Istoria del Concilio tridentino/Libro primo/Capitolo III
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CAPITOLO III
(ottobre 1523 - 1529).
[Elezione di Clemente VII. — Invio del cardinale Campegio alla dieta di Norimberga. — A Ratisbona fa ratificare da alcuni principi e vescovi la sua proposta di riforme, dagli altri non accettate. — L’imperatore disapprova il decreto della dieta. — Nuova dieta di Spira: decisione di nulla mutare, in attesa di un concilio. — Lega santa di Cognac: Clemente VII invia due brevi a Carlo V. — Risposte dell’imperatore, sue lagnanze, appello al concilio e lettera al collegio dei cardinali. — I colonnesi contro il papa: saccheggio del Vaticano: scomunica di essi, che si appellano al concilio. — Sacco di Roma da parte degl’imperiali e cacciata dei Medici da Firenze: prigionia e liberazione del papa. — La riforma si afferma in Svizzera: tentativi anche in Italia. — Clemente VII si riconcilia con Carlo V. Dieta di Spira e suo decreto: protesta di alcuni principi: dal che il nome di «protestanti». — Lutero e Zuinglio: vano tentativo di conciliazione a Marburgo. — Carlo V e Clemente VII a Bologna: il papa distoglie l'imperatore dall’idea d’un concilio. — Incoronazione dell’imperatore e convocazione d’una dieta in Augusta.]
Dopo la morte di Adriano fu creato successore Giulio de’ Medici, cugino di papa Leone, che fu chiamato Clemente VII, il quale immediate applicò l’animo alle cose di Germania; e come quello ch’era molto ben versato nella cognizione dei maneggi, vedeva chiaramente che papa Adriano, contra il tenore sempre usato da savi pontefici, era stato troppo facile cosí in confessar li difetti della corte conte in promettere la riformazione, e troppo abietto in aver domandato alli Germani conseglio come si potesse provvedere alle contenzioni di quel regno, perché con questo egli aveva tiratosi a dosso la dimanda del concilio, che molto importava, massime con la condizione di celebrarlo in Germania, ed aveva dato troppo animo alli prencipi con queste sue azioni, che perciò avevano avuto non solo ardire di mandar a lui, ma di metter ancora in stampa li Cento gravami, scrittura ignominiosa per l’ordine ecclesiastico di Germania, ma molto piú per la corte romana. E ben pensate tutte le cose, venne in resoluzione che fosse necessario dar qualche satisfazione alla Germania: in maniera tale però che non fosse posta in pericolo l’autoritá sua né levati li comodi della corte. Considerò che nelli cento gravami, se ben molti riguardavano la corte, la maggior parte però toccavano li vescovi, officiali, curati ed altri preti di Germania. Per il ché venne in speranza che se questi fossero reformati, i tedeschi facilmente s’averebbono lasciato indur a tacere per allora di quello che toccava a Roma, e con questa medesima riforma s’averebbe divertito la trattazione del concilio. Pertanto giudicò bene spedir immediate un legato di prudenzia e autoritá alla dieta che si doveva celebrar di lá tre mesi in Norembergo, con instruzione di camminar per le sopradette vie; e sopra tutte le cose dissimular di sapere le proposizioni da Adriano fatte e le risposte a lui date, per non ricevere da quelle alcun pregiudicio nelle trattazioni sue, ma per poter procedere come re integra.
Il legato fu Lorenzo Campegio, Cardinal di Santa Anastasia; il quale gionto nella dieta, dopo aver trattato diverse cose con alcuni particolari per disponer il suo negoziato, parlò anco in pubblico, dove disse sentir molta maraveglia che tanti principi e cosí prudenti potessero sopportare che fosse estinta ed abolita la religione, li riti e cerimonie ne’ quali erano nati ed educati essi, e li loro padri e maggiori morti, senza considerare che tal novitá tendesse alla ribellione del popolo contra i magistrati. Che il pontefice, non mirando ad alcun interesse suo, ma paternamente compatendo alla Germania incorsa in spirituali e temporali infermitá e soggetta a maggiori pericoli imminenti, l’aveva mandato per trovar modo di sanar il male: non esser intenzione della Santitá sua di prescriver loro cosa alcuna, né meno di voler che a lui fosse prescritta, ma ben di consegliar insieme con loro delli remedi opportuni; concludendo che se fosse rifiutata da loro la diligenzia della Santitá sua, non sarebbe poi ragionevole rivoltare colpa alcuna sopra di quella.
Li fu risposto dalli prencipi (perché Cesare era in Spagna, come si è detto di sopra), prima ringraziando il pontefice della benevolenza, e poi dicendo che ben sapevano il pericolo imminente per la mutazione della dottrina nella religione; e per tanto nella dieta dell’anno inanzi avevano mostrato al nuncio del pontefice Adriano il modo e via di componer li dissidi, al quale anco avevano dato in scritto tutto quello che desideravano e ricercavano da Roma, la qual scrittura credevano che fosse stata da Adriano ricevuta, avendo il noncio promesso di consegnarla; sí come anco tenevano che a tutti fossero noti li gravami che la Germania riceveva dall’ordine ecclesiastico, essendo pubblicati in stampa; e sino a quell’istante erano stati aspettando che li loro giusti desideri fossero esauditi, come tuttavia aspettavano; per il che s’egli allora aveva qualche ordine o instruzione dal pontefice, lo pregavano di esporlo, acciò si potesse insieme con lui ben consigliare il tutto.
A questo il legato, seguendo la commissione datagli dal pontefice, replicò: non sapere che fosse stata portata al papa né a’ cardinali alcuna instruzione del modo e via di componer il dissidio della religione; bene gli accertava della ottima volontá del pontefice, dal quale egli aveva pienissima potestá di far tutto quello che avesse servito a tal fine; per il che toccava a loro di metter inanzi la via, li quali sapevano la condizione delle persone e li costumi della regione. Esser loro molto ben noto che Cesare nella dieta di Vormazia, con loro consenso, aveva pubblicato un editto contra i luterani, al quale alcuni avevano obedito e altri no; della qual diversitá e varietá egli non sapeva la ragione, ma ben li pareva che inanzi ogn’altra cosa si dovesse deliberar del modo di eseguirlo. Che se ben non aveva ancora inteso che li cento gravami fossero stati pubblicati per presentargli al pontefice, sapeva però esserne stati portati tre esemplari a Roma ad alcuni privati, ed egli ne aveva veduto uno, ed erano stati veduti anco dal pontefice e dalli cardinali, quali non si poteron persuader che fossero raccolti per ordine delli principi, ma ben pensavano che da qualche malevolo per odio della corte romana fossero mandati fuori. Che se ben egli non aveva nissun ordine né instruzione dal pontefice in quella materia, non dovessero però pensare che non avesse autoritá di trattarne secondo l’espediente; ben li diceva che in quelle domande ne erano molte che derogavano alla potestá del pontefice e sentivano il fetor di eresia, delle quali egli non poteva trattare; ma si offeriva di conoscere e parlar di quelle che non erano contro al pontefice e avevano fondamento di equitá; che poi se restasse qualche cosa da trattarsi col pontefice, la potrebbono proponer, ma con modi piú moderati; che non poteva restar di biasimare che si fossero messi in stampa e fatti pubblicare, parendogli questo troppo; ma però esser certo che per amor della Germania il pontefice fará ogni cosa, essendo egli pastore universale: ma se la voce del pastore non sará udita, il pontefice ed egli non potranno far altro che portarlo in pazienza e rimetter ogni cosa a Dio.
La dieta, se ben non ebbe per verisimile che il cardinale e il pontefice non fossero consci delle cose trattate con Adriano, e giudicasse che nelle risposte del legato vi potessero essere qualche artifici, nondimeno, desiderando che si prendesse buona deliberazione al fine della quiete di Germania, deputarono alcuni principi per negoziare col cardinale, li quali non potêro da lui aver altro se non che egli averebbe fatto una buona riforma per il clero di Germania; ma quanto agli abusi della corte, non fu possibile farlo condescendere ad alcuna cosa, perché egli, come si introduceva ragionamento di quelli, o che diceva il riprenderli esser eresia, o che si rimetteva al pontefice, dicendo che con lui bisognava trattare.
Fece il cardinale la formula della riforma di Germania, la quale non toccando se non il clero minuto, e parendo loro che dovesse non solo fomentar il male, come fanno sempre li remedi leggieri, anzi giudicando alcuni che dovesse servir ad accrescere maggiormente il dominio della corte e delli prelati maggiori a pregiudicio dell’autoritá temporale, e dar adito a maggiori estorsioni di danari, non fu ricevuta; dicendo essi che era una mascherata per deludere l’aspettazione di Germania e per ridurla sotto maggior tirannide, con tutto che il legato facesse accurati ed efficaci uffici per ottenerlo; né da lui fu acconsentito ad alcuna delle proposizioni fattegli da deputati della dieta. Laonde, vedendo che era impossibile di concludere alcuna cosa con lui, pubblicarono il recesso a’ 18 aprile, con decreto che dal pontefice, col consenso di Cesare, fosse intimato quanto prima un concilio libero in Germania, in luoco conveniente, e che li stati dell’Imperio si congregassero a Spira per li 11 novembre, per determinar che cosa si dovesse seguire, tra tanto che era dato principio al concilio; che ciascun principe nel suo stato congregasse uomini pii e dotti, li quali raccogliessero le cose da disputare nel concilio; che li magistrati avessero cura che fosse predicato l’Evangelio secondo la dottrina delli scrittori approvati dalla Chiesa e fossero proibite tutte le pitture e libri contumeliosi contra la corte romana. Il legato, avendo opposto a tutti i capi del decreto e mostrato che non era officio de’ secolari deliberar alcuna cosa intorno alla fede e dottrina o predicazione di quella, quanto al concilio solamente promise che averebbe dato conto al pontefice.
Partendosi li prencipi dalla dieta, fece il legato ufficio con quelli che piú erano aderenti alle cose romane di riedurli insieme con lui per pubblicar la riforma non ricevuta in dieta; e si ridussero in Ratisbona con lui Ferdinando fratello dell’imperatore, il cardinale arcivescovo di Salzburg, due delli duchi di Baviera, li vescovi di Trento e Ratisbona insieme con li agenti di nove vescovi, e lá fecero prima un decreto sotto il di 6 di luglio: che essendo stato ordinato nel convento di Norembergo che l’editto di Vormazia contra Lutero fosse eseguito quanto si poteva, per tanto essi, ad instanzia del cardinale Campegio legato, comandavano che fosse osservato in tutti li loro domini e stati; che fossero castigati gli innovatori secondo la forma dell’editto; che non si mutasse cosa alcuna nella celebrazione della messa e dei sacramenti; si castigassero li monaci e monache apostati, e preti che si maritavano, e quelli che ricevevano l’eucaristia senza confessarsi o mangiavano cibi proibiti; che tutti li loro sudditi, quali erano nell’accademia di Vittemberg, fra tre mesi partissero, tornando a casa o vero andando in altro luogo cattolico. Poi il giorno seguente delli sette pubblicò il cardinale le sue constituzioni della reforma, le quali furono approvate da tutti li sopra nominati principi, e comandato che per li loro stati e domini fossero promulgate, ricevute ed osservate.
Nel proemio di esse constituzioni diceva il cardinale che essendo di molto momento, per estirpar l’eresia luterana, reformare la vita e costumi del clero, col conseglio delli prelati e prencipi seco ridotti aveva statuito quei decreti, li quali comandava che fossero recevuti per tutta Germania dagli arcivescovi, vescovi ed altri prelati e preti e regolari, e pubblicati in tutte le cittá e chiese. Contenevano trentasette capi: circa il vestire e conversare dell’ordine clericale, circa il ministrare gratis li sacramenti ed altre fonzioni ecclesiastiche, sopra li conviti, sopra le fabbriche delle chiese, sopra quelli che s’avevano a ricever agli ordini, sopra la celebrazione delle feste, sopra i digiuni, contra li preti che si maritavano, contra quelli che non si confessavano e comunicavano, contra li biastematori, sortilegi e divinatori ed altre tal cose. In fine era comandata la celebrazione delli concili diocesani in ogni anno per osservanza di quei statuti, dando alli vescovi potestá d’invocar il braccio secolare contra li transgressori.
Divulgato l’editto di riforma, li principi e vescovi, che nella dieta non avevano consentito alla dimanda del cardinale, restarono offesi cosí di lui come di tutti quelli che erano convenuti con esso in Ratisbona, parendo loro restar ingiuriati dal legato che avesse voluto far un ordine generale per tutta Germania con intervento di alcuni pochi solamente; e tanto piú dopo che essi gli avevano dimostrato che non sarebbe stato per riuscirne alcun bene. Si riputarono anco ingiuriati da que’ pochi prencipi e vescovi, che soli s’avessero assonto d’intervenire ad obbligare tutta la Germania, contra il parere degli altri. Si opponeva anco a quella riformazione: prima, che tralasciate le cose importanti, come se in quelle non vi fosse alcun disordine, provvedesse alle cose di leggerissimo rilevo, perché poco male pativa la Germania per li abusi del clero minuto, ma gravi per le usurpazioni del li vescovi e prelati, e gravissimi per quelle della corte romana; e nondimeno, come se questi fossero stati piú ordinati che nella primitiva Chiesa, non si faceva menzione di loro. Poi, per quanto s’aspettava anco al minuto clero, non si trattava delli principali abusi, ma di quelli che meno importavano, che era quasi un approvar gli altri; e quelli anco che si riprendevano erano lasciati senza li veri rimedi col solo notarli, non applicandovi la medicina necessaria per sanar il male.
Ma al legato e alli sopradetti prencipi con lui convenuti poco importava quello che fosse detto in Germania e meno quello che fosse per seguire dalla pubblicazione dell’editto, perché il loro fine non era altro che dar sodisfazione al pontefice, né il fine del pontefice altro che mostrare d’avere provveduto, sí che non vi fosse bisogno del concilio. Perché Clemente, molto versato nelli maneggi di stato, eziandio vivendo Adriano, sempre aveva tenuto e defeso che nelle occorrenze di quei tempi era conseglio pernicioso valersi del mezzo de’ concili; ed era solito dire che il concilio fosse utile sempre che si tratta altro che dell’autoritá del papa; quando quella viene in contenzione, nessuna cosa è piú perniciosa. Perché si come per li tempi passati l’arma de’ pontefici fu il ricorso alli concili, cosí adesso la sicurezza del pontificato consiste in declinarli e fuggirli: e tanto piú quanto ch’avendo giá Leone X condannato la dottrina di Lutero, non si può trattare la medesma materia in un concilio né metterla in esame, senza metter in dubbio l’autoritá della sede apostolica ancora.
Cesare, ricevuto il decreto di Noremberg, si commosse assai, parendoli che il trattar e dar risposta cosí risoluta, senza sua saputa, a prencipe forestiero [in] cosa di tanta importanza, fosse di poca riputazione alla Maestá sua imperiale. Non li piacque ancora il rigore del decreto, prevedendo il dispiacere del pontefice, il quale desiderava tenersi grato e ben affetto, per la guerra che si faceva allora da’ suoi capitani con francesi. Per il che rescrisse in Germania alli prencipi, lamentandosi che avendo egli condannato tutti li libri di Lutero, la dieta si fosse ristretta alli soli contumeliosi; ma piú gravemente li riprese che essi avessero fatto decreto di celebrar concilio in Germania e avessero ricercato il legato di trattarne col pontefice, quasi che questo non appartenesse piú ad esso pontefice e a sé che a loro: li quali se credevano che fosse tanto utile alla Germania la congregazione d’un concilio, dovevano aver ricorso a lui che l’impetrasse dal pontefice. Con tutto ciò, conoscendo egli ancora che ciò sarebbe stato utile per la Germania, era risoluto che si celebrasse, in tempo e luoco, però, quando e dove egli potesse ritrovarsi in persona. Ma toccando l’aver ordinato una nova reduzione in Spira per regolare le cose della religione sino al concilio, soggiunse che egli non voleva in modo alcuno concedere loro il ridursi, anzi comandava che attendessero ad obedir all’editto di Vormazia e non trattassero cosa alcuna di religione sin tanto che non si congregasse un concilio per ordine del pontefice e suo. Le lettere imperiali, piú imperiose di quelle che la Germania era solita ricevere dalli predecessori, mossero umori assai pericolosi negli animi di molti prencipi, che fluttuando averebbono facilmente sortito qualche fastidioso termine.
Ma il moto presto restò sedato; e rimase anco l’anno seguente 1525 senza nessuna negoziazione in questa materia di concilio, perché in Germania si eccitò la rebellione delli villani contra li prencipi e magistrati, e la guerra degli anabattisti che tenne ognuno occupato; e in Italia successe nel bel principio dell’anno la giornata di Pavia e la pregionia del re Francesco di Francia, la quale inalzò cosí l’animo di Cesare, che li pareva aver ricevuto tutto ’l mondo in suo arbitrio; ma poi lo tenne tutto occupato per le leghe di molti prencipi che si trattarono contra di lui, e per la negoziazione della liberazione del re. Il pontefice ancora, per esser restata l’Italia senza defesa in arbitrio delli ministri cesarei, pensava a se stesso e come congiongersi con altri che lo potessero defendere dall’imperatore, dal quale si era alienato, avendolo veduto fatto cosí potente che il pontificato restava a discrezione sua.
Nell’anno 1526 si tornò alle medesme trattazioni in Germania e in Italia. In Germania, essendo redotti tutti gli ordini dell’Imperio alla dieta in Spira nel fine di giugno, fu posto in deliberazione, per ordine speciale di Cesare, in che modo si potesse conservare la religione cristiana e gli antichi costumi della Chiesa, e castigare li violatori. Ed essendo li pareri cosí diversi, che non era possibile concludere cosa alcuna, li rappresentanti cesarei fecero leggere le lettere imperiali, dove Carlo diceva aver deliberato di passar in Italia e a Roma per la corona e per trattare col pontefice di celebrar il concilio; e per tanto comandava che nella dieta non si statuisse alcuna cosa contra le leggi, ceremonie e vecchi usi della Chiesa, ma fosse osservata la formula dell’editto di Vorinazia e si contentassero di portar in pazienzia quella poca dimora, sin che egli avesse trattato col pontefice la celebrazione del concilio; il che sará in breve, perché col trattar le cose della religione in una dieta piú tosto ne nasce male che bene.
Le cittá per la maggior parte risposero esser loro desiderio di gratificar ed obedir Cesare, ma non veder il modo di far quello che egli nelle lettere comandava, per esser accresciute e crescere continuamente le controversie, massime sopra le ceremonie e riti; e se per il passato non s’aveva potuto osservar l’editto di Vormazia per tema di sedizioni, la difficultá esser molto maggiore al presente, come s’era demostrato al legato del pontefice, sí che se Cesare si ritrovasse presente e fosse informato dello stato delle cose, non ne farebbe altro giudicio. E quanto alla promessa della Sua Maestá per la celebrazione del concilio, diceva ciascuno che egli poteva ben effettuarla nel tempo che scrisse le lettere, perché allora era in buona concordia col pontefice; ma dopo, essendo nati tra loro disgusti e avendosi armato il pontefice contra lui, non si vedeva come in questo stato di cose si potesse congregar concilio. Per questi respetti alcuni proponevano che, per rimediar alli pericoli imminenti, fosse ricercato Cesare di concedere un concilio nazionale in Germania; il che se non li piacesse, almeno, per ovviar alle gravissime sedizioni, si contentasse di differire l’esecuzione dell’editto di Vormazia sino al concilio generale. Ma li vescovi, che non avevano altra mira se non al conservar la loro autoritá, dicevano che nella causa della religione non si dovesse venir ad alcuna trattazione duranti le discordie tra Cesare e il pontefice, ma tutto fosse differito a meglior tempo.
Le opinioni erano cosí diverse e si eccitò tanta discordia tra gli ecclesiastici e gl’inclinati alla dottrina luterana, che le cose si viddero in manifesto pericolo di guerra civile; e molti delli prencipi si mettevano in ordine per partirsi. Ma Ferdinando e gli altri ministri di Cesare, vedendo chiaramente quanto male sarebbe partorito se con tal dissensione d’animi si fosse dissoluta la dieta e si fossero partiti li principi senza alcun decreto (perché secondo li vari interessi diversamente averebbono operato, con pericolo di divider irreconciliabilmente la Germania), si diedero a placar gli animi de’ principali cosí dell’una come dell’altra parte, e finalmente si venne alla risoluzione di far un decreto, il quale se ben in esistenzia non concludeva secondo la mente di Cesare, nondimeno mostrava apparenzia di concordia fra gli stati ed obedienzia verso l’imperatore. La continenzia del decreto fu che essendo necessario per dar ordine e forma alle cose della religione, e per mantenimento della libertá, celebrar un legittimo concilio in Germania, o vero un universale di tutta la cristianitá, il quale s’incominci inanzi che passi un anno, si debbi mandar ambasciatori a Cesare a pregarlo di voltar l’occhio al misero e tumultuoso stato dell’Imperio e ritornar in Germania quanto prima e procurarlo; e fra tanto che si possi ottener o l’un o l’altro delli concili necessari, nella causa della religione e dell’editto di Vormazia tutti li principi e stati debbino nelle loro provincie e giurisdizioni governarsi in maniera che possino render buon conto delle loro azioni alla Maestá divina e all’imperatore.
Ma in Italia Clemente, che aveva passato tutto l’anno inanzi in perplessitá e timori, parendogli di veder Carlo ora armato in Roma per occupar lo stato ecclesiastico e racquistare la possessione dell’imperio romano, occupato con arti da’ suoi predecessori, ora di vederlo in un concilio a moderare l’autoritá pontificia nella Chiesa, senza di che ben vedeva esser impossibile diminuire la temporale; e sopra tutte le cose aveva concetto un mal presagio che tutti li ministri, mandati in Francia per trattar con la madre del re e col governo, erano nel viaggio periti; finalmente nell’uscir del marzo di quest’anno respirò alquanto, intendendo che il re, liberato, era tornato in Francia. Mandò in diligenzia a congratularsi con lui [Capino da Capo] ed a concluder la confederazione contra l’imperatore; la qual poiché fu stabilita in Cugnac il 22 maggio tra sé, quel re e li prencipi italiani con nome di lega santissima, e assolto il re dal giuramento prestato in Spagna per osservazione delle cose convenute, liberato dal timore, affetto che lo dominava molto, parendogli d’esser in libertá, ed irritato sommamente perché non solo in Spagna e in Napoli erano pubblicate ordinazioni in pregiudicio della corte romana, ma, quel che piú gli premeva, in quei giorni un notaro spagnolo ebbe ardire di comparir in rota pubblicamente e far comandamento, per nome di Cesare, a due napolitani che desistessero di litigar in quell’auditorio; venne in risoluzione di far palese l’animo suo per dar cuore alli collegati. E scrisse a Carlo, sotto il 23 giugno, un breve assai longo in forma d’invettiva, dove commemorati li benefici fattigli da sé, cosí essendo Cardinal come dopo nel pontificato, e li partiti grandi che aveva recusato da altri prencipi per star nella sua amicizia, vedendo di esser mal rimeritato e non esserli corrisposto né in benevolenza né meno in osservazione delle promesse, anzi in contrario esserli data molta materia di suspizione e fatte molte offese, con eccitamento di nove guerre in Italia e altrove, le qual tutte ancora commemorò particolarmente, imputando all’imperatore la colpa di tutti i mali, e mostrando che in tutto la dignitá pontificale fosse lesa; e passando anco ad un altro genere di offensioni fattegli con aver pubblicato leggi in Spagna e prammatiche in Napoli contro la libertá ecclesiastica e la dignitá della sede apostolica, concluse finalmente non, secondo il consueto delli pontefici, con minacce di pene spirituali, ma protestandogli che se non vorrá ridursi alle cose del giusto, cessando dall’occupazione d’Italia e da perturbar le altre parti della cristianitá, egli non sará per mancare alla giustizia e libertá d’Italia, nella quale sta la tutela di quella santa sede, ma moverá le arme sue giuste e sante contra di lui, non per offenderlo, ma per defender la comune salute e la propria dignitá.
Ispedito il dispaccio in Spagna, il di seguente scrisse ed espedíi all’imperatore un altro breve senza far menzione del primo, dove in sostanza diceva: che egli era stato costretto, per mantenere la libertá d’Italia e soccorrer alli pericoli della sede apostolica, venir alle deliberazioni che non si potevano tralasciar senza mancar all’ufficio di buon pontefice e di giusto prencipe, alle quali se la Maestá sua vorrá porger il remedio a lei facile, utile e glorioso, la cristianitá sará liberata da gran pericolo, di che gli dará piú ampio conto il suo noncio appresso lui residente; che la pregava per la misericordia di Dio ad ascoltarlo e provveder alla salute pubblica e contener tra li termini del giusto le voglie sfrenate e ingiuriose de’ suoi, acciò gli altri possino restar sicuri delli beni e della vita propria. Sotto queste ultime parole comprendeva il pontefice principalmente Pompeo cardinale Colonna, Vespasiano ed Ascanio, con altri di quella famiglia, seguaci delle parti imperiali e aiutati dal viceré di Napoli, da’ quali riceveva quotidianamente varie opposizioni a’ suoi pensieri. E, quello che nell’animo suo faceva impressione maggiore, temeva anco che non li mettessero in difficoltá il pontificato. Imperocché il Cardinal su detto, uomo ardito e fastoso, non si conteneva di parlar pubblicamente di lui come di asceso al pontificato per vie illegittime; e magnificando le cose operate dalla casa Colonna contra altri pontefici (come egli diceva) intrusi ed illegittimi, aggiongeva esser fatale a quella fameglia l’odio dei pontefici tiranni, e ad essi l’esser repressi dalla virtú di quella; e minaciava di concili, facendo ufficio con tutti li ministri imperiali per indur l’imperatore a congregarlo. Di che non solo irritato il pontefice, ma ancora per prevenire, pubblicò un severo monitorio contra quel cardinale, citandolo a Roma sotto gravissime pene e censure, nel qual anco toccava manifestamente il viceré di Napoli e obliquamente l’imperatore. Ma non passando prosperamente la mossa d’arme in Lombardia e differendo a comparire l’esercito del re di Francia, ed insieme essendo successa in Ungaria la sconfitta dell’esercito cristiano e la morte del re Lodovico, e moltiplicando tuttavia in Germania il numero di quelli che seguivano la dottrina di Lutero, e richiedendo tutti un concilio che conciliasse una pace universale tra’ cristiani e mettesse fine a’ tanti disordeni, il papa, avendo prima composte le cose coi colonnesi ed abolito il monitorio pubblicato contra il cardinale, congregato il concistorio il dí 13 settembre, con longhissimo discorso commiserò le miserie della cristianitá, deplorò la morte del re d’Ungaria e attribuí ogni infortunio all’ira divina eccitata per li peccati, confessando che tutti avevano origine dalla disformazione dell’ordine ecclesiastico: monstrò come era necessario per placarla incominciar (cosí disse) dalla casa di Dio; al che voler dar lui esempio nella propria persona. Scusò la mossa delle armi e il processo contra li Colonna; esortò i cardinali all’emendazione de’ costumi; disse che voleva andar in persona a tutti li prencipi per maneggiar una pace universale, risoluto piú tosto di lasciar la vita che cessar da quest’impresa, sin che non l’avesse condotta ad effetto, avendo nondimeno ferma speranza nell’aiuto di Dio di vederne la conclusione; la qual ottenuta, era risoluto celebrar il concilio generale, per estinguere anco la divisione nella Chiesa e sopir le eresie. Esortò i cardinali a pensar ciascuno e proporli tutti quei mezzi che giudicassero poter servire a questi due scopi: d’introdur la pace e sradicare le eresie.
Si pubblicò per Roma ed anco per Italia il ragionamento del papa, e ne fu mandata copia per mano di molti; e quantonque da’ suoi fosse molto aiutato con la commendazione, ebbe però fede di sincero appresso pochi.
Ma in Spagna, essendo state presentate le due lettere dal noncio pontificio all’imperatore, l’una un dí dopo l’altra, si eccitò molto pensiero nel conseglio di quel prencipe. Credevano alcuni di essi che Clemente, pentito dell’acerbitá della prima, avesse scritta la seconda per medicina; per il che consigliavano che non convenisse mostrarne risentimento: e questa opinione era fomentata da una disseminazione sparsa dal noncio, che con la seconda avesse avuto ordine, se la prima non era presentata, di non renderla, ma, consignando solo la seconda, rimandarla. Li piú sensati ben vedevano che non vi essendo differenza maggiore che di un giorno, se fosse stato pentimento, averebbe il papa potuto, facendo accelerar il corriere secondo, prevenir il primo; poi non esser verisimile che un prencipe prudente come quello, senza gran consulta fosse venuto a deliberazione di scrivere con tanta acerbitá. Però riputavano che fosse stato un artificio di protestare e non voler risposta. E fu risoluto che dall’imperatore fosse imitato, rispondendo parimente alla prima con li termini convenienti alla severitá, e un giorno dopo alla seconda, corrispondendo alla maniera tenuta in quella.
E cosí fu esequito, e sotto il 17 settembre scritta dall’imperatore una lettera apologetica, che nel suo originale conteneva ventidue fogli in carta bombasina, la qual Mercurio da Gattinara, cosí aperta, presentò al noncio e gliela lesse, e in sua presenza la sigillò e consegnò, acciò la facesse capitar al papa. Nell’ingresso della lettera mostrò Cesare il modo tenuto dal pontefice esser disconveniente all’ufficio di un vero pastore e non corrispondente alla filial osservanza usata da sé verso la sede apostolica e la Santitá sua, la quale lodava tanto le proprie azioni e condennava con titoli di ambizione e avarizia quelle di lui, che lo costringeva di mostrar la sua innocenza. Ed incominciata la narrazione da quello che passò in tempo di Leone, poi in tempo di Adriano, e finalmente nel suo pontificato, andò mostrando in tutte le sue azioni aver avuto ottima intenzione e necessitá di operare come aveva fatto, revoltando la colpa nel pontefice. Commemorò ancora molti benefici fattigli, e per il contrario molte trattazioni di esso pontefice contra di lui in diverse occasioni; e finalmente concluse che nissuna cosa piú desiderava che la pubblica quiete e la pace universale e la giusta libertá d’Italia: le quali se anco erano desiderate dalla Santitá sua, ella doveva metter giú l’arme riponendo la spada di Pietro nella vagina; perché, fatto questo fondamento, era facile edificarvi sopra la pace, e attendere a corregger gli errori de’ luterani ed altri eretici, in che averebbe trovato lui ossequente figliuolo. Ma se la Santitá sua facesse altramente, protestava inanzi a Dio e agli uomini che non si poteva ascriver a colpa sua nessuna delle sinistre cose che sarebbono avvenute alla religione cristiana, promettendo che se Sua Santitá ammetterá le sue giustificazioni come vere e legittime, egli non si raccorderá delle ingiurie ricevute; ma se continuerá contra di lui con l’arme (poiché ciò non sará far ufficio di padre, ma di parte, né di pastore, ma di assalitore), non sará conveniente che sia giudice in quelle cause; né essendovi altro a chi aver ricorso contro di lui, per propria giustificazione rimetterá tutto alla recognizione e giudicio d’un concilio generale di tutta la cristianitá, esortando nel Signore la Santitá sua che dovesse intimarlo in luogo sicuro e congruo, prefiggendovi termine conveniente: perché vedendo lo stato della Chiesa e religion cristiana tutto turbarsi, per provveder alla salute propria e della repubblica ricorre ad esso sacro e universal concilio, e a quello appella di tutte le minacce e futuri gravami.
La risposta alla seconda fu sotto il 18; e in quella diceva: essersi rallegrato vedendo nelle seconde lettere la Santitá sua trattar piú benignamente e di miglior animo desiderar la pace: la quale se fosse cosí in potestá di lui di stabilire, come in mano d’altri il mover la guerra, vederebbe qual fosse l’animo suo; se ben tiene che la Santitá sua parli spinta da altri e non di animo spontaneo, e spera in Dio che ella debbia piú tosto procurar la salute pubblica che secondar gli affetti d’altri. Per il che la prega a risguardar le calamitá del populo cristiano; imperocché egli chiama Dio in testimonio che sempre è per fare che ognuno conosca lui non aver altro fine che la gloria di Dio e la salute del suo popolo, come nelle altre lettere ha scritto piú diffusamente.
Scrisse ancora l’imperatore, sotto il 6 di ottobre, al collegio de’ cardinali: sentir grandissimo dolore che il papa, scordato della dignitá pontificia, cercasse turbar la tranquillitá pubblica; e mentre egli pensava, per l’accordo fatto col re di Francia, aver ridotto tutto ’l mondo in pace, gli fossero sopravvenute lettere dal pontefice, quali mai averebbe creduto dover uscir da un padre comune e vicario di Cristo: le quali ancora ha creduto esser state deliberate non senza loro conseglio, pensando che il pontefice non tratti cose di tanto momento senza comunicargliele. Per il che si è molto turbato, vedendo che da un pontefice e da padri di tanta religione procedessero guerre, minacce e perniciosi consegli contra un imperator protettore della Chiesa e tanto benemerito; il qual, per compiacer loro, in Vormazia otturò le orecchie alle preghiere portegli da tutta la Germania contra le oppressioni e gravami che pativa dalla corte romana, non tenendo conto delle oneste dimande fattegli che fosse convocato un concilio per ovviar alle su dette oppressioni, che sarebbe ovviar insieme all’eresia luterana. Che per servizio della sede romana ha proibito il convento che la Germania aveva intimato in Spira, prevedendo che sarebbe stato un principio di separar la Germania dall’obedienza romana, e ha divertito i pensieri di quei prencipi col prometterli il concilio. Di che avendo scritto al pontefice e datogli conto, la Santitá sua lo ringraziò che avesse vietato il convento di Spira, e lo pregò a differir di parlar di concilio a tempo piú opportuno. Ed egli per compiacer alla Santitá sua tenne piú conto di sodisfarlo che delle preci della Germania, tanto necessarie; e con tutto ciò il papa li scriveva ora lettere piene di querele ed imputazioni, dimandandoli anco cose che non poteva con giustizia e con sicurtá sua concedere. Delle qual lettere manda loro la copia, avendo voluto significarli il tutto, acciocché sovvengano alla cristianitá cadente e si adoperino a divertir il pontefice da cosí perniciosa deliberazione, nella qual se persevererá immobile, lo esortino alla convocazione del concilio; a che quando non voglia condescendere, secondo l’ordine della legge, ricerca Loro Paternitá reverendissime ed il sacro collegio che, negando o differendo il pontefice la convocazione, debbino convocarlo essi, servato il debito ordine; perché se essi negheranno di concederli questa giusta dimanda, o differiranno piú di quello che sia conveniente, egli provvederá con l’autoritá imperiale, usando li rimedi giusti e opportuni.
Fu presentata questa lettera a’ 12 di decembre nel concistorio, ed insieme anco fu presentato nel medesimo luogo al pontefice un duplicato della lettera che fu consegnata al noncio in Granata. Furono immediate stampate in diversi luoghi di Germania, Spagna e Italia tutte queste lettere, e n’andarono per mano degli uomini molti esemplari. Le persone che, se ben osservano li accidenti del mondo, non sono però di molta capacitá, e sogliono viver e regolarsi dagli esempi d’altri e massime delli grandi, e che per le demostrazioni fatte da Carlo contra i luterani, cosí in Vormazia come in altre occasioni, a favor del pontificato, tenevano che per religione e conscienzia Carlo favorisse la parte del papa, veduta la mutazione dell’imperatore, restarono pieni di scandolo, massime per quel che diceva aver otturato orecchie alle oneste preghiere di Germania per far piacere al pontefice. E li ben intendenti ebbero opinione che quella Maestá non fosse stata ben consegnata a divulgar un tanto arcano e dar occasione al mondo di credere che la riverenza dimostrata verso il papa era un’arte di governo, coperta di manto della religione. E oltre ciò aspettavano che per quelle lettere si dovesse veder qualche gran risentimento del pontefice, avendo l’imperatore toccati due grand’arcani del pontificato: l’uno, appellando dal papa al futuro concilio contra le constituzioni di Pio e Giulio secondi, l’altro, avendo invitato li cardinali a convocar concilio, in caso della negativa data o dilazione interposta dal pontefice; ed era necessario che questo principio tirasse seco gran conseguenti.
Ma sí come li semi, quantonque fertilissimi, gettati in terra fuori di stagione non producono, cosí li gran tentativi fuori dell’opportunitá riescono vani. E tanto avvenne in questa occasione: perché mentre il pontefice trattava con le arme sue e di tanti prencipi risentirsi, per dover poi adoperar li rimedi spirituali dopo fatto qualche fondamento temporale, li colonnesi, o non fidandosi delle promesse di Clemente o per altra causa, armati gli uomini delle loro terre e altri seguaci di quella fazione, si accostarono a Roma dalla parte del Borgo il di 20 settembre, che misse gran spavento nella famiglia pontificia; ed il papa, soprapreso alla sprovvista e tutto confuso, non sapendo che risoluzione prendere, dimandava gli abiti pontificali solenni, dicendo voler cosí vestito, ad imitazione di Bonifacio VIII, sedendo nella sede pontificale, aspettar di veder se ardissero di aggionger alla prima una seconda violazione della dignitá apostolica nella propria persona del pontefice. Ma cesse facilmente al conseglio de’ suoi, che lo persuasero a salvar la persona sua per il corridore nel Castello, e non dar occasione d’esser notato d’imprudenza.
Entrarono li colonnesi in Roma, e saccheggiarono tutta la suppellettile del palazzo pontificio e la chiesa di S. Pietro. Si estesero ancora alle prime case del Borgo; ma facendoli resistenza gli abitanti e sopravvenendo li Orsini, contraria fazione, in soccorso, furono costretti ritirarsi nell’alloggiamento sicuro che avevano preso vicino, portando nondimeno la preda del Vaticano, con immenso dispiacere del papa. E in quel luogo ingrossandosi ogni giorno piú con aiuti che giongevano da Napoli, il papa, temendo qualche maggior incontro, vinto dalla necessitá chiamò in Castello don Ugo di Moncada, ministro imperiale, e concluse con lui tregua per quattro mesi, con condizione che li colonnesi e napolitani si ritirassero da Roma e il papa ritirasse le sue genti di Lombardia. Il che esequendo ambedue le parti, Clemente fece ritornar le genti sue a Roma sotto pretesto d’osservare li capitoli della tregua; e con quelle assicurato, fulminò contra tutti li colonnesi, dechiarandoli eretici e scismatici e scomunicando qualonque li prestasse aiuto, conseglio o favore, o vero li desse ricetto. E privò ancora il cardinale della dignitá cardinalizia; il quale ritrovandosi in Napoli, non stimate le censure del papa, pubblicò un’appellazione al concilio, proponendo non solo la ingiustizia e nullitá delli monitorii, censure e sentenze, ma ancora la necessitá della Chiesa universale, la quale, ridotta in manifesto esterminio, non poteva esser per alcun mezzo sollevata, se non per la convocazione d’un legittimo concilio che la riformasse nel capo e ne’ membri: in fine citando Clemente al concilio che l’imperatore averebbe convocato in Spira.
Di questa appellazione, o vero citazione, o pur manifesto, dalli partegiani de’ colonnesi ne fu affisso in Roma di notte sopra le porte delle chiese principali e in diversi altri luoghi l’esemplare, e disseminato per Italia: il che a Clemente causò gran perturbazione, il quale aborriva sommamente il nome di concilio, non tanto temendo la moderazione dell’autoritá pontificia e delli comodi della corte, quanto per li rispetti suoi propri. Imperocché, quantonque Leone suo cugino, volendolo crear cardinale, facesse provare che tra la madre sua e il padre Giuliano fosse promessa di matrimonio, nondimeno la falsitá delle prove era notoria; e se ben non vi è legge che proibisca agl’illegittimi l’ascender al pontificato, nondimeno l’opinione vulgare è persuasa che con tal qualitá non possi stare la degnitá papale. Lo faceva dubitar assai che ad un tal pretesto, se ben vano, non fosse dato vigore dalli suoi nemici, sostentati dalla potenzia dell’imperatore; ma piú ancora temeva perché, conscio a se stesso con che arti fosse asceso al pontificato e come il cardinale Colonna avesse maniera di provarle, attesa la severa bolla di Giulio II che annulla l’elezione simoniaca e vieta che possi esser convalidata per consenso sussequente, aveva gran dubitazione che non avvenisse a sé quello che a Baltassar Cossa, detto Giovanni XXIII. Ma che negoziazione fosse di un concilio di Spira non ho potuto venir in maggior cognizione, non avendone trovato menzione se non nel manifesto sopra detto e appresso Paulo Giovio nella Vita del sopra nominato cardinale.
Nel colmo di questi tumulti venne il fine dell’anno, con pubblica espettazione e timore dove fosse per cadere tanta tempesta. Per il che nel seguente anno 1527 andarono in silenzio le negoziazioni di concilio, secondo l’uso delle cose umane, che nei tempi della guerra le provvisioni delle leggi non hanno luoco. Successero nondimeno notabili accidenti, i quali è necessario narrare per l’intelligenzia delle cose che succedettero dopo nella materia che noi trattiamo. Imperocché, pretendendo il viceré di Napoli che il pontefice, col procedere contra i colonnesi, avesse violata la tregua, e incitato dal cardinale e altri di quella famiglia, ritornò a rinviar le genti sue verso Roma; e dall’altro canto ancora Carlo di Borbone, capo dell’esercito imperiale in Lombardia, non avendo da pagar l’esercito e temendo che si ammutinasse o almeno dileguasse, volendolo in ogni maniera conservare, s’inviò verso lo stato ecclesiastico; al che anco era incitato efficacemente da Giorgio Fronsperg, capitano tedesco: il qual aveva condotto in Italia un numero di tredici in quattordici mila soldati di Germania, quasi tutti aderenti alle opinioni di Lutero, non con altra paga che con avergli dato un scudo per uno del suo proprio e promesso di condurli a Roma, mostrandogli la grand’occasione di predare e farsi ricchi in una cittá dove cola l’oro di tutta Europa.
Nel fine di gennaro Borbone passò il Po con tutta questa gente e s’inviò verso la Romagna; della qual mossa Clemente ebbe molta perturbazione, considerando la qualitá della gente e le continue minacce di Fronsperg, che appresso all’insegna faceva portar un laccio, dicendo con quello voler impiccar il papa, per inanimir li suoi a star uniti e sopportar di camminare, ancorché non pagati. Le qual cose tutte indussero il pontefice a dar orecchie a Cesare Fieramosca napolitano, il quale, di novo venuto di Spagna, li aveva portato una longa lettera di Cesare piena di offerte: e fattogli fede che l’imperatore aveva sentito male l’ingresso de’ colonnesi in Roma e che era desideroso di pace, indusse il pontefice a prestar orecchie ad una trattazione di tregua, la qual si sarebbe maneggiata tra lui e il viceré di Napoli. E se ben nel marzo sopravvenne un accidente d’apoplessia al capitan Giorgio Fronsperg che lo condusse quasi a morte, nondimeno, perché l’esercito era giá entrato nello stato ecclesiastico e tuttavia camminava, in fine del mese si risolse il papa di venire all’accordo, quantonque lo vedeva dover esser con grand’indignitá ed anco con dar sospizione alli collegati, e forse alienarli dalla sua difesa. Fu adonque stabilita sospensione d’arme per otto mesi, pagando il pontefice sessanta mila scudi e concedendo assoluzione dalle censure alli colonnesi e la restituzione della dignitá al cardinale; al che condescese con estrema difficoltá.
Ma la tregua, se ben conclusa col viceré e seguita la esborsazione delli danari e la restituzione delli colonnesi, non fu accettata dal duca di Borbone; il qual, seguitando il cammino, il di 5 maggio alloggiò appresso Roma e il giorno seguente diede l’assalto dalla parte del Vaticano; dove, quantonque li soldati del papa e la gioventú romana, massime della fazione guelfa, s’opponesse nel principio arditamente e Borbone restasse morto d’archibugiata, nondimeno l’esercito entrò, fuggendo li defensori nel Borgo. Il pontefice, come ne’ casi repentini, pieno di timore, con alcuni cardinali si salvò nel Castello; e quantonque fosse consegliato a non fermarvisi, ma passar immediate in Roma e di lá salvarsi in qualche luoco sicuro, nondimeno, ripudiato il buon conseglio, forse per disposizione di causa superiore, risolvè di fermarvisi. La cittá ritrovandosi senza capo, restò piena di confusione, in maniera che nissun venne al rimedio che sarebbe stato proprio in quel tempo, di romper i ponti che sopra il Tevere passano dal Borgo in Roma e mettersi alla difesa; il che se fosse stato fatto, averebbero li romani almeno avuto tempo di retirar le persone di conto e le robe preciose in luogo sicuro. Ma non essendo questo fatto, passarono li soldati nella cittá, spogliarono non solo le case, ma le chiese ancora di tutti li ornamenti, gittate in terra e conculcate le reliquie e altre cose sacre non di valore; fecero pregioni li cardinali e altri prelati, facendo anco derisione delle persone loro con menarli sopra le bestie vili, in abito e con le insegne pontificali. Certo è che li cardinali di Siena, della Minerva e Poncetta furono ben battuti e menati vilissimamente in processione, e che li cardinali spagnoli e tedeschi, con tutto che si fidassero, per esser l’esercito composto de’ soldati delle nazioni loro, non furono meno mal trattati degli altri.
Fu assediato il papa, ritirato nel Castel Sant’Angelo, e fu costretto ad accordarsi, cedendo il Castello, insieme alli capitani imperiali, e consegnando la persona sua pregione in quello, nel quale anco fu tenuto da loro assai stretto. Dove essendo per le cose successe in grandissima afflizione, se glie n’aggionse una, secondo la sua stima, molto maggiore: che il cardinale di Cortona, il qual era al governo di Fiorenza per suo nome, immediate udita la nova, si ritirò dalla cittá e la lasciò libera. La qual subito scacciati li Medici e vendicatasi in libertá, riordinò il suo governo; e la maggior parte de’ cittadini dimostrò tanta acerbitá verso il papa e la casa sua, che scancellò tutte le insegne di quelli, eziandio ne’ luochi loro privati, e disformò con molte ferite le immagini di Leone e di Clemente che erano nella chiesa della Nonciata.
Ma l’imperatore, ricevuto avviso del sacco di Roma e della pregionia del papa, diede molti segni di grandissimo dolore, e ne fece dimostrazione col far immediate cessar dalle solenni feste che si facevano in Vagliadolid per essergli nato un figliuolo a’ 21 di quel medesmo mese: colle qual apparenze averebbe fatto fede al mondo di pietá e religione, se insieme con quelle avesse immediate comandato almeno la liberazione della persona del papa. Ma il mondo che vidde il pontefice restar pregione ancora sei mesi, s’accorse quanta differenzia sia dalla veritá all’apparenza.
Fu dato immediate principio a trattare dell’accommodamento e liberazione del pontefice; e voleva l’imperatore che fosse condotto in Spagna, giudicando come veramente sarebbe stato sua gran riputazione se d’Italia in due anni fossero stati condotti in Spagna doi cosí gran pregioni, un re di Francia e un pontefice romano. Ma perché tutta Spagna, e specialmente li prelati, detestavano di veder cogli occhi una tanta ignominia della cristianitá, che fosse menato lá pregione chi rappresentava la persona di Cristo, cessò da questa pretensione, avendo anco considerazione di non concitarsi troppo grand’invidia e irritar l’animo del re d’Inghilterra, del qual temeva molto, quando l’avesse constretto a congiongersi piú strettamente di quel che era congionto, per la pace pubblicata nell’agosto, col re di Francia, il quale aveva giá mandato potente esercito in Italia e ottenuto diverse vittorie in Lombardia. Concesse per tanto in fine dell’anno l’imperatore che il pontefice fosse liberato, con queste condizioni: che non gli fosse contrario nelle cose di Milano e Napoli, e per sicurtá di ciò li mettesse in mano Ostia, Civita Vecchia, Civita Castellana e la rocca di Furlí, e stativi Ippolito ed Alessandro suoi nipoti; li concedesse la crociata in Spagna e una decima delle entrate ecclesiastiche di tutti li suoi regni. Conclusa la liberazione e ricevuta facoltá di partire di Castello il dí 9 decembre, non si fidò d’aspettar quel tempo, ma ne uscí la notte degli 8 con poca scorta, in abito di mercante, e si ritirò immediate a Monte Fiascone, e, poco fermatosi, di lá passò ad Orvieto.
Mentre li prencipi tutti stavano occupati nella guerra, le cose della religione andavano alterandosi in diversi luochi, dove per pubblico decreto de’ magistrati e dove per sedizione popolare. Imperocché Berna, fatto un solenne convento e de’ suoi dottori e de’ forestieri, e udita una disputa di piú giorni, ricevè la dottrina conforme a Zurich; e in Basilea, per sedizione popolare, furono minate e abbruggiate tutte le immagini e privato il magistrato, e in luoco di quello creati altri e stabilita la nova religione. E dall’altro canto si congregarono otto cantoni, quali nelle terre loro stabilirono la dottrina della chiesa romana e scrissero una longa esortazione alli bernesi, confortandoli a non far mutazione di religione, come cosa che non può aspettare ad un popolo o ad una regione, ma al solo concilio di tutto ’l mondo. Ma con tutto ciò l’esempio di Berna fu seguito a Genéva, Costanza e altri luochi circonvicini; e in Argentina, fatta una pubblica disputa, per pubblico decreto fu proibita la messa, sin tanto che li defensori di quella mostrassero che fosse culto grato a Dio; non ostante che dalla camera di Spira li fosse fatto una grande e longa rimostranza, che non solo ad una cittá, ma neanco a tutti gli ordini dell’Imperio fosse lecito far innovazione de riti e dottrina, essendo ciò proprio d’un concilio generale o nazionale.
In Italia ancora, essendo questi due anni senza papa, senza corte romana, e parendo che le calamitá di quelli fossero esecuzione d’una sentenzia divina contra quel governo, molte persone s’accostarono alla riforma; e nelle case private in diverse cittá, massime in Faenza terra del papa, si predicava contra la chiesa romana e cresceva ogni giorno il numero di quelli che gli altri dicevano luterani, ed essi si chiamavano evangelici.
L’anno seguente 1528 l’esercito francese fece gran progresso nel regno di Napoli, occupatolo quasi tutto; il che costrinse i capitani imperiali a condur l’esercito fuori di Roma molto diminuito, parte per quelli che carichi di preda la vollero condur in sicuro, e parte per la peste che causò in loro gran mortalitá. Li collegati facevano grand’instanzia al pontefice che, essendo Roma liberata per necessitá e non per volontá dell’imperatore, non avendo piú bisogno di temporeggiar con lui, in quell’occasione si dechiarasse congionto con loro e procedesse contra lui con le arme spirituali, e lo privasse del regno di Napoli e dell’Imperio. Ma il papa, cosí per esser stanco dalli travagli, come anco perché, restando li collegati superiori, averebbono mantenuto la libertá di Fiorenza, il governo della quale egli piú desiderava di ricuperare che di vendicarsi delle ingiurie ricevute da Carlo, fece risoluta deliberazione di non esserli contrario, anzi di congiongersi con lui la prima occasione per ricuperar Fiorenza: la quale certo era che se il re di Francia e li veneziani fossero restati superiori in Italia, averebbero voluto mantener in libertá. Tenendo nondimeno questo per allora nel petto suo, si scusò che per la povertá ed impotenzia sua sarebbe stato di gravezza e non di giovamento alli collegati, e che la privazione dell’imperatore sollevarebbe la Germania, per gelosia che non pretendesse di applicar a sé l’autoritá di crear imperatore. La qual risposta accorgendosi che da’ collegati era penetrato dove mirava, come era eccellente in coprire i suoi disegni, faceva ogni demonstrazione d’aver deposto tutti li pensieri delle cose temporali: fece per molti mezzi intendere a’ fiorentini esser alienissimo dal pensiero d’intromettersi nel loro governo; solamente desiderare che lo riconoscessero come pontefice, e non piú di quanto facevano gli altri prencipi cristiani; che non perseguitassero li suoi nelle cose loro private, si contentassero che nelle fabbriche de’ suoi maggiori vi fossero l’insegne loro. D’altro non parlava che di riforma della Chiesa e di ridur i luterani, ché era risoluto andar in Germania in persona e dar tal esempio che tutti si sarebbono convertiti. E con tal termini sempre parlò tutto questo anno: in modo che molti credevano certo che le vessazioni, mandateli da Dio per emendazione, avessero prodotto il debito frutto. Ma le cose seguite gli anni dopo fecero creder alle persone pie che fossero stata semenza gettata sopra la pietra o vero appresso la strada, e alli piú avveduti che fossero esca per addormentar li fiorentini.
Nel seguente anno 1529, maneggiandosi la pace tra l’imperatore e il re di Francia, remesso l’ardore della guerra, si ritornò alle trattazioni di concilio. Imperocché avendo Francesco Quinones, cardinale di Santa Croce, venuto di Spagna, portato da Cesare al papa la relassazione di Ostia e Civita Vecchia e altre terre della Chiesa consegnate alli ministri imperiali per sicurezza delle promesse pontificie, insieme con ampie offerte per parte dell’imperatore, Clemente, attesa la trattazione di pace col re di Francia che si maneggiava, e considerando quanto gl’interessi suoi ricercassero che si congiongesse strettamente con Carlo, gli mandò Girolamo vescovo di Vasone, suo maestro di casa, in Barcellona, per trattare gli articoli della convenzione. Alla conclusione de’ quali facilmente si venne, promettendo il papa l’investitura di Napoli con censo solo d’un caval bianco, il iuspatronato delle ventiquattro chiese, passo alle sue genti e la corona imperiale: dall’altro canto l’imperatore promettendo di rimetter in Fiorenza il nepote del papa, figlio di Lorenzo, e darli Margarita sua figlia naturale per moglie, e aiutarlo alla ricuperazione di Cervia, Ravenna, Modena e Reggio, occupategli da’ veneziani e dal duca di Ferrara. Convennero anco di riceversi insieme alla coronazione con le ceremonie consuete. Solo un articolo fu longamente disputato, proponendo li pontificii che Carlo e Ferdinando si obbligassero a costringer con le armi li luterani a ritornare all’obedienza della chiesa romana, e rechiedendo li imperiali che, per ridurli, il papa convocasse il concilio generale: sopra che dopo longa discussione, essendo nel resto convenuti, per non troncare tant’altri importanti disegni sopra quali erano in buon pontamento, fu deliberato in quest’articolo star nei termini generali, e concluso che, per ridur li luterani all’unione della Chiesa, il pontefice s’averebbe adoperato con li mezzi spirituali, e Carlo e Ferdinando con li temporali; quali sarebbono anco venuti alle armi, quando quelli fossero stati pertinaci; e il pontefice in quel caso sarebbe obbligato ad operare che gli altri prencipi cristiani li porgessero aiuto.
In questo tenore fu conclusa la confederazione, con molta allegrezza di Clemente e maraviglia del mondo come, avendo perduto tutto lo stato e la riputazione, in cosí breve tempo fosse ritornato nella medesma grandezza; il che in Italia, la qual vidde un accidente cosí pieno di varietá anzi contrarietá, da ciascuno era attribuito a miracolo divino, e dalli amatori della corte ascritto a dimostrazione di favore di Dio verso la sua Chiesa.
Ma in Germania, essendo intimato un convento in Spira, al qual fu dato principio li 15 marzo, vi mandò il papa Giovanni Tommaso dalla Mirandola per esortare alla guerra contra il Turco, promettendo di contribuir esso ancora, quanto li concedessero le sue forze esauste per le calamitá patite negli anni passati, e ad assicurare di adoperarsi con ogni spirito per accordare le differenze tra l’imperatore e il re di Francia, acciò, quietate tutte le cose e levati tutti gl’impedimenti, si potesse attendere quanto prima alla convocazione e celebrazione del concilio, per ristabilire la religione in Germania.
Nel convento si trattò prima della religione; e li cattolici pensarono di metter dissensione tra li avversari divisi in due opinioni, seguitando alcuni la dottrina di Lutero ed altri quella di Zuinglio, se il langravio di Assia, persona prudente e avveduta, non avesse ovviato al pericolo, mostrando che la differenzia non era di momento, e dando speranza che s’averebbe facilmente concordato, e mostrando il danno che sarebbe nato dalla divisione e l’avvantaggio che averebbono avuto gli avversari. Dopo longa disputa nella dieta per trovar qualche forma di composizione, finalmente si fece il decreto: che essendo stato con sinistre interpretazioni storto il decreto dell’anterior convento di Spira a defender ogni assurditá d’opinioni, e per tanto essendo necessario ora dichiararlo, ordinavano che chi aveva osservato l’editto cesareo di Vormazia dovesse continuare nell’osservazione, constringendo anco a ciò il popolo sino al concilio, il quale Cesare dava certa speranza che dovesse esser presto convocato; e chi aveva mutato dottrina e non poteva ritirarsi senza pericolo di sedizione, si fermasse in quello che era fatto, non innovando altro di piú sino al tempo del concilio; che la messa non fosse levata, né meno postoli impedimento in nessun luogo dove fosse introdotta la nova dottrina; che l’anabattismo fosse sotto pena capitale secondo l’editto pubblicato dall’imperatore, il quale ratificavano; e che circa le prediche e stampe fossero servati li decreti delle due ultime diete di Norimberga, cioè che i predicatori siano circonspetti, si guardino dall’offender alcuno con parole, non dieno occasione al popolo di sollevarsi contra il magistrato, non propongano dogmi novi o vero poco fondati nelle sacre lettere, ma predichino l’Evangelio secondo l’interpretazione approvata dalla Chiesa, senza toccar altre cose che sono in disputa, aspettando la determinazione del concilio, dove sará il tutto legittimamente deciso.
A questo decreto si opposero l’elettor di Sassonia e cinque altri principi, dicendo che non conveniva partirsi dal decreto fatto nell’anterior dieta, nel quale fu concesso a ciascuno la propria religione sino al concilio; il qual decreto, essendo fatto di comun consenso di tutti, non si poteva se non con comun consenso mutare. Che nella dieta di Norimberga fu molto chiaramente veduta l’origine e causa delle dissensioni, ed il medesimo pontefice la confessò, al quale furono mandate le domande ed esplicati i cento gravami; né per questo si era veduta alcuna emendazione. Che in tutte le deliberazioni sempre era stato concluso non esser via piú espediente per levar le controversie che il concilio; quale mentre s’aspetta, l’accettar il decreto fatto da loro sarebbe un negar la parola di Dio pura e monda; e il concedere la messa, rinnovar li disordini. Che lodavano ben quella particola di predicar l’Evangelio secondo l’interpretazioni approvate dalla Chiesa, ma però restava in dubbio qual fosse la vera chiesa. Che il stabilir un decreto cosí oscuro era aprir la strada a molte turbe e controversie: e però che in nessun modo volevano assentir al decreto, e del suo parer n’averebbono dato conto a tutti, e a Cesare ancora. E mentre che si dará principio ad un concilio generale di tutta la cristianitá, o vero nazionale di Germania, non faranno cosa che con ragione possi essere reprobata.
A questa dichiarazione si congionsero quattordici cittá principali di Germania, e da questa venne il nome de «protestanti», col quale sono chiamati quelli che seguitano la religione rinnovata di Lutero; imperocché questi principi e cittá diedero fuora la loro protesta e appellazione da quel decreto a Cesare e al futuro concilio generale, o vero nazionale di Germania, e a tutti li giudici non sospetti.
E perché si è fatta menzione della differenzia d’opinione nella materia dell’Eucarestia tra Lutero e Zuinglio, è ben narrar qui come, essendo principiata la rinnovazione della dottrina in doi luochi e da due persone independenti l’una dall’altra, cioè da Lutero in Sassonia e da Zuinglio in Zurich, essi furono concordi in tutti li capi della dottrina sino al 1525; ed allora nell’esplicar il ministerio del santissimo sacramento dell’Eucarestia, se ben s’accordarono ambidoi con dire che il corpo e il sangue di nostro Signore Gesú Cristo sono nel sacramento solamente in uso e sono ricevuti con il cuore e colla fede, nondimeno insegnava Lutero che le parole dette da Nostro Signore: questo è il mio corpo, debbino esser ricevute in senso nudo e semplice; ed in contrario insegnava Zuinglio che erano parole figurate spiritualmente e sacramentalmente, non carnalmente intese. E la contenzione s’accrebbe sempre e fecesi ogni giorno piú acerba, massime dal canto di Martino, il qual la trattava con maniera assai contumeliosa verso la contraria parte. E questo diede materia alli cattolici nella dieta di Spira, tenuta quest’anno, di valersene (come s’è detto) a metter in diffidenzia e disgusto una parte con l’altra. Ma il langravio d’Assia che, scoperto l’artificio delli avversari, aveva tenuti li suoi in concordia con speranza di conciliare le contrarie opinioni, cosí per mantener la sua promessa come per ovviare alli pericoli futuri procurò che si venisse a colloquio. Sollecitò li svizzeri che dovessero mandare li suoi, e assegnò luoco per la conferenzia la cittá di Marpurg e tutto l’ottobre dell’istesso anno 1529. Lá si ridussero di Sassonia Lutero con doi discepoli, e di svizzeri Zuinglio ed Ecolompadio. Disputarono Lutero e Zuinglio solamente, e la disputa continuò piú giorni: con tutto ciò non fu mai possibile che convenissero, o fosse questo perché, essendo passata la controversia tanto inanzi, pareva che si trattasse dell’onore degli autori, o vero perché, come avviene in tutte le questioni verbali, la tenuitá della differenza è fomento dell’ostinazione; o per quello che Martino dopo qualche tempo scrisse ad un amico, che vedendo molto moto eccitato, non volse con la forma di dire zuingliana, sopramodo aborrita dalli romanisti, rendere li suoi prencipi piú esosi ed esporli a pericolo maggiore. Ma fosse qual si voglia di queste la causa, una piú universale è ben vera, che piacque alla Maestá divina servirsi di quella differenza d’opinioni per diversi effetti seguiti dopo. Fu necessario metter fine al colloquio senza conclusione; se non che convennero, per opera del langravio, in questo: che essendo d’accordo negli altri capi, dovessero per l’avvenire astenersi dalle acerbitá in questo particolare, pregando Dio che mostrasse qualche lume di concordia: la qual conclusione, quantonque deliberata con prudenza e, come essi dicevano, con caritá, non seguita dalli successori, ritardò assai il progresso della rinovata dottrina. Perché nelle cause di religione ogni subdivisione è potente arma in mano della contraria parte.
Ma essendo, come si è detto, conclusa la lega tra il papa e l’imperatore e fermato l’ordine per la coronazione, fu deputato per questo effetto la cittá di Bologna, non parendo al papa conveniente che quella solennitá si facesse in Roma coll’intervento di quelli che due anni prima l’avevano saccheggiata; cosa che fu anco grata a Carlo, come quella che faceva le cerimonie di piú breve ispedizione: il che era desiderato da lui, per passar in Germania quanto prima. Arrivò perciò in Bologna prima il pontefice come maggiore, e poi l’imperatore a’ 5 di novembre; dove si fermò per quattro mesi, abitando in un istesso palazzo col papa. Molte cose furono trattate da questi due principi, parte per quiete universale della cristianitá e parte per interesse dell’uno e dell’altro. Le principali furono la pace generale d’Italia e la estinzione de’ protestanti in Germania. Della prima non appartiene al soggetto che si tratta parlare; ma per quello che tocca a’ protestanti, da alcuni conseglieri di Cesare era proposto che, considerata la natura de’ tedeschi, tenaci della libertá, fosse meglio con mezzi soavi e dolci rappresentazioni, e dissimulando molte cose, operare che li prencipi all’obedienzia pontificia ritornassero, perché essendo levata quella protezione alli novi dottori, al rimanente sarebbe facilmente rimediato. E per far questo, il vero e proprio rimedio essere il concilio, cosí perché da loro era richiesto, come anco perché a quel nome augusto e venerando ognuno s’inchinerebbe.
Ma il pontefice, che di nessuna cosa piú temeva che di un concilio, e massime quando fosse celebrato di lá da’ monti, libero e con l’intervento di quelli che giá apertamente avevano scosso il giogo dell’obedienza, vedeva benissimo quanto fosse facil cosa che da questi fossero persuasi anco gli altri. Oltre di ciò considerava che se ben la causa sua era comune con tutti li vescovi, quali le rinovate opinioni cercavano di privare delle ricchezze possedute, nondimeno anche tra loro e la corte romana restava qualche materia di disgusti; pretendendo essi che fosse usurpata tra loro la collazione delli benefizi con le reservazioni e prevenzioni, e ancora levata gran parte dell’amministrazione e tirata a Roma con avocazione di cause, reservazioni di dispense e assoluzioni ed altre tal facoltá, che, giá comuni a tutti li vescovi, s’avevano i pontefici romani appropriate: onde si figurava che la celebrazione del concilio dovesse esser una totale diminuzione dell’autoritá pontificale. Per il che voltò tutti li suoi pensieri a persuader l’imperatore che il concilio non era utile per quietare li moti di Germania, anzi pernicioso per l’autoritá imperiale in quelle provincie. Li considerava due sorti di persone infette: la moltitudine e li principi e grandi; esser verisimile che la moltitudine sia ingannata, ma il sodisfarla nella dimanda del concilio non esser mezzo per illuminarla, anzi per introdur la licenzia populare. Se si concedesse di metter in dubbio o ricercar maggior chiarezza della religione, averebbe immediate preteso di dar anco legge al governo, e con decreti restringere l’autoritá de’ prencipi; e quando avessero ottenuto di esaminare e discutere l’autoritá ecclesiastica, imparerebbono a metter difficoltá anco nella temporale. Gli mostrò esser piú facile opporsi alle prime dimande della moltitudine che, dopo averla compiaciuta in parte, volergli metter termine. Quanto alli principi e grandi poteva tener per certo essi non aver fine di pietá, ma d’impatronirsi de’ beni ecclesiastici e deventar assoluti, riconoscendo niente o poco l’imperatore; e molti di loro conservarsi intatti da quella contagione per non aver ancora scoperto l’arcano; il quale fatto manifesto, tutti s’addrizzeranno allo stesso scopo. Non esser dubbio che il pontificato, perduta la Germania, perderebbe assai; maggior però sarebbe la perdita imperiale e della casa d’Austria: a che volendo provvedere, non aveva altro mezzo che severamente adoperare l’autoritá e l’imperio mentre la maggior parte l’ubidiva, nel che era necessaria la celeritá, inanzi che il numero cresca maggiormente e sia dall’universale scoperto il comodo che vi sia seguendo quelle opinioni. Alla celeritá tanto necessaria niente esser piú contrario che trattar di concilio; perché quantonque ognuno v’inclinasse e non vi fosse posto impedimento alcuno, non si potrá però congregar se non con longhezza d’anni, né trattar le cose se non con prolissitá; il che solo voleva considerare, perché parlare dell’impedimenti che si ecciterebbono per diversi interessi di persone che con vari pretesti si opponerebbono, interponendo dilazione per il meno a fine di venirne a niente, sarebbe cosa infinita. Esser sparsa fama che li pontefici non vogliono concili per timore che l’autoritá loro sia ristretta: ragione che in lui non fa impressione alcuna, essendo l’autoritá sua data da Cristo immediate, con promessa che manco le porte dell’inferno non potranno prevalere contro quella, ed avendo l’esperienza de’ tempi passati mostrato che per nissun concilio celebrato è stata diminuita l’autoritá pontificale; anzi che, seguendo le parole del Signore, li Padri l’hanno sempre confessata assoluta ed illimitata, come veramente è. E quando i pontefici per umiltá o per altro rispetto si sono astenuti d’usarla intieramente, li Padri sono stati autori di fargliela metter tutta in esecuzione. E questo può veder chiaro chi leggerá le cose passate; perché sempre li pontefici si sono valuti di questo mezzo contra le nove opinioni di eretici e in ogn’altra necessitá, con aumento dell’autoritá loro. E quando si volesse anco tralasciar la promessa di Cristo, che è il vero e unico fondamento, e considerar la cosa in termini umani, il concilio consta di vescovi; alli vescovi la grandezza pontificia è utile, perché da quella sono protetti contro li prencipi e populi. Li re e altri soprani ancora, che hanno inteso e intenderanno ben le regole di governo, sempre favoriranno l’autoritá apostolica, non avendo altro mezzo di reprimer e tenir in ufficio li loro prelati, quando hanno spirito di trapassare il grado proprio. Concluse il papa esser nell’animo suo tanto certo dell’esito, che poteva parlarne come profeta e affermare che, facendosi concilio, seguirebbono maggiori disordini in Germania; perché chi lo richiede, mette innanzi per pretesto di continuare sino allora nelle cose attentate; quando da quello le opinioni loro saranno condannate (ché altro non può succeder), piglieranno altra coperta per detraere al concilio; e per fine l’autoritá cesarea in Germania resterá annichilata e nelli altri luochi concussa; la pontificia in quella regione si diminuirá, e nel resto del mondo s’amplificherá maggiormente. E però tanto piú doveva Cesare creder al parer suo, quanto non era mosso da proprio interesse, ma da desiderio di veder la Germania unita alla Chiesa e l’imperatore ubidito. Che era irreuscibile, se non si fosse transferito in Germania quanto prima e immediate usata l’autoritá, con intimare che senza alcuna replica fosse eseguita la sentenzia di Leone e l’editto di Vormazia, non ascoltando qualonque cosa li protestanti siano per dire, (dimandando o concilio o maggior instruzione, o allegando la loro appellazione e protesta o altra iscusazione, ché tutte non possono esser se non pretesti d’impietá), ma al primo incontro di disubedienzia passando alla forza, la quale li sarebbe stata facile usare contra pochi, avendo tutti li prencipi ecclesiastici e la maggior parte de’ secolari che s’averebbono armato con lui a questo effetto; che cosí, e non altrimenti, conviene all’ufficio dell’imperatore, avvocato della chiesa romana, e al giuramento fatto nella coronazione di Aquisgrana, e che doverá far nel ricever la corona per mano sua. Finalmente, esser cosa chiara che la tenuta del concilio, e qualonque trattazione o negoziazione che s’introducesse in quest’occasione, necessariamente terminarebbe in una guerra. Esser adonque meglio tentar di componer quei desordeni col vigor dell’imperio ed assoluto comando, cosa che si può reputar dover riuscir facilmente: e quando ciò non si potesse ben effettuare, venir piú tosto alla forza ed arme, che relasciar il freno alla licenzia popolare, all’ambizione delli grandi e alla perversitá degli eresiarchi.
Queste ragioni, sebben disdicevoli in bocca di frate Giulio de’ Medici cavalier di Malta (ché cosí si chiamava il pontefice inanzi che creato cardinale), non che di Clemente papa VII, valsero nondimeno appresso Carlo, aiutate dalle persuasioni di Mercurio da Gattinara, cancellier imperiale e cardinale; al quale fece il papa molte promesse, e particolarmente d’aver risguardo a’ suoi parenti e dependenti nella prima promozione de cardinali che preparava fare; e anco dalla propria inclinazione di Cesare, d’aver in Germania imperio piú assoluto di quello che fu concesso al suo avo e all’avo del padre.
Si fecero in Bologna tutti li atti e solite ceremonie della coronazione, alla quale fu dato compimento il 24 febbraro: e Cesare, risoluto di passar personalmente in Germania per metter fine a quei disordini, intimò la dieta imperiale in Augusta per li 8 aprile, e in marzo si pose in viaggio.