Italiani illustri/Vittoria Colonna
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Di mezzo alle gravi sventure politiche del secolo XVI, nelle quali perdeva l’indipendenza, l’Italia si sentì minacciata d’una ancor più grave, qual era di andar divisa nella fede e nel culto. Qui, prima che altrove, si svolse il seme della protesta religiosa, tra per meditazione di pensanti, tra per arguzia di letterati, tra per esagerazione di pietà. Alcuni, vedendo la depravazione insinuatasi nella Chiesa e gli ecclesiastici tuffarsi in cure secolaresche, dal riprovare l’abuso passavano a censurare la Chiesa, fino a reluttare all’autorità di questa, che unica ha il diritto di riformar sè stessa.
Altri, ritirandosi dal mondo contaminato, si esaltavano nella penitenza, e pregavano che Dio la infliggesse alla Chiesa tutta per emendarla. Di questi furono tipo i discepoli del Savonarola, che, pur disapprovando molto ne’ membri e nei capi della Chiesa, arrestavansi davanti alle decisioni e all’organica venerazione di essa.
Gli eccessi della pietà, la passionata credenza alla giustizia di Dio, gli ardimenti del pensiero, che interpreta sì, ma accetta il dogma esposto dalla Chiesa, son troppo distanti dalla rivolta della ragione individuale e mutevole contro la credenza universale e inalterabile. Nè i nostri spingeano il desiderio di riformare sino al proposito di distruggere; nella libertà con cui si rimproverava la romana curia, svampavano quelle stizze, che represse ingagliardiscono; e la vicinanza faceva che coi traviamenti delle persone non si confondesse la santità delle istituzioni.
Il culto delle memorie non si rinnega dalle nazioni se non quando siano rese idiote dall’intrigo e dalla rivoluzione. E poichè la grandezza maggiore, la potenza, la ricchezza all’Italia è sempre venuta dall’esser sede di que’ pontefici, ai quali appunto si indiceva guerra, l’interesse che vi spingeva i forestieri ne disavviava i nostri, che prendeano anzi in dispetto Lutero, il quale accanniva le genti germaniche contro l’Italia, maestra e vittima de’ compatrioti di lui.
Ma se l’amore delle novità non invase nè le plebi nè i principi, e se quelli che si brigavano di ragionare la propria fede erano pochissimi a fronte di coloro che ne usavano e ne viveano senza punto analizzarla, erra chi crede che la Riforma non abbia fra le Alpi avuto ed estensione e conseguenze civili e polltiche.
Se non che, mentre in Germania fu partito de’ principi, in Francia partito de’ nobili, in Italia fu principalmente de’ letterati. Non appena la protesta fu formulata in Germania, la estesa reputazione de’ dotti italiani fece che i novatori forestieri sollecitassero l’adesione di questi, e cercassero qui divulgare le loro scritture, mentre qualche dotto prendea passione alla Bibbia, come avrebbe fatto ad un manuscritto recentemente scoperto; e coloro che aveano censurato gli abusi della Chiesa, compiacevansi d’udirli ripetere dai Protestanti, e di poter esclamare, — Anch’io l’avea detto e prima di loro; e se mi si fosse dato ascolto, se ne sarebbe tolta l’occasione». D’altro lato il disgusto causato dalla mondana politica di Roma infondeva il desiderio di un miglioramento; la vivacità degli ingegni nostrali inuzzoliva delle ardite predicazioni, ove parea che i primi riformatori tirassero verso Dio o col misticismo che lo accosta immediatamente o col sopprimere il clero che si frappone tra l’uomo e il Creatore; e i discorsi pieni di pensieri pii e di parole sante, e i lamenti sulla depravazione, espressi con forza e libertà, mascheravano di zelo lo spirito di rivolta.
Ha ben riflesso Bossuet che, oltre coloro che richiedono la riforma da rivoluzionarj, v’ha molti che il fanno senza asprezza nè violenza; deplorano i mali, ma con rispetto propongono i rimedj, nè li vorrebbero mai ottenere colla scissura, la quale considerano come il pessimo de’ mali; la dilazione sopportano senza impazienze, riflettendo che possono sempre cominciare l’emenda da sè stessi: sanno che Cristo insegnò ad onorare la cattedra di Mosè, anche quando vi siedono peccatori; e la riforma vogliono fatta secondo la divina istituzione della Chiesa, per ripristinarla sulle sue basi, non per crollarla. Di fatto i savj, se erano offesi dall’antica superstizione, restavano scandolezzati dalla audacia presente; riprovavano certe incondite devozioni, offendeansi delle ambizioni papali e dell’ingordigia clericale: pure sentivano il bisogno di appoggiare la ragione all’autorità, per non rimanere perplessi sulle grandi quistioni della presenza reale, della predestinazione, della soddisfazione di Cristo.
La dottrina cattolica abbraccia il divino elemento e l’umano, il terrestre e il soprannaturale, ossia il principio mistico e il principio intellettuale, riducendoli in un’armonia che forma la meraviglia e la venerazione de’ contemplanti. Può anche nascervi squilibrio, nè per questo esce dal cattolicismo chi non arrivi al rinego dell’autorità ecclesiastica, e a rompere i vincoli della fraterna carità.
I Riformatori ammetteano i dogmi cardinali del cristianesimo, pretendeano anzi richiamare a quelli la Chiesa traviata; ne negavano alcuni. Pertanto è facilissimo, in detti e scritti di ottimi cattolici, trovare espressioni consone a quelle de’ Protestanti, o lo scopo di richiamare le opinioni vulgari alle definizioni vere e alle interpretazioni autentiche della Chiesa. Chi non ne esamini il complesso, li giudica assenzienti agli eretici. Ma dessero anche in fallo, era colpa dell’intelletto anzi che della volontà; l’errore sincero non costituisce eresia, e se anche ne ha le apparenze, vuolsi distinguerlo dalla ribellione volontaria e meditata. Ciò valea viepiù quando il Concilio di Trento non aveva ancora nè sì ben definiti, nè sì popolarmente espressi i canoni della credenza.
Non è consueto nel nostro paese narrare la vita dello spirito, nè dipingere i caratteri, come fecero principalmente i grandi secentisti di Francia; onde non possiamo assistere alle lotte interne di quelle anime elette, e a quelle ambasce di spirito che non si comprendono più nell’inintelligente età del dubbio. Ma oggi stesso, fra un popolo serio perchè libero di realtà e non solo di istituti, chi volesse vedere come le quistioni religiose agitino profondamente i più gravi pensatori e i cuori più sensitivi, legga in Neumann, in Pusey, in Manning gli spasimi e le emozioni provate allorchè, nel 1851, si discuteva sulla necessità del battesimo, sulla autenticità e divina ispirazione delle Scritture, sulla macchia originale, sulle profezie, l’incarnazione, lo Spirito Santo. Ed era l’età del carbon fossile, del vapore e dei telegrafi elettrici.
Qualcosa di siffatto accadeva in Italia nel secolo XVI; laonde furono confuse cogli eretici persone di gran pietà, che colla stessa austerità loro, col congregarsi a ragionare di Dio, coll’occuparsi di indagini teologiche, protestavano contro l’indifferenza dei più. Molti della predicazione luterana non vedeano che il lato morale, una pietà forse inconsiderata, ma che vagheggiava la purezza perduta nella Chiesa; un desiderio di diminuire importanza alle cerimonie esteriori e alle opere soprarogatorie, d’altrettanto rialzando la pietà interiore; un deplorare che si perseguitassero l’Ochino o Pietro Martire Vermiglio, mentre si tolleravano l’Aretino e il Franco; una profonda fiducia nei meriti di Gesù Cristo, senza avvedersi che essa perdea lode col repudiare l’autorità e i sacramenti da Lui istituiti; un gridare all’emendazione del clero, al depuramento del culto, pur senza voler menomamente distruggere i papi e i riti. Oltrechè ciò nulla ha a fare colla quistione dogmatica dell’unità, quanti non sono in ogni età coloro che adottano un principio, e non ne tirano tutte le conseguenze?
Alcuni pietosi, alla rinascenza quale s’ebbe in Italia, fondata solo sull’arte e sul sentimento del bello, voleano surrogare quella fondata sulla morale seria e sull’applicazione positiva; al genio gentilesco rivalso surrogare il cristiano che ringiovanisse il mondo: ricorreano alle fonti della tradizione, e taluni, più infervorati del senso morale, arrivavano a supporre che la parola interiore, vale a dire la coscienza e la ragione, sieno superiori alla lettera biblica, e contentavansi di sviluppare il sentimento religioso, non curandosi delle credenze positive. A questo misticismo sono sempre più proclivi le donne, essendo esso il grado più elevato dell’affetto, l’eccesso dell’abnegazione, l’amor divino spinto talora fino alla passione, quale si vide nel XIV secolo in santa Caterina, nel XVI in santa Teresa, poi nella beata di Chantal, nella Guyon, nella Bourguignon, e fino ai dì nostri nella Krudner e nelle scolare del Saint-Martin, le marchese di Lusignan, di Coislin, di Chabannais, di Clermont-Tonnerre, la marescialla di Noailles, la duchessa di Bourbon.
Le arieggiava Vittoria, nata il 1490 in Marino, feudo di suo padre Fabrizio Colonna, famoso capitano romano, gran conestabile del regno di Napoli. Di cinque anni fu promessa sposa al marchese Francesco Ferrante d’Avalos marchese di Pescara, campione della Spagna in Italia: di diciannove, già chiara per ingegno, lo sposò, e vivea spesso in Pietralba alle falde del monte Ermo, più spesso in Ischia, tra i principi e i gentiluomini e i letterati che segnalarono l’ultima splendida età dell’Italia. Molto amò, ma poco si potè compiacere di quel suo marito. Fior de’ prodi, egli restò ferito e prigione con Fabrizio Colonna alla battaglia di Ravenna dell’11 aprile 1512, e Vittoria ne consolò con lettere e con carmi la prigionia, finchè potè abbracciarlo liberato. Ebbe novamente a palpitare quando nuova guerra scoppiò, e quando seppe che il marito trescava in una congiura per liberar l’Italia dagli stranieri. Trescava da vile, giacchè, avutone informazioni piene dal grancancelliere Girolamo Morone, esso rivelò ogni cosa all’imperator di Germania, onde il milanese Ripamonti scrive non essere stato di quei tempi alcuno nè più infame in perfidia, nè più illustre nell’armi.
Dei comporti di esso non era ignara la Vittoria, e abbiamo una sua lettera ove lo ammoniva a non lasciarsi guadagnare dal baglior d’una corona: spagnuolo qual era, stesse fermo alla fede del suo re, nè l’onor suo contaminasse. Ma di soli 33 anni egli a Milano morì il 25 novembre 1525. Vittoria immortalò con poetici compianti le imprese di lui e il proprio affetto, chiamandolo il suo bel sole; e ancor fiorente di giovinezza e di beltà, ella ricusò altre nozze, e ritiratasi a Roma fra le monache di San Silvestro in capite, soffrì delle sventure pubbliche.
Non è da questo luogo il narrare quante allora spargessero rovine e stragi le nimicizie fra Carlo V e Francesco I; dove andarono a miserabile strazio la Lombardia e il regno di Napoli. Il papa, impaurito dall’ingrandire degli Imperiali e scontento di Carlo V, s’unì in una lega, per lui detta santa, coi Francesi e cogli altri, che pretessevano la solita maschera della indipendenza italiana. Lega a lui funestissima: perocchè subito i vassalli più potenti, e massime i Colonna, si gittarono contro Roma (1526), sopra la quale ben presto si difilò l’esercito imperiale, guidato dal conestabile di Borbone, francese traditore, messosi al servizio dell’impero.
Non era un esercito regolare, bensì un ammasso di quarantamila venturieri, quali ai dì nostri ne abbiamo veduti, che obbedivano personalmente a un capo, purchè egli obbedisse a quanto essi desideravano. E il desiderio loro era saccheggiare Roma, tutti anelando all’oro di essa, molti a distruggerne il primato religioso, essendo Luterani e Tedeschi, avvezzi a considerare i papi e gli Italiani come sanguisughe della loro nazione, e avendo per unico grido Nicht Papa. Un d’essi, chiamato Verdesilva, diceva: — Colla pelle di papa Clemente voglio fare uno staffile, e lo porterò a Lutero perchè veda com’è punito chi resiste alla parola di Dio». Il Freundsberg, loro capitano, teneva appeso all’arcione un laccio d’oro e uno d’argento, proponendosi di strozzare con quello l’ultimo dei pontefici, coll’altro i cardinali.
Cosiffatti assalirono Roma (1527), ed essendosi ammalato il Freundsberg e ucciso nell’assalto il Borbone, inviperiti e sfrenati vi entrarono, ciascuno non pensando che a sfogare i brutali istinti dell’avarizia, della libidine, della rabbia. La capitale del mondo cristiano, la sede delle belle arti, l’asilo e la palestra d’ogni letterato e artista, la seconda patria d’ogni cristiano, andava preda a ladroni e miscredenti: la vita d’ogni illustre di quel tempo ha una pagina dove si raccontano nuovi orrori di questo sacco, uno di quei regj misfatti che lasciano impronta indelebile nella storia; e dove la Germania si vendicava della superiorità intellettuale e morale dell’Italia; la barbarie superba mettendosi sotto ai piedi questa civiltà che la mortificava.
Di quel disastro, ove, si calcolò che Roma perdesse per dieci milioni di zecchini, soffrì la Vittoria1, e ricoverò a Marino, pregando, scrivendo e offrendo malleverie e riscatti pei tanti miseri. Poi quando Paolo III ruppe guerra ai Colonna, ella passò nel monastero di San Paolo d’Orvieto, indi nel 1542 in quello di Santa Caterina a Viterbo: consolata de’ colloqui e della corrispondenza co’ migliori dell’età sua, Bernardo Tasso, l’Ariosto, il Molza, il Guidiccioni, l’Alamanni, oltre quei che nomineremo2.
Allorchè quelle bande saccheggiarono Roma, e l’Europa era piena delle oltraggiose miserie ivi sofferte o recate, Giovanni Valdes, persona d’alta nascita e di molti meriti alla Corte di Spagna, dettava un dialogo, ove supponeva che a Valladolid un soldato, reduce da quel misfatto, s’incontrasse in un arcidiacono e nel cortigiano Lattanzio, e gliene narrasse le particolarità. Lattanzio non rifina di stupire che un papa faccia guerra, e guerra contro l’imperatore; tutt’altro essere l’uffizio del vicario di Cristo. Il soldato risponde che di ciò non si prende meraviglia in Italia, anzi v’è tenuto da nulla un papa che non si maneggi in armi. Descrivendo poi quell’atroce catastrofe, nelle particolarità rilieva ciò che reca disonore al clero; il cortigiano ve la attizza colle sue suggestioni, e conchiude ammirando i giudizj di Dio, il quale castigò in tal modo le ribalderie del papa e de’ suoi. Perocchè della guerra attribuiva la colpa al papa e a Francesco I, scagionandone Carlo V, al che mira pure in un precedente dialogo fra Caronte e Mercurio, ove dalle anime che arrivano al tragitto d’Acheronte, fa raccontare molti abusi, l’opposizione fra la dottrina cristiana e la pratica, e passando a scrutinio un teologo, un frate, un vescovo, una donna e così via, mostra il peggiorarsi della razza umana. Al gusto odierno dee sapere di strano l’udire Caronte e Mercurio discutere del vangelo: ma le sono licenze comuni ai dialoghi di morti.
Il tono di questi dialoghi e le accuse prodigate ai pontefici e alla Chiesa indignarono molti, e il mantovano Baldassar Castiglione, famoso autore del Cortigiano, che nel 1524 stava nunzio del papa in Ispagna, e che morì a Toledo il 1529, si credette in dovere di denunziare severamente il Valdes al papa e all’imperatore. Lagnossene il Valdes, quasi fosse venuto meno alla cortesia mostratagli, e avesse condannato il libro senza conoscerlo. Il Castiglione gli rispondeva una lunga lettera, professando d’avere denunziato quel libro con piena conoscenza, e perchè vi colse un mar di errori e di calunnie contro le cerimonie, le reliquie, la religione stessa. E qui ragionando punto per punto, non gli perdona alcun errore, e conchiude: — Ah impudente! ah sacrilego! ah furia infernale!... E non temete che Dio mandi il fuoco dal cielo che v’arda?» e ritorcendo l’argomentazione in invettiva, gli preconizza un san-benito.
Non erano materie dove si facesse a credenza; onde il Valdes stimò prudente abbandonare la Spagna, ricoverandosi a Napoli, ove i privilegi nazionali teneano in freno il Sant’Uffizio. Quivi arrivò sette anni dopo che la Vittoria era vedova, e vi fu carezzato; preso segretario dal vicerè Toledo, scrisse varie opere e introdusse i libri di Lutero, di Bucer, degli Anabatisti che avea conosciuti in Germania, e fece proseliti. Pubblicò un commento delle Epistole di San Paolo (Venezia, 1556) e riflessioni sopra San Matteo e sopra alcuni Salmi, ma l’opera sua capitale sono Le cento e dieci divine considerazioni, nelle quali si ragiona delle cose più utili, più necessarie e più perfette della cristiana perfezione.
In queste e nel libretto che allora cominciò a correre sul Benefizio della morte dì Cristo, il quisito capitale era se la giustificazione si operasse per atti nostri o soltanto pei meriti del Redentore. In ciò non andavano ben d’accordo neppure i Cattolici, atteso che gran parte della disputa consisteva in parole, e, come dice Bossuet, vi aveva una mala intelligenza, anzichè difficoltà.... Chi di noi (soggiunge) non ha sempre creduto e insegnato che Gesù Cristo soddisfece soprabbondantemente per gli uomini, e che il Padre eterno, contento di questa soddisfazione del Figlio, ci tratterà favorevolmente come se noi medesimi avessimo soddisfatto alla sua giustizia? Se ciò solo vuol dirsi quando si dice che la giustizia di Gesù Cristo ci è imputata, è cosa fuori di dubbio, e non valea la pena di turbare l’universo, nè chiamarsi riformatori per una dottrina così nota e professata3.
Or bene, anche il libretto del Benefizio della morte di Cristo fu attribuito al Valdes, e più generalmente alla scuola ch’egli formò a Napoli. Perocchè colà egli, nella allegra e pittoresca sua casa a Chiaja, raccoglieva il fior della nobiltà napoletana, persone distinte per talenti, e dame, e da esso derivarono i principali promulgatori della riforma, come l’Ochino, il Vermiglio, il Carnesecchi; ma Nicola Balbani, che fu ministro della chiesa italiana a Ginevra, riferisce che, dei convertiti alla riforma in Napoli, la più parte s’accontentavano d’accettare il dogma della giustificazione, riprovavano alcune superstizioni, pure non lasciavano la messa e il resto; quando perseguitati, abjurarono: alcuni furono uccisi come relapsi.
Ai discorsi del Valdes erasi Vittoria Colonna infervorata del vangelo, e non trovava pace e consolazione che nella parola di Dio.
Due modi abbiam da veder l’alte e care
Grazie del ciel: l’uno è guardando spesso
Le sacre carte, ov’è quel lume espresso
Che all’occhio vivo sì lucente appare;
L’altro è alzando dal cor le luci chiare
Al libro della croce, ov’egli stesso
Si mostra a noi sì vivo e sì dappresso,
Che l’alma allor non può per l’occhio errare.
Altrove prorompe:
Deh, potess’io veder per viva fede,
Lassa! con quanto amor Dio n’ha creati,
Con che pena recossi, e come ingrati
Semo a così benigna alta mercede:
E come Ei ne sostien: come concede
Con larga mano i suoi ricchi e pregiati
Tesori; e come figli in Lui rinati
Ne cura, e più quel che più l’ama e crede
E com’Ei nel suo grande eterno impero
Di nuova carità l’arma ed accende,
Quando un forte guerrier fregia e corona.
Ma poi che, per mia colpa, non si stende
A tanta altezza il mio basso pensiero,
Provar potessi almen com’Ei perdona.
Dalla fiducia nel sacrifizio di Cristo è tutto ispirato il seguente:
Tra gelo e nebbia corro a Dio sovente
Per foco e lume, onde i ghiacci disciolti
Sieno, e gli ombrosi veli aperti e tolti
Dalla divina luce e fiamma ardente.
E se fredda ed oscura è ancor la mente,
Pur son tutti i pensieri al ciel rivolti;
E par che, dentro il gran silenzio, ascolti
Un suon che sol nell’anima si sente.
E dice: Non temer, chè venne al mondo
Gesù, d’eterno ben ampio mare,
Per far leggero ogni gravoso pondo.
Sempre son l’onde sue più dolci e chiare
A chi con umil barca in quel gran fondo
Dell’alta sua bontà si lascia andare4.
Le sue poesie spirituali, sebbene artefatte e dialettiche più che immaginose e sentite, sono delle migliori d’allora, e rivelano una profonda religione, qual doveva penetrare le anime virtuose, che, deplorando i mali della patria, gli attribuivano alla depravazione de’ Cristiani e alla negligenza de’ prelati. Onde scriveva:
Veggio d’alga e di fango omai sì carca,
Pietro, la nave tua, che, se qualch’onda
Di fuor l’assal, d’intorno la circonda,
Potria spezzarsi e a rischio andar la barca.
La qual, non come suol leggera e scarca
Sovra ’l turbato mar corre a seconda,
Ma in poppa e ’n prora, all’una e all’altra sponda
È grave sì, ch’a gran periglio varca.
Il tuo buon successor, ch’alta cagione
Dirittamente elesse, e cor e mano
Muove sovente per condurla a porto:
Ma contro ’l voler suo ratto s’oppone
L’altrui malizia; onde ciascun s’è accorto
Ch’egli senza il tuo ajuto adopra invano.
Adduconsi principalmente il Pianto della marchesa di Pescara sopra la Passione di Cristo, o l’orazione sopra l’Ave Maria5 onde provare come ella aderisse alle dottrine nuove. Ma basta leggerli per vedere come ella assoggetti la sua ragione alla cristiana umiltà.
Parrà forse ad alcun che non ben sano
Sia ’l mio parlar di quelle eterne cose,
Tanto all’occhio mortal lontane e ascose,
Che son sovra l’ingegno e il corso umano.
Non han, credo, costor guardato ’l piano
Dell’umiltade, e quante ella pompose
Spoglie riporti, e che delle ventose
Glorie del mondo ha l’uom diletto invano.
La fe mostra al desio gli eterni e grandi
Obblighi, che mi stanno in mille modi
Altamente scolpiti in mezzo al core.
Lui che solo il può far, prego che mandi
Virtù, che sciolga e spezzi i duri nodi
Alla mia lingua onde gli renda onore.
Quel pietoso miracol grande, ond’io
Sento per grazia le due parti estreme
Il divino e l’uman, sì giunte insieme,
Ch’è Dio vero uomo, e l’uomo è vero Dio,
Erge tant’alto il mio basso desio
E scalda in guisa la mia fredda speme,
Che ’l cor libero e franco or più non geme
Sotto l’incarco periglioso e rio.
Con la piagata man dolce e soave
Giogo m’ha posto al collo, e lieve il peso
Sembrar mi face col suo lume chiaro.
All’alme umili con secreta chiave
Apre il tesoro suo, del quale è avaro
Ad ogni cor d’altere voglie acceso.
Era ella stata a Ferrara nel 1537 al tempo della duchessa Renata6, che fu calda fautrice di Calvino, e forse per mezzo di essa legò relazione con Margherita regina di Navarra, corifea de’ Riformati in Francia, e le diresse una lettera di questo tenore:
«Le alte e religiose parole della umanissima lettera di vostra maestà mi dovriano insegnare quel sacro silenzio, che invece di lode si offerisce alle cose divine. Ma temendo che la mia riverenza non si potesse riputare ingratitudine, ardirò, non già di rispondere, ma di non tacere in tutto, e solo quasi per innalzare i contrapesi del suo celeste orologio, acciocchè, piacendole per sua bontà di risonare, a me distingua ed ordini l’ore di questa mia confusa vita, fintantochè Dio mi concederà di udire vostra maestà ragionare dell’altra con la sua voce viva, come si degna di darmene speranza. E se tanta grazia l’infinita bontà mi concederà, sarà compiuto un mio intenso desiderio, il quale è stato gran tempo questo, che, avendo noi bisogno, in questa lunga e difficil via della vita, di guida che ne mostri il cammino, con la dottrina e con le opere insieme ne inviti a superar la fatica. E parendomi che gli esempj del suo proprio sesso a ciascuno siano più proporzionati, ed il seguir l’un l’altro più lecito, mi rivoltai alle donne grandi d’Italia per imparare da loro e imitarle; e benchè ne vedessi molte virtuose, non però giudicava che giustamente l’altre tutte quasi per norma se la ponessero. In una sola fuor d’Italia s’intendeva esser congiunte le perfezioni della volontà, insieme con quelle dell’intelletto.... Certo non mi sarà difficil viaggio per illuminare l’intelletto mio e pacificare la mia coscienza; e a vostra maestà penso che non sia discaro per aver dinanzi un subjetto ove possa esercitar le due più rare virtù sue; cioè l’umiltà, perchè s’abbasserà molto a insegnarmi, e la carità, perchè in me troverà resistenza a ricever le sue grazie.... Potessi io almeno servire per quella voce che nel deserto delle miserie nostre esclamasse a tutta Italia di preparar la strada alla venuta di vostra maestà! Ma mentre sarà dalle alte e reali sue cure differita, attenderò a ragionar di lei col reverendissimo di Ferrara, il cui bel giudizio si dimostra in ogni cosa, particolarmente in riverir la maestà vostra. E mi godo di vedere in questo signore le virtù in grado tale, che pajono di quelle antiche nell’eccellenza, ma molto nuove agli occhi nostri, troppo omai al mal usati. Ne ragiono assai col reverendissimo Polo, la cui conversazione è sempre in cielo, e solo l’altrui utilità riguarda e cura la terra: e spesso col reverendissimo Bembo, tutto acceso di sì ben lavorare in questa vigna del Signore»7.
La regina Margherita rispondendo la ringrazia delle lodi datele, protestando di ben poco meritarle. — Per il di dentro io mi sento sì contraria alla vostra buona opinione, che io vorrei non aver vedute le vostre lettere se non per la speranza che ho, che, mediante le vostre buone preghiere, elle mi saranno uno sprone per uscire dal luogo ov’io sono, e cominciare a correre appresso di voi.... alla qual cosa è necessaria la continuanza delle vostre orazioni e le frequenti visitazioni delle vostre utili scritture.... Vostre lettere più che giammai desidero di avere, e ancor più di essere così avventurosa, che in questo mondo possi da voi udir parlare della felicità dell’altro».
Le espressioni della devota marchesa sentono la cortigianeria d’allora, più che un assenso ai pensamenti della regina. E nelle sue poesie troviamo invocati e Maria e gli Angeli e i Santi, nominatamente Caterina e «Francesco, in cui, siccome in umil cera, con sigillo d’amor sì vivo impresse Gesù l’aspre sue piaghe»: manda in regalo un Redentore, e altra volta:
L’immagin di Colui v’invio, che offerse
Al ferro in croce il petto, onde in voi piove
Dell’acqua sacra sua sì largo rivo.
Ma sol perchè, signor, quaggiuso altrove
Più dotto libro mai non vi s’aperse
Per lassù farvi in sempiterno vivo.
Il Boverio, annalista de’ Cappuccini, ci racconta come a Ferrara la Colonna tolse a proteggere i Gesuiti, introdotti di fresco, e assistette anche di denaro i Cappuccini, a favor de’ quali (egli racconta) s’adoprò acciocchè potesse raccogliersi il loro capitolo generale del 1535, sollecitatavi da frà Bernardino Ochino, che poi apostatò; a tal uopo essere ella andata anche al papa, ed espugnatone l’ordine di adunarlo. Noi potremmo opporre che ad essa è dedicata la Nice di Luca Contile, opera tutt’altro che casta, sebben l’autore servisse da secretario al cardinal di Trento.
Ritirata, come dicemmo, nel convento di Santa Caterina a Viterbo, la Colonna v’avea frequenti colloquj col cardinale Polo ivi residente, col Priuli, col Carnesecchi ed altri amici di lui, studiosi della Scrittura. Fra questi va distinto Marcantonio Flaminio veronese, buon medico ed elegante latinista, che ridusse i salmi in odi latine, messe all’indice da Paolo IV: e stampò In psalmis brevis expositio (Aldo, 1545) dedicata a Paolo III, dicendo essere stato indotto a farla dal vescovo Giberti, e a pubblicarla dal cardinale Polo. Nel 1535 scriveva a Pietro Pamfili d’aver detto addio ad ogni studio, eccetto quello delle divine cose, e che proponeasi dedicare il resto di sua vita a meditare la fede cristiana. Girolamo Muzio, annusatore di eresie, l’appuntò perchè, interpretando un verso del salmo 45, dice che «dobbiam cessare da tutte le opere nostre, e la vera giustizia per nostra fatica non si può acquistare»; e altrove ammonisce «che cautamente leggano gli scritti del Flaminio, anzi che non li leggano quelli che al cristianesimo appartengono, perciocchè maggior danno potranno conseguire dalle sue sentenze che diletto dalle sue parole»8.
Del resto il Flaminio conservossi devoto alla messa; credeva la presenza reale; a monsignor Carnesecchi scriveva da Trento, ricordandogli come «alli mesi passati parlassero alcune volte insieme del Santissimo Sacramento dell’altare e dell’uso della messa»: e si lagna di quelli che «stanno ostinatissimi nelle loro immaginazioni, accecati della superbia che si nasconde facilmente sotto il falso zelo della religione, ove si mettono in pericolo di perdere l’onore, la roba e la vita, perchè non si possono immaginare di essere ingannati dalla carne e dal diavolo; e così ognora più s’indurano nelle falsità e diventano acerbissimi censori del prossimo, condannando d’empietà l’universale senso e perpetuo uso della Chiesa, e chiunque non si fa servo delle loro opinioni. Da questa arroganza e da questi amari zeli li liberi Nostro Signore Iddio, e doni loro carità e dolcezza di spirito, e tanta umiltà che s’astengano dal giudicare temerariamente i dogmi e usanze della Chiesa, condannando sì rigidamente tutti quelli che con vera umiltà di cuore la riveriscono e seguitano, e cominciano a credere che, molti di coloro che da essi sono condannati e tenuti idolatri ed empj perchè non credono quello che credono essi, sono veramente religiosi, pii ed a Dio cari; e per contrario nimico ed odiato da Dio chiunque séguita questa loro superba presunzione. E noi, signor mio, se non vogliamo far naufragio in questi pericolosissimi scogli, umiliamoci al cospetto di Dio, non ci lasciando indurre da ragione alcuna, per verisimile ch’ella ne paresse, a separarci dall’unione della Chiesa cattolica, dicendo con David: Vias tuas, Domine, demonstra mihi, et semitas tuas edoce me, quia tu es Deus salvator meus. E senza dubbio saremo esauditi, nam bonus et rectus Dominus, propterea diriget mansuetos in judicio, docebit mites vias tuas. Laddove, volendo giudicare le cose divine col discorso umano, saremo abbandonati da Dio, e in questo secolo contenzioso talmente ci accosteremo ad una delle parti ed odieremo l’altra, che perderemo del tutto il giudizio e la carità, e dimanderemo la luce tenebre e tenebre la luce; o persuadendoci d’essere ricchi e beati, saremo poveri, miseri e miserabili per non saper separare pretiosum a vili; la qual scienza senza lo spirito di Cristo non si può imparare; al qual sia gloria in sempiterno, amen».
Il Flaminio esalta grandemente l’Imitazione di Cristo, e — non saprei proporvi libro alcuno (non parlo della Scrittura santa) che fosse più utile di quel libretto, volendo voi leggere non per curiosità nè per saper ragionare e disputare delle cose cristiane, ma per edificare l’anima vostra, e attendere alla pratica del vivere cristiano, nella quale consiste tutta la somma, come l’uomo ha accettato la grazia del vangelo, cioè la giustificazione per la fede. È ben vero che una cosa desidero in detto libro, cioè che non approvo la via del timore, della quale egli spesso si serve. Non già che io biasimi ogni sorta di timore, ma biasimo il timore penale, il quale è segno d’infedeltà o di fede debolissima; perocchè, se io credo daddovero che Cristo abbia soddisfatto per tutti i miei peccati passati, presenti e futuri, non è possibile che io tema di essere condannato nel giudizio di Dio; massime se io credo che la giustizia e la santità di Cristo sia divenuta mia per la fede, come debbo credere, se voglio essere vero cristiano»9.
Il cardinale Polo invitò il Flaminio a venire da lui a Viterbo, e quando fu eletto uno dei Legati al Concilio di Trento, ve lo condusse. Il Flaminio morì poi di cinquantadue anni, e Pier Vettori ne dava notizia ad esso cardinale da Firenze il 13 aprile 1550, consolandosi che — santamente e piamente fosse uscito di vita con tal costanza di mente e alacrità, qual poteva aspettarsi da uomo che, come lui, era vissuto imbevuto della vera religione». Il Polo curò fosse sepolto nella chiesa degli Inglesi.
Reginaldo Polo (1500-1558) dei duchi di Soffolk, per padre e per madre era cugino d’Enrico VIII, che giovanissimo lo elesse decano della Chiesa d’Oxford. Venuto a studio a Padova, contrasse famigliarità col Bembo, con Gaspare Contarini, con Giampietro Caraffa, e principalmente con Luigi Priuli, che poi gli stette sempre compagno. Al giubileo del 25 visitò Roma; tornato poi in Inghilterra, osò disapprovare Enrico VIII quando ripudiò la moglie per isposare Anna Bolena. Onde sottrarsi all’ira di questo fuggì a Padova, dove pubblicò la Difesa dell’unità ecclesiastica, rimproverando quel re dello scisma che introduceva. Paolo III chiamollo a Roma e lo ornò cardinale (1536); di che viepiù s’indispettì Enrico VIII; col pretesto di congiure, mandò al supplizio varj parenti di esso e fin la madre, mentre gli altri parenti si salvarono colla fuga: bandì cinquantamila scudi a chi uccidesse il cardinale, e in fatti lo tentarono due inglesi e tre italiani, fra i quali un bolognese confessò d’essersi trattenuto lunga stagione a Trento con tale proposito. Quando Francesco I, a insinuazione di Enrico VIII, lo rinviò dal suo regno dov’era legato pontifizio, il papa lo collocò legato a Viterbo. Dal cardinale Cortese era stato invaghito dagli studj biblici, e teneva conferenze con dotti ecclesiastici e laici, può considerarsi rappresentante dello introdottosi spirito di pietà, che ai Riformati dovea parere una protesta contro la rilassatezza di cui imputavano i Cattolici. Al Contarini da Carpentras scrive della cara compagnia del Priuli e d’altri: — Noi per nostra consolazione mutua avemo cominciato a conferire insieme li salmi di quel grande profeta e re, il quale Dio aveva eletto secundum cor suum, e oggidì eramo arrivati a quel salmo che comincia, Salvum me fac, Domine, quoniam defecit sanctus».
E in altra del 9 dicembre 1541 da Viterbo:
— Il resto del giorno passo con questa santa ed utile compagnia del signor Carnesecchi e monsignor Antonio Flaminio nostro. Utile io la chiamo perchè la sera monsignor Flaminio dà pasto a me e alla miglior parte della famiglia de illo cibo qui non perit; in tal maniera che io non so quando abbia sentito maggior consolazione nè maggiore edificazione; tanto che, a compimento di questo mio comodissimo stato, non manca altro che la presenza di vostra signoria reverendissima».
Frasi simili ripete in lettera del 23 dicembre; e in altra del 1 maggio 1542: — Quanto al loco di san Bernardo, notato da vostra signoria reverendissima, dove parla così esplicitamente della giustizia di Cristo, l’avemo trovato e letto insieme con questi nostri amici con grandissima soddisfazione di tutti: e considerando da poi la dottrina di questo santo uomo dove era fondata, e la vita insieme, non mi è parso meraviglia se parla più chiaramente che gli altri, avendo tutta la sua dottrina preparata e fondata sopra le Scritture sante, le quali nel suo interior senso non predicano altro che questa giustizia, ed avendo così bel commento per intendere quel che leggeva, com’era la conformità della vita la quale gli dava continua esperienza della verità imparata, e per questo doveva essere risolutissimo. E se gli altri avversarj di questa verità si mettessero per questa via a esaminare com’ella sta, cioè per queste due regole delle Scritture e dell’esperienza, cesserieno senza dubbio tutte le controversie. Nunc enim ideo errant quia nesciunt scripturas et potentiam Dei, quæ est abscondita in Christo, il quale sia sempre laudato, che ha cominciato rivelare questa santa verità, e tanto salutifera e necessaria a sapere, usando per istromento vostra signoria reverendissima, per la quale tutti siamo obbligati continuamente a pregare sua divina maestà ut confortet quod est operatus alla gloria sua e benefizio di tutta la Chiesa, come femo tutti et in primis la signora marchesa (Vittoria Colonna), la quale senza fine si raccomanda a lei».
La pietà di quei colloqui appare viemeglio da quanto allora scriveva il Flaminio, e singolarmente da una lunga lettera a Galeazzo Caracciolo.
Era naturale che il Polo esercitasse molta efficacia sulle persone che l’attorniavano10, venerato anche come martire della causa migliore. Allora poi che Maria la Cattolica salì regina d’Inghilterra, egli fu mandato colà a consigliarla e coadjuvarla11. Ma ben presto Elisabetta, che la sbalzò, sovvertì le speranze, e fondò la Chiesa riformata. Convocatosi il Concilio di Trento, il Polo fu mandato a presederlo co’ cardinali Del Monte e Cervini: poi vacando la sede per la morte di Paolo III (1549), i voti concorreano nel Polo fin quando il severo Caraffa lo imputò d’essersi mostrato troppo mite agli eretici mentre stava a Viterbo, onde gli fu preferito il Del Monte col nome di Giulio III.
La Colonna mostravasi devotissima in ogni atto al Polo, ed assidua alle sue riunioni: e non è superfluo l’addur questa lettera di essa al cardinale Cervini, che fu poi papa Marcello II:
Da Viterbo il 4 dicembre 1542.
- «Illustrissimo e reverendissimo monsignore,
«Quanto più ho avuto modo di guardar le azioni del reverendissimo monsignor d’Inghilterra, tanto più mi è parso veder che sia vero e sincerissimo servo di Dio. Onde, quando per carità si degna risponder a qualche mia domanda, mi par di esser sicura di non poter errare seguendo il suo parere. E perchè mi disse che gli pareva che, se la lettera o altro di frà Bernardino (Ochino) mi venisse, la mandassi a vostra signoria reverendissima, senza risponder altro se non mi fosse ordinato, avendo avuto oggi la alligata col libretto che vedrà, ce la mando: e tutto era in un plico dato alla posta qui da una staffetta che veniva da Bologna, senza altro scritto dentro. E non ho voluto usar altri mezzi che mandarle per un mio di servizio; sicchè perdoni vostra signoria questa molestia, benchè, come vede, sia in stampa; e Nostro Signor Dio la sua reverendissima persona guardi con quella felice vita di sua santità che per tutti i suoi servi si desidera.
«PS. MI duole assai che, quanto più pensa (l’Ochino) scusarsi, più si accusa, e quanto più crede salvar altri da un naufragio, più gli espone al diluvio, essendo lui fuor dell’arca che salva e assicura».
Così l’umiltà riparava da quegli eccessi, a cui talvolta trae la soverchia concentrazione, sia pure ne’ sentimenti più autorizzati. Molto ella ammirava il cardinal Contarini, e quando morì a Bologna il 24 agosto 1542, compiangeva perchè
Potean le grazie e le virtù profonde
Dell’alma bella, di vil cose schiva
Ch’or prese il volo a più sicura riva
Vincendo queste irate e torbid’onde,
Rendere al Tebro ogni sua gloria antica;
E all’alma patria di trionfi ornata
Recar quel tanto sospirato giorno
Che, pareggiando il merto alla fatica,
Facesse quest’età nostra beata
Del gran manto di Pier coperta intorno.
Nella qual occasione a suor Serafina Contarini dirigeva condoglianze, ricordandosi «delle sue pie e dolci lettere, quando convitava quello amatissimo fratello a desiderar di ritrovarsi con lei alla vera patria celeste, e della domanda che gli fe di esponer certi salmi, che dinotava aver la morte, passione e resurrezione di Cristo sempre impressa nel cuore». Ed enumera i meriti del defunto, e «l’ottimo e divino esempio che dava a ciascuno, e la molto importante utilità alla Chiesa, alla pace e al quieto viver nostro. Ma dovemo esser sicuri che l’infallibil ordine del re, signore e capo di tutti noi, sa il migliore e più atto tempo di tirare a sè le membra sue. Rimane solo la perdita della sua dolcissima conversazione, e il profitto di santissimi documenti suoi.... Or altra spiritual servitù non mi resta che questa dell’illustrissimo e reverendissimo monsignor d’Inghilterra (Polo), suo unico, intimo e verissimo amico e più che fratello e figlio: qual sente tanto questa perdita, che ’l suo pio e forte animo, in tante varie oppressioni invittissimo, par l’abbia lasciata correre a dolersi più che in altro caso che gli sia occorso giammai».
Ma il suo affetto principale restava sempre pel cardinale Polo: e quand’esso partì pel Concilio di Trento, minacciato sempre dagli assassini, essa il raccomandò caldissimamente al cardinale Morone, e nel processo fatto poi a questo trovammo varie lettere, per verità oscure e dubbie12. Eccone una da Viterbo il 30 novembre:
«Con molti servizj etiam che da Dio mi fossero date potenti occasioni, non potrei mostrare alla signoria vostra la mia volontà di servirla, nè esplicarle la securtà che mi dette allorchè, umanamente e con tanta cristiana affezione, mi disse che, in Cristo fondando ogni mia fede, credessi che la signoria vostra reverendissima faria per monsignor d’Inghilterra quel che gli fosse possibile, e che sperava andasse e tornasse come si desiderava da tutti li servi del Signore. Ed avendo poi inteso che continua in vostra signoria reverendissima questa sollecitudine, dimostrandola ogni ora con evidentissimi segni, mi allegra tanto e mi conferma sì nella presa speranza, che non ho potuto lasciar di molestar vostra signoria con questa mia, ringraziando Dio in Lei che si sia degnato legar in tanta unione col vincolo della vera pace due suoi sì cari amici, e di costituirmele serva in modo, che, absente da loro, senta consolazione della divina carità che si fanno insieme, massime che la mia estrema indignità mi toglie l’impedimento che suol dare l’invidia, ancora fosse santa e buona; e mi lascia umilmente godere che Cristo, unico signore capo e ogni ben nostro, abbia voluto che insieme conferiscano gli ampli tesori e inestimabili divizie sue, e gli abbia eletti ad un tanto e sì importante effetto. E qui non si manca da queste purissime spose di Cristo pregarlo che tolga ogni impedimento e ogni dilazione a perficere le ottime aspirazioni delle signorie vostre, sempre conformi, e rimesse alla sua suprema e rettissima volontà così in man della signoria vostra di comandarmi al mezzo di monsignore, che per troppa sua umiltà o per mia troppa indignità non vuol che pensi pur di servirla, sia da me servito in lei, che certo non potrà fare maggior carità che essere occasione che io non mi alleviassi tanto peso di obbligo che ho con vostra signoria reverendissima, che è di prezzo tanto, quanto per me vale l’anima mia quando la riguardo in Cristo, ove lui, come suo istromento, me la fa vedere, e sentire ogni momento la grandissima verità che Iddio gli ha posto nel cuore, riguardato e conosciuto da quel di vostra signoria reverendissima con altro lume che non fo io. Piaccia al Signore di aumentarli in grazia sua, e favorirli quanto per sua gloria gli bisogna».
«PS. Non lascerò di dire a vostra signoria questo a mia confusione, che, quando il senso talor, imitando la madre del giovane Tobia, mormora de’ timori per le insidie fatte a monsignor, subito lo spirito gli risponde, Satis fidelis est vir ille cum quo dimisimus eum. Sicchè vostra signoria vede che fa l’officio dell’angelo».
Più tardi lo ringraziava di quanto fece per esso monsignor d’Inghilterra, e «quando riguardo vostra signoria reverendissima e monsignor Polo insieme in una medesima stanza, non mi ammiro se, da una stessa virtù riscaldati, non si saziano d’accendersi l’uno l’altro: ed io sola fredda ed inferma, scrivo consolata della certezza che pregano il Signor nostro per me, e che vostra signoria si degni servirsene che certo più che mai si rinforzano qui da queste buone madri l’orazioni per lei».
In altra lettera gli ha invidia della «sua molta umiltà, sapendo quanto è differente il concetto che ne hanno quelli che in Cristo il conoscono; e rimpiange la conversazione che avea con lui «massime quando le ragionava di quel libro che sì bene apre spesso»13. Confesso a vostra signoria che mai a persona fui più obbligata che al Polo, e ora in tanto spirito che nelli suoi scritti non si degna nominare altro che Gesù, come poi la signoria vostra vedrà con grazia di Dio, qual si degni sempre mandarlo di consolazione in consolazione, finchè sia abbracciato dalla vera e eterna in quella patria, dove solo guardando, si fa ogni faticoso peregrinaggio felice».
«Le tribulazioni che il Polo soffre, e fatiche e calunnie, niente mi molestano, chè troppo saldo è il suo fondamento, e troppo ben compatto e stagionato l’edifizio con mille ferme colonne di esperienza, in modo che tutte le tribulazioni son sicuri testimonj della sua fede invittissima: ed ogni vento contrario accende lume della sua speranza: e quanta opposizione gli può dar il mondo nelle opere che fa, vedo sempre al fine che son della sua divina carità, arsa ed estinta di maniera, signor mio, che ardisco dire che me ne ha presa, per Dio grazia, qualche scintilla, sicchè non serbo la metà dell’amaritudine che sentirei in tutte le difficoltà e molestie che mi occorsero: e con certi suoi amorosi e dolci modi cristiani ha fatto che, in due anni, io non ho saputo dove mi tener la testa.... ma in questo caos mi fece sentire che doveva alzare gli occhi in un altro modo a quel lume, che poteva illuminare lui secondo li miei bisogni, e non secondo la mia volontà. E così fo, ogni cosa reputando egualmente venir da Cristo, pigliando sommo piacere delle consolazioni, quando Dio per suo mezzo le manda a me.... Quando non vengono, non quanto solevo mi doglio, ma mi umilio, o a dir meglio, cerco di umiliarmi».
«Sto bene in questo silenzio (di Viterbo) e quanto più, per grazia di Dio, il gusto, più compassione ho alla signoria vostra reverendissima: ma il Signore con tanta pace le parli dentro, che non senta li strepiti di fuora, come la mia debilità li sentiva.... Considerando lo stato di vostra signoria reverendissima, non so se più compassione gli debbo avere o quando è con le turbe servendo Cristo nelli suoi fratelli, o quando è solo con Cristo, vedendo i fratelli di lui: massime che, essendo il corpo in fatica, e la mente desiderando la solitudine, mi fa chiaro il copioso fonte d’ogni grazia non gli lascia tanta sete senza dargli spesso qualche dolce poto, acciocchè o col desiderio o coll’effetto sostenga la sua cristianissima vita».
«Avendomi detto che non lo laudi mai, mi bisogna tacere. Che se in questa materia avessi potuto allargarmi, vostra signoria reverendissima avria visto il caos d’ignoranza ove io era e il labirinto di errori ov’io passeggiava sicura, vestita di quell’oro di luce, che stride senza star saldo al paragone della fede, nè affinarsi al fuoco della vera carità: essendo continuo col corpo in moto per trovare quiete, e con la mente in agitazione per aver pace. E Dio volle che da sua parte mi dicesse Fiat lux, e che mi mostrasse esser io niente, e in Cristo trovare ogni cosa».
«....Sapendo io il credito che monsignor ha alla signoria vostra e la reverenza che monsignor Luisi (Priuli) e monsignor Marcantonio (Flaminio) le hanno, la supplico a tenerli spesso ricordati che attendano con ogni possibil diligenza alla sua guardia, lasciando in questo a sua signoria la guardia severissima della sua intrepida fede, considerando che Dio gli ha eletti fra tanti altri suoi servi a custodire questo membro suo, il qual a me pare che faccia sempre male, come che si muova o a dextris secondo lo spirito suo, o a sinistris secondo la carne mia....»
E ad esso cardinale d’Inghilterra:
— Sa il Signor nostro che per altro non desidero eccessivamente di parlar con vostra signoria, se non perchè vedo in lui un ordine di spirito che solo lo spirito lo sente: e sempre mi tira in su a quell’amplitudine di luce, che non mi lascia troppo fermare nella miseria propria: anzi con sì alti sostanziosi concetti mi mostra la grandezza di lassù e la bassezza e nichilità nostra, che, vedendo noi stessi e tutte le cose create servirci a questa, bisogna trovarci soli in Colui che è ogni cosa. E quanto più ho bisogno di parlare alla vostra signoria, non per ansia nè dubbj nè molestia che abbia o tema d’avere per bontà di colui che mi assicura, ma perchè ogni volta che la vostra signoria parli di quel stupendissimo sacrificio, della eterna destinazione, dell’esser preamati, e di quel pane ascondito trovato su quelli monti e fonti che scrive...., fa star l’anima sull’ali, sicura di volar al desiderato nido; sicchè tanto è per me parlare con vostra signoria come con un intimo amico dello Sposo che mi parlerà per questo mezzo, e mi chiama a lui, e vuol che ne ragioni per accendermi e consolarmi».
Chi ha letto santa Teresa e la beata di Chantal non istupirà di tanto affetto, che del resto, in donna, radamente si scompagna dalla venerazione. E forse il Priuli ne faceva appunto a Vittoria, la quale gli rispondeva: — La cosa è sì perfetta, l’affezione mia sì giusta, debita e santa, così utile all’anima mia, sì cara e grata a Dio, che mi andrei solo ritirando, come si suol ritirare la mente dalla troppo fissa orazione e dolcezza dello spirito, acciò ritorni a servir gli altri prossimi per esercitar la carità, perchè con monsignor esercito più la fede, ricevendo assolutamente da Dio quanto lui fa: sicchè sempre sono obbligatissima al dolcissimo mio e reverendissimo Morone, che in tutti i modi mi fa consolata».
Chi poi, in questi ultimi anni, ha potuto assistere in Parigi ai convegni della signora Swetchine, e attorno a questa intelligente russa vedere raccolti Lacordaire, De Falloux, Montalembert, Dupanloup ed altri caporioni della scuola cattolica, nell’intimo bisogno di dirsi un all’altro il proprio pensiero sulle quistioni supreme, e di accomunar le melanconie della gioja e l’istruzione dei dolori nel penoso rispetto del diritto e nel disgusto delle defezioni e delle debolezze; e riconoscere che, per arrivare all’óasi, bisogna attraversare il deserto; assicurarsi che, quando non si prenda la vita dal lato di Dio, non si striga questa matassa arruffata; e scontenti del mondo e di sè, contenti di Dio, con amabile semplicità accettare la solenne espiazione, e sostenersi vicendevolmente a soffrire, nella persuasione superna che Dio sa quel che fa, e nella mondana che, senza i colpi dell’avversità, ci sarebbe ancor del ferro ma non dell’acciajo; chi gli ha veduti, dico, gode immaginarsi che qualcosa di simile avvenisse attorno alla marchesa poetessa, fra quelle pie persone, cupide di sottrarsi al doloroso supplizio dell’incertezza. Deh, perchè in tanti studj di drammatizzar il passato, nessuno toglie a ravvivar quelle sante e dotte confabulazioni, che allora dovettero passare a Viterbo fra queste anime pie, nel mentre in Germania straziavansi e a vicenda si bestemmiavano i predicatori del disenso?
Dalla Vittoria non possiamo staccare la memoria di Michelangelo Bonarroti, grand’intelligenza e gran cuore, che idealizza anzichè esprimere, e come artista, figura l’armonia de’ contrasti. Era venuto su come gli altri in quel secolo fra il rinnovato paganesimo: e ne’ colloqui col magnifico Lorenzo nel giardino di San Marco o nel palazzo di via Larga o nel suburbio di Careggi, s’imbevve di quelle idee gentilesche, per le quali pareva assai se nell’Olimpo serbavasi un posto ospitale anche al Cristo. Ma per quel vigor suo che nol lasciava servile a concetti altrui, s’addiede anche alla Bibbia, ed «ha con grande studio ed attenzione lette le sante Scritture sì del Testamento Vecchio come del Nuovo, e chi sopra ciò s’è affaticato», scriveva il Condivi, lui vivo. Aveva ascoltato frà Girolamo, e ne trasse l’amor della religione, associato a quel della patria: e fu uno di quelli che allora sentivano più vivo il bisogno di spiritualità; ma come si volle denigrare il suo patriotismo, così la sua fede14.
Ne’ suoi versi, per una mescolanza troppo consueta a’ nostri, ve n’ha molti d’amore: un amore alla petrarchesca, nel quale, vagheggiando il bello effettivo, pur si vuole elevarlo con idee platoniche. E tale fu quello ch’egli, già maturo, anzi vecchio, portò alla Vittoria Colonna; non scevero di passione quant’altri presunse; ora entusiasta ora sconfortato, or felice or gemente, elevato certamente e sublimato poi dalla morte15. Da quella mirabil donna egli chiedeva consigli e sostegno, e dicevale:
Ora in sul destro, ora in sul manco piede
Variando, cerco della mia salute:
Fra ’l vizio e la virtute
Il cor confuso mi travaglia e stanca;
Come chi ’l ciel non vede
Che per ogni sentier si perde e manca.
Porgo la carta bianca
A’ vostri sacri inchiostri,
Ch’amor mi sganni e pietà ’l ver ne scriva,
Che l’alma da sè franca
Non pieghi agli error nostri
Mio breve resto, e che men cieco viva
Chieggo a voi, alta e diva
Donna, saper se ’n ciel men grado tiene
L’umil peccato che ’l soperchio bene.
Il Campanari pretende possedere un ritratto della Colonna di mano di Michelangelo, e sebbene paja affatto naturale ch’egli volesse ritrarre l’amica, troppe ragioni s’oppongono al crederlo autentico: l’avrebbero taciuto il Condivi e Michelangelo stesso? Bensì egli le mandava i versi che per lei componeva, ed essa lo ricambiava colla raccolta de’ suoi: a domanda di essa faceva un Cristo in croce, or «come corpo morto abbandonato qual cascherebbe ai piedi della sua santissima madre»; or «in atto divino col volto rivolto al Padre che par che dica Eli Eli». Ella, che si sentiva «armata di cento invitti scudi, e non era più sensibile ormai che agli assalti dell’eterno amante ed ai desiderj delle eterne nozze», non poteva ricambiar d’amore il passionato artista, nè la pietà e l’età sua poteano soffrire altro affetto che platonico: ma godeva dell’omaggio d’ammirazione che quel supremo genio le tributava; le sue rime accoglieva, come aveva accolte quelle del Molza, del Bembo, del Tarsia, di tant’altri, tanto più che, meglio di questi, era capace d’intendere la santa sua melanconia; e ne’ colloqui e nel carteggio ricambiavansi idee elevate dell’arte, e della fede da cui questa è ispirata. E benchè egli avesse lei presente in ogni opera sua, e potesse scrivere, «Ho fatto per quella più che per anima che io conoscessi mai al mondo», essa, più s’avanzava verso la tomba, sentiva qualche scrupolo di quelle distrazioni, e gli mandava da Viterbo: — Se voi ed io continuiamo il scrivere secondo il mio obbligo e la vostra cortesia, bisognerà ch’io lasci qui la cappella di Santa Caterina senza trovarmi alle ore ordinate in compagnia di queste sorelle, e che voi lasciate la cappella di San Paolo senza trovarvi dalla mattina innanzi giorno a star tutto il dì nel dolce colloquio delle vostre dipinture, quali con i loro naturali accenti non manco vi parlano che facciano a me le proprie persone vive che ho d’intorno; sicchè io alle spose, voi al vicario di Cristo mancheremmo. Però, sapendo la vostra stabile amicizia e legata in cristiano nodo sicurissima affezione, non mi pare procurar con le mie il testimonio delle vostre lettere, ma aspettar con preparato animo sostanziosa occasione di servirvi, pregando quel Signor dal quale con tanto ardente ed umil cuore mi parlaste al mio partir da Roma che io vi trovi al mio ritorno con l’immagin sua sì rinnovata e per vera fede viva nell’anima vostra, come ben l’avete dipinta nella mia Samaritana».
Queste frasi sono ben d’altro che da eretica ad eretico; e il grande artista dovette temperar la senile sua vampa al tepore della devota.
Riuscirono vani i tentativi de’ benevoli e degli ammiratori per distogliere la Vittoria dalla devota solitudine: per alcun tempo rassegnossi a tornare nel fragore di Roma, ben presto riavutasi dal suo disastro; ma nel 1541 si chiuse affatto nel convento di Santa Caterina di Viterbo; tornò nelle Benedettine di sant’Anna dei Funari a Roma, e aggravatisi i suoi mali, fe trasportarsi in casa di Giuliano Cesarini, marito di Giulia Colonna, e colà in religiosa costanza spirava il febbrajo del 47, avendo 57 anni. Sebbene ella avesse voluto modestissima tomba fra le monache di sant’Anna, poeti e prosatori la piansero a gara, e non v’è quasi scrittore contemporaneo, dal Giovio all’Ariosto, dal Cariteo al Contarini, che non la lodasse o non le dirigesse o dedicasse prose o versi, ammirandola qual tipo della virtù femminile esercitata, per verità, non nei tranquilli doveri della famiglia o nel combattere gli istinti e le passioni, ma nelle pratiche ascetiche, nella dolce e colta conversazione, nel conservarsi nobilmente casta fra le tentazioni di un secolo corrottissimo, credente fra tanto pullulare di dubbj, corretta ed elevata fra le smancerie petrarchesche; tipo di poetessa, di gentildonna, d’amica.
Allorchè essa moriva, Michelangelo, quasi risorgesse dalla vicina tomba, metteva mano alla fabbrica della cupola di San Pietro, e la costei morte lo lasciò per molto tempo sbigottito e quasi insensato. Così scrive il Condivi, il quale soggiunge «che mi ricorda d’averlo udito dire che d’altro non si doleva, se non che, quando l’andò a vedere nei passar di questa vita, non così le baciò la fronte, la faccia, come baciò la mano». Poesia del dolore! E al suo Pier Francesco egli scriveva: — Morte mi tolse un grande amico, un amico che m’aveva voluto un grandissimo bene come io a lui», e ne cantò a lungo, e diceva:
Il mio rifugio e ’l mio ultimo scampo
Qual più sicuro, e che non sia men forte
Che ’l pianger e ’l pregar?
Baldanzoso com’era e smaniato del nuovo, repente sentivasi talvolta preso da scoraggiamento, e non leggeva più che la Bibbia e Dante16, non tratteggiava che soggetti sacri, e rifuggiva sotto l’ale della misericordia eterna:
Nè pinger nè scolpir fia più che queti
L’anima, vôlta a quell’amor divino
Ch’aperse a prender noi in croce le braccia.
Così il Dante del suo secolo ebbe la sua Beatrice.
- ↑
Se l’imperio terren con mano armata
Batte la mia Colonna entro e d’intorno,
La notte in foco e in chiara nube il giorno
Veggio quella celeste alta e beata.
Sua mercè, colla mente: onde portata
Sono in parte talor, che, se in me torno,
Dal naturale amor che fa soggiorno
Dentr’al mio cor, ben spesso richiamata,
Mi par per lungo spazio e queto e puro
Quanto discerno e quanto sento caro....E quando le truppe del pontefice, reduci d’aver sottoposta la ribelle Perugia, davano il guasto alle terre de’ Colonnesi, ella al papa dirigea varj sonetti, fra cui questo:
Veggio rilucer sol di armate squadre
I miei sì larghi campi, ed odo il canto
Rivolto in grido, e ’l dolce riso in pianto
Là ’ve prima toccai l’antica madre.
Deh mostrate con l’opre alte e leggiadre
Le voglie umili, o pastor saggio e santo!
Vestite il sacro glorioso manto
Come buon successor del primo padre.Semo, se ’l vero in voi non copre o adombra
Lo sdegno, pur di quei più antichi vostri
Figli, e da’ buoni per lungo uso amati.
Sotto un sol cielo, entro un sol grembo nati
Sono, e nudriti insieme alla dolce ombra
D’una sola città gli avoli nostri. - ↑ Alcune delle molte lettere sue al cardinale datario Giberti, santo vescovo di Verona, furono stampate dal Giuliari nella Nuova serie di aneddoti (Verona, 1868) con una a Baldassare Coltiglione, il quale le aveva dato a leggere il suo Cortigiano ancora inedito, ed essa il mostrava agli amici, alcun de’ quali ne trascrisse parte e la pubblicò, con grave dispiacere del Castiglione.
- ↑ Histoire des Variations.
- ↑ Altrettanta fiducia palesa in questo sonetto.
Chi temerà giammai nell’estrem’ore
Della sua vita il mortal colpo e fero
S’ei con perfetta fede erge il pensiero
A quel di Cristo in croce aspro dolore?
Chi del suo vaneggiar vedrà l’orrore
Che ci si avventa, quasi oscuro e nero
Nembo, in quel punto, pur ch’al lume vero
Volga la vista del contrito core?
Con queste armi si può l’ultima guerra
Vincer sicuro, e la celeste pace
Lieto acquistar dopo ’l terrestre affanno.
Non si dee, con tal guida e sì verace,
Che per guidarne al ciel discese in terra,
Temer dall’antico oste nuovo danno. - ↑ Venezia, Aldo, 1561. Dalla vita di essa, stampata da Lefevre Derimier a Parigi il 1856, poco s’impara. Vedasi Adolphe Trolope, A decade of italian women, Londra, 1859, e meglio Rime e lettere di Vittoria Colonna, Firenze, 1860, edizione tratta da quella che erasi fatta a Roma da P. E. Visconii per uso privato.
- ↑ Vedasi più avanti la vita di questa. In quella di Aonio Paleario discorriamo del libro del Benefizio della morie di Cristo.
- ↑ Lettere volgari di nobilissime donne, ecc. Grave difetto di quella raccolta è il non mettere la data delle lettere.
- ↑ Gl’intendimenti del Flaminio appajono da questa lettera alla signora Teodorina Sauli:
«L’affezione che porto a vostra signoria per l’amore ch’ella porta a Gesù Cristo nostro Signore mi fece scrivere quella che le scrissi. Ma se io fui presuntuoso ed arrogante, vostra signoria è tanto più umile e modesta pregandomi ch’io le insegni a edificare sopra quel fondamento che si contiene nella mia.... Tre cose so per qualche esperienza che giovano sommamente alla edificazione della vita spirituale. E sono: l’orazione mentale, l’adorazione cristiana e la meditazione. Per orazione mentale intendo un desiderio fervente d’impetrare da Dio alcuna cosa: e le cose le quali principalmente dobbiamo desiderare d’impetrare da Dio sono la fede, la speranza e la carità; e perchè l’uomo può sempre desiderare, per conseguente può sempre orare, come ci esorta san Paolo che facciamo. La fede cristiana consiste nel dar credito a tutte le parole di Dio, e in particolare all’Evangelio di Cristo. L’Evangelio non è altro che la felicissima nuova, che hanno pubblicata per tutto il mondo gli apostoli, affermando che l’unigenito Figliuolo di Dio, vestitosi della nostra carne, ha satisfatto alla giustizia del suo eterno Padre per tutti i peccati nostri. Chi crede questa felicissima nuova, crede l’Evangelio, e dando fede per dono di Dio all’Evangelio, si parte dal regno del mondo, ed entra nel regno di Dio, godendo del perdono generale; diventa, di creatura carnale, creatura spirituale; di figliuolo di ira, figliuolo di grazia; di figliuolo di Adamo, figliuolo di Dio; è governato dallo Spirito Santo; sente una giocondissima pace di coscienza; attende a mortificare gli affetti ed appetiti della carne, conoscendosi morto col suo capo Gesù Cristo; attende a vivificare lo spirito, e a vivere una vita celeste, conoscendosi resuscitato col medesimo Gesù Cristo, Questi e altri stupendi effetti fa la fede viva nell’anima del cristiano, e per ciò dobbiamo sempre instare con l’orazione al signor Dio che ce la doni, e ce l’accresca se l’abbiamo. La speranza cristiana consiste nell’aspettare con pazienza e con desiderio e allegrezza continua, che Dio adempia in noi quelle promesse ch’egli ha fatto a tutti i membri del suo diletto figliuolo, promettendo di farli conformi all’immagine gloriosa di lui, il che sarà adempiuto quando, fatta la resurrezione de’ giusti, saremo glorificati nell’anime e nei corpi. Chi ha questa speranza grida sempre col cuore, Adveniat regnum tuum: il qual regno allora verrà perfettamente, quando Gesù Cristo, dopo il giudicio universale, consegnerà il regno al suo eterno Padre. La carità consiste nell’amare Dio per sè stesso ed ogni cosa per Dio, dirizzando tutti i pensieri, tutte le parole e tutte le operazioni a gloria di sua divina maestà. La qual cosa non potrà mai fare chi non crede all’Evangelio, e chi non gusta colla speranza i beni della vita eterna. Adunque il cristiano dee vivere in un continuo desiderio che Dio gli accresca la fede, per la quale si conosca giustificato e fatto figliuolo di Dio per li meriti di Cristo; che Dio gli accresca la speranza, per la quale aspetti con desiderio la risurrezione de’ giusti; che Dio gli accresca la carità, per la quale ami Dio con tutto il cuore, odiando l’amor proprio, fonte d’ogni peccato. La carità sostenta la fede e la speranza, perchè l’amore fa che l’uomo creda e speri facilmente. La speranza della vita eterna fa che il cristiano non si curi della vita presente, e per conseguente è modesto e umile nelle prosperità, e forte e paziente nelle avversità. La fede viva ci mantiene incorporati in Cristo, e per conseguente vivificati dallo spirito di Cristo, il quale è spirito fecondissimo, e perciò nell’anima del vero cristiano produce frutti dolcissimi, come è la carità, il gaudio, la pace, la benignità, la bontà, la mansuetudine, le fedeltà e la speranza. L’anima, che si sente del tutto sterile di questi ed altri simili celesti frutti, tenga per fermo che non ha in sè lo spirito di Cristo: e chi non ha lo spirito di Cristo, non è di Cristo, come dice san Paolo.
«L’adorazione cristiana consiste in spirito e verità, e allora il cristiano adora in spirito e verità quando si umilia sotto la potente mano di Dio, benedicendo il suo santo nome in ogni tempo, e ringraziandolo di ogni cosa sì avversa che prospera, tenendo per certo che niuna cosa gli avviene senza la volontà di Dio. Con la quale volontà conformando la sua, il cristiano viene ad unirsi con Dio, e diventa uno spirito con esso lui, e gode una tranquillissima quiete, sicuro da tutti i tumulti ed errori del mondo: perciocchè, vengano pur sopra di lui le infermità, la persecuzione, la povertà, la perdita de’ figliuoli e tutte le altre avversità, che egli le riceve con la faccia allegra e serena, sapendo che vengono per volontà di Dio, la quale egli ha fatta sua, volendo tutto quel che vuol Dio, il quale usa di purificare nella fornace delle tribulazioni le anime de’ suoi eletti, conducendogli alla felicità del paradiso per quella medesima via che condusse l’unigenito suo figliuolo Gesù Cristo.
«La meditazione consiste nel pensare a Dio e alle sue perfezioni, e ai beneficj, i quali dalla sua onnipotenza, sapienza e infinita bontà sono comunicati liberalissimamente a tutte le creature, e particolarmente a veri cristiani, e consiste nel pensare a Gesù Cristo passibile e mortale, a Gesù Cristo impassibile e immortale. In Gesù Cristo passibile e mortale considera il cristiano l’umiltà, la mansuetudine, la carità, l’obbedienza a Dio, l’estrema povertà e le continue ignominie e persecuzioni, le quali finalmente l’uccisero acerbissimamente sul legno della croce. Queste cose considera ogni giorno il vero cristiano per imitare il suo maestro, per diventare umile, mansueto, amorevole, obbediente a Dio, per vincere la vergogna del mondo, per essere paziente e costante nelle tribolazioni, e pigliare la sua croce ogni giorno, e seguire arditamente il suo signore. In Gesù Cristo impassibile e immortale e glorificato, considera il cristiano che egli, per la sua obbedienza, è stato esaltato da Dio ad un’altissima sublimità, e ha acquistato un nome, che è sopra ogni altro nome: considera che egli è nostro pontefice, perciocchè intercede ogni ora per noi; che è nostro signore, perchè ci ha redenti e comperati col suo preziosissimo sangue: che è nostro re, perciocchè ci governa col suo spirito santo, così nelle cose temporali come nelle spirituali; che è nostro capo, perciocchè, siccome dal capo umano discende una virtù che dà vita e sentimento a tutto il corpo, così da Cristo glorioso discende ne’ suoi membri mistici una virtù divina, che li mistifica d’una vita sempiterna, e gli empie di doni e sentimenti spirituali e celesti; considera che egli ci porta un infinito amore; che ha più cura di noi che non abbiamo noi medesimi; che copre con la purità e perfezione sua tutte le nostre imperfezioni; che abita col suo spirito nelle anime nostre, e che finalmente ci farà abitare seco in paradiso, glorificandoci a immagine della gloria sua. Chi sarà colui che, considerando queste cose stupendissime con fede, non abbruci d’amor divino? che non s’innamori ardentissimamente di Dio e di Cristo? che non giudichi e tenga per un vilissimo fango tutti gli onori, tutte le ricchezze e tutti li contenti e piaceri del mondo? che non consacri l’anima sua e il corpo suo al suo Dio e a Cristo?
«Signora mia, pensate sempre a Dio e a Cristo, e viverete una vita celeste in terra, vedrete in ogni cosa Dio e Cristo, farete ogni cosa per gloria di Dio e di Cristo, e amerete ogni cosa per amor di Dio e di Cristo.
«Signora mia, in Cristo osservandissima, per obbedirvi mi son condotto presuntuosamente a parlare delle cose spirituali, nelle quali mi conosco poco esperto: ma siami conceduto di errare per questa volta; per l’avvenire cercherete persone sufficienti a tanta impresa, e lascerete stare me nel silenzio, pregando il signor Dio che mi dia orecchie da udire quello che egli parla secretamente al mio cuore. Prego sua divina maestà, che vi faccia sempre orare, adorare e meditare ad onore e gloria sua».
Di Napoli il giorno XII di febbrajo MDXLII. - ↑ A Carlo Gualteruzzi, 28 febbrajo 1542.
- ↑ Il Caracciolo, autore della vita di Paolo IV manoscritta, ebbe a mano il compendio de’ processi dell’Inquisizione, e ne usa con poca critica, non distinguendo il sospetto dalla colpa. Secondo lui, «il cardinale Polo era molto sospetto di eresia, della quale era infetta tutta la sua Corte a Viterbo, estendendosi alle monache di colà; com’anche a Firenze i monasteri interi erano infetti».
Nel processo del cardinal Morone, un testimonio racconta d’un prete che, divenuto famigliare del Polo, fu da questo convertito alle nuove dottrine; talchè scrisse al Contarini, lagnandosi gli avesse insegnato tanti errori, mentre ora aveva aperto gli occhi alla verità. Vuol pure che il Morone fosse stato pervertito da esso Polo. Vedasi avanti il ritratto del Morone. - ↑ Non è fuor di luogo notare come la Chiesa anglicana conservasse un complesso di dogmi, di sacramenti, di riti, di prescrizioni, d’osservanze, che, più d’ogni altra forma di protestantismo, la avvicinano a noi; con un sacerdozio che si presume apostolico; colla pretensione di purità, unità, perpetuità. Anche il suo Common prayer book, o Libro di preghiere, nella maggior sua parte si scambierebbe per cattolico; la nostra messa è, si può dire, tradotta: altrettanto avviene nelle Omelie, ne’ Formularj, nelle scritture di molti teologi de’ primi tempi dello scisma. Ciò poteva anche esser un artifizio per insinuar poi le massime eterodosse, ravviluppate in tanto di vero. E da principio non pochi cattolici ne restarono illusi, talchè la Chiesa dovette intervenire per metterli sull’avviso: ma su queste conformità si fondano i tentativi odierni de’ Puseisti di accordar l’anglicana colla Chiesa cattolica.
- ↑ Su quelle lettere fu molto escusso il cardinal Morone, e rispondendo sul conto della marchesa, disse: — Io la conobbi in Napoli, e, quando fui fatto vescovo, mi mandò certi rochetti e breviarj, e dopo qualche anno, la vidi in Roma, e forse prima, in Viterbo essendo per passaggio, ce la conobbi molto affezionato (come mostrava spiritualmente) al cardinal Polo, il quale allora era povero, e pativa gran persecuzione dal re d’Inghilterra per un libro che avea scritto contro detto re in favore del primato di nostro signore: e per quanto mi fu riferito da diverse persone, mandarono qui uomini a posta per farlo avvelenare, ed anche per farlo ammazzare, e credo che per questa causa papa Paolo III gli mantenesse alla guardia un certo capitano con alcuni soldati continuamente, e quando volse andar a Trento, Legato al Concilio, la signora marchesa di Pescara mi raccomandò con ogni affetto la salute di questo signore».
- ↑ V’è ragioni per credere fosse il Benefizio della morte di Cristo.
- ↑ Il Grimm, in una vita che recentemente ne scrisse, volle porlo tra coloro che pensavano co’ Protestanti; e che singolarmente non accettasse la necessità de’ sacramenti, nè il purgatorio, giacchè, deplorando la morte di Giovansimone suo fratello, dice che poco importa se non abbia prima ricevuto i sacramenti.
La frase è proprio di Michelangelo, ma se connettasi alle precedenti significa tutt’altro. Perocchè scrive: — Lionardo; io ho, per l’ultima tua, la morte di Giovansimone, Ne ho avuto grandissima passione, perchè speravo, benchè vecchio sia, vederlo innanzi che morisse, e innanzi che morissi io. È piaciuto così a Dio: pazienza! Avrei caro intendere particolarmente che morte ha fatta; e se è morto confesso e comunicato con tutte le cose ordinate dalla Chiesa: perchè, quando l’abbia avute e che io il sappi, n’avrò manco passione».
Che cosa gli fosse risposto appare da questa sua replica: — Mi scrivi che, sebbene non ha avuto tutte le cose ordinate dalla Chiesa, pure ha avuto buona contrizione: e questa per la salute sua basta, se così è».
Vedasi come lo staccare una frase ne sovverta il senso. Giorgio Vasari, suo veneratore e che non facea legendarj, racconta che con esso girava di chiesa in chiesa per guadagnare il giubileo, pur tenendo ragionamenti dell’arte. E gli disse una volta: — Se queste fatiche che io duro non mi giovano all’anima, io perdo ’l tempo e l’opera». E altrove: — Non nasceva pensiero in lui che non vi fosse scolpita la morte.... per il che si vedeva che andava ritirando verso Dio.... Volentieri in questa sua vecchiezza si adoperava alle cose sacre, che tornassino in onore di Dio.... Sovveniva molti poveri, e maritava secretamente buon numero di fanciulle».
Malatosi suo fratello, scrive al padre: — Non vi date passione, perchè Dio non ci ha creati per abbandonarci». E quando stava per gittare in Bologna la statua di Giulio II, — Pregate Dio che io abbia onore qua, e che io contenti il papa; e ancora pregate Dio per lui». E riuscitovi: — Io stimo le orazioni di qualche persona m’abbiano ajutato, e tenuto sano, perchè era contro l’opinione di tutta Bologna che io la conducessi mai».
Ben è vero che, irato ai tempi e a Giulio II, uscì talvolta in rabbuffi, fieri come ogni opera sua, e cantò:Qua si fa elmi di calici e spade
E ’l sangue d’ Cristo si vende a giumelle,
E croce e spine son lance e rotelle
E pur a Cristo pazîenza cade.
Ma non arrivi più ’n qaeste contrade
Chè n’andria ’l sangue suo fin alle stelle,
Poscia ch’a Roma gli vendon la pelle
Ed ecci d’ogni ben chiuse le strade.Ma la sua fede non venne mai meno, anzi considerava beata la gente rustica, che onora e ama e teme e prega Dio pel meglio de’ suoi lavori, de’ suoi armenti, de’ suoi campi; e non agitata dal dubbio, dal forse, dal come, dal tristo perchè, adora e prega con fede semplice.
Onora e ama e teme e prega Dio
Pel pascol, per l’armento e pel lavoro,
Con fede, con ispeme e con desio
Per la gravida vacca e pel bel toro.
E ’l dubio, e ’l forse, e ’l come e ’l perchè rio
Noi può ma’ far, chè non istà fra loro
Se con semplice fede adora e prega
Iddio e ’l Ciel, l’un lega e l’altro piega.Delle sue rime molte suonano di preghiera e di pentimento; ricorre spesso alla misericordia di Dio, e gli dice:
Non mirin con giustizia i tuoi santi occhi
Il mio passato, e ’l gastigato orecchio
Non tenda a quello il tuo braccio severo:
Tuo sangue sol mie colpe lavi e tocchi,
E più abbondi quant’io son più vecchio
Di pronta aita e di perdono intero.Fra le sue carte, non di suo pugno ma su foglio ov’è altro scritto di lui, vedemmo questa preghiera:
— O Padre altissimo, che per tua benignità mi facesti cristiano solo per darmi il regno tuo; di nulla l’anima mia creasti, e incarcerasti quella nel misero corpo mio; donami grazia che, tutto quanto il tempo ch’io starò in questa carcere inimica dell’anima mia, nella quale tu solo mi tieni, che io ti laudi: perchè, laudandoti, tu mi darai grazia di beneficare i prossimi miei, e di far bene in particolare agli inimici miei, e quelli sempre a te raccomandare. Concedimi grazia ancora, santissimo Dio, che, avendo al partire passione corporale, io conosca che quelle non offendono l’anima mia; rammentandomi del tuo Figliuolo santissimo, che per l’umana salute morì tanto vituperosamente; e per questo consolerò e sempre lauderò il tuo santo nome, amen». - ↑
Non vider gli occhi miei cosa mortale
Allor che nè bei vostri intera pace
Trovai: ma dentro ov’ogni mal dispiace
Chi d’amor l’alma a sè simil m’assale....
Non ha l’ottimo artista alcun concetto
Ch’un marmo solo in sè non circoscrive
Col suo soverchio, e solo a quello arriva
La mano ch’ubbidisce all’intelletto.
Il mal ch’io fuggo e’l ben ch’io mi prometto
In te, donna leggiadra, altera e diva,
Tal si nasconde: e perch’io più non viva
Contraria ho l’arte al desiato affetto
Amor dunque non ha nè tua beltade
O durezza o fortuna o gran disegno
Del mio mal colpa o mio destino o sorte;
Se dentro del tuo cor morte e pietade
Porti in un tempo, e che ’l mio basso ingegno
Non sappia, ardendo, trarne altro che morte. - ↑ Il Condivi dice che Michelangelo aveva a mente tutta la Divina Commedia. Sappiamo che ne possedeva un testo col commento del Landino, e l’avea coperto ne’ margini di postille e schizzi. Peccato che siasi smarrito!
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