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Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte III/Capitolo III

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Capitolo III

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CAPITOLO III.


A Federico II successe nel reame delle due Sicilie il figlio Corrado, uomo crudele, digiuno di lettere e di studii, e all’intuito diverso dal suo genitore, e dopo il breve suo regno di due anni, prese il governo di Napoli e di Sicilia Manfredi, figlio di amore del gran Federico, con la qualità di reggente per la età minore di Corradino, unigenito di Corrado. E poi, quando si propagò in Italia la falsa nuova della morte di Corradino, fu Manfredi coronato re delle due Sicilie nella cattedrale di Palermo, ove tra gli altri prelati intervenne nella solenne cerimonia anche Capodiferro, Arcivescovo di Benevento.1

[p. 119 modifica]Manfredi ritraeva tutto dal padre, e fu il glorioso continuatore della sua politica in Italia, talchè niuno che intenda lo spirito dei tempi in cui visse, potrebbe ignorare le ragioni per cui Manfredi fu segno all’odio dei romani pontefici. Egli in breve tempo con ardite imprese e con sottile accorgimento seppe disfarsi d’ogni suo nemico, e acquistare l’assoluta signoria di tutte le terre che componevano la monarchia delle due Sicilie. Ed occupò anche Benevento intorno al 1258 o poco innanzi, come si arguisce dalle note cronologiche di alcuni istromenti che si custodiscono nell’archivio della chiesa collegiata di S. Bartolomeo, e dalle date di altri documenti mentovati dall’anonimo autore della Relazione storica della città di Benevento e suo territorio.

Manfredi, bramoso di estendere la sua potenza oltre i confini del napoletano, fece rivivere in Italia l’antico partito dei ghibellini, e mandò il suo fido conte Giordano con ottocento tedeschi a dare aiuto ai ghibellini di Toscana. E il Giordano, secondato dai Sanesi, pose in rotta i fiorentini sui colli di Montaperti, e poscia rimase in Firenze come Vicario generale del re Manfredi, inducendo tutti i cittadini a giurare fedeltà al suo sovrano. Dopo di ciò Manfredi, fattosi capo di tutta la parte imperiale di Toscana e di Lombardia, occupò quasi interamente l’Italia, assicurò la prosperità del suo regno, venne in gran fama in tutta Europa, e coi Saraceni di Lucera ed altri suoi fidi scorse vittorioso finanche le terre dello stato romano, e nel bollore dei suoi giovani anni credè agevole la conquista

. . . . . . .del bel paese
Che dettò leggi all’universo intero.

Ma altrimenti disposero i fati.

I papi che, a impedire l’unità d’Italia e a conservare integro il loro stato, ebbero in uso sempre di chiamare in Italia lo straniero per sostenere qualche loro preteso dritto, fecero pensiero di appigliarsi a questo spediente per fiaccare la potenza del re Manfredi, il quale cortese, liberale e [p. 120 modifica]magnanimo con tutti erasi acquistato la simpatia della maggior parte degli italiani e la stima universale.

E però il pontefice Urbano invitò al conquisto del reame delle due Sicilie Carlo conte d’Angiò e di Provenza, fratello al re Luigi di Francia, uomo gagliardo della persona, esperto nelle cose di guerra, e d’indole austera, il quale, istigato dalla moglie Beatrice, figlia a Raimondo conte di Provenza, che ambiva ardentemente di cingersi al crine, al pari delle sue sorelle, una corona di regina, col fiore delle milizie francesi, si accinse assai volenteroso a quella impresa.

Manfredi, udendone la novella, recò in prima gran parte delle città d’Italia sotto la sua dipendenza, nominò in Lombardia suo Vicario il marchese Pallavicino, suo congiunto, e mise in mare gran numero di navili siciliani, Pugliesi, e Pisani, sicchè, vedendosi in Italia potentissimo in mare e in terra, la venuta di Carlo d’Angiò avea per niente.

Il papa Urbano finì di vivere nel 1264, e allora si credette da molti eliminato il pericolo d’una invasione straniera, ma Clemente IV, succeduto ad Urbano nel pontificato, continuò l’opera del suo predecessore, non omettendo alcun mezzo per aggiungere sprone al buon volere di Carlo. Questi, lasciando che il conte Guido di Monforte si avviasse verso Roma per la via di Lombardia con la massima parte delle sue milizie, trasse a Marsiglia, e con sole trenta galee armate si mise in mare per recarsi anche a Roma con manifesto pericolo di dare nelle ottanta galee del re Manfredi. Ma queste furono sperse in varii punti da una gran fortuna di mare, e Carlo d’Angiò, trascorrendo assai presso il naviglio del re Manfredi, potè con la sua piccola armata approdare felicemente alla foce dei Tevere nel maggio dell’anno 1264.

Il Monforte era seguito sempre dal Pallavicino, il quale, non sapendo risolversi di venire con esso a giornata campale, era studioso, secondo i suggerimenti di Manfredi, di coglierlo a qualche mal passo, o metterlo in mezzo a due eserciti, ina il Monforte, eludendo sempre con destrezza le sue mire, [p. 121 modifica]seppe toccare, incolume d’ogni offesa, la campagna romana, aiutandosi del tradimento di Buoso da Doera, il quale, corrotto dall’oro della Francia, non difese il passo affidatogli, per cui l’Alighieri tuffollo nel ghiaccio, nell’ultimo cerchio dell’inferno, in cui finse puniti i traditori della patria.

Carlo d’Angiò nel dì 6 gennaio 1265, fu coronato re delle Sicilie in S. Giovanni Laterano, e qualche giorno dopo cominciò per la via latina a muovere verso il regno, e a lui si congiunsero i Guelfi, di Toscana, i quali elessero loro capitano il prode Guido Guerra dei conti Guidi, non disdegnando di congiungere le proprie armi a quelle del ladrone francese per mettere in servitù la patria comune.

Carlo d’Angiò esplorò il passo del Garigliano sotto Cepperano, ove tentò di gettare un ponte per dar la via alle sue schiere, il che gli venne fatto agevolmente per il tradimento di Rinaldo d’Aquino conte di Caserta, cognato del re Manfredi. Giovanni Villani, Angelo di Costanzo e altri scrittori affermano che il conte s’indusse a eseguire un sì turpe fatto, che gli fruttò tanta infamia, per non lasciare invendicata l’offesa fatta dai re Manfredi al suo talamo coniugale. Ma il Collenuccio ed altri storici tennero in conto di favola la pretesa ingiuria, opinione che ai nostri giorni è stata comunemente ritenuta dagli scrittori, meno dal Guerrazzi, il quale, come pessimista, si mostrò sempre inchinevole a dipingere in nero il carattere morale della maggior parte dei personaggi storici dei suoi racconti.

Superato Carlo d’Angiò il difficile passo di Cepperano, ed espugnata la rocca di Acri, si accampò a S. Germano, la qual terra era difesa da mille cavalieri, e da cinquemila pedoni, e Manfredi s’illudeva a segno da giudicarla inespugnabile dall’esercito nemico; ma tuttavia dopo non lunga resistenza essa cadde in potere dei francesi, e ne fu causa una rissa insorta il dì innanzi tra Cristiani e Saraceni, per la quale costoro non presero parte alla difesa della terra.

Venuta in tal modo S. Germano in balìa del suo nemico, Manfredi si ritrasse in Benevento, a lui in quel tempo [p. 122 modifica]fedelissima per tanti beneficii e privilegi ottenuti, e ove, quando Carlo d’Angiò tolse in Roma la corona di Napoli, ad uno a Consiglio la maggior parte dei suoi baroni nella sala del palazzo regio, già sede dei principi longobardi, per riceverne il giuramento di fedeltà.

Benevento in quel tempo pel forte luogo, e altre ragioni di guerra, con assai difficoltà avrebbe potuto essere presa di assalto, ed ivi Manfredi avea la scelta o di accettare battaglia, o di ridursi nella Puglia. E inoltre gli sarebbe stato colà assai facile contendere il passo al re Carlo, il quale nè avrebbe potuto recarsi in Napoli, nè muovere verso la Puglia se non per la via di Benevento.

Carlo allora, senza tenere il cammino dritto di Capua, valicato il Volturno in un punto ove era passibile il guado, per luoghi aspri e montagnosi, in gran difetto di danaro e di vettovaglie, giunse sul mezzodì del 26 febbraio 1266 in vicinanza di Benevento, su una collina a cavaliere di un’ampia valle assai acconcia ad una battaglia campale, e, come asseriscono gli storici, lontana due miglia dalle rive del fiume Calore.

Appena Manfredi vide apparire da lungi le abbonite insegne, udito il consiglio di alcuni suoi fidi in cui riponeva maggiore fiducia, si attenne al partito di combattere senza indugio lo stanco e trafelato avversario innanzi che si riposasse. E uscito dalla città, passò il ponte che era sul fiume Calore, e fece sfilare la sua cavalleria in un gran piano, e propriamente, secondo gli storici, nel luogo denominato la Pietra a Roseto.

Questa deliberazione del re Manfredi è concordemente biasimata da tutti gli scrittori, imperocchè coll’attendere due o tre altri giorni, Manfredi, senza vibrare un colpo di spada, avrebbe avuto in suo potere l’armata di Carlo, per la totale mancanza di vivande per i soldati, e di moneta per procacciarsele. E inoltre in breve volgere di tempo avrebbe potuto di leggieri accogliere nei dintorni di Benevento le sue genti sparse nella Sicilia, negli Abruzzi, e in altri luoghi, e con esse sopraffare l’esercito provenzale. Gli [p. 123 modifica]scrittori avversi a Manfredi spiegano un tal fatto col colobi e detto che Iddio a cui vuol male toglie il senno, ma siccome l’invasione di Carlo d’Angiò nel regno di Napoli parve sino a quel punto piuttosto una marcia negli Stati di Manfredi che una vera campagna, d’onde ne venne discapito al nome dello svevo, così parmi probabile che questi, a reintegrare la propria fama di prode in armi, e a rintuzzare la boria francese, stimasse opportuno di non soprastare neppure un giorno per venire alle mani co’ suoi nemici.

Il re Carlo vedendo avanzarsi l’armata del re Manfredi, per la grande volontà che avea di combattere, non seppe contenere la sua gioia, ma disse con alta voce ai suoi cavalieri: Venu est le jour que nous avons tant desirè, e fece dare nelle trombe, quasi sfidando il nemico a rompere gli indugi, e venir subito con esso a giornata campale, E scorgendo che Manfredi avea diviso il suo esercito in tre grandi squadre, fece anch’egli altrettanto, e quindi col grido Mongioia cavalieri da una parte, e Svevia cavalieri dall’altra, ebbe principio la battaglia. I tedeschi che componevano la prima schiera del re Manfredi travagliarono in modo quella dei francesi, da astringerli a rinculare e quasi la posero in rotta; per cui Carlo d’Angiò, mutando l’ordine divisato, si fece innanzi animosamente con la seconda squadra, per rialzare le sorti della battaglia, e fu seguito dai Guelfi di Toscana, che in quel giorno fecero assai bella prova, nonchè da Giglio Bruno contestabile di Francia e da Roberto di Fiandra. E nel tempo stesso il conte Giordano trasse con tutti i suoi in soccorso del conte Calvagno che tenne il comando della prima schiera. La battaglia fu oltre ogni credere sanguinosa d’ambo le parti, ma infine cominciò a prevalere la virtù dei tedeschi, e lo stesso re Carlo, caduto da cavallo, corse grave rischio di vita. Egli allora, credendo lecito ogni mezzo per conseguire la vittoria che gli sfuggiva, poichè combatteva con un sovrano già deposto e in condanna della chiesa, messe in non cale le migliori abitudini cavalleresche, di cui fu sempre la Francia gelosa, gridò ai suoi: a ferire i cavalli, a ferire i cavalli. E un tal ordine, [p. 124 modifica]propagatosi in tutta la fila, fu, appena dato, celeramente eseguito. I tedeschi aggravati dalle pesanti armature, e impigliatisi tra i piedi dei cavalli, da cui duraron fatica a strigarsi, furono in breve tempo sgominati con molta uccisione.

Manfredi in quel duro frangente non si perdette d’animo, ma, a ristorare la pugna, sollecitò la terza schiera composta in gran parte di Pugliesi, ma costoro, salvo pochissimi, vista la mala parata, e vaghi di nuova signoria, vilmente abbandonarono il campo, chi prendendo verso gli Abruzzi, e chi verso la città di Benevento. Allora il generoso e sfortunato Manfredi, anteponendo la morte in battaglia ad una fuga che poteva essere tacciata di codardia, seguito da pochi guerrieri, che gli rimasero sidi nell’avversa fortuna, e anzi, secondo Iamsilla, Troyli e qualche altro storico napoletano, dal solo Tiobaldo di Anibaldo, romano, trasse in aiuto dei suoi, che, traditi, perivano sotto il ferro nemico. In quella, (e un tal fatto narrato da tutti gli storici non può essere revocato in dubbio), mentre egli adattavasi l’elmo sul capo, un’aquila d’argento, che aveva per cimiero, gli cadde in sull’arcione, il che ritenendo egli, secondo; i pregiudizii del tempo, essere un annunzio della sua prossima fine, disse ai baroni che gli erano allato: hoc est signum Dei. Indi prese cuore, e deliberato di morire da prode, privo di qualsiasi insegna reale, spronò il cavallo ove più ferveva la mischia, e facendo mirabili prove della sua persona, trafitto infine da più colpi giacque cadavere su un monte di trucidati nemici: vera morte da eroe!

La vittoria dei francesi fu compiuta, e la massima parte dei baroni di Manfredi caddero prigioni di Carlo d’Angiò, e pochi dì appresso anche la moglie di Manfredi, i figliuoli e la suora, che eransi ricoverati in Nocera de’ Saraceni in Puglia, furono dati in potere del re Carlo che li fece morire in prigione.

Ma non debbo però omettere che ciò è supposto, ma non accertato dalla maggioranza degli storici; poichè alcuni di essi opinano che Carlo d’Angiò, il quale indarno pose [p. 125 modifica]l’assedio a Lucera, che non si arrese a patti che a Carlo II, suo successore, non altro potè conseguire dai saraceni che la consegna della famiglia di Manfredi, a cui essi si sarebbero indotti nella lusinga di rimuovere l’angioino dal tenace proposito di espugnare Lucera. Ma un tal fatto non panni probabile, se si pon mente all’amore che i saraceni di Lucera nutrivano per la discendenza dello imperador Federico II. Ed è più verosimile forse l’opinione di varii storici, i quali ritennero che la moglie di Manfredi e la figlia, a nome Beatrice, languissero lunga pezza tra i ceppi, sinché Carlo II, d’indole più mite del padre, credette opportuno di renderle alla regina Costanza, e non mancano pure di quelli i quali affermano che Manfredi ebbe due mogli, una delle quali, insieme al figlio, fu fatta morire da Carlo I, e che l’altra con la figliastra Beatrice fosse stata mandata a Costanza.

Non fu possibile in tre giorni dopo la battaglia trovare a certi segni il cadavere di Manfredi ma infine un soldato piccardo, che avea combattuto con esso, credè raffigurarlo nel luogo ove la strage dei francesi era stata maggiore, e ne trasse il cadavere innanzi al re. Questi allora, per acquistarne la certezza, fece venire alla sua presenza tutti i baroni di Manfredi, stati presi nella battaglia, e dimandando loro se era quella la spoglia mortale di Manfredi, tutti gli risposero di si, ed anzi il conte Giordano ruppe in pianto a quella vista, di che fu molto commendato dagli stessi baroni francesi. Essi pregarono il re Carlo che fosse sepolto con onore l’estinto Manfredi, ma il re rispose loro: je le fairais volontiers, s’il ne fut excommuniè. E per questo, scrisse il Villani, non volle il re Carlo che fosse inumato in luogo sacro, ma appiè del ponte di Benevento, e sopra la sua fossa ciascuno dell’oste gittò una pietra, onde si fece una grande mora di sassi. Ma da alcuni, prosegue il Villani, si ritenne che poi il vescovo di Cosenza, per mandato del papa, traesse il cadavere da quella sepoltura e lo mandasse fuori del regno che era terra di chiesa, e che fu sepolto lungo il fiume Verde sui confini del regno, ma questo però non credo si possa accertare.

[p. 126 modifica]Ed ho voluto, per quanto concerne la morte di Manfredi, riportare le parole del Villani, perchè questi è generalmente reputato più degno di fede degli altri storici o cronisti, per essere stato quasi coetaneo di Manfredi.

Era naturale che i più antichi storici, dotati di spiriti guelsi, e nelle contese tra lo stato civile e la potestà ecclesiastica ligii sempre a quest’ultima, si studiassero di dar biasimo e mala voce ad ogni azione di Manfredi, e che perciò lo ritraessero coi colori più neri, imputandogli la morte di Federico II e di Corrado, e di aver tentato di spegnere di veleno Corradino per usurpargli il regno. Ma ciò nonostante fu universale in Italia il sentimento di simpatia per Manfredi, di cui parteciparono, quasi loro malgrado, tanta è la potenza del vero, anche coloro che diedero fede a quelle infondate opinioni, e che si erano dichiarati infesti ai principii politici che informarono la vita degli ultimi re Svevi. Ciò posto, non deve saper di strano se il divino poeta, nato nell’anno stesso in cui giacque Manfredi, rendendosi equo giudice delle nequizie umane, mentre allogava tra i simoniaci nella quarta bolgia dell’inferno Nicolò III degli Orsini, Bonifacio VIII, vivo ancora ai suoi tempi, e tanti altri pontefici, fu benigno a Manfredi, che pose sul limitare quasi del Purgatorio a fare emenda delle sue colpe.2.

Ma anche fra gli antichi storici vi furon di quelli che non divisero la più comune opinione, come il Collenuccio e il Riccobaldo, e tennero per cosa assai riprensibile il [p. 127 modifica]ritenere dei fatti tendenti a infamare la memoria di un uomo illustre per via di semplici congetture e supposizioni. E anzi alcuni storici più imparziali, e abituati a non ammettere alcun fatto senza una ponderata critica, asserirono francamente che i delitti imputati a Manfredi non erano punto credibili, e non dubitarono di uguagliare l’infelice svevo ai più grandi sovrani che in diversi tempi onorarono l’umanità.

I moderni autori son quasi tutti concordi nel levare a cielo le virtù civili di Manfredi, e nel rivendicarne la fama, e le sue gesta sono state celebrate in prosa e in verso nella moderna letteratura, per guisa che niun altro nome più di quello del re Manfredi suona ora al pari gradito alla gioventù italiana. Il de Cesare scrisse la istoria del re Manfredi, assumendo a discolparlo dall’ingiusta accusa di usurpatore, il Guerrazzi, il de Sivo e il conte Capranica ne resero popolare il nome coi loro romanzi, Carlo Marenco e il Cocchetti composero due tragedie sull’eroica sua morte, il Montrone trattò di Manfredi in un’assai pregevole novella in ottave, e il Mamiani in uno dei suoi idillii, e ciò fa bella prova che le sue sventure eccitarono un senso di simpatia in tutti gli italiani.

Due questioni di non lieve interesse per la istoria patria sono state discusse con calore da varii scrittori: la prima consiste nel determinare con precisione il luogo della battaglia in cui peri Manfredi, e l’altra quale fosse stato il ponte presso il quale sul cadavere di Manfredi si elevò la gran mora dì sassi, e io di amendue mi occuperò assai brevemente.

I beneventani ritennero sempre che le schiere di Carlo d’Angiò vennero a giornata campale con quelle di Manfredi nella pianura di Roseto, e non giù sotto le mura di Benevento e delle sue adiacenze, e molto meno nelle vicinanze di Cepparano, come sognarono alcuni scrittori, tra i quali Pietro Giannone.

Si è creduto sempre che la notizia del luogo della battaglia possa attingersi più che da altri scrittori dalla voce autorevole d’un cronista del secolo XIII, in cui quella [p. 128 modifica]battaglia avvenne. Scrisse Giovanni Villani nella sua cronaca che «il re Carlo giunse a piè di Benevento nella valle di contro alla città, di spazio di due miglia presso la ripa del fiume Calore, che corre a piè di Benevento, con la sua gente passò il ponte sul fiume di Calore, nel piano che si dice S. Maria della Grandella, in luogo detto la pietra di Rossetto, e quivi fece tre squadroni... Indi aggiunge... Ordinate le schiere nel piano della Grandella.»

Così per l’asserzione del Villani conforme a quella di Ricordano Malespini (c. 180 dell’istoria fiorentina) è assai bene determinato il campo della lotta.

Or quale è il piano che a due miglia del fiume Calore chiamavasi nel 1266 Santa Maria della Grandella?

Siccome il nome forse derivava da qualche antica chiesetta, così non credetti difficile desumere una tale notizia dall’archivio arcivescovile; ma tuttavia non mi fu dato di acquistarne l’agognata certezza con lo svolgere quei polverosi volumi, sicchè mi vidi astretto di soffermarmi alle parole del cronista fiorentino e di considerarle ponderatamente. Egli infatti alla denominazione Santa Maria della Grandella fa seguire l’altra della Pietra di Rossetto, e nelle pianure di Benevento, che si estendono al Nord Ovest, in prossimità del la via che adduce ai comuni di Ponte e Fragneto; vi è una contrada che ha appunto nome Roseto, ed una fontana che dicesi Fontana di Roseto. Questo nome Roseto s’identifica con quello di Rossetto adoperato dal Villani, meno il leggiero divario ortografico che è proprio di un’epoca in cui si scriveva Capova per Capua, Cicilia per Sicilia, tanto più che la cronaca fu scritta in Firenze.

Forse si potrà opporre che il luogo della battaglia il Villani lo chiama valle, mentre valle non è la campagna di Roseto? ma non fu avvertito che più tardi lo chiama piano?

Inoltre la marcia dei francesi, l’intento strategico che essi aveano di provarsi all’aperto in una battaglia campale, l’agevolezza del suolo pei movimenti della cavalleria insieme al nome consacrato nelle pagine d’uno dei più insigni cronisti, e dopo sei secoli conservato sulle labbra del [p. 129 modifica]popolo, sembrano dimostrare che fu il piano di Roseto quello ove accadde la celebre battaglia per la quale il conte di Provenza divenne re di Napoli.

Questa opinione fu anche ribadita da un illustre storico straniero, il Gregorovius, il quale in una breve sua dimora in Benevento, tentando conciliare le opinioni degli storici, le condizioni topografiche dei luoghi, e le tradizioni popolari, mi disse di non potersi dubitare che l’opinione preferita dai beneventani sia fondata sul vero. E trattando di una tale questione in una sua monografia storica, scrisse quanto segue:

«A partire da Telese si attraversavano, lungi il Calore, le terre rese memorabili dalle marcie di Carlo d’Angiò. L’esecrato francese muovendo di colà, in direzione di mezzogiorno, si spinse su due punti, che sono oggi due stazioni della strada ferrata, Ponte di Benevento e Vitulano. L’esercito di Manfredi era innanzi a Benevento che gli serviva alle spalle di riparo, e di sostegno verso il settentrione al di qua del Calore. Quivi si distende l’unica pianura non attraversata da fiumi, la quale si offrisse acconcia per dare battaglia.

«Nelle relazioni contemporanee il campo ha nomi diversi; campo di Benevento, campus beneventanus, ovvero campus dominicus beneventanus o campo delle rose Campus rosarum, o di fiori floridus, o anche Pietra del Roseto e vi si aggiunge l’altra indicazione che sul luogo era una chiesa campestre intitolata S. Maria della Grandella. Carlo d’Angiò stesso in un rescritto da Lucera del 24 luglio 1269, col quale ordinava che sul campo di battaglia fosse edificato un chiostro lo designa in questi precisi termini: sul campo beneventano dove abbiamo riportala vittoria su Manfredi, sul territorio di S. Marco, di là da Benevento

«La tradizione ha mantenuto il nome di Roseto, benchè ogni traccia della chiesa sia scomparsa. Tutti i beneventani informati delle memorie cittadine mi indicarono concordemente una pianura terminata in lievi colli a [p. 130 modifica]settentrione della stazione come il campo delle rose sul quale Manfredi cadde... È una campagna florida ed ubertosa, ricca di poggi, solcata da irrigue valli, chiusa quasi d’intorno da grosse montagne, certo, come campo di battaglia, uno dei meglio adatti terreni, che la storia additi.»

E anche il de Sivo, che studiò assai bene le tradizioni di queste contrade, scriveva nel suo racconto storico su Corrado Capece quanto segue: «Giù da quella dimora era un piano di forse cinque miglia quadrate, piuttosto verso il settentrione che verso il Ponente della città, detta allora S. Maria della Grandella o anche Roseto, il quale ultimo nome serba tuttodì. Colà Manfredi fermò alquanto i suoi passi, e, come quello che era maestro di battaglia, statuiva in suo pensiero che quivi seguir dovesse la guerresca fazione, perchè in mezzo fra Benevento ed i monti, d’onde l’inimico era per iscendere.»

E neanche ci fan difetto i monumenti per sostenere che la battaglia fatale a Manfredi fu combattuta nella pianura di Roseto. E di vero Giovanni Nicastro parla di un marmo rinvenuto ai suoi tempi nel casino della famiglia patrizia Colle in cui leggeasi una lunga iscrizione che ha principio con queste parole: Hac in regione, cui Petrae ad Rosetum vulgus nomen indidit, ac Manfredus Neapolis Rex Anno MCCLXVI.

L’egregio ingegnere Meomartini in una sua monografia sulla battaglia di Benevento, pubblicata due anni or sono, contraddice la riportata opinione per più ragioni.

Egli in primo luogo assume a dimostrare che i suindicati autori ed altri confondono le contrade di Roseto e di S. Maria della Grandella, le quali sono ben distanti l’una dall’altra, e non possono dirsi confinanti, perchè vengono separate dalla contrada Pamperotti. Aggiunge che S. Maria della Grandella dista quattro miglia da Benevento, e ciò è contrario a quanto scrissero il Villani ed altri cronisti i quali affermano che Carlo d’Angiò pose il campo a due sole miglia dalla città. E ritiene pure, appigliandosi al parere del Malespina e del continuatore di Iamsilla, che molti soldati di Manfredi, fuggendo dalla battaglia, trovarono la morte nel fiume, locchè non [p. 131 modifica]potea accadere nella pianura di Roseto o nella contrada di S. Maria della Grandella tanto discoste dal fiume, perchè ivi i fuggenti avrebbero trovato lo scampo in quella lunga distesa di campagne che si prolungono sino al torrente Tammaro verso Paduli. Laonde il Meomartini dopo un accurato studio topografico conchiude che la battaglia avvenne su la bellissima pianura, la quale, divisa dalla città dal solo fiume, si estende sino al vallone di Malecagna ad occidente, e alla contrada Fachiano a settentrione. Ed io benchè inchinato ad ammettere per vera l’opinione degli antichi cronisti, pur tuttavia non intendo escludere addirittura la ipotesi del Meomartini, poichè per la incompiuta notizia dei luoghi potettero errare gli antichi storici e cronisti nell’indicare la contrada ove si decisero i destini della casa sveva.

Più ardua alquanto è la quistione che cade sul ponte, presso il quale fu seppellito Manfredi. Il Borgia ed altri scrittori credettero che Manfredi fosse stato sepolto a capo del ponte Valentino. E a sostenere siffatta opinione, essi argomentarono in tal modo. Ai soldati fuggiaschi dell’esercito di Manfredi, affine di refugiarsi in Lucera, ov’era il presidio dei fidi saraceni, fu forza di prendere la strada di Foggia. E siccome Carlo d’Angiò, a ricordanza della sua vittoria, fece costruire un monastero nella contrada denominata S. Marco, come il Minieri, il Riccio, e del Giudice certificarono con l’aiuto di varii documenti, così, secondo questi scrittori e diversi antiquarii, la battaglia cominciata nella pianura di Roseto, e continuata via via avrebbe avuto termine sulla strada di Foggia, in prossimità del ponte Valentino, ove fu appunto seppellito Manfredi. Ma io non credo che si possa seriamente ammettere una tale opinione, la quale, o che io m’inganni, è fondata su mere congetture, ed è contradddetta dai fatti. E quindi tenterò dimostrare che Manfredi fu sotterrato accosto al ponte che era in quel tempo sul Calore, nella contrada che si dice Pantano, ed ove si scorgono tuttora i suoi ruderi uscenti dal letto del fiume, con lungo muraglione di costruzione romana, per cui i beneventani lo chiamano ponte rotto.

[p. 132 modifica]in primo luogo non vi è alcuno storico o documento che accenni al fatto che la battaglia, cominciata in un luogo, si fosse proseguita in un altro; ma anzi tutti gli autori patrii asseriscono il contrario. E qui mi giova citare Mario della Vipera, il quale nella sua notissima opera intitolata Cronologia Episcoporum et Archiepiscoporum Metropolitanae Ecclesiae Beneventanae p. 124 scrisse prope Beneventum in contrada Rositi, ubi S. Maria della Grandella dicitur, occorrentem cum ingenti exercitu Manfredum, collatis signis, profligavit et occidit

Egli è vero che i soldati fuggitivi, i quali, a prescindere dai traditori, non furono in molto numero, presero chi per la via di Benevento, e chi per quella di Foggia, ma allora la morte di Manfredi era già accaduta, e le sorti della battaglia risolute, per cui i francesi, che riuscirono vincitori in parte per frode, e in parte per il tradimento dei pugliesi, estenuati dalle faticose marcie e dal lungo combattere, non curaronsi di tener dietro ai fuggenti. Ed è falso poi che Manfredi si mosse a combattere quando vide i suoi soldati volti in fuga, ma egli accorse in aiuto dei suoi prodi, allorchè impacciati sotto i destrieri che furono feriti con perfidia dai francesi, e investiti di fronte e ai lati, versavano in grave pericolo.

Nè contraddice l’opinione degli antichi cronisti il fatto che avrebbe Carlo d’Angiò, come affermano taluni eruditi, edificato, in commemorazione della sua vittoria, un monastero nella contrada detta tuttora S. Marco, a imitazione di quei tali usurpatori delle nostre belle contrade, che, nel medio evo, a espiare le rapine, i saccheggi, e ogni altro atroce reato, fondavano con ricche entrate tempii e monasteri, imperocchè, dato pure un tal fatto, esso riconferma la mia opinione, perchè si denominava S. Marco a quei tempi un luogo poco lontano dal Ponte rotto e dalla pianura di Roseto.

Ma vi è più ancora. Manfredi non fu seppellito ove cadde, ma il suo cadavere, come il più prezioso trofeo della vittoria, fu tratto il dì 28 febbraio dinanzi a Carlo d’Angiò nel [p. 133 modifica]suo accampamento, il quale non era stato tolto e giaceva prossimo alla città, e non lontano dal Calore. E dal suo accampamento Carlo d’Angiò trasmetteva al papa la seguente lettera: «Domenica 28 febbraio fu trovato tra gli uccisi il cadavere nudo di Manfredi. Per allontanare ogni errore e dubbio in cosa di sì gran rilievo, feci mostrare il cadavere al conte Rinaldo di Caserta, mio fedele, ai conti di una volta Girolamo e Bartolomeo, e ai fratelli Leo, come anche ad altre persone che con Manfredi ebbero legami e rapporti personali. Tutti costoro lo riconobbero, e dichiararono esser quello indubbiamente il cadavere di Manfredi. Spintovi dal sentimento di natura ho fatto quindi seppellire il morto con onore, ma senza cerimonie ecclesiastiche». Ed il Gregorovius, riportando questa lettera, asserisce che Carlo d’Angiò fece seppellire con deliberato proposito la spoglia mortale di Manfredi lì presso, vicino alla città, in presenza di moltissimi testimoni, a eliminare il sospetto che il re svevo non fosse morto, poiché a lui sarebbe riuscito pericoloso che si fosse supposto vivo Manfredi e non anche vinto.

Però non è meno lontana dal vero, per quanto parmi, l’altra opinione, derivata dalla tradizione popolale e accolta anche dal Gregorovius, che cioè la gran mora dei sassi sui mortali avanzi di Manfredi si fosse elevata presso il ponte Leprosi. E ricordo che io stesso confermai il Gregorovius in un tale errore quando non ancora mi ero occupato di proposito di tale questione.

Ma a dimostrare l’origine di questa tradizione, e quanto essa sia infondata, basteranno, io credo, pochissime osservazioni.

Carlo d’Angiò giunse in Benevento per la via latina, la quale metteva capo al ponte rotto, mentre Manfredi qualche giorno innanzi vi si era recato per la via Appia. Ed è indubitato che appena ei vide apparire sui monti le insegne nemiche, mosse incontro ai francesi, per non dar tempo ad essi di prendere riposo. Infatti gli scrittori attestano che Manfredi passò un ponte ch’era sul Calore, e fece poi sfilare la cavalleria contro il nemico. Ma se il bel ponte che [p. 134 modifica]ora vedesi sul Calore fu restaurato dal celebre Vanvitelli, e quindi appartiene a un’età posteriore, il ponte su cui passò Manfredi non altro potè essere che il ponte rotto, il quale non altrimenti era noto che col nome di ponte sul Calore, e che venne costruito appunto a capo della via latina percorsa da Carlo d’Angiò nello scendere a Benevento, e da cui si scorge, a poca lontananza, la bella e ferace pianura di Roseto. Ed è pure accertato che Manfredi, per combattere con successo i francesi, divise in tre schiere la sua armata, ed egli prese il comando della terza, che costituiva il corpo di riserva, per accorrere ove fosse stato maggiore il bisogno, per cui si tenne naturalmente a breve distanza dal ponte; finchè essendo per lui battuta l’ora fatale, entrò in ultimo nella battaglia, non per vincere, ma per morire da prode, e perciò è assai probabile che fosse caduto non molto lontano dal ponte di Benevento. Ritenuto ciò, non è punto verosimile che, senza alcuno scopo, il cadavere di Manfredi, dal luogo ove era attendato Carlo d’Angiò, fosse stato trasferito in una contrada diversa. E anzi son sicuro che il Gregorovius sarebbe stato del medesimo parere, se avesse avuto contezza di un altro ponte sul Calore, prossimo alla città quasi quanto il ponte Lebbrosi, il quale è posto invece sul Sabato. Laonde, eliminata la difficoltà della lontananza, niun altro argomento può escogitarsi per sostenere una contraria opinione; tanto più che tutti coloro, non escluso il Borgia, i quali ritennero che Manfredi fosse stato sepolto presso il ponte Lebbrosi, non d’altronde attinsero il loro convincimento che dalla popolare tradizione.

Ma questa non pare che sia molto antica, e nacque nel popolo dal convincimento che Manfredi fosse stato seppellito sotto la grave mora presso Benevento;

«In cò del ponte presso a Benevento >.


e dall’ignorare, poichè il popolo non si conosce di storia, e di reliquie di antichi monumenti, che a capo dell’antica via latina, e a poca distanza dal ponte Lebbrosi, eravi in quel [p. 135 modifica]tempo altro ponte del pari antichissimo e di costruzione romana, di cui si scorge ancora un avanzo, donde ha tolto il nome di ponte fratto o ponte rotto, cosicchè il volgo dovea per necessità confondere l’un ponte con 1 altro.

E un ultimo argomento infine di grande efficacia per ritenere che Manfredi fosse stato sepolto presso il ponte rotto si deduce dal nome dello stesso. Infatti tutti gli storici antichi, e gli scrittori contemporanei quasi di Manfredi, sostengono che questo fu sotterrato presso Benevento, lungo il fiume Calore. E qui oltre le opinioni degli storici già mentovati, sarà bene addurre anche il parere — certamente autorevole — di Giovanni Boccaccio, desunto dal suo libro che s’intitola De fluminibus in cui si leggono le seguenti parole «Viridis Fluvius, a Picentibus dividens Aprutios, et in Traentum cadens, memorabilis: eo quod eius in ripam quae ad Picentes versa est, iussu Clementi Pontifici Summi, ossa Manfredi Regis Siciliae qua secus Calorem Beneventi Fluvium sepulta erant.» Adunque da tutti gli storici e scrittori più degni di fede si desume che Manfredi fu sotterrato in prossimità di un ponte sul Calore e presso a Benevento, senza che niuno abbia dato un nome a quel ponte. Ma i ponti Valentino e Lebbrosi non erano noti che con quei nomi, mentre al contrario del ponte rotto gli storici non ci tramandarono il nome, e da ciò risulta che quel ponte non altrimenti era noto che col nome di ponte sul Calore, come tuttora appellasi l’altro più recente che fu, come affermano il Milizia ed altri autori, costruito dal Vanvitelli, o come scrivono il Rossi ed il Meomartini, ricostruito da quel celebre architetto, che lo vide caduto e pressochè distrutto.

Vero è bensì che il Meomartini combatte anche questa opinione, ma non ne adduce le ragioni, limitandosi ad una sola congettura. Trascriviamone l’intero brano. «Un altro ponte, del quale avanzano ancora alcuni ruderi, e denominato ponte rotto, o ponte fratto, esisteva pure sul Calore, tra Pantano e Cellarulo, nella campagna a valle della città; e faceva passare dal braccio della via latina a Benevento, allorchè la [p. 136 modifica]città nell’epoca sannita era tutta laggiù. Poichè di esso non si parla più nell’epoca longobarda, sembra che fosse allora già diruto, distrutto dalle procelle che si addensarono sopra questa città con le irruzioni barbariche, le quali fecero disertare dagli abitanti quella parte più antica di essa. Per la qual cosa non può ritenersi essere quello presso cui fu seppellito Manfredi, contrariamente alla opinione espressa da Isernia.»

Ma se le scritture dell’epoca longobarda si riducono a tanto poca cosa, salvo le molte pergamene che si trovano tuttora custodite nei pubblici archivii della nostra città, e delle quali probabilmente il Meomartini non ebbe occasione di leggere che solo una parte, come mai si potrebbe sostenere, che durante l’epoca longobarda non si sia fatta menzione del ponte rotto? Ma vi è di più. In tutti gli scritti posteriori di poco ai tempi della dominazione longobarda si fa menzione del ponte di Benevento; ma se il ponte rotto non venne mai indicato con un nome speciale, perchè dobbiamo ritenere che gli scrittori non parlino di esso, ma di altri ponti, che furon sempre mentovati con la propria denominazione? E a ciò si aggiunge che gli altri ponti sul Calore di cui abbiamo conoscenza, non esclusi quelli di cui ora esiste solo qualche avanzo, o rasentano quasi le mura di Benevento, come il ponte Lebbrosi, e quello della Maorella, di cui fa menzione il Meomartini, o distano molto da Benevento, per modo che l’espressione adoperata dagli scrittori quasi coetanei del re Manfredi, a cominciare da Dante, che gli avanzi del re Svevo fossero stati seppelliti presso Benevento, non si affa che unicamente al ponte rotto, il quale era posto a breve distanza dalla città.

L’estinguersi con Manfredi la dinastia sveva nel reame delle due Sicilie nocque oltremodo all’Italia intera, poichè contribuì a raffermare per più secoli la divisione e la miseria degli Stati italiani. Nè mai si ebbe nel medio evo, nè appresso sino ai dì nostri altra sì bella opportunità di raccoglierla sotto un solo governo.

E infatti se i papi mostrarono maggiore animosità [p. 137 modifica]contro Federico II e Manfredi che contro alcun altro sovrano, e non vollero da ultimo venire con essi a niuno accordo ributtando le iterate preghiere del piissimo re di Francia Luigi IX, il fecero per la persuasione, in che erano entrati, che l’imperadore e Manfredi intendessero distruggere il principato politico della chiesa e riunire l’Italia, e che avessero animo e forze da colorire e mettere in atto il loro disegno.

Ma se gravissimi mali per più secoli derivarono a tutta Italia dalla disfatta del re Manfredi, le provincie del mezzogiorno d’Italia specialmente non fruirono più di alcun bene, e giacquero sin quasi ai nostri giorni in durissime condizioni.

Egli è saputo dai dotti che la prima luce di lettere italiane, come scrive il Colletta, spuntò in terra napoletana dalle colonie greche. Zaleuco si disse da Locri, Pitagora da Crotone, Archita da Taranto, Alessi da Sibari: e in altre età Ennio, Cicerone, Sallustio, Vitruvio, Ovidio, Orazio, Giovenale ebbero i natali sotto il nostro cielo. Ed io aggiungo che anche le lettere itallane ebbero la prima cuna in Napoli ed in Palermo nelle Corti di Federico e di Manfredi di Svevia; ove furono coltivate con inestimabile ardore dagli stessi sovrani, e dai primieri baroni, e maggiorenti del regno, i quali misero in onore la lingua volgare per gratificarsi il popolo. Ma quando alla Signoria degli Svevi, che intesero a unificare l’Italia, sottentrarono in Napoli le dominazioni degli Angioini e degli Aragonesi, i quali mostraronsi ostili ad ogni coltura, le lettere e la poesia, fuggitive da una terra

«Dalle grazie sorrisa e dall’amore,


presero a fiorire invece e, direi quasi, si trapiantarono nella libera Toscana, non potendo le lettere allignare in una terra contristata dal più immite servaggio, e queste provincie imbarbarirono nuovamente in breve volgere di tempo.

Inoltre durante la dominazione sveva erasi già cominciato a introdurre in parte nel reame delle due Sicilie le forme d’una temperata monarchia, poiché Federico II non [p. 138 modifica]accoglieva in mente le massime di assoluto governo, e ne fan prova più che le parole, non di rado usate dai politici, come disse il Metternich, per nascondere il pensiero, le opere sue, le leggi e gli Ordini politici, che, in mezzo a quelle burrascose vicende, egli stabiliva nel regno delle due Sicilie, pei quali il nome di Federico II con quello di pochi principi magnanimi e sapienti fu sempre onorato. Nè a temperare l’assoluto potere fu indotto il gran Federico da una rivoluzione di popolo, in cui fosse penetrato quel gagliardo sentimento della dignità propria, che non soddisfatto si manifesta coll’ultima ragione delle genti oppresse, ma da una sagace e generosa politica. E però attese sempre ad avvalorare la sua potenza collegandola con gli interessi del popolo, per fiaccare le due classi prevalenti nel regno, e mostrò alle repubbliche italiane come egli non fosse avverso alle libertà popolari, e che riunendo la divisa Italia avrebbe accomunato la potestà sovrana e le cure di governo coi deputati della Nazione, e avrebbe assicurato coll’ordine la libertà guardandola dagli eccessi, a cui trascorreva nei tribolati comuni. (Mestica)

Colla cessazione adunque della Signoria Sveva nel reame delle due Sicilie, fu per il corso di sei secoli afflitto il più bel paese dell’Universo dal più tremendo flagello con cui l’Autore d’ogni bene punisce un popolo de’ suoi errori, cioè dalla tirannide, poiché tutti i governi che dopo gli Svevi tennero il freno delle belle contrade, non furono, per usare la celebre espressione del Gladstone, che la vera negazione di Dio. E non pure a queste provincie ma all’Italia intera fu poco men che esiziale la caduta degli Svevi, poiché dopo la morte di Manfredi non ebbe mai luogo altra propizia occasione per conseguire i’ unità nazionale, sicché tale aspirazione degli italiani parve a tutti per il volgere di più secoli non altro che un poetico sogno. Ma infine il gran concetto politico di Federico II e di Manfredi, riapparso pochi lustri dopo, sfolgorante d’immortale bellezza, nel poema di Dante, e tre secoli appresso nelle pagine immortali del più sapiente politico del mondo, il Macchiavelli, si è ora purificato nella dottrina del dritto nazionale, e nel lume di una civiltà più [p. 139 modifica]matura, sotto gli auspicii di un prode e leale sovrano, non più diviso di voglie dal popolo italiano, ma concorde a riporre il massimo de’ beni nell’unità e nell’indipendenza della sua patria.

Note

  1. Clemente IV assolvette questo esimio arcivescovo dall’anatema in cui incorse, per aver preso parte alla incoronazione di Manfredi. Fu gli che eresse il campanile della nostra Metropolitana.
  2. Dalle terzine di Dante che non riporteremo, perchè a tutti notissime, si potrebbe argomentare che le ossa di Manfredi si fossero, per ordine di papa Clemente, lasciate insepolte, pasto ai cani, lungo le rive del Verde. E però gli storici illustrarono un tal passo a questo modo. Il pontefice Clemente fece gettare le ossa di Manfredi sulle rive del fiume Verde a lume spento che è a dire: falli spegnere i lumi innanzi al cadavere e portare capovolti dal clero fra orrende imprecazioni. Un simil rito s’era usato la prima volta nell’anno 900 al Concilio di Reims, allorché si spense ogni cero nell’atto che i vescovi scomunicarono gli uccisori dell’arcivescovo Folio.