Melmoth o l'uomo errante/Volume I/Capitolo IV

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Volume I - Capitolo IV

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Charles Robert Maturin - Melmoth o l'uomo errante (1820)
Traduzione dall'inglese di Anonimo (1842)
Volume I - Capitolo IV
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CAPITOLO IV.


Dopo alquante pagine cancellate o inintelligibili il manoscritto divenne più distinto, e Melmoth proseguiva a leggere senza render conto a sè medesimo di ciò, che cotesta storia poteva aver di comune col suo antenato, che egli riconobbe benissimo sotto il titolo dell’Inglese. Ciò che in seguito lesse diminuì la maraviglia, da cui era stato ingombrato da principio, e fece in lui aumentare la curiosità. Sembrava che Stanton fosse [p. 82 modifica]ritornato in Inghilterra, ed ecco come a questo soggetto esprimevasi il manoscritto...............

Verso l’anno 1677 Stanton era a Londra, e la sua mente trovavasi tuttora occupata del suo misterioso compatriotta. Le assidue meditazioni, alle quali egli incessantemente davasi in preda, avevano in una particolar maniera alterati i tratti della sua fisonomia; il suo andare era quello che Sallustio attribuisce a Catilina; l’occhio, quello di un cospiratore. Spesso fra giorno, ed anco nel corso nella notte, andava seco stesso ripetendo: oh! se mi fosse dato di rinvenire quell’ente, che io non oso di nominare ma un istante appresso soggiungeva. E quando lo avrò ritrovato!....

Forse alcuno rimarrà maravigliato, che trovandosi in tal situazione lo spirito di Stanton, potesse trovar piacere ad intervenire e frequentare i pubblici spettacoli. Ma è da confessare, che quando una forte passione ci divora, noi sentiamo più che mai il bisogno di qualche cosa a [p. 83 modifica]noi estranea, che ne distolga e ravvivi. La necessità che noi abbiamo del mondo per ottenerne un qualche passaggero sollazzo, aumenta in proporzione diretta del nostro disprezzo pel mondo medesimo e le opere sue.

Stanton frequentava dunque gli spettacoli, i quali a quell’epoca erano in modo regolati da chiuder la bocca a tutti quelli che follemente declamano contro la progressiva depravazione de’ costumi. Il vizio si riscontra sempre appresso a poco nella medesima proporzione. Le sole cose, che cambiano in una maniera degna di rimarco, sono i costumi, ed in questa parte noi abbiamo incontrastabilmente de’ vantaggi sopra gli antichi. L’ipocrisia, al dir di taluno, è una specie di omaggio, che il vizio rende alla virtù; espressione di cotesto omaggio è la decenza: se ciò è vero non possiamo a meno di confessare, che il vizio da qualche tempo a questa parte è divenuto ben umile. Sotto il regno di Carlo II esso aveva dell’ostentazione, dello [p. 84 modifica]splendore e non cercava nascondigli per rimanersene celato; prova ne siano gli spettacoli pubblici, dei quali mi accingo a fare una leggiera pittura.

Alla porta d’ingresso vedevansi da una parte i servitori di un qualche nobile personaggio, con le armi nascoste sotto il mantello, e pronti a rapire una celebre attrice al momento ch’ella entrasse nella sua portantina per ritornarse alla propria abitazione; dall’altra la carrozza presa a nolo di una donna elegantemente e riccamente vestita, che stava attendendo l’attore alla moda, onde dopo lo spettacolo andar con lui a fare il giro del parco! I palchi erano pieni di donne poco decentemente vestite, e che quantunque prima avessero mandati i loro mariti o fratelli per sapere antecedentemente se le rappresentazioni non fossero troppo oscene per esser loro permesso d’intervenire, per serbare la decenza, pure erano sovente obbligate a coprirsi il volto col loro largo ventaglio. Dietro queste dame vedevansi [p. 85 modifica]due sorta di uomini; gli uni erano conosciuti sotto il nome di uomini di spirito e di piacere. Erano questi osservabili per le loro larghe cravatte di trina di Fiandra, tutte imbrattate di tabacco, per gli anelli di diamanti, di cui le loro dita erano adorne, per le loro grandi e mal pettinate parrucche, finalmente per l’insolente ed alto tuono della voce; quelli (e questi chiamavansi i cavalieri serventi delle dame) portavano guanti guerniti di pizzo, parlavano col tuono il più sdolcinato e mellifluo, e trattavano le femmine ora come se fossero state venerevoli divinità ora come vili prostitute.

Reputo cosa inutile di parlare della platea e delle gallerie composte quasi degli stessi elementi, che ai giorni nostri veggiamo. Stanton guardava tutto senza interessarsi a nulla.

Un giorno era egli andato a vedere rappresentare la tragedia l’Alessandro. Vi rinvenne delle assurdità sufficienti a risvegliare il mal’umore d’uno spettatore istruito e di buon [p. 86 modifica]senso, od anche solamente ragionevole...... Vi si vedevano degli eroi greci con le rosette alle scarpe, con le piume al cappello e la parrucca che loro scendeva fino alle anche; vi erano pure delle principesse persiane con ricchi giustacuori e co’ capelli inciprirati. Ma vi era un punto sul quale almeno l’illusione della scena era completa; perchè le eroine erano ancora in teatro rivali l’una dell’altra. L’attrice che rappresentava la parte di Rossane, aveva avuta con quella, che rappresentava Statira, una querela molto viva dentro quella medesima sera. Rossane soffocò la sua collera fino al quinto atto, quando al momento di trafigger col pugnale Statira, le diede un colpo, che passò il giuocatore e fecele una profonda ferita, quantunque poco pericolosa. Statira cadde svenuta, la rappresentazione rimase interrotta, ed in mezzo al trambusto cagionato da tale incidente, tutti gli spettatori si levarono in piedi; Stanton era nel numero di questi. Fu in tal momento che egli vide frammisto agli [p. 87 modifica]spettatori che erano in platea, e non molto lontano da sè, l’oggetto delle sue ricerche, l’inglese cioè che aveva veduto nelle pianure di Valenza, e che egli teneva per certo, essere il medesimo, del quale parlava la straordinaria narrazione, che ivi era gli stata fatta.

Desso era in piedi; nulla di rimarchevole avea nel suo esteriore, ma tale era l’espressione degli occhi suoi, che a nessuno era dato d’ingannarsi od obliarlo. A Stanton palpitò il cuore con violenza; una spessa nube offuscogli la vista; sentì opprimersi da un mal’essere universale ed inesplicabile, accompagnato da un sudore freddo, che gli trapelava per tutti i pori; tutto infine annunziava, che................................. Prima che Stanton si fosse interamente rimesso, una melodia grata, solenne, deliziosa si fece sentire intorno a lui, e questa andò gradatamente a rinforzare per modo, che sembrava riempiere tutto il teatro. Sorpreso, incantato dimanda ai circostanti d’onde potesse procedere un [p. 88 modifica]suono tanto divino. Le risposte, che gli furono date non fecero che dimostrargli, che lo credevano alienato di mente, nè tale supposizione doveva essere fuori del naturale, avuto riguardo al cambiamento che si era operato nella persona di lui. Rammentossi allora ciò che eragli stato detto in Ispagna circa i melodiosi suoni, che i giovani sposi sentito avevano la notte stessa della loro fatale disgrazia: Sono dunque destinato ad essere ancor io vittima di cotesto uomo straordinario? disse seco stesso Stanton; e cotesta musica celeste, la quale sembra prepararci al soggiorno della eterna felicità, altro scopo non ha, che di annunziarne la presenza d’un demonio incarnato, che si fa beffe delle anime innocenti e pie; e nel far loro sentire de’ suoni divini, le destina alle fiamme infernali? Ella è cosa degna di rimarco, che nel momento appunto in cui la sua immaginazione era pervenuta al più alto grado d’elevazione, mentre l’oggetto, del quale per sì lungo spazio di tempo ed indarno era andato [p. 89 modifica]in traccia, trovavasi per così dire a sua disposizione, mentre cotesto spirito, contro il quale aveva lottato nelle tenebre, era sul punto di dichiarare il suo nome, è cosa, dico, degna di rimarco, che in quell’istante medesimo Stanton cominciasse a sentire la fatalità delle sue ricerche. Il sentimento che aveva sì costantemente occupato l’anima di lui e che era quasi per lui divenuto una specie di obbligazione, non gli sembrava più allora, che una vana curiosità; ma vi ha forse passione più insaziabile, e che meglio sappia dare a tutte le sue brame, a tutte le sue bizzarie una sorta di romanzesca grandezza? La curiosità rassembra per molti riguardi all’amore, il quale fa sempre venire a patti l’oggetto col sentimento; purchè questo sia dotato di una sufficiente energia, poco importa, che quello sia di nessun valore od anco dispregevole. Un bambino avrebbe potuto sorridere alla emozione, che Stanton dava a divedere alla vista accidentale d’uno straniero; ma un uomo abbandonato [p. 90 modifica]a tutta la forza prepotente delle proprie passioni, non avrebbe senza fremere potuto considerare l’agitazione terribile, che Stanton dimostrava, veggendo con una istantanea ed irresistibil prontezza avvicinarsi la crisi del suo destino.

Terminato che fu lo spettacolo Stanton rimase per alcuni istanti passeggiando per le vie divenute deserte. Chiari e limpidi tramandava i suoi raggi la luna, e per mezzo di questi egli vide distintamente innanzi a sè una persona, la cui ombra si sprolungava a traverso della strada, e che sembrogli avere una gigantesca statura. Era egli da tanto tempo accostumato a combattere i fantasmi della propria immaginazione, che aveva presa la consuetudine di provare una specie di pertinace piacere a vincerli. Si approssimò all’oggetto che gli si parava d’innanzi, e non tardò molto a distinguere, che la sola ombra erasi prolungata; il personaggio era un uomo d’una statura ordinaria ed in cui Stanton riconobbe l’ente misterioso del quale [p. 91 modifica]andava da tanto tempo in traccia; quello stesso, che aveva riscontrato di notte tempo a Valenza e che dopo il lasso di quattro anni aveva finalmente ritrovato allo spettacolo............................ Non è egli vero, che venite in traccia di me? — Non posso negarlo. — Avete qualche domanda da farmi? — Molte. — Parlate. — Questo non è il luogo. — Che dite voi? E non sapete, che io sono indipendente dai tempi e dai luoghi? Se avete qualche cosa da dimandarmi o da voler apprendere, parlate. Molte sono le cose che voglio dimandarvi ma nessuna almeno lo spero, da apprendere da voi. Siete in errore, ma vi disingannerete la prima volta, che ci rivedremo. Quando sarà ciò? gridò Stanton afferrandolo per un braccio, ditemene l’ora ed il luogo. Lo straniero allora con uno spaventoso ed incomprensibile sorriso rispose: L’ora sarà quella della mezza notte, e il luogo.... le mura spogliate e nude di un ospedale di pazzi, ove indarno scuotendo voi le [p. 92 modifica]vostre catene, vi alzerete dal vostro letto di paglia per ricevermi. E malgrado tutto ciò voi, per vostra maledizione, godrete di una perfetta sanità e di tutta l’integrità della vostra memoria. Fino a quel momento la mia voce rimbomberà incessantemente nelle vostre orecchie, e ciascun vivente ed animato rifletterà su di voi lo splendore dei miei sguardi.

Sono queste le circostanze orribili in mezzo delle quali noi dovremo riunirci? disse Stanton coprendosi gli occhi per non riscontrare le fiamme, che uscivano da quelli dello straniero: giammai, riprese questi con molta gravità, giammai io abbandono i miei amici nelle loro disgrazie. Quando essi sono caduti nel più profondo abisso della umane calamità, sono sicuri di ricevere la mia visita.

In questo luogo il manoscritto offriva parecchie pagine, che al giovane Melmoth non riuscì di poter leggere. Quando lo scritto cominciò ad esser più intelligibile, ritrovò Stanton, alcuni anni dopo, nella situazione la più deplorabile. Desso era [p. 93 modifica]sempre stato conosciuto per uno spirito un poco bizzarro; lo che aggiunto ai suoi perpetui discorsi intorno a Melmoth, a’ suoi viaggi per incontrarlo, ed ai circostanziati racconti ch’egli compiacevasi di fare de’ loro straordinari incontri, de’ quali egli sembrava intimamente convinto, quantunque a nessuno avesse potuto far partecipare la sua convinzione, fu cagione che molte persone prudenti supponessero, che la di lui mente fosse un poco alterata e guasta; è probabile però che la malizia avesse in ciò tanta parte, quanta la prudenza. La Rochefucauld dice, che noi proviamo un certo piacere nella disgrazia dei nostri amici ed a più forte ragione de’ nostri nemici. Ora, conciossiachè tutti siano nemici di un uomo di genio, la voce della malattia di Stanton fu con un’astuzia infernale propagata, ed insieme con un troppo felice successo.

Il più prossimo parente di Stanton, uomo senza beni di fortuna e senza principii, fu molto contento di sentire tal novità. Una mattina andò a [p. 94 modifica]trovarlo in compagnia di una persona, il cui esteriore era grave, quantunque un poco ributtante. Stanton secondo il consueto era inquieto e preoccupato di spirito. Dopo alcuni momenti di conversazione gli propose una passeggiata alla campagna, la quale, come diceva, avrebbe servito a distrarlo ed esilararlo. Stanton osservò, che difficilmente avrebbero trovato un legno di vettura, perchè a quell’epoca i legni di cotal fatta erano molto rari, e voleva andare per acqua. Ciò non andava molto d’accordo con le vedute del suo parente, che finse di mandare a cercare una vettura, ed intanto ve ne era una che gli stava aspettando nel fondo della strada. Stanton e i suoi due compagni vi montarono.

La vettura si arrestò d’avanti una casa situata circa due miglia in distanza da Londra. Venite, cugino mio, disse il parente di Stanton, venite a vedere un acquisto che ho fatto. Stanton distratto secondo il suo solito lo seguì, e traversò un piccolo cortile; il terzo compagno camminava [p. 95 modifica]dietro di loro. Per dire la verità, cugino mio, disse Stanton, mi pare che, non siate stato molto felice nella scelta, questa casa ha un’apparenza molto lugubre. Siate tranquillo, nè ciò vi disturbi, cugino, soggiunse l’altro, farò in modo, che quando vi avrete dimorato per qualche tempo, vi sembrerà più piacevole.

Alcuni domestici in cattivo arnese e con un aspetto non molto accaparrante gli stavano attendendo, e li fecero quindi salire per una scala molto stretta, che conduceva ad una camera miseramente mobigliata. Aspettatemi qui, disse il parente di Stanton all’uomo che gli aveva accompagnati, intanto che io vado in traccia di alcuno, che venga a tener compagnia, divertire e svagare mio cugino nella sua solitudine.

Rimasero dunque soli: Stanton non fece attenzione di sorta alcuna al suo compagno; ma secondo il suo solito prese in mano il primo libro che gli capitò e si pose a leggere. Era questo un manoscritto de’ quali in quel secolo se ne incontravano più che nel [p. 96 modifica]nostro. Le prime linee, che gli caddero sotto gli occhi indicavano chiaramente la situazione dello spirito dell’autore. Era questi un gran progettista, e lo scritto altro non era che una memoria sul mezzo di riedificare la città di Londra, dopo il famoso incendio seguito, con i pietrami che si avrebber dovuto togliere dai monumenti druidici, che si trovavano in copia ne’ paesi settentrionali dell’Inghilterra. Il manoscritto andava adorno di molti disegni grotteschi, ed in margine si leggevano queste parole. Avrei potuto fare questi disegni con un poco più di precisione, ma mi hanno costantemente ricusato un temperino da potermi temperare una penna.

Stanton posò il quinternino e ne prese un altro. Questo pareva essere stato scritto da un fanatico a’ tempi della rivoluzione in Inghilterra. Non sognando che proseliti, voleva che fosse convertito forzatamente l’ambasciatore della Porta Ottomana, nella speranza, che al suo ritorno a Costantinopoli, egli farebbe altrettanto con tutti i Musulmani. Tra le pagine [p. 97 modifica]si vedevano diversi intagli rappresentanti cotesti ambasciatori, i quali erano fatti nella più ingegnosa maniera; i capelli ed i peli della barba erano principalmente di una particolare finezza; ma la memoria terminava coll’esprimere il dispiacere dell’autore, che se gl’intagli non erano riusciti perfetti, la cagione era stata, perchè gli avevano sottratte le forbici. Consolavasi di tal mancanza però al pensare che la sera avrebbe afferrato un raggio della luna, ed appuntandolo contro la serratura della porta, da cui era rinserrato, avrebbe in seguito fatti degl’intagli di una maravigliosa perfezione.

Stanton proseguiva la sua lettura ed era tanto immerso nella sua distrazione, che non gli venne neppure il pensiero di trovarsi nella biblioteca di uno spedale di pazzi, nè pensò al pericolo che egli correva. Dopo qualche tempo nulladimeno diede un’occhiata intorno a sè; e si accorse che il suo compagno era scomparso: onde ritornò verso la porta, che trovò chiusa a chiave. Allora si mise a gridare [p. 98 modifica]ad alta voce, ed in un istante una eco moltiplice ripetè le sue parole; ma con suoni tanto selvaggi e discordanti, che involontariamente raccapricciando indietreggiò.

Il giorno si affrettava al suo termine e nessuno vedevasi entrare nel luogo ove il misero Stanton era rinchiuso. Rivolse per la prima volta lo sguardo verso la finestra, e vide che era chiusa con una inferriata. Questa sporgeva sul piccolo cortile, ove non vedevasi anima vivente: ahimè! quand’anco egli avesse veduto alcuno degli abitanti di quella casa, nulla poteva sperare da loro.

Stanton sentì opprimersi il cuore; si assise vicino a quella finestra e stava con impazienza aspettando il nuovo giorno. Verso la mezza notte si destò da una specie di sopimento, metà sonno metà stanchezza, perchè la durezza del sedile, ove erasi assiso, e del tavolino contro il quale erasi appoggiato, avea indubitatamente contribuito a prolungare.

L’oscurità era completa; l’orrore della sua situazione lo scosse ed in [p. 99 modifica]quel primo momento credette veramente che il suo spirito fosse alienato; si avvicinò brancolando alla porta, che scosse con quanto aveva di forze, e mandò degli urli terribili facendo dei rimproveri e delle minaccie. La stessa eco della mattina ripetè le grida e lo strepito ch’egli faceva. I pazzi sono dotati di una malignità particolare mista ad una somma finezza d’udito, che fa loro distinguere ad un tratto la voce di un nuovo ospite trasportato nel lugubre recinto in che sono rinserrati. Le grida, che Stanton udiva da tutte le parti, sembravano essere le voci festive degli abitatori d’averno, occasionate dall’arrivo di un novello ospite in quella dimora del pianto.

Dopo molto gridare e dibattersi arrestossi alla fine Stanton, e quasi subito sentì un forte calpestio di piedi nel corridoio. La porta si schiude, e gli si presenta un uomo di fisonomia dura e severa. Egli distinse altre due persone rimaste fuori della soglia. Toglietemi da questo luogo di orrore, scellerati! gridò Stanton. [p. 100 modifica]Adagio, adagio, mio bel signore, gli rispose quegli, perchè tanto trambusto? Ove sono io? Nel luogo ove esser dovete. Osereste voi ritenermi? Sì, ed oso fare anco di vantaggio. E ciò dicendo l’incivile applicò sulle spalle e sul dorso di Stanton parecchi grossi colpi di staffile, che lo fecero stramazzare sul pavimento con delle convulsioni di rabbia e di dolore.

Or dunque, gli soggiunse l’aguzzino, mostrandogli lo staffile: voi vedete bene che vi trovate nel luogo in cui dovete essere. Prendete per tanto consiglio da un amico e non fate più strepito. Là fuori vi ha chi aspetta con le catene in mano: dessi vi ci avviticchieranno in un baleno, a meno che non vogliate preferire di esser da me ben regalato con questo arnese, di cui già vi ho dato un assaggio. I due uomini di fatto si avanzarono trascinando una lunga catena, e facendo le viste di volerlo con quella legare; il rumore, che essa produsse strisciando sul pavimento, fece gelar di spavento il [p. 101 modifica]sangue nelle vene di Stanton; ma cotesto spavento medesimo ridondò in di lui vantaggio. Ebbe egli bastante presenza di spirito per dire che si sentiva male e per implorare indulgenza dal suo crudele guardiano, promettendogli di voler omai sottomettersi a’ suoi ordini. Questi si lasciò ì placare e sortì.

Stanton raccolse tutto il suo coraggio per la terribil notte, che doveva passare. Previde che avrebbe tutto dovuto soffrire e si preparò a tutto sopportare. Dopo aver lunga pezza considerato sulla condotta che per lui si doveva tenere, giudicò che il miglior partito era quello di conservare la stessa apparenza di sommissione e di tranquillità, nella speranza, che coll’andare del tempo forse gli sarebbe riuscito di rendersi favorevoli quei barbari, nelle mani dei quali si trovava, o almeno procurarsi un poco più di libertà ed in tal guisa trovare il mezzo onde facilitare un giorno la sua fuga. Quando ebbe presa questa risoluzione si ricoprì d’orrore e di raccapriccio, pensando, che cotesta [p. 102 modifica]prudenza non era forse se non la consueta malizia ed astuzia di una follia, che è nel suo primo stadio, o il resultato delle orribili abitudini del luogo in cui trovavasi così barbaramente rinserrato.

In quella notte medesima ebbe occasione di mettere alla prova la fatta risoluzione. I suoi due vicini non gli lasciarono il mezzo di potere un momento riposare: l’uno di essi era un fabbricante di panni della setta dei puritani che era impazzato dietro aver sentito un solo sermone del celebre Ugo Peters. Durante tutta la giornata non aveva cessato di ripetere i cinque punti ne’ quali il suddetto sermone era diviso; ma all’approssimarsi della notte i suoi pensieri divenendo più tetri e malinconici, si mise a proferire i giuramenti e le bestemmie più infami che possono uscire dalla bocca d’un reprobo. L’altro vicino di Stanton era un sarto del partito realista che era andato in rovina lavorando per de’ cavalieri, ma che non ostante tutto ciò aveva cambiato i sentimenti politici. Tra [p. 103 modifica]i due pazzi insorse una disputa, di cui risparmieremo le minute particolarità ai nostri lettori, le quali fecero di tempo in tempo sorridere Stanton, malgrado la tristezza dalla quale sentivasi appressa la mente ed il cuore. Intanto la voce del fabbricante di panno non tardò a soffocare, e a non far più distinguere quella del suo antagonista. Nel suo delirio ripeteva le frasi le più incoerenti, ma quelle che comparivano più frequentemente erano: Londra brucia, Londra è in fiamme; dessa brucia, e coteste fiamme sono state attirate da’ suoi medesimi abitanti; dessi sono quasi tutti seguaci di Arminio; saranno tutti dannati: Londra è in fiamme; al fuoco al fuoco!

Quantunque sonora e rimbombante fosse la voce di codesto pazzo non era però in nessun modo paragonabile a quella, che uscendo da un’altra stanza ripetè queste ultime voci con una tanto energica espressione, che fece rimbombare tutto l’edifizio. Cotesta voce era quella d’una disgraziata femmina, che nel grande [p. 104 modifica]incendio del 1666 aveva perduto lo sposo i figli, tutte le sue risorse, e finalmente la ragione. La sola parola fuoco non mancava mai di rammemorarle all’istante tutta l’enormità della sua perdita. Le grida del suo vicino avevanla destata da un sonno inquieto, ed ella si credette ritornata a quella notte di orrore e di spavento; oltre di ch’era un Sabato, ed era stato osservato che in tal giorno la di lei situazione si faceva sempre più violenta e dolorosa. Ella dunque s’immaginò che stesse facendo degli sforzi per liberarsi dalle fiamme, ed eseguì tutta cotesta scena con una fedeltà sì spaventevole, che Stanton si trovò più volte al punto di rompere il silenzio, che aveva risoluto di serbare. —

La misera diceva da principio sentirsi soffocare dal fumo; poscia saltò giù del letto dimandando un lume, e sembrando maravigliata dello splendore istantaneo che credeva travedere dalle fessure dell’imposta, che serrava la sua finestra: Il mondo è prossimo a terminare, va a finire il mondo! gridò ella. Il cielo, il cielo [p. 105 modifica]stesso è circondato di fiamme! Il fabbricante di panni la interruppe dicendo: ciò non seguirà, se non quando l’uomo peccatore sarà stato distrutto. Tu parli di lumi e di fuoco nel tempo che sei circondata dalle più dense tenebre. Mi fai pietà, povera pazza, mi fai pietà!

La infelice non presta orecchio alle di lui parole; dessa imita l’azione di montare per una scala; le pareva quella che conduceva alla camera dove erano coricati i suoi figli; e grida che si sente ardere, si sente soffocar dalla vampa. Il coraggio vien meno in lei e si allontana: Ma i miei figli sono là entro, ripete con un grido lamentevole da squarciare un cuor di macigno, e fa un nuovo sforzo per arrivarvi: Eccomi, andava esclamando, vengo a salvarvi. Oh! Dio! essi sono attorniati di fiamme! Attaccatevi a questo braccio: a quest’altro; no; esso arde, ed è rimasto senza forza. Attenetevi al primo; che vi ho presentato. Afferrate le mie vesti. O cielo! sono in fiamme ancor esse! Ebbene, abbracciatevi a me; quantunque [p. 106 modifica]in fuoco saprò ben salvarvi. Ah! le fiamme si sono apprese ai loro capelli! Un poco d’acqua! una stilla d’acqua pel mio ultimo nato! Non è che un fanciullo! Pel mio ultimo nato, e lasciate pure ch’io bruci.

Dopo ciò rimase per un poco immobile ed in silenzio come per adocchiare e ripararsi dalla caduta precipitosa di una trave, che minacciava la scala sulla quale ella immaginava di esser salita. Il tetto è caduto sulla mia testa, gridò alla fine, ed indicò la distruzione totale del luogo, ove si credeva situata, facendo un salto accompagnato da un urlo acutissimo; dopo di che si pose a contemplare col sangue freddo della disperazione i suoi figli, che cadendo giù a traverso degl’incendiati avanzi, l’un dopo l’altro scomparivano in mezzo alle fiamme: Eccoli, che cadono, gridava la sfortunata: uno: due: tre; tutti! e la sua voce indebolendosi a poco a poco non formava più, che una specie di sordo mormorio, intanto che le convulsioni le si erano cambiate in leggieri fremiti. A lei sembrava nella [p. 107 modifica]sua immaginazione di esser rimasta sola, in sicurezza; ma ridotta alla disperazione, in mezzo a migliaia d’infelici ridotti pur essi ad uno stato indescrivibile di miseria, privi d’asilo e raccolti insieme il giorno dopo il terribile incendio ne’ sobborghi di Londra senza nutrimento, senza vesti, contemplando da lungi le rovine ancor fumanti delle loro dimore, delle loro proprietà. A lei sembrava udire le lamentevoli loro querele, ed alcune ne ripeteva con molto commovente maniera; ma a ciò che dicevano a lei non aveva altra risposta da dare se non questa: ho perduti tutti i miei figli, gli ho tutti perduti! È una cosa degna di rimarco, che quando cotesta donna incominciava a parlare, tutti gli altri tacevano: la voce della natura assorbiva tutte le altre. Dessa era la sola in tutto quel grande ospizio, la cui follia non fosse stata cagionata o dal voler troppo internarsi ne’ misteri della religione, o dalle astrattezze politiche, o dalla intemperanza nel bere, o da qualche passione perversa; e quantunque [p. 108 modifica]terribili e spaventevoli fossero gli accessi della frenesia di lei, ciò nondimeno Stanton li stava con impazienza aspettando, perchè lo sollevavano in qualche maniera dagli effetti del delirio vago, malinconico o ridicolo degli altri.

Frattanto benchè lo spirito di Stanton fosse naturalmente fermo, la sua risoluzione non potè far fronte universalmente a tutti gli orrori da’ quali era del continuo attorniato; la impressione ch’essi facevano sopra i sensi di lui misero ben tosto in bilancia il potere della ragione. Le grida spaventose si ripetevano tutte le notti, come pure tutte le notti sentiva con raccapriccio i colpi dello scudicio per mezzo dei quali procuravano di farle cessare i custodi e guardiani. La speranza, la stessa speranza cominciò ad abbandonarlo quando si avvide, che la tranquilla sommissione con cui aveva egli creduto potersi guadagnare il favore de’ suoi custodi, non era agli occhi de’ medesimi, che una specie di follia particolare, ovvero una di quelle malizie astute e [p. 109 modifica]raffinate, che essi erano assuefatti a vedere e far restar priva di effetto.

Scoperta che ebbe Stanton la posizione, in cui si trovava, pensò che fosse soprattutto necessario di vegliare sulla propria sanità e ragione; poichè da queste soltanto poteva sperare la liberazione; ma a misura che cotesta speranza andava diminuendosi, egli trascurava perfino i mezzi di realizzarla. Nel principio che ivi fu rinchiuso si levava di buon’ora la mattina, passeggiava continuamente per la sua angusta celletta, e profittava delle più piccole occasioni, che se gli presentavano, per respirare un poco d’aria esteriore; siccome pure non mancava di tenersi netto nella persona per rapporto alla proprietà, e avesse appetito o no, trangugiava, il meschino alimento, che gli veniva somministrato; e fino a tanto che tali cure erano dettate dalla speranza, provava una certa consolazione soddisfacente nell’eseguirle. Ciò non ostante cominciò a rilasciarsi a poco a poco: passava la metà deile giornate sul suo miserabile letticciuolo, [p. 110 modifica]e spesso consumava ancora il suo pa sto mezzo sdraiato su di quello: ricusava di farsi rader la barba o di mutarsi la biancheria, e quando un raggio di sole veniva a passare a traverso la inferriata della solitaria sua cella, egli si rigirava sul suo letto di paglia e si chiudea gli occhi per non vederlo.

Un tempo quando l’aria penetrava fino a lui, egli spinto da un naturale movimento esclamava: Dolce zefiro! verrà un giorno, che io ti respirerò di nuovo in libertà! Riserva i freschi tuoi aliti per quella sera deliziosa in cui sarò libero al pari di te! Ed ora egli sentiva lo spirare di zefiro e non proferiva accento. Il garrir degli augelletti, lo strepito che cadendo produce la pioggia, il fischio del vento, cose tutte, che in addietro egli udiva con trasporto, perchè gli richiamavano alla fantasia la natura, ora non facevano più in lui alcun effetto.

Talvolta egli ascoltava con un mesto ed orribil piacere le grida de’ suoi miserabili compagni. Egli insensibilmente era divenuto sudicio, [p. 111 modifica]trascurato, indolente, ributtante.....................................

Una notte ch’egli andavasi mestamente rivolgendo nel suo letto senza poter prendere ombra di riposo e senza sentirsi il coraggio di abbandonarlo, per timore che non aumentassesi la smania da cui era divorato, credette di vedere che la debol luce, che tramandavano i pochi tizzi rimasti mezzo accessi nel camminetto, gli fosse parata da un qualche oggetto, onde egli rivolse a quella parte lo sguardo, senza curiosità e senza interesse, ma pel solo desiderio di cambiare la monotonia della posizione, osservando i piccoli cangiamenti, che il caso poteva produrre nell’oscura atmosfera della sua celletta, e vide l’immagine di Melmoth tale e quale l’aveva sempre veduta. L’espressione della fisonomia non aveva nulla in lui cambiato, e si manteneva dura, fredda e severa; gli occhi di lui avevano tuttora quel lustro infernale ed abbagliante, che Stanton aveva in essi sempre riscontrato. [p. 112 modifica]

La passione dominante di Stanton, un poco raffreddata per tanto straordinario evento, si riaccese immantinente nel di lui petto. Si accorse ben egli che cotesta apparizione era foriera di qualche grande e terribile prova. Il cuore tanto fortemente gli batteva in petto, che agevol cosa fora stata vederne al di fuori le pulsazioni. Melmoth se gli avvicinò con quella calma feroce e spaventevole, che sembra farsi beffe del terrore che essa eccitava, e gli disse: La mia promessa si è effettuata. Voi vi alzate dal vostro letto di paglia, ed al fragore delle vostre catene per ricevermi: non sono io forse un veridico profeta? Stanton guardava il silenzio. Non è egli vero, aggiunse Melmoth, che la presente vostra situazione è molto infelice? Stanton non proferiva parola ed incominciava a credere, che quanto vedeva, potesse essere una illusione del suo spirito disordinato. Egli dimandò a sè medesimo, come mai Melmoth potuto avrebbe penetrare dentro quella cella in cui era stato gelosamente [p. 113 modifica]rinserrato? Non amareste voi, gli disse di nuovo Melmoth, spezzare queste catene e ricuperare la perduta libertà? Stanton invece di rispondere si agitava sulla sua paglia, il cui rumore forse gli sembrava, che servir dovesse di risposta. Io ho il potere di liberarvene, continuava Melmoth. Tutte queste parole erano state da Melmoth proferite con un parlar lento e a bassa voce; e la dolce melodia de’ suoi accenti, era in una sorprendente opposizione col l’impassibil rigore de’ lineamenti del suo volto e l’infernale splendore che gli traluceva dagli occhi.

Chi siete voi dunque e d’onde venite? disse alla fine Stanton con un tuono, che avrebbe voluto render interrogativo ed imperioso al tempo stesso; ma che a tenore dello stato, cui era ridotto, non era che debole e lamentevole. Il suo spirito medesimo aveva risentito non poco della tristezza della sua spaventosa dimora. Vi ha chi racconta, che un tale dopo aver sofferto una lunga prigionia offriva tutti i contrassegni di un vero [p. 114 modifica]Albino: le pelle aveva affatto perduto il suo ordinario colore, e sembrava che avesse acquistato il bianco della carta; gli occhi erano divenuti bianchi, e quando erano esposti alla luce, egli se ne allontanava immantinente con de’ moti, che rassembravano piuttosto quelli di un bambino infermo, che di un uomo di robusta età.

Tale appresso a poco era lo stato di Stanton. La sua debolezza era sì grande, che sembrava l’inimico trovar dovesse una vittima facile a vincere, ed alla quale è lo spirito nè il corpo di quella avrebbe potuto oppure resistenza..............................

Del loro orrendo dialogo le sole parole seguenti erano intelligibili nel manoscritto.

Voi ora mi conoscete. — Vi ho sempre conosciuto. — Ciò è falso. Voi credete conoscermi, e questa è la cagione di tutti.... disordinati... e de.... e per cui finalmente siete stato trasportato in quest’abitazione dell’infortunio nella quale io solo [p. 115 modifica]sono venuto a trovarvi, ed in cui io solo posso apprestarvi soccorso. — Voi, demonio! — Demonio? — L’espressione è dura. È stato un demonio, ovvero un uomo, che qui vi ha collocato? Sentitemi, Stanton. No, non cercate di tanto invilupparvi in questa mezzo consunta coltre; dessa non potrà far sì che non vi giungano alle orecchie le mie parole. Credetemi, che, quand’anco v’ingolfaste tra le nubi, che rinserrano i fulmini nel loro seno, voi sareste obbligato ad udire le mie parole! Stanton, riflettete al misero stato, cui siete ridotto. Questa cella disadorna e nuda, che mai offre ai vostri sensi, allo spirito vostro? Delle pareti imbiancate, scarabocchiate col carbone o col lapis; e questi sono i capo-lavori della immaginazione dei vostri predecessori. Voi avete, lo so, del gusto pel disegno; ebbene! voi potete in esso perfezionarvi durante il vostro soggiorno qui. Veggo delle sbarre di ferro a traverso delle quali il sole risplende su di voi come una matrigna, ed i zefiri per vostro tormento [p. 116 modifica]sembrano apportarvi i profumi dei fiori, che non dovrete più vedere. E voi, che vi gloriate delle vostre cognizioni, dei vostri viaggi, ditemi a che vi servono essi? che cosa son divenuti i vostri libri? E de’ vostri amici cosa fu? Qui non avete per compagni, che dei sorci e de’ ragni, ed altri schifosi in setti. Io ho conosciuti dei prigionieri, che erano arrivati a provvederli di cibo: perchè non incominciate anco voi la vostra opera? Dessi divideranno con voi il vostro pasto. Che bel piacere l’aver degl’insetti per compagni della mensa! Se avvenisse, che voi aveste penuria di cibi da somministrar loro, essi divorerebbero il loro Amfitrione.... E che? voi fremete? Credereste essere il primo che abbia servito di pasto vivente ai vermi, che infestavano la loro cella? Ma voglio allontanare da voi queste tristi immagini, non farò più parola nè del vostro pasto nè di quello di loro. Quali sono i vostri sollazzi nelle ore della vostra solitudine? Da una parta le grida della fame; dalla altra gli urli della demenza, ai quali [p. 117 modifica]si aggiugne lo strepito della frusta dei custodi ed i singulti di quelli, la cui follia non è più reale della vostra, o che almeno non lo è divenuta se non per la ribalderia deʼ loro simili. Siete forse persuaso, Stanton, che la vostra ragione possa sopportare tali scene? O, se la vostra ragione le sopporta, la vostra salute potrà loro resistere? Ma voglio ancor supporre, che essa non soccomba; giudicate solamente dellʼeffetto, che faranno sopra deʼ vostri sensi. Verrà un tempo che per sola abitudine ripeterete le lamentevoli grida di coloro che vi sono compagni in questo luogo funesto; e quindi ponendo la mano sul vostro capo bruciante quanto il crogiuolo dove allora allora siasi liquefatto lʼoro, dimanderete a voi medesimo se non siete stato voi, che avete gridato il primo. Verrà un tempo che tormentato dalla noia, proverete un desiderio vivissimo di sentire coteste grida, che al presente tanto orrore vi inspirano. Ogni sentimento di umanità rimarrà in voi estinto: i furori di cotesti infelici saranno [p. 118 modifica]ad un tempo per voi una tortura ed un divertimento. L’anima gode del potere di adattarsi alla posizione in cui le avvenga di trovarsi, e voi ciò proverete in tutta la sua estensione. Mi rimane ora a parlarvi de’ dubbii, che voi risentirete sullo stato della vostra ragione, dubbi terribili, che ben presto si convertiranno in timori, ed i timori finalmente in una certezza crudele. Forse però, per colmo di orrore, in luogo di timore potrà essere una esacrabile speranza. Lontano voi dall’umano consorzio, attorniato da enti, di cui le idee non sono, che gli spaventevoli fantasmi della loro aberrata ragione, desidererete di esser simile a loro per isfuggire all’orribile coscienza della vostra miseria. Quando voi gli ascolterete ridere in mezzo ai loro più terribili accessi, direte dentro voi medesimo: Senza dubbio cotesti miserabili provan qualche consolazione, ed io non ne ho alcuna. La sanità di mente, di cui io godo pone il cumulo alla mia disgrazia in questo luogo di miseria e di affanno. I miei compagni [p. 119 modifica]divorano avidamente i grossolani cibi che vengono loro presentati, ed io non posso che con grandissima ripugnanza avvicinarmeli alla bocca. Essi dormono talvolta profondamente, ed il mio riposo è peggiore delle loro vigilie. Io provo tutti i loro mali, e non ho alcuno de’ loro ristori. Essi ridono, li sento; oh! perchè non posso ancor io ridere al pari di loro! — Ed allora farete di tutto per imitarli nelle loro stravaganze e follie, e questo tentativo sarà come una invocazione al demone della demenza, perchè voglia da quel momento venire a prender possesso del vostro spirito.

Melmoth pose in opera ben molte altre minaccie e tentazioni, troppo orribili per dover essere qui riferite. Fra questa se ne numeravan di quelle, che non erano nulla meno che esecrande bestemmie. Stanton lo ascoltava fremendo. Ecco quale fu la perorazione di cotesto discorso veramente diabolico;

Salvatevi, deh! salvatevi per sempre; rientrate nella vita, ricuperate la sanità insieme con la libertà. La [p. 120 modifica]vostra felicità sociale, il vostro immortale interesse dipendono forse dalla scelta, che voi farete in questo momento. Ecco là la porta; la chiave è nelle mie mani: eleggete, eleggete....

E come mai cotesta chiave si trova nelle vostre mani, ed a quali condizioni dovrei io ricuperare la mia libertà? dimandò Stanton.

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La spiegazione riempiva molte pagine del manoscritto, e queste erano con grande dispiacere del giovane Giovanni Melmoth onninamente illeggibili. Nulladimeno comprese, la proposizione essere stata rigettata da Stanton con collera ed orrore conciosiachè distinse le seguenti parole: Scostati, vanne, allontanati mostro! demonio! Ritorna alla patria tua. Queste pareti medesime fremono alla tua presenza; cotesto pavimento non sopporta che lo calpesti più a lungo!.........................................................................

La fine di quello straordinario scritto era in uno stato tale di [p. 121 modifica]vetustà che in venti e più pagine Melmoth potè a mala pena leggere quindici linee, quantunque tanta cura vi ponesse, quanta uno studioso antiquario porrebbe a svolgere ed interpetrare un rotolo trovato nelle rovine di Pompei o di Ercole; locchè servì piuttosto ad accrescere, che a soddisfare la sua curiosità. In esso non si parlava più di Melmoth; e si vedeva soltanto che Stanton terminò col sortire dalla sua funesta prigione, e che non cessò di andare in traccia dell’ente misterioso, che formava il tormento della sua vita. Visitò egli di nuovo il continente, ritornò in Inghilterra; i suoi viaggi, le sue ricerche, le sue dimande, il suo oro, tutto, in una parola, fu inutile. Era destinato, che non dovesse più riscontrare, pel corso della sua vita, l’oggetto nel qual si era per tre volte abbattuto in circostanze cotanto straordinarie. Finalmente però gli venne fatto di scoprire, ch’egli era nato in Irlanda, onde risolvette di andarvi; nè le sue ricerche in quel regno sortirono un effetto migliore. [p. 122 modifica]La famiglia di Melmoth nulla ne sapeva, o alcuno nulla volle comunicare ad uno straniero di quanto riguardava il viaggiatore, e Stanton ripartì deluso nella sua speranza. Quello però che deve recarne maggior maraviglia è, che Stanton non confidò mai ad anima vivente la particolarità della loro conversazione nell’ospizio degli alienati di Londra, e che quando alcuno vi faceva la più piccola allusione, egli cadeva in accessi di collera e di tristezza singolari, quanto terribili. Checchè ne sia, egli lasciò il manoscritto nelle mani della famiglia dei Melmoth, coll’idea forse, che, se l’ignoranza dei suoi congiunti non era finta, essi o i loro discendenti sarebbero contenti un giorno di sapere le poche cose, che egli poteva loro comunicare intorno a cotesto loro antenato. Il manoscritto terminava con queste parole:

Io ne ho fatto ricerca dappertutto. Il desiderio di poterlo un’altra volta rivedere è divenuto come un fuoco, che internamente mi consuma: io la reputo quasi come una [p. 123 modifica]condizione necessaria alla mia esistenza, invano ho percorso l’Irlanda, dove mi dicono che abbia avuto i natali. Forse noi ci rivedremo per l’ultima volta nel....

Quando Melmoth ebbe terminata la lettura del manoscritto si curvò sul tavolino avanti al quale era assiso, e si nascose il capo fra le mani. Egli aveva i sensi come smarriti e lo spirito in uno stato tale, che lo stupore era frammisto alla irritazione. Dopo essere stato alcuni istanti in quella positura si alzò per un involontario trasalimento, e gli parve di vedere che il ritratto lo guardasse fissamente. Desso era collocato ad una molto breve distanza dal tavolino, e questa sembrava anco diminuita in parte dalla luce, dalla quale era rischiarato. Melmoth credette per un momento, che il ritratto stesse per aprire la bocca, aprir gli occhi e manifestargli la misteriosa esistenza dell’originale. Si pose ancor egli a contemplare la pittura; il più profondo silenzio regnava in tutta la casa: essi erano soli insieme. Alla fine [p. 124 modifica]l’illusione si dissipò; e siccome lo spirito passa agevolmente da uno all’altro estremo, Melmoth si risovvenne dell’ordine, che suo zio gli aveva lasciato morendo. Afferrò il ritratto; la mano sulle prime gli tremava, ma la tela logora e vecchia sembrava che facilitasse gli sforzi di lui. La distaccò dalla cornice con un grido mezzo di terrore, mezzo di trionfo; il ritratto gli cadde a’ piedi ed egli fremette al vederlo cadere. Egli si aspettava che delle voci lamentevoli, dei sospiri di un orrore profetico ed inesplicabile succederebbero al sacrilegio che commetteva distaccando dalle paterne mura il ritratto di uno dei suoi maggiori. Si arrestò un poco onde stare in ascolto: nessun suono percosse le sue orecchie; ma per un effetto naturale di scorcio, le pieghe, che formò la tela cadendo a terra, diedero al ritratto l’apparenza sorriso. Melmoth a tal vista fu preso da inconcepibile orrore. Rialzò la tela, corse nella camera vicina, la tagliò in piccole striscie, la gettò sul fuoco, e non l’abbandonò fino a tanto non [p. 125 modifica]vide estinguersi l’ultima scintilla che percorse le nere ceneri rimaste. Allora si gettò sul letto con la speranza di poter ristorare le spossate membra con un sonno profondo; ma non gli fu possibile di dormire. La luce malinconica delle torbe, che continuavano ad ardere nel caminetto, lo metteva in agitazione ad ogni istante, colorando di una tinta rossastra tutti i vecchi mobili della camera. Il vento soffiava forte, ed ogni volta che l’usciale della sua camera scricchiolava, immaginava di dover sentire la chiave girare nella serratura ed un piede posarsi sul pavimento. Ad un tratto, ossia che fosse in sogno o in realtà (Melmoth non potè averne mai la certezza), credette di vedere a quella porta medesima l’aspetto del suo antenato. Esso era esitante come la notte della morte di suo zio. Gli si avvicinò dopo un poco e gli disse all’orecchio. Voi mi avete dunque bruciato? Ma io posso a tali fiamme sopravvivere: esisto ed eccomi al vostro fianco. Melmoth trasalisce per lo spavento, balza giù precipitoso dal [p. 126 modifica]letto e vede spuntato il giorno. Girando intorno lo sguardo non vede alcuno nella camera; prova solamente un leggero dolore nel polso della mano destra; la guarda e vi scorge un piccolo segno di color bleù come di una mano, che stretto lo avesse con forza.