Ebbene, raccontatemi meglio cosa vi disse il giorno che venne qui.

— Ecco. Egli era seduto lì, dove sei tu ora; io qui; — disse zia Andreana, e ripetè quanto aveva raccontato nella lettera, non una parola di più, non una di meno.

Mentre ella parlava, Andrea guardava lontano, fuor della porta, e pareva non ascoltasse. Immagini vaghe e confuse passavano davanti ai suoi occhi tristi: per la porta spalancata si vedeva un ramo del pero selvatico sul quale scoppiavano le gemme verdognole; più in là scorgevasi un lembo della pianura, verde e umido, fiorito di narcisi pallidi; e in fondo, in fondo, una linea di cielo argenteo. [p. 36 modifica]

Una dolcezza infinita era in quel lembo di pianura, in quel ramo fiorito, disegnato sul cielo chiaro; Andrea guardava e quando sua madre cessò di parlare, egli chiese:

— È fiorito anche il susino dell’orto attiguo?

— Ma.... non so, non ci ho badato! — ella disse alquanto meravigliata.

Allora egli uscì per vedere se il susino era fiorito.

L’albero sporgeva sul muro, a destra della piccola altura rocciosa; gemme bianche e verdognole, qua e là aperte in fiorellini candidi, coprivano i rami contorti. Andrea guardò a lungo il susino, poi volse lo sguardo per la pianura tutta verde. Le ginestre cominciavano a fiorire, e taluni prati erano così bianchi di margherite che parevano coperti di neve; stormi numerosi d’uccelli passavano nell’aria tiepida e calma.

Da tanti anni Andrea non vedeva la primavera della pianura. Da quando? Da tanto tempo! E forse questa era l’ultima primavera che egli godeva.

A quest’idea istintiva si rabbujò in viso, e sentì svanire quel tenero sentimento di gioia provato nel guardare i prati verdi e gli alberi fioriti. [p. 37 modifica]

Gli parve che una voce intima, cupa come un tuono, lo richiamasse dal momentaneo oblio del suo destino tragico.

L’idea fissa, dimenticata per un momento, lo riafferrava.

Ritornò davanti alla casetta, accanto al pero selvatico, e ricordò il giorno lontano nel quale sua madre lo aveva condotto allo stazzo, e il suo instintivo sentimento d’odio per la vecchia serva. Disse a sua madre, con voce aspra:

— Voi non andrete nello stazzo quand’anche dovessimo morir di fame. Sì, m’incarico io, di rispondere a quel miserabile.

— Andrea! — supplicò la donna, andandogli vicino. — Pensa....

Egli capì e s’adirò.

— No! — gridò scuotendo la testa, — se volete avere un figlio, non pensate dì sposare “quell’uomo!„ Io mi vergogno di portare il suo nome! Mi vergogno di essere suo figlio, e non permetterò mai che voi....

— Del resto, — disse Andreana, un po’ amaramente, — finchè è viva zia Coanna, non c’è da temere che....

Andrea parve calmarsi per incanto.

— Come sono bestia! — pensò. — È così [p. 38 modifica]che io intendo di rappacificarmi con lui per poter penetrare nello stazzo?


Più tardi Andrea domandò notizie del signor Tedde.

— Egli è contento come una pasqua, — disse zia Andreana. Il bambino cresce a meraviglia, e il maestro ne va matto. Ah, egli è davvero un uomo felice. Tu sai che ha sposato la più ricca ragazza del paese: ha una casa che sembra una chiesa. Ma già, tu andrai a trovarlo oggi stesso, e vedrai....

Andrea sorrise ricordando l’ammirazione e la soggezione che il maestro gli destava un tempo.

Andreana non aveva finito di parlare, quando arrivò il Tedde, con uno smagliante soprabito turchino e una cravatta di raso bianco fermata da una piccola freccia d’oro. Abbracciò lo studente e lo baciò su ambe le guancie, e Andrea al suo sentimento di superiorità sentì mescersi un granellino d’invidia. Ma un granellino che si sciolse subito. Uscirono assieme e cominciarono a discutere su molte cose. Andrea si mostrava scettico e ironico. — Cosa vuole? — ripeteva. — Vivendo nelle grandi città si perde ogni sentimento poetico, [p. 39 modifica]o almeno quel tanto di sentimentalismo che dà la vita quieta dei piccoli paesi e specialmente della campagna. Si perde anche la fierezza, quella fierezza che è semplicemente un romanticismo inutile. Si diventa tutt’al più o ambiziosi o indifferenti.

Il Tedde lo guardava un po’ meravigliato, e non gli diceva quanto lo trovava mutato, ma sentiva compassione di quel fanciullo pallido e scarno, e si rimproverava acerbamente di aver contribuito a farne uno spostato. Pensava:

— Poteva diventare un buon lavoratore, e invece ne abbiamo fatto un cattivo e infecondo pensatore, uno scettico, forse un anarchico!

Per rimediare alquanto al mal fatto, il Tedde credè bene d’invitare a cena il suo antico scolare.

Ma sulle prime Andrea rifiutò quasi sdegnosamente; poi pensò:

— Forse egli crede che io mi vergogni di andare da lui, perchè ho le vesti e le scarpe logore, — e accettò.

Cadeva la sera, tiepida, un po’ vaporosa. Ripassando davanti alla sua casetta, Andrea si volse, e disse ridendo: [p. 40 modifica]

— Un tempo mi vergognavo di abitar là: volevo che mia madre non la ricevesse in cucina, sa! Come mi arrabbiavo! Ora non mi vergogno più di nulla.

L’altro non seppe che rispondere.

— E lei sta nella casa nuova, ora, non è vero?

— Sì. Volevo affittarla, ma nella casa vecchia si stava troppo male.

— Sì, — disse Andrea, seguendo la sua idea, — io ho venduto quanto avevo, vesti, libri, persino il mandolino. Se “quell’uomo„ persiste nella sua idea, non potrò ripartire più.

— Speriamo che cambi idea: del resto tua madre ti avrà scritto,... ti avrà detto che....

— Oh, non ci penso neppure!

— No. Bisogna pensarci. È giusto, e naturale. Se non ci fosse quella vecchia strega! Ma speriamo muoia presto.

Andrea si sentì colpito da queste parole.

— È forse malata? — chiese con voce profonda.

— No; è però decrepita: la tiene in vita la sola bile!

— Se morisse prima! — pensò Andrea con gioia. Egli odiava doppiamente la vecchia; perchè la riteneva causa di ogni sua sventura, [p. 41 modifica]e per l’ossessione che il suo ricordo gli destava nell’anima.

Camminarono un po’ in silenzio, attraverso la via principale del paese.

Di qua e di là sorgevano casette umili, siepi, alberi che cominciavano a fiorire. La strada era deserta: le case, le siepi, gli alberi sfumavano nella vaporosità argentea della sera.

Una lunga catena di idee passò rapida nella mente di Andrea: alla fine egli sentì un prepotente bisogno di parlare in qualche modo di ciò che pensava. Cominciò col chiedere:

— Ha qualche bel libro da farmi leggere? Mi ricordo che comprava sempre qualche novità: ora poi!...

— Ora poi che sono ricco — disse l’altro scherzando — non compro più nulla! Però, se lo vuoi, ho un libro nuovo, i Pensieri di Tolstòi.

— Ho letto quasi tutti i libri di Tolstòi — disse Andrea — dai quali i Pensieri sono presi. Non mi vanno tutte le idee di Tolstòi: specialmente alcune sarebbero state più convincenti se egli le avesse espresse in gioventù. Un vecchio, che vorrebbe proibire ai giovani quanto egli ha fatto in gioventù, non mi va.

— Questo è vero; ma se egli stesso non [p. 42 modifica]avesse provato i disastrosi effetti di certe passioni, non avrebbe potuto descriverli.

— Anche questo è vero — disse Andrea, ripiombando nella sua idea. — Ho letto ultimamente Delitto e castigo di Dostojewsky: un libro terribile. L’autore dovette certamente provare quanto scrisse; altrimenti era impossibile tanta potenza di suggestione. C’è una donna — disse dopo un momento, abbassando la voce — quella sordida vittima, ch’io rassomiglio a zia Coanna.

Non appena pronunziate queste parole, si pentì; gli parve di aver rivelato un po’ del suo segreto.

— Non so, non l’ho letto, — disse il Tedde.

— Meglio così! — pensò Andrea.

Sviò il discorso, e così giunsero davanti alla casa del maestro, una casetta nuova, a un sol piano, tinta d’azzurro, con porte e finestre di legno giallo, che si intravedeva fra due mandorli fioriti, e sembrava la casina d’una fata, circondata da una campagna primaverile.

Entrarono. Andrea conosceva già la moglie del Tedde, una giovine di sedici anni, delicata e bella, coi capelli rossicci e la fossetta sul mento.

— Maria Maddalena — le disse il marito [p. 43 modifica]— ecco il nostro professore: fa un po’ vedere il bimbo.

Ella portò il bimbo, grasso, rosso, strettamente fasciato dal collo ai piedi con le braccine dentro, e gli angoli della boccuccia stillanti una bava lattea.

Andrea veramente non aveva desiderato vederlo, non ci aveva neanche pensato: ma vedendolo lo fissò a lungo, poi guardò la madre e gli parve che rassomigliasse alla Madonna della Sacra Famiglia di Simone da Pesaro.

— È sano, robustissimo — disse il padre, sollevando la cuffietta del bimbo — guarda quanti capelli ha: non si è mai visto un bimbo con tanti capelli.

— Mia madre me l’ha scritto — disse Andrea, sfiorando con un dito i capelli del bimbo.

— Ebbene, Maria Maddalena, questo professore resta a cena da noi. Cosa ci darai tu?

— Quello che c’è! — ella rispose un po’ timidamente. — Non è certo quello che può esserci nelle città!

— Nelle città c’è fame — rispose Andrea ridendo un po’ amaramente.

Il signor Tedde fu colpito da queste parole; guardò con rimprovero sua moglie, poi cercò [p. 44 modifica]distrarre il giovine: — Vuoi vedere la mia casa? — gli domandò.

Le stanze, arredate con un certo lusso, odoravano ancora di calce, di legname nuovo: i letti erano coperti di stoffe orientali, a smaglianti strisce turchine e gialle.

Ma invece di distrarsi, Andrea diventava più triste.

Ritornati nella stanza da pranzo, il Tedde depose il lume, e disse:

— Ora cerchiamo il miglior modo di rappacificarci con zio Verre. Credo la cosa facile. In fondo quell’uomo non è cattivo; è solamente debole; non si decide mai se non è spinto da questo o da quell’altro.

Andrea guardava con attenzione strana una credenza di legno bianco lucido, e non rispose.

Il Tedde proseguì:

— Ora zio Verre s’è dato al vino ed ai liquori. Beveva molto anche prima, ma ora, dopo la morte della moglie, è sempre ubbriaco d’acquavite. Bisogna cercarlo in un momento lucido; ma io credo che appena ti vedrà si commoverà.

— Mai! Io non voglio vederlo!

— Come? E dunque vuoi che egli si umilii [p. 45 modifica]davanti a te? Via, non sei più un ragazzo, Andrea; e poi, cosa dicevi poco fa? che nei grandi centri si perde la fierezza e si piglia il proprio bene ove si trova? Dicevi o no questo?

— Bene; eppoi?

— Eppoi, eppoi! Se darai retta ai miei consigli, tu non avrai che a stender la mano per afferrare la tua fortuna. Combiniamo il miglior modo di incontrarci con zio Verre.

— Combiniamo, — disse allora Andrea, rassegnato.

— Come ti dissi, verso sera egli è sempre ubbriaco, e non ragiona più. Mi dissero inoltre che zia Coanna, venuta una certa ora, lo chiude a chiave nella sua stanza, perchè egli fa dei discorsi strani. Tu sai la diceria sciocca che corre da tanti anni in paese.

— Che cosa?

— Bah, il fatto dell’appaltatore!

— Io non so nulla, davvero.

— Come, non sai nulla! Possibile? — esclamò il Tedde, meravigliato.

— Parola d’onore, non so nulla! — affermò Andrea.

— Ebbene, è una delle solite cretinerie dei maligni, sai; dicono che quando si tracciava [p. 46 modifica]lo stradale regio, l’appaltatore viaggiò una volta con zio Verre, il quale allora era povero. L’appaltatore, si dice, aveva in tasca trentamila lire: fu trovato ammazzato. Or bene, si dice ora che zio Verre, quando è ubbriaco, non parli che di questo fatto, e voglia saltar a cavallo per ritornare nel luogo ove l’appaltatore fu assassinato. Dicono: il rimorso! Un cavolo! Io credo invece si tratti di un fenomeno di alcoolismo, se pure è vero che zio Verre parli così. Egli è suggestionato dalle dicerie sciocche del paese, e quando è ubbriaco si crede colpevole. Mi pare d’aver letto che un simile fenomeno avviene in alcuni alcoolizzati.

— Credo d’averlo letto anch’io, — disse Andrea. E cominciò a difendere “quell’uomo„ con tale veemenza, gridando contro i pettegolezzi del piccolo paese, che il suo volto si fece livido, la sua voce rauca.

Il Tedde lo guardava fisso, inquieto. Gli pareva che nel cervello del suo antico scolare scoppiasse il terribile germe della pazzia.

Ritornato a casa sua, Andrea andò subito a letto e s’addormentò profondamente. Era stanco morto.

Ma a notte alta si svegliò come da un [p. 47 modifica]incubo, con un peso angoscioso sul cuore. La prima cosa che ricordò furono le parole del Tedde a proposito di Larentu Verre:

“In fondo quell’uomo non è cattivo; è solamente debole, e non si decide mai se non è spinto da questo o da quell’altro.„

— Anch’io sono così, — pensò Andrea. — Sono degno figlio di “quell’uomo„.

Poi gli tornò in mente la storia dell’appaltatore: e una luce improvvisa, rapida e spaventosa come lo splendore di un fulmine, gli atterrì l’anima.

— Sono il figlio di un assassino, — pensò. — Ed è per un oscuro istinto che quell’uomo mi è riuscito sempre disgustoso. Ed è dunque l’atavismo che mi mette la colpa nel sangue? Non è l’odio, non è un orribile progetto d’artista, non è la miseria; è soltanto l’atavismo che mi spinge! Io compirò il mio delitto, perchè questo è il mio destino!

Ricordò le impressioni della giornata; l’arrivo, la fiera tristezza, l’oblio momentaneo davanti al paesaggio primaverile, il senso d’invidia e di melanconia provato nella casa del maestro, la collera nell’udire la storia dell’appaltatore. — Mi pareva di non crederci, — pensò, — ma mi ingannavo. [p. 48 modifica]

— Difendendo quell’uomo mentivo, o meglio difendevo me stesso. Sono dunque capace di mentire, di fingere, d’invidiare, di aver paura! Che farò ora? Sono un delinquente o sono un artista?

Si riaddormentò all’alba, senza aver ben risposto alle sue domande.



IV.


Appena si alzò, la prima persona che vide dal finestrino della sua cameretta fu appunto suo padre.

Zio Larentu veniva attraverso la pianura nebbiosa, appollaiato sopra la sua alta cavalla grigia; anch’egli era molto invecchiato, aveva la barba quasi bianca, il viso abbrutito, gli occhi rossi: giunto presso la casetta guardò intorno, in alto, in basso: poi proseguì la sua via.

— Egli deve sapere ch’io sono arrivato, — pensò Andrea, meravigliandosi di non provare alcuno sdegno nel rivedere “quell’uomo.„

La pianura era tutta coperta di nebbia; una nebbia tenue, argentea, luminosa. Dal suo finestrino Andrea vedeva un breve orizzonte [p. 49 modifica]vaporoso, sul cui sfondo argenteo distinguevasi appena qualche albero dai rami sfumati: il quadro era dolce, poetico, ma il giovane studente non sentiva più la gioia della primavera, come l’aveva sentita il giorno prima. — Che farò oggi? — si domandò. — Si propose di scrivere, di prendere qualche appunto sul paesaggio che vedeva, sulle impressioni che sentiva; ma poi sorrise della sua idea.

Scese in cucina. Sua madre non c’era, ma sul focolare acceso bolliva il caffè; un bel gattino a macchie nere e gialle volteggiava per la cucina, combattendo una battaglia vana contro la sua coda che non riusciva ad afferrare.

Regnava un profondo silenzio; dal finestrino della porta scorgevasi uno sfondo nebbioso; pareva che il mondo finisse lì.

Andrea sedette presso il fuoco, prese il caffè, osservò i giochi del gattino: ricordi infantili ritornarono nel suo pensiero.

— Quanti sogni ho fatto qui, seduto presso il fuoco! Ero ambizioso e fiero, non c’è che dire, avevo vergogna di questa casetta, sognavo di fabbricare qui un palazzo, e di far indossare a mia madre vestiti da signora. [p. 50 modifica]Gli anni sono passati invano, ed ora eccomi qui ancora, povero e piccolo come lo ero da fanciullo! Senonchè allora ero felice ed ora non lo sono più! Fossi rimasto un semplice paesano, un lavoratore della terra, un essere incosciente! Ebbene, — pensò poi, — dopo tutto sono io forse un sentimentale? Sono debole, sono vile, sono piccolo, ecco tutto! Perchè sono ritornato? Per compiere un delitto, studiare le mie impressioni come un eroe di Bourget e scriverne un libro terribile? Sciocchezze, sogni mostruosi! No, sono ritornato perchè non avevo il coraggio, nè la volontà di affrontare la vita, di lottare contro la miseria, di farmi un posto nel mondo. L’anima mia è rudimentale, feroce e debole come l’anima di un bambino. Io sono un abbozzo d’uomo; sono pieno di contraddizioni e mentisco continuamente a me stesso. Finchè ho avuto di che vivere coi danari di “quell’uomo„ mi son creduto qualche cosa, ma s’è visto cosa valgo, quando si è trattato di vivere senza l’aiuto altrui! Ed ora sono qui, e il caffè che bevo, il pane che mangio, tutto, tutto è prodotto del lavoro di mia madre, di quella donna che sognavo render signora e padrona di un palazzo! Eppure, pur [p. 51 modifica]comprendendo tutto questo, e avendone vergogna, mi perdo in sogni mostruosi; non voglio umiliarmi, non voglio riconoscere la mia inettitudine, la mia debolezza; non voglio sottomettermi a “quell’uomo!„ Per non diminuirmi ai miei stessi occhi, dico a me stesso che se accetterò la pace e l’aiuto di Larentu Verre, sarà solo per penetrare nello stazzo, e per compiervi un delitto. Mentisco sempre: perché sento che il delitto non lo commetterò, ed è l’aiuto che voglio, non altro. Andrea Verre, di’ la verità a te stesso, di’ che sei un matto, e sollèvati, e va, e umìliati, e non essere più uno scemo. Ebbene, sì, andrò oggi stesso.

Pensando tutte queste cose, egli finì di sorbire il caffè. Ripose sul pancone la chicchera grossolana, e si senti improvvisamente felice.

— Egli sborserà di nuovo i quattrini, io ripartirò, ricomprerò il mandolino, le vesti, i libri; la vita sarà di nuovo bella e gaia.

Gli parve di esser un altro: dimenticò il passato, l’ieri, l’idea morbosa del delitto e la certezza che quest’idea gli fosse venuta per atavismo.

Seduto sempre accanto al fuoco, attese il [p. 52 modifica]ritorno di sua madre. Fuori la nebbia diradavasi: tra vaporosità argentee apparivano squarci di cielo azzurri e luminosi, lembi verdi di pianura, alberi lucenti.

Andrea pensava con piacere alle escursioni che avrebbe fatto durante quelle vacanze; e intanto si divertiva col gattino, lanciandogli pallottoline di carta, e strisciando il piede per farlo accorrere. Il gattino s’appiattava, si slanciava, saltava, s’aggrappava tutto al piede dello studente, e gli mordeva la scarpa. Ed egli, che era ritornato al suo paese per commettere un delitto orribile, si divertiva infantilmente ai giochi del gattino!

Zia Andreana rientrò verso le nove. Tosto s’accorse che Andrea era di buon umore e gli diede una lieta notizia.

— Quell’uomo è in paese: è dal signor Tedde. Sii prudente, figlio mio, — diss’ella poi, guardandolo supplichevole, — forse ti manderanno a chiamare.

Egli non rispose, ma si alzò, uscì fuori e attese quasi ansioso.

— Mi manderanno a chiamare? Tanto meglio.

Poco dopo, infatti, la serva del Tedde portò un bigliettino. [p. 53 modifica]

“Andrea, L. V. è qui da me: ha le migliori intenzioni del mondo, e desidera vederti. Vieni, ti aspetto, vieni subito.

“Tuo Tedde.„


Egli andò.

Il Tedde e zio Larentu sedevano nella stanza da pranzo, davanti al tavolo su cui brillava un’anforetta di cristallo piena di acquavite.

Andrea guardò suo padre, guardò l’anforetta, poi fissò gli occhi sdegnosi negli occhi del maestro, il quale rispose con uno sguardo eloquente, e con un lieve movimento delle mani, che significava:

— Cosa vuoi? Era necessario!

— Ecco il nostro professore! — disse poi il maestro, volgendosi a zio Larentu.

Il Verre guardava Andrea, esaminandolo da capo a piedi.

— Perchè non mi stringi la mano? — gridò, accavalcando una gamba sull’altra. — Eppure hai le scarpe rotte, e i tuoi gomiti chiedono misericordia. 3

Andrea porse la mano, in silenzio, poi [p. 54 modifica]sedette lontano da suo padre che puzzava forte d’acquavite.

Zio Larentu continuò a fissarlo, con gli occhi rossi e vitrei.

— Eppure sei mio figlio! — proruppe. — È inutile che tu ti vergogni di me. Perchè? Perchè ti vergogni di me? Credi forse che io sia ubbriaco? Credi che io sia uno stupido e che non abbia veduto lo sguardo che hai rivolto poco fa a questo bravo uomo? Ed ora credi che io non veda il disgusto che tu provi?

— Finitela, — rispose Andrea, seccato e disgustato. — Ditemi piuttosto perchè mi avete fatto venir qui.

— Perchè ti ho fatto venir qui? Per vedere le tue scarpe e il tuo vestito, e anche la tua saccoccia! Vedo bene: non mi avevano ingannato. È vero che hai sofferto anche la fame? Ah, — esclamò poi il Verre con tenerezza. — tu hai sofferto la fame, e in casa mia, in casa di tuo padre, si buttava ai cani la grazia di Dio, ma che dico ai cani? al letamaio, si buttava, la grazia di Dio: il latte, il formaggio, il pane, e tante altre cose. E mio figlio aveva fame! Andrea, piccolo Andrea, vedi che cosa è la superbia! [p. 55 modifica]

Andrea fece un gesto, volle parlare, gridare, ma si frenò. Dopo tutto a che serviva adirarsi contro quell’infelice incosciente, abbrutito dall’alcool?

— Veniamo al sodo — intervenne il Tedde. — Ecco che Andrea è qui, e vi chiede scusa: non è vero, Andrea!

— È vero.

— Bene; ora zio Verre desidera vivamente che tu riprenda gli studi e riacquisti il tempo perduto. Lascia a te la scelta della carriera, purché tu ti faccia onore. Ora tu resterai qualche giorno ancora in paese, poi ripartirai. Dalla città scriverai spesso, dando notizie di te, dei tuoi studi; intanto, oggi stesso, zio Verre è disposto a versare la somma necessaria per rifornirti di vesti, di libri, per il viaggio e le tasse.

Il Tedde parlava perchè l’intendesse zio Larentu; e zio Larentu, per tutta risposta, mise mano alla borsa.

— Tutto, tutto quel che volete — disse commosso. — Quanto occorre? Cento, duecento lire? Cento scudi? Parlate. Zio Verre è ricco, darà tutto quello che occorre. Zio Verre non è sordo. Parla tu, figlio mio; il mio danaro non è danaro dei cani, ma quando si [p. 56 modifica]tratta d’un figlio unico!... Benchè, — aggiunse, aprendo il portafogli e guardandovi dentro — benché tu abbi guardato così il signor Tedde! Perchè lo hai guardato così? Perchè c’è qui l’acquardente? L’acquardente4 non fa male: fa bene anzi! sono altre cose che fanno male, figlio mio.

Prese dal portafogli due biglietti rossi, li spiegò, li depose sulla tavola, e proseguì:

— Ebbene, sì, io mi ubbriaco. Che male c’è? Credi tu che io me ne vergogni? Non mi ubbriaco forse col mio vino? Tu non devi preoccuparti di ciò. Tu va, studia, divertiti, chiedi tutto quello che vuoi. Zio Verre è ricco come il mare, e ti manderà tutto quello che vorrai. Tu diventa un professorone; quando ritornerai io sarò morto, sarò dentro quest’ampolla; la vedi tu quest’ampolla? È piena di lucertole: le vedi tu?

Andrea ebbe un fremito.

— Egli vede delle lucertole — pensò amaramente. — Dunque è più che ubbriaco: è già in delirio. Ed io prenderò i danari suoi? Mai, mai, mai! È una truffa, è un delitto, una viltà. Non voglio nulla, io, non voglio nulla. [p. 57 modifica]

S’alzò bruscamente, si mise a passeggiare su e giù per la stanza, concitato, sdegnato.

Zio Verre lo seguiva cogli occhi, e continuava a rivolgergli discorsi insensati.

— Andrea — disse il Tedde con voce grave — prendi i danari che tuo padre ti dà. Sono tuoi.

Andrea s’avvicinò, prese i danari e se li pose in tasca.

— Va bene! — esclamò zio Verre. — Così va bene! Del resto mi rallegro che tu sii così superbo: i pulledri sono sempre superbi. Ma diventerai mansueto anche tu, oh, se diventerai mansueto!

— Oh, altro! — disse il Tedde.

— Cosa vuol dire con ciò? — si volse Andrea, sempre sdegnato, — non sarò mai vile, però!

— Chi ti dice questo? Suvvia, siediti e ragioniamo un po’. Ecco che mia moglie ci manda il caffè. Zio Verre, dunque, desidera che tu vada nello stazzo per passarci qualche giorno. Ora cominciano le feste campestri; c’è da divertirsi.

— Tu sei sdegnato perchè credi che io sia ubbriaco — ripeteva zio Verre, con gli occhi sempre fissi sul volto di Andrea. — Ebbene [p. 58 modifica]t’inganni, in fede mia. Sono sano come un pesce. Siediti qui, bevi caffè, acquavite, quello che vuoi, ma bevi. Cosa è l’uomo che non beve?

— L’uomo che non beve dovrebbe non essere un pesce — soggiunse versandosi un calice d’acquavite, e ridendo come fra sè. — Invece tu non bevi e sei un pesce perché non parli. Già, anche quando sei venuto la prima volta allo stazzo con tua madre, sei stato zitto. Ma avevi certi occhi! Quegli occhi!... diceva la povera Millèna. Basta, non ricordiamo queste sciocchezze. Quegli occhi! Come hanno guardato il signor Tedde! Tu credi che io sia stupido? Beviamo.

Trangugiò l’acquavite e continuò a parlare. Andrea taceva ostinatamente, ma a poco a poco il suo sdegno svaniva.

— Perchè mi devo sdegnare? — pensava. — Lo sapevo bene che egli è un ubbriacone; e dopo tutto egli ha ragione; io non devo preoccuparmene. Me ne andrò fra pochi giorni, lontano, che non veda, che non senta più nulla. Il peggio è che, se egli continua così, creperà fra poco. Ed è necessario che, prima, pensi ai casi miei.

Anche il Tedde, appena furono soli, gli espresse la stessa idea. [p. 59 modifica]

— Ti sei offeso, — gli disse, — ma hai avuto torto. Se egli non beveva da me, beveva altrove, e non metteva mano alla borsa in tuo favore. Bisogna che tu pensi alle cose tue. Egli non vivrà molto. Va allo stazzo, giacchè egli lo vuole, va e procura almeno di assicurarti il tanto che ti permetta di compiere gli studi. Va, va, farai bene.

— Ci andrò, — promise Andrea.

Ma non andò.

Ritornato a casa diede a sua madre i denari; e poi ricadde nelle solite fantasticherie.

— Bisogna rifornirti dì vestiti e di scarpe, — disse la madre. — Vuoi andar tu alla città vicina, o ci vado io? Ci vai tu?

— No.

— Allora ci vado io.

Ella andò, a piedi, e comprò un modesto costume estivo, un bel paio di scarpe gialle e un cappello chiaro.

Andrea non rimase contento: girò e rigirò fra le mani il cappello, le scarpe, l’abito; s’adirò perchè le tinte erano troppo chiare, poi dispose tutto su una sedia, e mise soltanto le scarpe.

I giorni passavano. Egli restava ore ed ore assorto in tristi contemplazioni, o taciturno o [p. 60 modifica]irritato. Spesso sedeva su una pietra, con un libro fra le mani, davanti al muro sopra il quale il susino fiorito sorgeva su uno sfondo di cielo chiaro purissimo. La primavera alitava nell’aria tiepida; selvaggi profumi d’erba, acuti e quasi irritanti, salivano dalla pianura, portati dalla brezza.

Andrea vedeva solo i grappoli dei fiori bianchi del susino e quel muro chiaro e quel cielo diafano infinito; ma dietro quello sfondo così quieto, egli vedeva con la fantasia paesaggi lontani, pianure immense e solitarie, dove la primavera trionfava.

E laggiù, e là dietro quello sfondo cerulo, in quelle pianure immense e solitarie, animate soltanto dal volo delle pernici, dal grido notturno della volpe e dal singulto dell’assiolo, fra le macchie coperte di fiori violetti, egli avrebbe voluto scendere, stendersi sull’erba e addormentarsi.

Si sentiva vinto da una specie di sonnolenza morbosa, e tutto ciò che lo richiamava alla realtà lo irritava.

Il Tedde veniva a cercarlo quasi ogni giorno, ma Andrea lo sfuggiva, si nascondeva.

Zio Verre continuava anch’egli a passar tutti i giorni sotto la casetta, come un innamorato, [p. 61 modifica]appollajato sulla sua alta cavalla, dalla quale spesso minacciava di cadere. Se vedeva Andrea lo salutava, gli diceva:

— E quando ti lasci vedere dunque? Domani?

— Domani, — rispondeva Andrea, freddo e indifferente.

Questo domani non arrivava mai.

Quasi ogni giorno il Verre mandava regali a suo figlio: formaggio fresco, agnelli, burro, miele; zia Andreana riceveva tutto di buon cuore; la gente mormorava, diceva che Andrea era venuto in paese appunto per costringer suo padre e sua madre a sposarsi.

Andrea invece, assorto nei suoi sette cieli, non si accorgeva di nulla: con Orazio fra le mani, sognava davanti alla diafana profondità dell’orizzonte, e gli sembrava d’esser infelice perché mai avrebbe potuto comporre versi come quelli d’Orazio!

Un giorno però si scosse dal suo torpore.

Il tempo s’era mutato. Nuvole mostruose gravavano sull’orizzonte grigio, e il vento spogliava crudelmente i rami fioriti del susino.

— Sono uno stupido — pensò Andrea. — Perchè lascio passare il tempo così? Bisogna ripartire. Se non sarò Dostojewsky od Orazio, [p. 62 modifica]sarò qualche altra cosa. Per ora sono uno stupido.

Preparò la valigia e decise di partire il dì dopo la Pasqua.


II.


Per il giorno di Pasqua zio Larentu sperava una visita del suo superbo figliuolo.

— Io farò testamento in suo favore, ma bisogna che egli si umilii, che venga qui, altrimenti vada al diavolo! — O che ha vergogna di suo padre, quello straccione? — diceva il Verre; ma intanto provava una segreta tenerezza pensando che Andrea sarebbe venuto.

Causa il lutto, zia Coanna non aveva preparato, come si usa per l’occasione, il pane e le focaccie di farina e formaggio fresco, e i dolci di miele; ma il giorno di Pasqua zio Larentu ordinò un buon pranzo e volle che tutti i servi facessero festa. Anch’egli andò a messa: al ritorno sperava di trovare Andrea nello stazzo, e si meravigliò di non vederlo.

— Verrà più tardi — pensò.

In cucina si preparava il pranzo: negli spiedi stavano infilati agnelli interi pronti ad essere arrostiti. [p. 63 modifica]

Zia Coanna, aiutata da una giovine serva pallida che aveva due grosse trecce avvolte intorno al capo, cucinava i sanguinacci e i visceri degli agnelli. Nofre, un servo scarno e terreo, dall’enorme bocca ombreggiata da radi baffi nascenti, aiutava le donne.

I servi speravano che Andrea sarebbe venuto, e se ne rallegravano.

Ma le ore passavano e Andrea non veniva. Numerosi mendicanti s’aggiravano intorno allo stazzo, chiedendo l’elemosina con una certa insolenza. Ed essendo Pasqua, veniva loro distribuito pane, vino e carne in abbondanza.

Zio Larentu però s’inquietava: Andrea non veniva; o che forse occorreva tirarlo pei capelli, quello straccione? Però zio Verre aspettava sempre, e non beveva.

Verso mezzogiorno chiamò in disparte zia Coanna, e dopo qualche esitazione le chiese consiglio.

— Dobbiamo mandare a chiamarlo? Cosa ne dici tu?

— Io dico di no.

Allora egli s’adirò.

— Tu dici di no, vecchia maliarda? Oh credi tu che io sia ubbriaco? Io dico di sì, invece, [p. 64 modifica]e se non stai al tuo posto io ti prendo a calci come un cane. È tempo di finirla, capisci?

La vecchia alzò le spalle.

— Egli non ha bevuto ed è già ubbriaco — pensò sospirando.

— Ebbene, no! — gridò poi zio Larentu. — No, non lo chiamo, non lo voglio! Che vada in mille barche di diavoli! Fa apparecchiare, zia Coanna, e dà da bere a tutti perchè oggi è Pasqua.

— Lo sapevamo! — diss’ella ironica.

— No, non aspetto nessuno. O che forse aspettavo qualche persona? — esclamò dispettosamente zio Larentu. Si alzò, andò verso l’armadio e bevette un calice d’acquavite.

Fu il primo. A pranzo continuò a bere; rise, gridò, a momenti allegro, a momenti collerico. Il suo viso si fece rosso, di un rosso terreo, da mattone.

— Io non aspetto nessuno — diceva ai servi. — Credete forse che io aspetti qualcuno? Ditelo dunque, se ne avete il coraggio! Chi siete voi? Vermi! Se sollevo il piede vi schiaccio tutti come rane.

— State zitti, state zitti, per carità — consigliava zia Coanna — altrimenti la Pasqua finisce male. [p. 65 modifica]

E i servi mangiavano, bevevano e stavano zitti.

Ma zio Larentu poi s’inteneriva, e diceva:

— Chi volete che aspetti? Sono solo. Ah, l’anno scorso chi credeva che questa Pasqua sarebbe trascorsa così? Voi siete tanti miserabili, tanti pezzenti, ma anche gli apostoli chiedevano l’elemosina e Gesù Cristo sedeva in mezzo a loro. Con ciò non voglio dire che io sia Gesù Cristo, ma voi siete qui intorno come gli Apostoli, e mangiate il mio pane ed i miei agnelli. Rispettate dunque il vostro padrone, perchè altrimenti io vi infilo nello spiedo, sparo contro di voi, vi schiaccio.

— Ma — chiese Nofre — quando sparate? Prima o dopo averci infilato nello spiedo?

Qualcuno rise, nascondendosi dietro le spalle dei compagni.

— Chi è che ride? — gridò il padrone. — Tu sta zitto, Nofre, bocca di forno! Io t’infilo vivo nello spiedo, ti sparo contro prima e dopo. Oh che! Oh che! — cominciò poi ad urlare. — Chi è che ride? Chi ride del suo padrone? Io vado e prendo l’arma.

S’avviò barcollando verso l’angolo della porta, ov’era appeso il fucile; ma i servi lo rattennero e lo calmarono. A poco a poco egli [p. 66 modifica]s’addormentò d’un sonno pesante, e per tutta la sera i servi bevettero e fecero gazzarra alla salute del padrone.

Verso le dieci di notte Andrea, che stava già a letto e voleva partire l’indomani, fu svegliato da forti colpi battuti alla porta della casetta.

S’alzò, guardò, vide con meraviglia che un paesano batteva disperatamente alla porta, e gli domandò che cosa voleva.

— Vengo dallo stazzo, — disse Nofre. — Zio Larentu Verre sta per morire. Venga, vossignoria; c’è un gran chiasso nello stazzo.

— Cosa c’è stato? — chiese Andrea.

— Ecco, zio Verre s’è ubbriacato, poi s’è svegliato, ha bevuto ancora ed è andato a letto. Poco dopo si sveglia ancora; grida, chiama aiuto, cade per terra, si contorce come un gatto....

— È il delirium tremens, — pensò Andrea. Poi chiese: — È venuto il medico? Che ha detto?

— Sì. Ha detto di chiamare la vossignoria, perchè zio Verre, se gli vengono altri due accessi, muore. Venga, ci faccia questa carità!

— Io non vengo. Cosa posso far io? — disse Andrea quasi adirato. [p. 67 modifica]

— Ah, non dica così! Venga, venga! Se non viene lei, chi vuole che venga?

Queste parole colpirono lo studente. Anche zia Andreana, venuta sulla porta, consigliò suo figlio di recarsi nello stazzo.

Dopo qualche esitazione Andrea s’avviò col servo. Era una notte tiepida, velata; la luna calava dietro tenui vapori bianchi; nella pianura solitaria non si udiva un rumore, non si muoveva una foglia; l’aria olezzava d’un fresco odor di narcisi.

Andrea e il servo camminavano silenziosi, a grandi passi.

Pensieri vaghi e strani saltellavano, per dir così, nella mente di Andrea. Egli guardava ogni tanto la figura del servo, nera in quell’albore di luna velata, e si chiedeva:

— A che pensa quest’uomo? Perchè è venuto a chiamarmi? Che concetto ha di me? Io non lo conoscevo, prima d’ora, ma chissà quanto egli avrà pensato a me, al bastardo del suo padrone!

— Ah! — disse poi fra sè, — io non penso che forse in questo momento “quell’uomo„ muore; sia pure vittima del suo vizio, ma muore. Egli è mio padre, ed io non sento alcuna pietà di lui! Vuol dire che io non lo [p. 68 modifica]amo, neppure come mio simile! Amarlo? Mio simile? Io non ho simili, e non amo nessuno! Non ne sento nè il bisogno nè la volontà. Sono solo; solo nel mio mondo. Sono dunque un forte? No. Se fossi stato forte avrei osato! Sono ritornato con l’idea di compiere un delitto, e invece non ho osato neppur di andare nello stazzo.

— Ma del resto, — pensò poi, — se sono solo, se sarò sempre solo, perchè dovrei cercare delle sensazioni straordinarie, studiare, scrivere, creare opere d’arte? Noi cerchiamo di salire e farci noti per migliorare la nostra posizione, cioè per attirare l’attenzione dei nostri simili e renderceli benevoli in modo che ci dieno il loro amore e il loro denaro. Io non voglio nulla, desidero anzi che nessuno badi a me. Sono superiore a tutti. Mi ricordo, una volta entrai in una chiesa gremita di folla, dove predicava un giovane prete alla moda. Tutti fingevano di ascoltare la parola di Dio, ma in realtà tutti erano là, pigiati, caldi di peccato, convenuti per vanità, per curiosità. Greggia! Io desiderai salire sul pulpito e sputare su tutta quella folla! Sputare, ecco tutto!

Ma un ricordo lo colpì. [p. 69 modifica]

— Ah, ecco! Anche Raskolnikoff diceva spesso queste parole!

— Raskolnikoff! Ebbene, perchè non ammetterlo? In qualche cosa io rassomiglio a lui; ed anch’io vorrei, come lui, compiere un delitto, un atto di forza, solo per sperimentare il mio coraggio, per me, solo per me. Scrivere, studiare, trionfare, non per gli altri, ma per me. Ammazzando zia Coanna, però, non spiegherei la forza serena e terribilmente fredda della mia sola intelligenza, perchè all’idea di uccidere la vecchia serva e non un’altra persona, mi ha spinto un po’ l’odio. Ho sempre odiato zia Coanna, fin da quando la vidi la prima volta; essa poi fu la causa del mio spostamento nel mondo. Ebbene, no, questo delitto non sarebbe che un delitto di passione, ed io vorrei compiere un delitto semplicemente sperimentale. Ecco, uscire, incontrare un individuo (non importa se uomo o donna, se vecchio o giovane); ecco, un uomo qualunque, mai veduto, che non mi fece mai alcun male, di cui ignoro anche il nome: andargli incontro, togliergli la vita! E poi? Ebbene, e poi?

Andrea camminava sempre a passi lunghi e rapidi; talvolta seguito, talvolta preceduto [p. 70 modifica]dal servo. Immerso nei suoi strani pensieri, egli non s’accorgeva della strada, e non badava più al suo compagno.

Ma giunti su un’altura, in un punto dove la strada s’allargava, bianca al chiarore della luna velata, Andrea guardò Nofre.

— Se io uccidessi quest’uomo, qui, ora? — pensò.

Ma fu un lampo: un brivido di terrore gelò lo studente.

— Sono pazzo? Perchè queste idee? Perché queste idee folli? Sempre, sempre? È una ossessione? Del resto sono un vile. Ho tremato d’orrore al solo pensiero di compiere un atto, che mi pareva così facile!

Ma d’un tratto, i suoi pensieri si rischiararono; si guardò attorno, ricordò dove e perché andava, vide lo stazzo vicino e cominciò a chiacchierare col servo. La sua voce era dolce, quasi commossa.

Nofre però, il quale aveva inteso dire che il figlio del padrone era uno stravagante, aveva paura di contrariarlo e quindi rispondeva appena sì o no alle domande che Andrea gli rivolgeva.

— L’ho fatto venir io, sai. Non c’era cristi che volesse venire! — si vantò [p. 71 modifica]tuttavia con un altro servo, appena giunsero allo stazzo.

Andrea fu introdotto subito nella camera del malato. Vegliavano zia Coanna e la serva dalle treccie nere, pallidissima e tremante. Zio Larentu, coricato vestito sul letto, teneva gli occhi spalancati, immobili, pieni dì terrore: in quel momento egli aveva piena coscienza di sè, ma il terrore degli accessi provati lo irrigidiva ancora; e temeva di riaddormentarsi perchè appunto col sonno sopraggiungevano le orrende visioni del delirio.

Andrea s’avvicinò, posò una mano sul guanciale e si chinò sul malato.

— Che cosa avete? — domandò.

Zio Larentu lo guardò a lungo, con quei suoi occhi dilatati, pieni di spavento; e parve non riconoscerlo.

Andrea sentì qualche cosa agitarglisi entro il petto e chiudergli la gola; e con meraviglia s’accorse che, invece di disgusto, come aveva temuto, suo padre gli destava pietà. Quegli occhi, quel viso, come erano tristi!... Zia Coanna s’avvicinò, si chinò anche lei sul malato.

— Eccolo che è venuto, non lo vedi? — disse, — Non riconosci questo giovine? [p. 72 modifica]

— Siediti, — gli disse allora zio Larentu, sempre guardandolo fisso.

— Che cosa ha ordinato il medico? — domandò Andrea, rivolto alla vecchia.

— Ha scritto una ricetta che abbiamo già mandato dal farmacista. Ha inoltre ordinato di purgarlo, e poi di fargli bere latte soltanto, molto latte. Tornerà domani mattina.

Mentre zia Coanna parlava, Andrea la guardava con una specie di stupore e non badava alle parole di lei, tutto intento ai suoi pensieri ed alle sue impressioni.

— Se questa donna sapesse! — pensava. — Se ella sapesse! Eppure la sua figura non mi desta da vicino l’impressione d’odio che mi destava da lontano.

Sedette, silenzioso. Anche zia Coanna tornò al suo posto, e per qualche tempo regnò un grave silenzio nella camera illuminata da una lucerna ad olio. Andrea guardava davanti a sè, vedeva un uscio grigio, di quest’uscio distingueva la serratura un po’ arrugginita, e non vedeva altro. E pensava:

— Tanto meglio se questa vecchia mi è ìndifferente. Io ora mi rivolgo verso queste donne e dico: non c’è bisogno di voi, andate a dormire; andate a dormire tutti, veglio io [p. 73 modifica]solo. Allora la vecchia apre quell’uscio e probabilmente si ritira nella camera attigua. Anche l’altra serva si ritira; quest’uomo riposa, tutti dormono. Allora io m’alzo, cammino in punta di piedi.... ah!...

Balzò in piedi, pallido di paura.

Zio Larentu aveva emesso un piccolo grido di spavento: lo riprendeva il delirio: in un attimo si gettò dal letto; il suo volto si fece grigio, nei suoi occhi brillò una luce di follia.

— È nascosto là, — disse con voce timida. — Da tre giorni è là, nell’armadio, da tre giorni.

— Chi? Chi? non c’è nessuno, non abbiate paura! — disse Andrea sostenendolo.

Le serve accorsero, ma la giovane diventava pallida cadaverica e batteva i denti per il terrore che la agitava.

— Ha cominciato così, — disse zia Coanna sottovoce. — Ora lo riassale la convulsione. Sostienilo, figlio mio, fallo sedere.

— È là, è là, andiamo a vedere; no, no, è là, nell’armadio: è armato. Ma anch’io sono armato, ecco, — disse zio Larentu, traendo e aprendo il suo lungo e acuto coltello che pareva uno stilo.

— Non c’è nessuno, calmatevi, venite, [p. 74 modifica]andiamo a guardare, — disse Andrea. — Zio Larentu gli si aggrappò alla giacca, e lo seguì tremante.

Guardarono da per tutto, anche sotto il letto.

— Di chi egli ha paura? Di chi è questo fantasma che egli vede? Forse quello dell’appaltatore? Bisogna che io stia attento, ora, che studii questo fenomeno interessante, — pensava Andrea, e intanto si sentiva battere forte il cuore per pietà e paura. Temeva che suo padre gli morisse fra le braccia: gli sembrava di sentire intorno a sè il misterioso soffio della morte, e ne provava un arcano terrore.

Fatto il giro della camera, il malato parve calmarsi; sedette vicino al letto, porse il coltello ad Andrea.

— Toglimelo, — disse, — nascondilo, non voglio vederlo più. Ho paura.

Andrea prese il coltello, lo chiuse, se lo mise in tasca.

— Di che avete paura? Abbiamo veduto che non c’è nessuno. State tranquillo. Volete coricarvi?

— No. Coricarmi no. Ho paura del male. Ah, non andartene, sta qui, sta vicino.

— Sto qui, sto qui.

— Sta qui, sì, — riprese zio Larentu, [p. 75 modifica]ansando, tremando. — Ho paura, non lasciarmi. Ti ho aspettato e non sei venuto. Non sono ubbriaco, sai, non voglio bevere più, più mai! Sta qui vicino.... Ah, eccolo, è là, nell’armadio, è là, con gli occhi verdi.... ah, ah, ah!

Mise tre gridi d’orrore, e il suo volto si deformò; e prima che Andrea potesse sostenerlo cadde al suolo in preda a indescrivibili convulsioni. Nel cadere si aggrappò ancora alla giacca di Andrea e ne strappò un bottone che tenne chiuso nel pugno rattrappito.

— Che orrore, che orrore! — gridò la serva giovine con un urlo da isterica; e svenne. Zia Coanna la guardò con sdegno.

— Maledizione, ora ho da badare anche a te! — disse.

Intanto i servi s’erano precipitati nella camera, e tenevano fermo il padrone: riuscirono a farlo sedere per terra, ed in questa posizione egli rinvenne.

Pallidissimo, Andrea guardava torcendosi le mani, afflitto di non poter dare aiuto o consiglio.

— Correte, fate ritornare il medico, — ripeteva zia Coanna, china su zio Larentu, che aveva ancora delle contrazioni nervose per tutta la persona. [p. 76 modifica]

— Andate al diavolo, — disse Nofre, infastidito. — Cosa volete che il dottore gli faccia? Gl’innesta forse l’anima sua?

Intanto nessuno badava alla serva che giaceva sempre svenuta sopra una panca e pareva dormisse.

A poco a poco zio Larentu si riebbe: con la bocca aperta, con gli occhi spaventati, cominciò a guardare come un bimbo meravigliato or l’uno or l’altro dei servi; poi fissò a lungo Andrea, e infine guardò per terra, si sollevò, si diede a cercare ansiosamente qualche cosa.

— Cosa cercate? che cosa? — domandò Andrea, curvandosi e cercando istintivamente.

Zio Larentu cercava il bottone, e non ebbe pace finchè non lo trovò e non lo restituì al figliuolo; Andrea lo prese e pianse; poi aiutò a ricomporre le vesti di zio Verre, e farlo sedere appoggiato al letto.

— Perchè non fate rinvenire quella disgraziata? — domandò poi, guardando la serva svenuta.

La fecero rinvenire, e zia Coanna le disse con voce aspra:

— Vattene via, donnina di pasta! E tu sei una donna? E pensi di pigliare marito! E un [p. 77 modifica]marito ubbriacone! Ne vedrai altro che così; ti morrà sotto il letto, il marito, e non batterai ciglio. Vattene di qui, va a dormire.

La serva tremava tutta.

— Non ho veduto mai una cosa così orribile! — mormorò.

— Ne vedrai più orribili ancora, se vivrai. Va!

— Che colpa ne ha lei? — disse Nofre alla vecchia. — Non tutti possono avere il cuore di pietra nera, come il vostro.

— Andate, andate via!

E zia Coanna li spinse tutti verso l’uscio di cucina, che rimase aperto. Si scorgeva il fuoco brillare nel focolare.

Rimasto presso zio Larentu, Andrea sedette e guardò nuovamente or l’uscio di cucina, or l’uscio grigio di fronte a lui. Pensava confusamente che zia Coanna si sarebbe presto ritirata nella camera attigua, e che egli aveva il coltello stile di zio Larentu in tasca.

— È orribile, è orribile! — disse poi fra sé. — Io tremo davanti a quest’uomo che sta per morire, e medito un’altra morte! Sono pazzo, sono vile, sono un miserabile. Quest’uomo mi ha dato il suo coltello perchè aveva paura di adoprarlo nei suoi accessi: lo ha dato ad un [p. 78 modifica]malato più pericoloso di lui! Se lo buttassi anch’io? Sì, vado, lo consegno ai servi; no, lo butto fuori, lontano. Anch’io sono colto dal delirio, a momenti; è bene che anch’io sia disarmato.

Stava per uscire quando sopraggiunse il servo con le medicine: Andrea esaminò le ricette, poi chiese un cucchiaio e sturò una bottiglia che conteneva un liquido chiaro e inodoro.

Zio Larentu ansava e tremava; prese docilmente la medicina e di nuovo si coricò, aiutato da Andrea.

In breve tutto rientrò nella calma triste di prima: Zia Coanna sedeva nel suo angolo, il Verre, con gli occhi socchiusi, riposava e pareva stesse meglio. Per l’uscio aperto s’udiva il crepitar del fuoco in cucina e qualche sommessa parola dei servi.

Andrea sedette ancora, e tornò a fissare l’uscio grigio della camera attigua.

A poco a poco il suo diabolico sogno lo riafferrò.

— È questa l’ora! Se me la lascio sfuggire, non l’avrò mai più. Ora sollevo la testa e dico: zia Coanna, andate anche voi a letto, resto io qui; lasciate l’uscio aperto perchè [p. 79 modifica]se occorre possa chiamarvi. Ella s’alzerà, aprirà quell’uscio grigio, si ritirerà lasciandolo socchiuso. Ecco, mi pare di vederlo. Anche ai servi dico di addormentarsi. Essi non chiedono di meglio. Ecco, tutto è silenzio. Anche quest’uomo si assopisce. Allora io mi alzo in punta di piedi, vado e chiudo l’uscio di cucina.... Poi apro il coltello.... Ah!

Ebbe un brivido di freddo; s’alzò. Era pallidissimo.

— Zia Coanna, — disse con voce sorda, — andate anche voi a letto; resto io, qui; lasciate l’uscio aperto perchè se occorre possa chiamarvi.

Ella s’alzò, disse qualche cosa; ma egli non l’udì, tutto compreso dal timore e dalla speranza che la vecchia non entrasse nella camera attigua. Ma ella aprì l’uscio grigio, entrò, lo lasciò socchiuso; proprio come Andrea l’aveva già veduto.

Egli sedette ancora.

Sentì che zia Coanna lasciava cader le scarpe una dopo l’altra, e che si coricava senza spogliarsi. Allora gli parve di riacquistare tutto il suo sangue freddo: s’alzò, s’avvicinò all’uscio di cucina, e disse ai servi:

— Dormite pure, se volete. Resto io, qui. [p. 80 modifica]

— Va meglio, il padrone? — domandò Nofre, che stava seduto per terra, coi piedi nudi parati al fuoco e le ghette rialzate sulle gambe rosse e pelose.

— Sì, si assopisce.

— Ebbene, vada piuttosto lei a riposarsi; si riposi lì, sul canapè, veglio io.

— No.

— Sì. Lei è stanco.

— No, — egli ripetè. — Fate quello che dico io.

— Ma.... come vuole.

Andrea ritornò al suo posto, e di là vide i servi coricarsi e addormentarsi; anche zio Verre dormiva.

Ecco, tutto fu silenzio.

Allora Andrea s’alzò, attraversò la camera in punta di piedi e chiuse l’uscio di cucina. I cardini emisero nel girare un sottile stridìo, ma egli non si turbò. Tutte le cose procedevano come egli le aveva immaginate; gli parve di aver preveduto anche il sottile grido dell’uscio.

Stette ad ascoltare se i servi si movevano; non udì nulla, e ritornò vicino al letto: zio Larentu dormiva e il suo respiro era calmo, il viso riprendeva il suo colorito naturale. [p. 81 modifica]— È salvo! — pensò Andrea. — Domani egli sarà più sano di me.

Volse le spalle al letto, trasse il coltello, lo aprì e lo esaminò da ogni lato, lungamente, guardandolo con gli occhi fissi, senza battere palpebra.

— È strano, — pensò ad un tratto, sollevando il viso. — Io non provo più nulla. — Forse perchè tutto procede bene? Ora andrò, varcherò quell’uscio, entrerò. Ella dorme: la camera è illuminata appena dalla striscia di luce che penetra da questa stanza. Io mi chino, immergo il coltello nel petto o nella gola della vecchia. Nel petto o nella gola?...

Pienamente in sè, egli attraversò di nuovo la camera, s’avvicinò all’uscio socchiuso, lo spinse alquanto ed entrò. Sulle prime non vide nulla, non udì che il leggero russare della vecchia. Stette immobile finchè si abituò alla penombra; poi s’avvicinò al letto.

La vecchia dormiva supina, col corsetto slacciato; soltanto la maglia e la camicia coprivano il suo petto scarno.

— Il colpo è facile e sicuro, — pensò Andrea, — ma tutto ciò è stupido; non è orribile, è stupido. Io non provo nulla.

Per qualche momento stette curvo sulla [p. 82 modifica]dormente, il cui lieve russare gli sembrava un lontano rumore di pioggia.

— No, io non ho il coraggio di colpire. Ho paura, — pensava Andrea. — Sono un impotente, ecco tutto!

E ad un tratto, preso da un impeto di rabbia contro sè stesso, sollevò il braccio.... Ma improvvisamente, come spinto da una persona invisibile, si volse, uscì dalla camera di zia Coanna, poi da quella di zio Verre, poi dalla cucina.

Un servo s’alzò a sedere, lo seguì con gli occhi appannati dal sonno, poi si rovesciò di nuovo sulla stuoja.

Andrea si fermò presso la siepe e lanciò, lontano il coltello; poi si diresse verso il paese. La luna era tramontata; ma un chiarore incerto pioveva ancora dal cielo biancastro: l’aria era tiepida; i narcisi olezzavano. Andrea pensava:

— Ebbene sì, fuggo perchè dopo tutto non bisogna fidarci mai di noi stessi; e sarò anche un vile, ma la mia forza è appunto in questa viltà: non farò mai del male, mai.... neppure volendolo!...

E gli sembrava di esser guarito da una terribile malattia.

Note

  1. Abitazione campestre, nella parte settentrionale della Sardegna.
  2. Proverbio sardo.
  3. Espressione locale: si dice d’uno le cui vesti son lacere.
  4. Acquavite.