Satire di Tito Petronio Arbitro/Prefazione del traduttore

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Petronio Arbitro - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Vincenzo Lancetti (1863)
Prefazione del traduttore
Avvertenza degli editori Nomi che leggonsi nelle satire
[p. xvii modifica]

PREFAZIONE


DEL


TRADUTTORE.



Petronio Arbitro è per comune sentenza de’ critici annoverato tra i classici della latinità. O perchè i frammenti che di lui ci pervennero, destano vivissimo desiderio del rimanente, o perchè troppo liberamente abbia scritto de’ costumi de’ tempi suoi, o per la difficoltà di bene intenderlo, o infine per le controversie che a suo riguardo si sono agitate nella repubblica letteraria, egli ha sempre eccitata la curiosità de’ studiosi. Merita dunque a mio avviso che alla traduzione dell’opera sua venga premesso un discorso, col quale, dopo tante e tanto discordi opinioni de’ dotti, abbiasi con buone ragioni a conoscere chi veramente egli fosse, a quale età vivesse, qual sia l’oggetto delle sue Satire, e qual conto dì esse abbiano fatto in ogni tempo i letterati più insigni di tutte le colte nazioni.

Che la famiglia de’ Petronj fosse Romana, e addetta all’ordine equestre, sono tante le prove prodotte dagli scrittori, e conservateci dalle antiche iscrizioni, che non è pur lecito il dubitarne. Forse da quella derivarono i Petronj di Marsiglia, che il marsigliese Gennadio ha [p. xviii modifica]celebrati nell’opera sua degli uomini illustri, da cui gli scrittori francesi traggono quasi tutti argomento per collocarvi anche l’autor nostro. Ma perchè i monumenti della famiglia Romana sono di più antica data di quelli dell’altra famiglia, così, mancando più valevoli obiezioni, io stimo che a quella il nostro Arbitro debba appartenere.

Che egli avesse il prenome di Tito datogli da Tacito, e non quel di Gajo attribuitogli da Plinio1, a me sembra egualmente sicuro. Imperocchè, concesso che egli sia il Petronio rammentato da Tacito nel sedicesimo de’ suoi annali, come una delle molte vittime della crudeltà di Nerone, e Plinio accordandosi con Tacito sulla morte inflittagli dalla ferocia di quel Principe, è da credersi piuttosto alla esattezza dello storico, che a quella del naturalista, e per conseguenza doverglisi mantenere il prenome di Tito. Cessa poi ogni dubbio su questa denominazione, ove riflettasi che quasi tutti i codici, dai quali si è tratta la presente opera, portano in fronte la sigla T. nella iscrizione

T. Petronii Arbitri Satyricon.

Il cognome di Arbitro ha occasionato tra i critici assai più discussioni ed indagini che il prenome. Malamente Pier Daniele Aurelio in una sua prefazione pretende che Tacito gli attribuisca il cognome di Turpiliano. Altro è presso Tacito il Petronio Turpiliano, altro è il Petronio Arbitro. Il Turpiliano fu console nell’anno 813 di Roma insieme a C. Giunio Cesonio Peto, e ci resta di essi la legge Giunia Petronia, che può riscontrarsi nel libro 24. Digesto de manomissionibus. Costui morì sotto Galba, come si ha da Tacito nel primo libro delle sue storie, e l’altro morì sotto Nerone, come ci riferisce egli stesso nel sedicesimo degli annali. Tuttavia Tacito, parlando dell’Arbitro, dice ch’ei fu [p. xix modifica]viceconsolo in Bitinia, indi consolo; e noi dalla serie cronologica de’ consoli altro Petronio non rileviamo che il solo Turpiliano summentovato. Ne segue adunque che Tacito ha commessa una inesattezza attribuendo all’uno le dignità dell’altro, laddove questi due Petronj fossero realmente due persone diverse. Che se per iscusar Tacito si vuol che fossero una sola persona, noi allora l’accuseremo di una inesattezza ancor più grande quale sarebbe il farlo morir due volte, e in diversi tempi, cioè prima sotto Nerone, poi sotto Galba. O nell’un caso, o nell’altro non può evitarsi a così illustre istorico questo leggero rimprovero, quand’anche si supponesse che Arbitro fosse fratello di Turpiliano, e seco lui viaggiasse in Bitinia, e seco a Roma in occasione del consolato tornasse, dove poi dal favor di Nerone, del quale regolava i piaceri ad arbitrio suo, gli venisse il cognome, o soprannome di Arbitro. Supposizione che a me sembra accettabile, e che diminuirebbe di molto l’error dello storico che l’uno confuse coll’altro.

Ma per essere pienamente informati del nostro Petronio Arbitro veggasi il racconto che Tacito nel citato luogo ne ha lasciato. Io ne riporto la traduzione del Davanzati. “Il giorno dormiva, e la notte trattava le faccende e i piaceri. Come agli altri l’industria, a lui dava nome la trascuranza: fondeva sua facoltade non in pappare e scialacquare, come i più, ma in morbidezze d’ingegno; quanto più suoi fatti e detti pareano liberi, tanto più, come non affettati, piacevano. Viceconsolo in Bitinia, e poi consolo, riuscì desto e intendente. Ridato a’ vizj, o lor somiglianze diventò de’ più intimi. Fu fatto maestro delle delizie: niuna ne gustava a Nerone in tanta dovizia, che Petronio non ne fosse Arbitro. Onde nacque invidia in Tigellino, ch’ei seco competesse, e de’ piaceri fosse miglior maestro: adoperando adunque la crudeltà, più possente nel Principe di ogni altro appetito, corrompe [p. xx modifica]uno schiavo a rapportare che Petronio era tutto di Scevino: non gli è data difesa: la famiglia quasi tutta rapita in prigione. Cesare per sorte era in Terra di Lavoro; e Petronio, giunto a Cuma, vi fu ritenuto; ma non corse a torsi la vita: fecesi tagliar le vene, poi legare, poi iscioglierle a sua posta, e disse alli amici parole non gravi, nè da riportarne lode di costante: e fecesi leggere non l’immortalità dell’anima non precetti di sapienti, ma versi piacevoli: ad alcuni donò: altri fe’ bastonare: andò fuori, dormì, acciò la morte, benchè forzata, paresse naturale; non come molti che moriano, adulò nel testamento Nerone, o Tigellino, o altro potente; ma al Principe mandò scritte le sue ribalderie con tutte le sue disoneste foggie, sotto nome di sbarbati e di femmine, e le sigillò e ruppe l’anello, perchè non fosse adoperato in danno d’altri. Maravigliandosi Nerone in che modo le notturne invenzioni si risapessono, si ricordò che Silia, donna conosciuta come moglie di un senatore, e sua, tolta in ogni sporcizia, era tutta di Petronio: e cacciolla in esiglio per odio, ma sotto colore di aver ridetto quanto avea veduto e patito.„

Plinio2 attribuisce la morte di questo cortigiano ad una ricchissima tazza di pietra orientale, di cui venne vaghezza a Nerone di farsi erede.

Dopo un racconto così circostanziato e preciso, chi crederebbe che uomini dottissimi non solo abbian conteso al nostro Petronio il merito di aver composte queste Satire, ma fin anco lo abbiano creduto un nome immaginario, e mentito?

Quest’ultima opmione fu lanciata leggermente da Pietro Burmanno,3 come semplicissima sua congettura. Egli osserva che alcuni libri in luogo di portare [p. xxi modifica]in fronte il nome di coloro che gli scrissero, adottano il nome di colui che grandeggiò nell’arte, della quale è in essi trattato, e adduce l’esempio de’ libri intitolati Apicius de re culinaria, e Cato libellus dystichorum, i quali nè Apicio, nè Catone sicuramente composero, ma così furon detti, perchè Apicio fu uomo sommo nella ghiottoneria, e Catone nella severità de’ costumi. Questa congettura, sulla quale il Burmanno non si ferma gran fatto, riconoscendola troppo debole e sfiancata, è stata ultimamente con molto apparato logico accettata ed ammessa come una verità incontrastabile dal signor Ignarra sapientissimo Napoletano nella veramente dotta ed erudita sua dissertazione de Palaestra Neapolitana. Chi forzò Cicerone, dice egli, a dare il nome di Filippiche alle orazioni ch’ei scrisse contro Antonio, se non perchè eran dettate a simiglianza di quelle di Demostene contro Filippo, come è noto sino ai fanciulli? Sappiamo che il Petronio console riferito da Tacito nel sedicesimo era salito in fama per tracuranza e morbidezza, che i suoi fatti e detti, quanto parean più liberi, tanto piacevano più. Dall’impudentissimo Nerone egli era stato innalzato Arbitro di sue delizie: scriveva leggiadre poesie e facili versi; e cangiata poi la fortuna, e da Nerone costretto a morire volontariamente, ei mandò scritte al Principe le sue ribalderie con tutte le disoneste sue foggie, sotto nome di sbarbati e di femmine. E ciò potrebb’essere ragione più che bastante, perchè un libro di argomento ed ingegno quasi consimile, ove gareggiano l’erudizione, l’eleganza e il concorso di molli versi e di oscenissime ribalderie, atteso il costume d’imporre que’ nomi che più convengono alle cose, venisse intitolato Petronio Arbitro: imperocchè solamente con questo titolo il lettore riman prevenuto, che il libro così intitolato esce come dall’officina di Petronio, e quasi è scritto di sua mano.

Io non capisco in qual modo questa opinione così ragionata possa persuadere non dico un Ignarra, uomo [p. xxii modifica]dottissimo, ma il più piccolo principiante tra i critici. Gli esempj prodotti dal Burmanno, e da lui stesso riconosciuti per poco sodi, riduconsi all’opera de re culinaria, che dice attribuita ad Apicio e ai distici morali, che dice attribuiti a Catone, mentre nè Apicio, nè Catone gli scrisse. Questi due libri anche nel loro titolo primitivo non ne annunciano altrimenti per autori Apicio, o Catone; al contrario essi portano un frontispizio, che toglie la presunzione che Catone o Apicio gli scrivesse. In quella forma che il trattato delle buone creanze del nostro Giovanni della Casa è intitolato Galateo, dal nome di una persona che in fatto di urbanità sapea passar per modello, così di quei due trattati uno è intitolato Apicio, ossia dell’arte cucinesca, l’altro Catone, ossia distici morali, per la già detta ragione che e Catone ed Apicio erano sommi uomini rispetto all’argomento di quei trattati; ma il loro titolo non dice esserne essi gli autori. All’incontro tutti i codici delle Satire di Petronio non hanno il titolo di Petronio, ossia Satire, ma bensì quello di Satire di Petronio: Titi Petronii Arbitri Satyricon, cioè aggiungono al titolo il nome dell’autore. Quanto poi all’esempio prodotto dall’Ignarra esso è ancora più debole, perchè il titolo di Filippiche dato da Cicerone alle sue orazioni contro M. Antonio, non è applicabile nè all’autore, nè alla persona combattuta, ma soltanto al carattere di quelle orazioni, il cui oggetto rassomigliavasi all’oggetto per cui Demostene inveiva contro Filippo.

Tale esempio varrebbe, se il titolo dicesse Satire Petroniane; perchè alcuno potrebbe intendere che tali Satire fossero scritte sullo stile e sul gusto di quelle di Petronio. Ma noi dobbiamo assolutamente prestar più fede a ciò che ne portano i codici, che ad una opinione vaga e sforzata di un erudito. Conchiudiamo dunque che il nome dell’autore non è mentito, nè immaginario, o almeno che le ragioni prodotte dal Burmanno e dall’Ignarra non provano nulla.


[p. xxiii modifica] L’altra accusa data al Petronio di non aver egli composte le presenti Satire, viene principalmente dal Burmanno medesimo. Egli fa un lungo ragionamento, col quale tenta persuaderci che non poteva un uomo ridotto a morte pensare a vendicarsene collo scrìvere queste Satire, per le quali abbisognava tempo e tranquillità; tanto più (segue egli) che esse erano contenute ne’ codicilli dal condannato mandati al Principe, i quali per la loro natura e forma (di cui va con molta dottrina parlando) non potevano tanta scrittura rìnchiudere, quanta l’opera ne esigeva. Egli certamente non mal si apporrebbe, se fosse vero che Petronio avesse aspettato a scrivere quando cadde in disgrazia, ed era per finir la sua vita. Ma l’ordine, la leggiadria, l’eleganza, e la varietà che in queste Satire si ammirano, non potrebbero ottenersi giammai da scrittore anche valentissimo nel termine di tre o quattro giorni, e molto meno il Poemetto della Guerra Civile che vi è inserto. Nè si può dubitare che gli scritti mandati a Nerone non dovessero essere voluminosi, giacchè le ribalderìe, e tutte le disoneste foggie e notturne invenzioni (che poche e leggieri non furono) contenevano di quel regnante. L’autore adunque non aveva perduto tempo a registrarle e porle in ordine; e ben si vede che non aspettò a farlo quando fu condannato, perchè anzi a tutt’altro in quei pochi giorni diè opera, che a scrìvere, come Tacito nota. Dal che procede ch’egli avea già disposti i suoi codicilli, e che scelse il momento della sua morte per mandarli a Nerone. Evase adunque le difficoltà sopraccennate, perchè non crederem noi che Petronio sia il vero autore di queste Satire? Se Tacito ci assicura ch’ei mandò scritte al Principe le sue ribalderie sotto nome di sbarbati e di femmine, dove è andato a finir quello scritto? E se Nerone l’avesse bruciato, crediam noi che l’autore non ne avesse conservato almeno il primo schizzo e che questa sia la cagione delle lagune che vi si [p. xxiv modifica]trovano per entro anche al dì d’oggi? Se il Satyricon è appunto la storia delle ribalderie del Principe sotto il nome di sbarbati e di femmine, perchè non la crederemo l’opera che Tacito attribuisce a Petronio? E perchè il Burmanno e l’Ignarra, quando trattasi di tacciare d’immaginario e mentito il nome di Petronio come autor delle Satire, attengonsi alla testimonianza di Tacito e la rifiutano poi quando trattasi di accordargli il merito di averle scritte? Quando una opinione è chiara, conveniente, e sufficientemente provata e probabile, perchè hassi a forzar la ragione per rifiutarla e correr dietro a chimere ed a sogni?

Ma qui si fa innanzi il signor Ignarra, e ponendosi alla testa di tutti i commentatori, interpreti, e critici di Petronio, dice egli il perchè. Perchè Petronio Autor delle Satire non visse altrimenti al tempo di Nerone, ma a quello degli Antonini, e probabilmente di Commodo. Ecco le sue ragioni, che trovansi tutte nell’indicata opera de Palaestra Neapolitana, a pag. 200 e seguenti. Egli nota che Ermero dice (nel Capo 15 della mia traduzione): lo servii quarant’anni, pur nessun seppe, se io mi fossi libero o schiavo. Venni fanciullo ancor chiamato in questa colonia, pria ch’Ella fosse Basilica, cioè Augusta, o Imperiale, come il nostro erudito ha riccamente provato. Dunque (dice a ragione il sig. Ignarra) quando l’Autore scriveva, Napoli, che è la colonia sopra indicata, doveva essere recentemente elevata al rango di Colonia Augusta, ossia di Città Romana. Ma Napoli non ebbe questo favore che dopo i tempi di Adriano, e forse a quelli di Antonino Pio; dunque l’Autore non è il Petronio di Tacito, e non è a Nerone, ch’egli ha voluto far onta. Osserva oltre a ciò che Petronio si lagna di quella vaniloquenza testè recata dall’Asia, onde il bello stile era caduto, e trova verosimile che il testè sia applicabile ad Apollonio chiamato a Roma da Antonino con tutta quella sua caterva di sofisti, che tanta [p. xxv modifica]licenza introdussero nel bel parlare. Inoltre osserva che non parla mai della Palestra di Napoli: ma bensì dei giochi Circensi, ch’egli assicura esservi stati introdotti dopo l’impero di Commodo; e finalmente argomentando dallo stile fiorito di Petronio, dalla bizzarria delle invenzioni, dalla riverenza agli astrologi, dalla trascuranza de’ Dei gentili, da qualche oscuro sarcasmo al rito Cristiano, e da alcune voci e modi di dire che sono comuni ad Apuleio, nè prima usati dai buoni scrittori, egli conchiude a crederlo posteriore di poco a S. Giustino martire, e in somma lo colloca tra la fine del secondo secolo e il principio del terzo, cioè all’epoca di Luciano, di Filostrato, e di Apuleio.

Di tutte queste prove la prima sola è quella che ci conviene combattere, come la più calzante e robusta, se fosse vera. Chè quanto alle voci non usate da buoni scrittori, prima di Petronio, noi vedremo tra poco colla scorta del Burmanno, che ciò dipende dall’aver voluto in alcun luogo usar le parole vernacole del paese, ove è posta la scena del suo romanzo; quanto ai frizzi vibrati al Cristianesimo, non ve n’ha uno che veramente si possa conoscer per tale, nemmeno fra quelli avvertiti dal signor Ignarra; quanto alla trascuranza de’ propri Dei, ella era in voga anche avanti Nerone, come abbiamo dagli scrittori contemporanei; quanto alla fede negli astrologi, e nelle stregherie, ne abbiam tanti esempj anteriori in Orazio ed altri fin dal tempo d’Augusto, che sarebbe inutile di citare; quanto alla bizzarria delle invenzioni, ed allo stile fiorito, ciò è qualità dell’ingegno, e non dei tempi, e quanto alla falsa eloquenza, ella era di già imputata da Orazio e da Quintiliano, all’età loro; cosicchè tutti questi argomenti non servono in verun modo ad ottenere l’intento di trasportare l’età del nostro Petronio dai tempi di Nerone a quelli di Commodo, o anche più tardi. Nè il cenno che vi si ha dei giochi Circensi in Napoli, e il silenzio della Palestra, [p. xxvi modifica]induce alcuna certa prova di posteriorità, sì perchè nel corso dell’opera non gli occorse parlare della Palestra, come perchè in bocca a quel volgo i trattenimenti della Palestra potevano aver nome di giochi Circensi, perchè così chiamavansi nelle città romane vicine a Napoli, attesochè Napoli essendo già municipio, ed aspirando alla qualità di Colonia Augusta, poteva aver adottate anche preventivamente voci e forme di dire Romane, onde corteggiare anche in tal guisa i suoi dominatori. Finalmente il signor Ignarra accorda egli stesso che trovansi tuttavia alcune lacune nelle Satire di Petronio e può darsi che ne’ periodi che se ne sono smarriti, vi fosse fatto cenno della Palestra, seppur vi si presentava occasione di nominarla. Non resta dunque a distruggere che la prima prova, come la più forte, e ciò riuscendo, tutto l'edificio dell’Ignarra dovrà cadere.

Ei dice in primo luogo che il nostro Autore doveva essere contemporaneo all’epoca di cui Napoli fu eretta Colonia Augusta, appoggiandosi alle parole testè citate poste in bocca di Ermero. Benchè questa prima proposizione, che è la base di tutto il ragionamento, potesse in vari modi combattersi, tuttavia io la trovo buona ed ammissibile, ed accordo che Ermero, ossia Petronio che il fa parlare, vivesse circa quell’epoca. Ma Napoli, continua il signor Ignarra, ancor non era Colonia Augusta ai tempi di Adriano, dunque Petronio è posteriore di Adriano. Ammetterei la conseguenza, se mi avesse provato invincibilmente, che Napoli non fosse Colonia Augusta ai tempi di Adriano; ma le prove, ch’egli ne adduce, sono sì deboli a parer mio, o almeno sì impugnabili, che io non so accettarle. Egli confessa prima di tutto che ignorasi assolutamente il tempo in cui Napoli ottenne di essere Colonia Augusta: accorda non esistere alcun monumento che ne faccia pur cenno: e per supplire in qualche modo a codesta ignoranza ei va rintracciando in Petronio se trovisi cosa che indichi [p. xxvii modifica]a quale età egli avesse appartenuto, perchè la sua età sarebbe press’a poco l’epoca di detta Colonia; e avendo pur bisogno di trovare a che appigliarsi, ammassa la qualità delle voci, i supposti sarcasmi ai riti Cristiani, la credenza agli astrologi, e tutte quelle altre indicazioni, che noi abbiamo poc’anzi veduto quanto sieno inattendibili. Finalmente considerando che ai tempi di Adriano tutto era in Napoli foggiato alla greca, i magistrati, i giochi, le cerimonie sacre, e che Sparziano parlando di questo Cesare dice ch’egli era dittatore ed edile ne’ paesi latini, Demarca a Napoli, ed Arconte in Atene, conclude che dunque ancor non aveva codesta Città acquisiti i diritti e i nomi di colonia romana. Ma questa conseguenza non regge; imperocchè, essendo provatissimo anche per osservazioni ben ragionate del signor Ignarra medesimo, che l'azione della Satira di Petronio è evidentemente in Napoli, ed essendosi ammesso che Petronio fosse vivente quando Napoli divenne Colonia Augusta, ciò nondimeno Petronio stesso la chiama città greca e non romana, perchè veramente ella fu tale, e sappiamo da Tacito nel 15 degli annali che Nerone (cui sicuramente deve alluder Petronio) Neapolim quasi graecam urbem delegit. Quindi le foggie e le voci greche, massimamente rispetto alle cose pubbliche ed ai magistrati non dovevano sì facilmente tralasciarsi, anche divenuta colonia, in quel modo che anche ai dì nostri una nazione qualunque venuta sotto il dominio di nazione straniera non dimentica sì facilmente le sue voci e costumanze per adottare del tutto quelle de’ conquistatori. Diffatto l’Ignarra medesimo cita Strabone, il qual testifica che il nome de’ magistrati a Napoli parte eran greci, parte campani, cioè latini: cita alcune lapidi napolitane contenenti nomi greci latinizzati, ossia con desinenze latine, come noi tante volte adottando voci straniere diam loro la desinenza italiana, cita in somma decreti e formole di lingua greca, ma in foggia latina, [p. xxviii modifica]e somministra egli stesso argomenti e prove che distruggono implicitamente il suo raziocinio. E per qual ragione sarà egli permesso all’Ignarra nella mancanza assoluta di monumenti provanti l’epoca della qualità coloniale data a Napoli, di supporla posteriore all’impero di Adriano, appoggiandosi a prove che non sono palesemente attendibili, e non sarà permesso a me di supporla contemporanea a Nerone, sì per gli indizj sopraccennati, come per la facile congettura che può aversene dall'aver Nerone eretto in colonia la città di Pozzuolo, come si ha parimenti da Tacito, e quindi essere probabilissimo che la egual dignità accordasse a Napoli, città più ragguardevole di Pozzuolo, e che egli, come vedemmo poco fa, prediligeva?

Finalmente le prove addotte di sopra che l’oggetto della presente Satira sia Nerone, non lasciano, a mio avviso, dubbio ulteriore che il Petronio autor di essa non sia quello stesso Petronio che dannato a morir da Nerone, gli mandò scritte le sue ribalderie. Dal che ne procede che come Petronio era a Nerone contemporaneo, così Napoli venisse eretta in colonia ai tempi loro.

Notisi poi che il Burmanno medesimo, che pur in parte ha promosse codeste difficoltà sull’epoca e sulla identica esistenza del nostro autore, in altro luogo della sua prefazione è di parere che Petronio possa aver veduto gli ultimi anni di Cesare Augusto, e impratichitosi poi delle licenze di Tiberio, di Caligola, e di Claudio, le abbia voluto pungere e satirizzare, senza però derogare a quella urbanità e decenza, che ne’ più bei tempi d’Augusto aveva imparata. Locchè essendo, ognun vede quanto il signor Ignarra siasi allontanato dal vero.

Ma passiamo ora ad esaminare qual veramente fosse lo scopo che ebbe Petronio in iscrivere queste Satire. Dal cenno che qui sopra ne abbiam dato, pare che il Burmanno sia d’avviso che sotto i diversi nomi di Trimalcione, di Lica, e di Eumolpione abbia descritti i [p. xxix modifica]costumi osceni di Tiberio, di Caligola, e principalmente di Claudio, facendone di tutti un impasto e formandone questa sua favola. Se il parere dell’Ignarra avesse trionfato, era d’uopo credere che si avessero presi di mira i vizj di Commodo, o di Eliogabalo; ma abbastanza abbiam rifiutata questa opinione, e nessuno ha fin qui ammessa quella del Burmanno, anzi l’universale consenso de’ commentatori ed interpreti ha determinato sulla fede di Tacito che Nerone ne sia il protagonista. Io sottoscrivo interamente a questo parere; perchè è ben vero che a Claudio, ed a Messalina sua moglie ed agli scostumatissimi loro favoriti e liberti possono applicarsi molte parti della Satira di Petronio, ma nell’intutto non è suscettibile di questa applicazione; laddove all’incontro ogni piccolo frizzo, come io vo avvertendo nelle note, è allusivo ai costumi di Nerone, de’ quali tanti scrittori illustri ci hanno lasciato memoria. Oltre di che due forti argomenti si hanno (senza far nuova menzione della testimonianza di Tacito) per escludere l’opinione dell’editore e commentatore olandese, e sono il nome di Trimalcione, uno degli eroi della favola, e il carattere spiritoso de’ personaggi sotto la maschera de’ quali è nascosto Nerone. Il primo argomento è somministrato dal Bourdelot, il quale nella bella edizione da lui fatta di Petronio assicura in una sua nota essere stata coniata in onor di Nerone una medaglia colla iscrizione C. NERO. AUGUST. IMP., e sul rovescio TRIMALCHIO. Ciò mi induce a credere che questo nome, che vuol significare ter mollis, fosse a quel Principe proverbialmente attribuito dalla plebe di Napoli, che doveva conoscere la di lui vita deliziosa e lasciva. Ognun sa quanto il volgo di ogni paese e di ogni tempo inclini ad affibbiare altrui qualche soprannome o di onore o di derisione, fondandolo sopra circostanze o qualità particolari di colui, al quale lo affibbia. Così forse il Petronio nostro ebbe il soprannome di Arbitro, perchè era [p. xxx modifica]a comune notizia essere egli il direttore de’ piaceri del Principe.

L’altro argomento riceve solidità e certezza dai conosciuti caratteri di Claudio e di Nerone. Claudio era uomo torpido, ozioso, e di pochissima levatura; al contrario Nerone aveva ingegno, somma vivacità, memoria, ed amava le lettere e la poesia greca e latina, e facea pompa di dottrina e di spirito. Perciò Petronio fa spiritosi, pronti, vivaci, e non di studio digiuni, malgrado qualche caricatura perdonabile in un satirico, i suoi Trimalcione, Lica ed Eumolpione, il carattere de’ quali non potrebbe nullamente convenire con quello di Claudio.

Qualunque però stato fosse lo scopo di queste Satire, e qualunque l’autor loro, e il tempo in cui visse, tanto e così universale è il grido in cui son salite per la leggiadria della invenzione, e per la purezza dello stile, che passano tra le cose classiche della latinità. Il piano di Petronio, che Apuleio ed altri imitaron dappoi, fu di dipinger la vita di Nerone nelle diverse situazioni alle quali prestavasi questo Principe, e di spargere il più acuto ridicolo su’ suoi cortegiani. Scrivendo separati poemetti, come Lucilio ed Orazio, egli non avrebbe ottenuto sì bene il suo intento, quanto tessendone una favola in tal modo connessa, che i tratti principali che egli avea tolto a descrivere, sembrassero continuazione, e progredimento delle cose antecedenti. Ma perchè avrebbe il Romanzo o perduta la sua qualità poetica, se fosse stato scritto interamente in prosa, o preso un aspetto di poema epico, se fosse stato tutto in versi, così con molto giudizio ha frammischiato le prose e i versi, i quali tendono anche a dare una nuova scossa al lettore, e ad impedire quella specie di noia, che sopravviene dopo una lunga lettura di prose. Petronio scrive egregiamente nell’uno e nell’altro stile, e il fa con una certa sprezzatura e famigliarità, che non sopravvien mai un momento di stanchezza o languore in chi lo [p. xxxi modifica]legge. Egli non assume giammai il tuono sublime, salvo che nel poemetto sulla Guerra Civile. Dal quale bensì comprende che in quel modo ch’egli è graziosissimo ne’ piccioli epigrammi di sapor catulliano, e di argomento amoroso e galante, così convinto che ne’ grandi argomenti è indispensabile quell’

Os magna sonaturum


di Orazio, vi si manifesta abilissimo.

In aggiunta poi al merito morale comune a tutti gli scritti satirici, che è quello di svergognare il vizio, ovunque si trovi, onde gli uomini se ne guardino, merito in quest’opera grandissimo, perchè di più vizj, e difetti di ogni genere va mostrando l’immagine, ha quello altresì d’istruirci di varie usanze, pratiche, e forme del viver sociale, le quali o furon credute di posteriore invenzione, o per la simiglianza che hanno con alcune de’ tempi nostri, inducono maggior interesse. Veggonvisi, per esempio, certe magistrature di campagna, certe istituzioni di buon governo rassomiglianti a quella della Polizia odierna, certe leggi marinaresche, alcuni giochi, ed una specie di lotto fra questi, e cento altre cose, che è piacevole di saperle praticate dagli antichi avi nostri, ai quali noi remotissimi discendenti professiamo sì alta estimazione.

Quanto alla lingua di Petronio, alcuni lo accusano di aver usato parole vili, inusitate, e non prima ammesse da buono scrittore. A ciò prima di tutto può rispondersi esser egli il primo buono scrittore che le usasse, e quindi dal suo esempio essere divenute buone quelle parole, come buone divennero tutte le altre, di mano in mano che i buoni scrittori le collocarono ne’ loro scritti. In secondo luogo egli scrivendo con quella sprezzatura e famigliarità che di sopra accennammo, e non avendo forse avuto il tempo di dar l’ultima mano alle [p. xxxii modifica]cose sue, come dice egli stesso del suo poemetto della Guerra Civile è caduto in voci forse allora comuni nel discorso domestico; e non perciò meno belle, benchè non per anco depositate negli scritti de’ suoi purissimi antecessori. Aggiungasi a ciò che siccome a Napoli ove Nerone principalmente esercitava le sue lascivie, stabilisce Petronio la scena del suo romanzo, e v’introduce persone abbiette e viziose che parlano, così usa talvolta parole del paese, e degne di cotall interlocutori, siccome anche il Burmanno ha diligentemente avvertito. Oltre di che egli ha frasi e maniere sue proprie, come le hanno i grandi scrittori; e in quel modo che Pollione tacciò Tito Livio di padovaneria, e Statilio Massimo accusò Cicerone di alcune singolarità nella lingua, così puossi incolpare Petronio di certa venustà e trascuratezza, che forse amabili dovean riuscire a’ suoi tempi, e che a noi sì remoti, e sì imbarazzati per bene intenderlo, può parere difetto, come difetto e scempiaggini veggo sembrare a taluni non abbastanza nella vaghissima italiana favella versati le maniere e frasi dei nostri scrittori Fiorentini dall’età del Boccaccio sino a tutto il buon secolo di Leon decimo.

Per altro il Burmanno, che già vedemmo riconoscere in Petronio uno scrittore che deve aver veduto gli ultimi anni di Cesare Augusto, non lascia di riconoscerlo per tale, anche quanto alla lingua ed allo stile. Anzi a coloro, che come l’Ignarra da alcune voci e modi petroniani usati ne’ tempi posteriori, ed anche ne’ secoli bassi, voglion dedurre doversi questo scrittore quasi al medio evo trasportare, rivolge egli arditamente il loro argomento, e dice che appunto negli scrittori de’ bassi tempi trovansi cotai voci e maniere, perchè leggevano essi Petronio più volentieri degli altri antichi, e aggiunge che per l’inclinazione degli uomini alle lascivie ed agli scherzi erasi questo autore reso famigliare ai letterati d’allora. E siccome que’ letterati (segue il Burmanno) [p. xxxiii modifica]erano pressochè tutti monaci, così quis non credat prurientes illos nebulones, qui in pubblico magnam pietatis speciem mentiebantur, intra claustra sua lascivissimum quemque scriptorem assidue versasse?

Questa veramente un poco maligna osservazione ad un’altra il conduce, relativa alle lacune, che in tutti i codici di Petronio finor conosciuti trovansi rimaste. Io ho accennato di sopra, ciò forse procedere dal non esserci pervenuto lo scritto originale che l’autore mandò a Nerone, il quale potrebbe per odio averlo distrutto, ma soltanto quel primo abbozzo, che ne doveva aver preparato. Diffatto la maggior parte degli scrittori, dopo aver disposti i materiali necessari alla formazione della loro opera, e averne stabilite le divisioni, cominciano per iscriverla con quella rapidità che è figlia della mente calda e piena del suo oggetto, senza troppo curarsi o della lingua, o dello stile, o di alcun voto che per qualche inatteso ostacolo convien lasciarvi, e compiuta che l’abbiano, e grossamente pulita, la rifanno da capo, sia scrivendola essi stessi, sìa ad altri dettandola, e in questa occasione modificano, correggono, perfezionano, e la loro fatica riducono nel modo in cui è poi esposta alla luce, lasciando il primitivo autografo originale con que’ difetti, che non si veggono nel secondo, e molto meno nel terzo, se questo pure fu necessario. Il signor di Voltaire ha invece creduto che tali lacune procedessero dal non essere altrimenti questa l’opera originale di Petronio, ma dall’esserne semplicemente un estratto, locchè non discorda gran fatto dal mio parere. Il Burmanno però vuole che alla turpe negligenza di que’ monaci oziosi (son sue parole) abbiasi da attribuire che non intero ci sia giunto il Petronio, ma quelle parti soltanto, quae monachis tentigine ruptis, lasciviae et libidinosae proterviae manifestissimis argumentis blandiebantur. Comunque ciò sia e qualunque perfezionamento abbia di mano in mano ottenuto questo [p. xxxiv modifica]elegantissimo lavoro di Petronio, siccome avvertiremo fra poco, resta sempre nella letteraria repubblica desiderio ardentissimo di ricuperarlo interamente. Anzi l’autore della Biblioteca de’ Romanzi accenna a questo proposito una piacevol novella, che noi per interrompimento di queste controversie dei critici non crediamo inopportuno di esporre.

Fiorivano in Germania nel secolo decimosettimo tre insigni letterati della famiglia de’ Meibomii, i quali alla professione della medicina, in cui erano peritissimi, aggiugnevano estese cognizioni nelle altre scienze, come dalle opere loro può rilevarsi. Un di costoro, non so se Giovanni Enrico, o Errico suo figlio, leggendo per avventura non so qual descrizione d’Italia, pervenne ad un capitolo, ove parlavasi di Bologna, e vide tra le altre cose queste parole: Bononiae videtur Petronius integer. Amantissimo dell’aurea latinità del nostro Arbitro, e informatissimo delle tante lacune, che a’ suoi giorni massimamente, il deformavano, nè ad altro Petronio che a questo volgendo egli il pensiero, rimase da gran maraviglia sorpreso, come avesse a trovarsene in Bologna un codice intero, mentre gli altri sino allora noti agli eruditi apparivano tutti guasti e sciamati a pregiudizio delle buone lettere, e con indicibil dispetto degli studiosi. Lesse e rilesse più volte quel passo, e persuaso di rendere un servizio importantissimo alla repubblica de’ letterati, e trarne egli non picciola gloria, ove fosse riuscito ad aver copia dell’immaginatosi manoscritto Bolognese, fe’ chiamar tosto una sedia di posta, e preso frettolosamente commiato dalla famiglia, in quella adagiossi, e alla volta d’Italia i postiglioni con generose mance affrettò, sì che in pochi dì trovossi a Bologna. Egli vi conoscea per carteggio e per fama un insigne medico e letterato, e a lui dopo brevissimo riposo si diresse. Cessati i primi complimenti, e le urbanità consuete, accostòglisi all’orecchio, acciò per [p. xxxv modifica]avventura altri ascoltandolo non gli rapisse l’onore della scoperta, e sì gli disse: egli è gran tempo, mio caro amico, che io contava di venire in Italia, sì per esser ella il serbatoio e la nodrice delle scíenze e delle arti, come per visitar di persona gli uomini insigni ch’ella produce, e voi principalmente e questa vostra chiarissima patria, madre feconda di altissimi ingegni; ma forse nè quest’anno, nè l’altro avrei per più ragioni potuto il mio desiderio appagare, se una causa importantissima non mi vi determinava senz’altro ritardo. E qui si fece a narrargli il sommo onore in che teneva Petronio Arbitro: il comun lagno de’ letterati, che le sue Satire avessero dal tempo tanta ingiuria patito: il vantaggio che dall’averle complete ridonderebbe alla latinità: e la gloria invidiabile, che otterrebbe colui, che fosse tanto fortunato di rinvenire un codice nè dal tempo, nè dalla cattivezza o trascuranza degli uomini lacerato e logoro. Il dotto Bolognese approvava all’intutto il discorso del buon Tedesco, e i propri voti aggiungea, onde sì degno scrittore potesse aversi come in origine deve essere stato. Allora Meibomio stringendosi nelle spalle, così riprese a dire: egli è pur vero, mio caro, che le ricchezze e i beni domestici sono dalla comune degli uomini men custoditi e pregiati di que’ che sono a più gran distanza, e al conseguimento de’ quali sono maggiori gli ostacoli. Ed io non vi nascondo la meraviglia anzi la indignazione, che mi ha presa contra voi Bolognesi, che tanta fama pel mondo spargete di dottrina e di sagacità, i quali avendo in vostra casa quel tesoro, che in nessun’altra parte della terra si è fino ad ora trovato giammai, non solamente a’ letterati d’Italia ed agli stranieri non ne fate parte, ma voi stessi nol conoscete; perlocchè non paiavi strano che io non vi tenga per que’ sapientoni che il mondo vi dice. Voleva il medico replicar per le rime al Tedesco, ma questi non dandogli tempo, e con certi suoi giri di parole [p. xxxvi modifica]correggendo in qualche modo il mal digesto suo raziocinio, finì con generosa ira rimproverandolo che sin anco a lui fosse ignoto custodirsi in Bologna un intero Petronio, applaudendo a sè medesimo che di Lubecca venuto era per fargli conoscere questa gemma. A siffatto annuncio il medico rimase attonito, e andava alla meglio iscusandosi dell’assoluta sua ignoranza, e dicendo parergli impossibile non aver egli saputo, nè sapere che alcun Bolognese il sapesse, che un codice di Petronio sì bello e raro, com’ei dicea, nella sua patria si conservasse. Il so ben io, replicò Meibomio; e trattosi di tasca il libro, donde cotal notizia avea ripescato, sotto agli occhi del Bolognese lo squadernò, e col dito accennandogli, gravemente gli disse, leggete. Come il medico ebbe letto alcuni periodi, ove delle rarità di Bologna quel libro parlava, e che giunse alle parole Bononiae videtur Petronius integer, qui, qui, con voce fortissima e vittoriosa, gridò il tedesco, qui vi aspettava. Che ve ne par egli? E voi volete dettare in Cattedra agli stranieri, mentre le cose vostre non conoscete? Ed io ho ad attraversar fiumi e monti per venirvene ad istruire? e una dozzina di siffatte esclamazioni infilzò con orgoglioso compiacimento. Il Bolognese, facendo fatica a tenersi le risa, s’infinse mortificato, e gli rispose: che v’ho io a dire? Il libro vostro non mente; voi v’avete ragione, io me ne era scordato, abbiate pazienza ch’io mi vesta, onde accompagnarvi tosto a visitare l’intero Petronio da voi discoperto. E chiamata la fantesca, fecesi recar la parrucca, le scarpe, e la zimarra, e abbigliatosi in un batter d’occhio, prese per mano il viaggiatore, dicendogli: venite meco. A costui sprizzava fuor degli occhi l’allegria, e benchè urbanissimo fosse e rispettoso, tuttavia non sapea frenarsi in modo, che il medico non si accorgesse del suo pavoneggiarsi e boriare, vedendo lui così incaponito, com’e’ pareva. Finalmente egli arrivò alla chiesa cattedrale, e chiamatovi lo sagrestano, gli [p. xxxvii modifica]susurrò nell’orecchio e quegli rispondendogli un tosto vi servo, il medico voltosi al tedesco disse: pazientate un momento, tanto che il chierico possa aprire la stanza ove sta chiuso ciò che cerchiamo. Messer lo sagrestano non tardò guari, e fattosi loro innanzi, gli altri due lo seguitarono. I quali veggendosi condurre in chiesa, il tedesco strabiliava, e andava pensando tra sè, che il luogo ove Petronio si custodiva, e la gelosia con che era tenuto, ben palesavano essere conosciuto dai Bolognesi, e avuto in grandissimo pregio. Imperocchè gli venne mostrata sotto l’altar maggiore una cassa di bronzo con rabeschi indorati, e dentrovi un’altra di cristallo, alla quale il chierico indicando, lor disse: eccolo. Il sapiente di Lubecca diè due passi indietro per maraviglia, e gli cascarono di mano le lenti, ch’egli avea preparato per esaminare le pergamene o le scorze del codice, e il medico con un sorrisetto non però contumelioso gli disse: questi è il Petronio, di cui parla il vostro libro; osservate quanto e’ sia ben conservato, che appena comincia ora a divenire uno scheletro; e sappiate che da lui, che fu già nostro apostolo e vescovo, questo tempio chiamasi S. Petronio, e noi siam detti Petronj, o Petroniani, come più vi aggrada, nè altro Petronio abbiam noi, fuorchè coloro che con questo nome si appellano, e fuori che gli esemplari delle diverse edizioni di quel Petronio, di cui vi credevate trovar qui il codice intero. Non è possibil di esprimere la confusione del buon Tedesco, il quale strettosi al braccio del medico, e pregandolo per lo amore dell’uno e dell’altro Petronio di non palesare ad anima vivente questo vergognoso suo sbaglio, sortì immantinente, e senza pur desinare, al che il medico lo esortava ed invitava, rimontò in calesse, e chiotto chiotto a Lubecca in tutta fretta tornò.

Ad onta per altro di tutte codeste lacune, le quali ai tempi nostri sono in minor numero che non fossero [p. xxxviii modifica]a quelli di Meibomio, Petronio viene dal consenso universale de’ letterati, se tutt’al più se n’eccettui l’Uezio (che in una sua lettera a Grevio, tolse a biasimarlo) collocato fra i migliori scrittori della latinità. Giusto Lipsio lo chiama auctor purissimae impuritatis: lo Scioppio, tanto il pregiava, che scrisse la sua Sirenes Petroniana seu elegantiores phrases ex Petronio collectae; il Walchio nella sua storia critica della lingua latina lo colloca alla metà del secol d’argento, e ne esalta lo stile come molto elegante: il P. Beverini gli accordò il triumvirato della lingua latina insieme a Plauto ed a Terenzio in quella sua applaudita raccolta che ha per titolo: Selectiores dicendi formulae, e per non riportar qui il giudizio che tutti i grandi scrittori ne hanno dato, basta il far cenno, che più di trenta uomini insigni han preso a commentarlo, interpretarlo, ed ischiarirlo, e che tante edizioni se ne son fatte, che riescirebbe quasi impossibile il noverarle.

Giova rammemorare però che pochi e affatto distaccati frammenti se ne conoscevano, quando circa l’anno 1662 Marino Statlejo o Slatilio Dalmatino (e non già Pietro Petit come ingiustamente pretendono i signori Chaudon e Delandine compilatori del Nuovo Dizionario Storico stampato recentemente a Lione) scoperse a Traù in casa di Niccolò Cippico amico suo un codice assai più perfetto, come quello che conteneva la cena di Trimalcione, uno de’ più belli episodj di queste Satire; e trattone copia a Padova il mandò, ove fu stampato nell’anno medesimo. Adriano Valesio francese, e Gio. Cristoforo Wagenselio tedesco, giudicarono questo frammento opera dello Statilio medesimo, e nel 1666 lo impugnarono con veemente acrimonia; ma lo Statilio sì ben difese e con tanto vigore l’opera di Petronio, che per giudizj formalmente emanati, e per la successiva generale sentenza de’ critici, il frammento dalmatino non incontrò eccezione ulteriore. Non perciò potea dirsi [p. xxxix modifica]completo il tosto Petroniano, anzi gran dovizia di vuoti vi rimanea tuttavia. Francesco Nodot ufficiale francese sul finir del secolo XVII pubblicò una nuova edizione di Petronio con nuovi frammenti, ch’egli assicurò di avere scoperti a Belgrado, e che malgrado l’approvazione dell’Accademia Arelatense furono fino ai nostri dì creduti una impostura. Il Burmanno fra gli altri attaccò vivamente il Petronio del Nodot, nè volle pur dar luogo ai di lui frammenti (checchè ne dica l’autore della Biblioteca de’ Romanzi) nella edizione magnifica ch’egli ne fece, ove raccolse tutte le minuzie che a queste Satire fossero relative. Dopo il giudizio di tant’uomo pareva deciso che le aggiunte Nodoziane avessero a considerarsi per una letteraria ciarlataneria, quando il signor Ignarra nella già citata dottissima dissertazione de Palaestra Neapolitana, che fu pubblicata a Napoli nel 1770 imprese a difenderle. Credo indispensabile di riportarne il suo intero giudizio, perchè avendole io adottate nella traduzion mia, non paia che il facessi per un biasimevol capriccio. “Io so (dice egli nella nota ottava del Cap. V.) che molti hanno sferzato Nodot come venditore di merci false, ma so altresì che molti antichi monumenti, che un tempo si rifiutarono, sono ora saliti in grandissimo pregio. Non è egli vero (per tacer di tant’altri), che i Cenotafi Pisani riputati dallo Scaligero, come se fossero scritti ieri, o ier l’altro, il Reinesio li ha verificati, ed il Norisio con amplissimo commentario li ha eruditamente illustrati? Per la stessa ragione io credo ammissibile il supplemento Nodoziano, tanto più che le cose che gli si oppongono come contrarie alla eleganza della lingua latina, non mancano del tutto di difesa. Ma ciò esigerebbe indagine troppo lunga per potercene sbrigar presto. Se avvi però cosa favorevole al Nodot, ciò è in primo luogo l’aver situato in borgo vicino al Portico d’Ercole, che oggi si chiama [p. xl modifica]Portici. Io non mi saprei certamente di qual borgo qui si facesse menzione, fuorchè di Ercolano; massimamente per l’incidenza di aver nominato Ercole. Ed Ercolano fu già un borgo di qualche fama, la quale si accrebbe per le sciagure, che di mano in mano soffrì. Imperocchè le di lei mura rovinarono per terremoto ai tempi di Nerone, come riferisce Seneca nella sesta questione cap. 1. Dipoi ai tempi di Tito venne per la massima parte in tal modo sepolta sotto i torrenti del Vesuvio, che rimase esposta al calpestio di passaggieri. Dietro tali calamità scorgesi facilmente come restasse Ercolano senza alcuna celebrità e un picciolo borgo, quasi senza alcun nome, rimanendovi appena il tempio d’Ercole col portico, cui i vicini visitavano nelle solennità di quel nume. Dal qual portico il luogo che lentamente in quella vicinanza si accrebbe, fu detto Portici. Che poi la villa di Portici si trovasse d’appresso all’antico borgo di Ercolano, ci è ora manifesto coll’opera del felicissimo genio di Carlo III. Re di Spagna, il quale nel 1738 facendosi colà innalzare un palazzo, espose in luce le sepolte rovine di Ercolano. Senza di ciò chi ne avrebbe scoperto il vero sito, o chi avrebbe affermato che l’odierna villa poco più di tre miglia distante da Napoli non fosse edificata cogli antichi avanzi di quel borgo? Infatti i nostri maggiori se ne allontanavano alquanto cercando Ercolano nelle vicinanze di Pompeja, e nella tavola Peutingeriana erroneamente vi è detto che distasse da Napoli 6 o 11 miglia. Quindi se il supplemento Nodoziano fosse una pretta impostura, chi avrebbe detto a Nodot cinquant’anni prima che venissero scoperte le vestigia di Ercolano, che dove una volta era il portico (oggi Portici) ivi fosse un picciol borgo destinato a solennizzarvi le feste d’Ercole? E tanto più volontieri assolvo il Nodot dalla taccia di falso, quanto meno aveva [p. xli modifica]egli il pensiero e ad Ercolano, e alla villa Portici; perchè nelle noterelle aggiunte al testo (se egli n’è l’autore) commenta queste parole il Portico d’Ercole nel seguente modo: l’azione è in Napoli, ma l’autor finge: vi sott’intende Roma, e qui parla di Tivoli vicino borgo, dov’era un tempio sacro ad Ercole. Nel qual giudizio ei s’inganna, ma scorgesi appunto da tal inganno, che stimando egli doversi intender di Tivoli, non ebbe pensiero nè al Portico, nè al borgo d’Ercole. Tralascio altri non meno riguardevoli indizj desunti da varj passi del di lui supplemento o compimento a Petronio, i quali fanno fede che le cose ivi narrate non potevano da altri essere scritte che di man del Petronio. Io non difendo però il Nodot in modo che io dica essere il suo Petronio un’opera del tutto compiuta, ma dico tra tutte le edizioni di Petronio quella Nodoziana essere la più copiosa, sebbene non anco intera, giacchè vi si trovan tuttora molte lacune, e spesso vi si desidera maggior connessione nelle parole e nelle sentenze. Il Codice scopertone a Belgrado essendo forse scritto in disteso e senza interpunzioni, e presentando assai più cose degli altri, facilmente ne avrà imposto al Nodot, il quale non conoscendone la lingua più che tanto potè credere intero e genuino un informe Petronio. Ma, com’io dicea, questo spinosissimo argomento esigerebbe lunghissimo ozio a ben discuterlo.„

Sembra adunque ragionevole e plausibil cosa il ritenere per merce di Petronio il supplemento che ci ha trasmesso Nodot. Dopo tal supplemento, non è a mia notizia che altro sia stato in questi ultimi anni pubblicato, donde le presenti Satire acquistino maggior compimento.

Altra evidente prova del sommo lor pregio si è la versione che se ne è fatta o in tutto o in parte nelle lingue viventi da uomini studiosissimi. Il celebre [p. xlii modifica]Addison non isdegnò di occuparsene, e la sua traduzione inglese riscosse l’applauso universale dei dotti. Il primo che interamente le traducesse in francese, fu lo stesso signor Nodot, il qual vi aggiunse una sua apologia ai frammenti da esso divolgati. Gli tenne dietro il medico Nicola Venette, poi il signor Jardin sotto il nome di Boispreaux, indi il signor de la Periarède spesse volte citato dal Presidente Bohier, il qual tradusse in versi il poemetto della Guerra Civile, che l'instancabile Abb. di Marolles aveva prima tradotto in prosa. Alcuni squarci trovansi pure tradotti nell'opera d’autore anonimo uscita a Parigi l'anno 1802 intitolata Heliogabale, ou Esquisse morale de la dissolution Romaine sous les Empereurs. Perchè qui non facciamo un trattato bibliografico, non credo necessario di citarne le varie edizioni, che se ne hanno. Ma mi giova il far riflettere, che le traduzioni francesi, più o meno buone che siano, hanno resa più comune la lettura di Petronio, nè fuvvi ecclesiastica o laica magistratura, che si avvisasse di impedirla. Il che serva per tutta risposta a coloro che riguardano come pernicioso ai costumi lo scherno che de’ licenziosi costumi va liberamente facendo il nostro Satirico. Dico liberamente, perchè non credo che verun lettore di buona fede sia per passar buono il giudizio del Burmanno che trova in questo autore una somma verecondia. Nullum enim (dic’egli) in toto hoc scripto sodaticum et obscoenum origine et prima significatione verbum deprehendas, sed translatio semper et honestissimis verbis ad nequitias exprimendas summa cum verecundia utitur.

Nessuna completa versione delle presenti Satire aveva finora l'Italia, mentre di ogni altro antico scrittore anche non classico non le mancano più traduzioni. Il diligente Argelati nella sua Biblioteca dei Volgarizzatori cita il seguente libro: I successi di Eumolpione portati nella nostra lingua da Ciriaco Basilico. Napoli presso Giacomo Bulifon 1678 in-12. Un egual titolo si trova nella [p. xliii modifica]Biblioteca Casanatense: non ho verun dubbio che quest’opera esista veramente, e sia una traduzione di Petronio; ma per ostinate e grandissime indagini che io abbia praticato e fatto praticare in quasi tutte le Biblioteche di qua dagli Apennini, non mi fu possibil mai di trovarla. Concesso però che il Ciriaco abbia tradotto le Satire di Petronio, il titolo da lui dato alla sua versione m’induce a supporre che non avesse conosciuto il bel frammento della cena di Trimalcione pubblicato pochi anni prima dallo Statilio, altrimenti ei doveva più presto accennare nel titolo del suo libro il nome di Trimalcione, che quello di Eumolpione, e che per conseguenza egli abbia tradotta quella sola parte, che contiene le avventure di quest’ultimo, che in mancanza dell’altro può considerarsi per principale attore in questa favola. Ad ogni modo però il Ciriaco non conobbe assolutamente i frammenti dati in luce dal Nodot, quindi incompleta è l’opera sua. Può adunque la nostra traduzione presente riguardarsi tuttavia come la prima che se ne abbia in Italia.

L’Argelati cita eziandio le opere di Petronio Arbitro tradotte in versi italiani da Giulio Cesare Becelli, dicendo che rimasero manoscritte, e adducendo in testimonio il P. Zaccheria, come colui che le avesse citate nel catalogo degli scritti del Becelli riportato nel Tomo 2. della Storia Letteraria d’Italia. Ma nè il P. Zaccheria riporta questa notizia, nè giammai forse il Becelli l’asserita versione eseguì, perchè avendo io con ottimi mezzi tentato di verificarla ne’ manoscritti rimasti alla famiglia sua di Verona, nessun indizio ne è risultato. Non diversamente mi avvenne del poemetto sulla Guerra Civile, che l’Argelati dice tradotto in ottava rima dal P. Gio. Azzolini chierico regolare Salentino, col titolo la Discordia di Petronio. E resto maravigliato come il P. Paitoni, e l’Abb. Villa, uomini della italiana lettura eruditissimi e benemeriti, i quali alla Biblioteca dell’Argelati [p. xliv modifica]hanno fatto moltissime aggiunte ed annotasioni, non abbiano, essi che meglio il potevano, verificato o la realtà di codeste versioni, o lo sbaglio che l’Argelati ne ha preso. Ma di siffatti sbagli, e di moltissime mancanze è ridondante la Biblloteca de’ Volgarizzatori italiani, e sarebbe util cosa alla letteratura nostra che qualche paziente ed erudito scrittor moderno imprendesse a rifonderla, e riprodurla.

Stefano Tafuri dottissimo Napoletano citato egli pure dal nostro Bibliografo diessi parimenti a volgarizzare il Petronio, ma dopo sei paginette sospese il lavoro, nè più il proseguì. Questo frammento di traduzione, mancante anch’esso de’ supplementi Nodoziani, leggesi nel Tomo 6. della Nuova Raccolta d’opuscoli scientifici, ecc. del P. Calogerà. Vuolsi da alcuni, che l’eminentissimo Flangini di ancor viva memoria abbia stampata in Roma una traduzione completa di Petronio, verso l’anno 1775, e che tutte le copie ne venissero poi ritirate per ordine superiore. Io non so darne altro ragguaglio, nè produrne alcuna prova.

La novella della Matrona di Efeso, che incontrasi oltre la metà delle Satire di Petronio, e che è una satira essa pure, scosse più frequentemente l’ingegno imitativo dei novellatori, o novellieri, che molti in ogni tempo e di bellissima dicitura fiorirono in Italia. Forse Petronio la copiò egli pure da Esopo, le cui parole sono dal signor Manni riportate appiedi della Novella 56. del Novellino, ossia cento Novelle antiche, la qual non è altro che questa stessa favola trasportata ai tempi di Federigo Imperadore, e dall’Autore abbellita coll’indurre la moglie a romper un dente di bocca al cadavere del marito, acciò meglio rassomigliasse al ladrone dalle forche rapito. La novella medesima fu in latino recata da Lorenzo Astemio di Macerata ne’ suoi libri Hecatomythum, ma ben lungi dalla eleganza di Petronio: dipoi trovasi nuovamente fatta volgare e colle grazie del parlar [p. xlv modifica]nostro abbellita nel libro delle Novelle Amorose degli Accademici Incogniti di Cremona per opera di Alessandro Campeggi nel seicento, poi dal dottissimo Eustachio Manfredi verso la metà del settecento, e finalmente ai dì nostri dal pulitissimo scrittor di Novelle e mio vecchio e vero amico il P. Cosimo Galeazzo Scotti Barnabita, che nella prima parte delle sue graziose Giornate del Brembo stampata in Cremona nel 1805 ne fa soggetto della sua seconda novella. Ad essa alluse eziandio Voltaire nel suo Zadig, che unitamente al Candido, e ad altri ingegnosi romanzi di tanto scrittore, può a buon diritto alla Satira di Petronio confrontarsi.

Il P. Bisso ristampando a Palermo nel 1755 la testè citata opera del P. Beverini, e rendendo toscanamente i bei modi di dire degli enunciativi Triumviri della latinità, può parimenti annoverarsi tra coloro che qualche cosa del Petronio hanno tra noi volgarizzato. Luigi Sanvitale nella prefazione del suo bel Saggio di Novelle ultimamente pubblicato in Parma coi tipi Bodoniani pretende altresì che dal Petronio abbia tratta il Boccaccio la sua Novella del Re di Cipri.

Di buon grado pertanto alla fatica di questa traduzione mi sono io indotto non solamente, per alleviamento dell’animo, e per esercitazione nelle due lingue, ma sì anche per compiere la serie de’ volgarizzamenti, la quale per la mancanza di questo nella sua totalità rimaneva interrotta. Nulla però oserò io dire di questa mia versione, salvo esser ella fedele e letterale sino allo scrupolo; imperocchè non sono io del parer di coloro, i quali dall’una all’altra lingua traslatando uno scrittor classico, si permettono di fargli dir cose o non dette o diversamente dette, ed altre aggiugnerne, ed altre sopprimerne, e in somma dargli una forma del tutto diversa, non si curando nè de’ costumi, nè delle cognizioni del secolo in cui visse l’autore, per farlo parere aver vissuto in quello del traduttore. Il qual metodo potendo [p. xlvi modifica]aver pure qualche vantaggio, come il mio ha qualche discapito, non altrimenti a mio giudizio potrebbe con lode adottarsi, che imitando Agnolo da Firenzuola, che nel suo volgarizzamento di Apuleio mise se medesimo in luogo del Protagonista, e le città e i costumi toscani in luogo de’ greci, ove ben gli parve, introdusse, mantenendo però tutto quello che era favola e testura di quell’aureo romanzo, sicchè di copia si fece testo, e giusti e larghissimi applausi potè riscuoterne.

Io non ho voluto escludere dalla mia versione i frammenti Nodoziani, benchè tanto dubbio tuttavia rimanga della loro autenticità. Essi certamente riempiono molte lacune dell’antico testo, legano le parti, che giacean separate, conciliano i fatti, e la serie della favola ne rimane passabilmente bene ordinata.

Forse l’opera di Petronio era in origine divisa in libri. Il Burmanno, ed altri prima di lui si avvisarono di dividerla in capitoli, ma con tanta abbondanza, e con sì poca necessità, che ben vi si vede la minutezza gramaticale. Io ho creduto di allontanarmene, e giacchè nessun Codice ha indicata la division primitiva de’ libri ho prescelto di separar l’opera in tanti capitoli, quanti la natural serie e giacitura delle cose mi è sembrato esigerne, e ne ho con breve cenno indicato il contenuto.

Finalmente sebben mi sembrasse che la chiarezza della mia traduzione escludesse ogni bisogno di commenti e di annotazioni, e che fosse un bel contrapposto alle tre mila pagine in quarto stampate dal Burmanno in carattere minutissimo, un testo semplice e non interrotto da interpretazioni e da glosse, e in pochi fogli ristretto, tuttavia per non parer nemico del tutto di que’ schiarimenti che alcuno potesse desiderare, e per non essere tacciato di pigrezza, o di austero contegno, ho sparso qua e là alcune noterelle, anche a fine di far conoscere o le applicazioni dell’autore a qualche passo di alcuno scrittor più antico, o l’uniformità de’ costumi [p. xlvii modifica]dal Petronio dipinti con quelli descritti dai contemporanei, o la ragione di aver io interpretato più tosto in un senso, che in un altro, o finalmente quelle persone e cose di passaggio menzionate nel testo con qualche allusione.

Quanto alle varie lezioni, io seguo il sistema dell’ingegnosissimo Vincenzo Monti col non riportarle. Forse nessun antico è stato letto e ricopiato sì discordemente come il mio. Nè dirò d’essermi servito di moltissime edizioni, ma di quelle soltanto di Bourdelot del 1577, del Frellonio del 1618, di Nodot del 1709, e del Burmanno del 1743. Quanto al poemetto sulla Guerra Civile ho assai consultato il testo del Presidente Bouhier, al quale per altro non sempre mi son conformato.

Forse questa mia fatica ecciterà alcun altro a renderla migliore. A me basta di averla il primo affrontata in Italia, e di ottenerne alcun plauso dagli intelligenti.



Note

  1. Hist. Natur. lib. 37, cap. 2
  2. Loc. cit.
  3. Nella prefazione alla ricchissima sua edizione di Petronio