Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo XXIV

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Capitolo XXIV.
Costumi e vita domestica

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CAPO XXIV.


Costumi, e vita domestica.



Sono i costumi il più potente aiuto della legge. Per essi l’azione del governo si fa più facile, più universale, più spedita, più mite. E con tutta ragione gli antichi institutori di civiltà, che penetrarono sì addentro nella natura umana, ne fecero dovunque il principal sussidio della cultura morale, considerando quanto in ciascun popolo i suoi costumi sieno più valevoli delle leggi stesse. Quivi in Italia da per tutto vedemmo religione e leggi accordarsi mirabilmente con le pratiche usuali di una vita fattasi già mansueta e ferma: proteggere con grandissima forza e sostenere le consuetudini tutte del primitivo stato: indirizzare a bene gli abiti della frugalità e della temperanza: volgere infine a uno scopo di costumatezza pubblica, o di comune utilità, qualunque fogge e maniere paesane: sì che potesse venirne alla nazione intera sofferenza nelle fatiche, domestica quiete, l’amore della patria, del giusto, e ogni altro vantaggio del vivere moderato. E ne fu tanto efficace, e tanto universale l’effetto, che in ogni età Sabini, Sanniti, Equi, Lucani, e più generalmente tutti i popoli delle montagne, serbarono quasi che inviolata ne’ loro propri focolari la prisca virtù. Così durante i secoli della romana depravazione de’ costumi potevasi ancora mirare intatta la fruga[p. 201 modifica]lità rusticale de’ Marsi, e la rozza e schietta semplicità sabina. Le donne loro, sì giustamente vantate per la santità de’ coniugali e materni costumi, menavano una vita sobria ed esemplare, tutta intenta a opre villesche, ed a cure famigliari1: filare e tessere panni lani non si disdiceva neppure alle femmine di grande stato2. Già ne’ tempi vetusti o per consuetudine, o per legge, era stato vietato alle donne l’uso del vino3. La naturale temperanza degl’Itali, i cui figliuoli erano assuefatti a non bere altro che acqua, ed a contentarsi di poche pere e noci4, si riconosceva ognora nelle parche cene sabelle5: nè diversa era in prima la sobrietà delle mense ospitali convenienti a rozza onestà, ed a benigno costume. Quanto fossero i corpi duri e sofferenti lo manifesta l’uso de’ padri nostri di portare i figli pargoletti a’ fiumi, indurando con l’acqua fredda e col gelo le loro membra: d’addestrarli [p. 202 modifica]poscia nella fanciullezza per le selve in tutte l’arti di cacciare, saettare e cavalcare: nell’età giovanile finalmente nutrirli intra l’aratro e l’armi6. Naturali in loro cotali abiti d’aspra vita campestre e guerriera, comprende ognuno perchè adulti andavano i lavoratori all’opre sempre armati7: e in qual modo, sotto i paterni tetti, si formassero fra di noi uomini gagliardi, di fiera virtù forniti, figli in somma generosi della repubblica e buoni soldati.

Tal era il costume più generale de’ popoli delle montagne, quasi come impresso e stampato in loro dalla natura fisica. Assai diverso erasi quello degli abitatori di luoghi più domestici, e delle piagge poste alle marine. — Singolare, se non unico destino del bel paese ch’Appennin parte, il riunire in non molto spazio tanti costumi, dialetti, e fisionomie di popolo tra se notabilmente distinti. — Nelle pianure uniformi dell’Italia superiore e della Puglia tu trovi maggiore uguaglianza di carattere e di costume: in Toscana l’indole grave dell’antica famiglia etrusca: la rozza Sabina, l’inculto Sannio, nel centrale Appennino: il Ligure povero e misero come i suoi antenati, perchè il suolo ingrato può appena sostentarlo. Le forme stesse di queste razze appaiono molto diverse: gli occhi espressivi, i lineamenti fieri e fortemente pronunziati del calabrese o del sannite montanaro, non sono [p. 203 modifica]quelli dell’etrusco civile, nè del campano molle: e in tutto, se bene avvisiamo, si riconosce lo stesso potentissimo influsso sì della natura fisica, come del governo civile. Di qui è che i costumi degli Etruschi, posti a buon’ora in commercio con popoli stranieri d’oltremare, si mostrano non solo più trattabili e umani, che non quelli dei Sabelli, ma in moltissime fogge della vita ora più, ora meno conformi alle usanze di fuori. Benchè, a dir vero, questi costumi etruschi, che andiamo qui considerando insieme, s’introducessero nel popolo in età differenti, e non tutti ugualmente bene si convenghino al primo periodo della gente. Antichissimo nondimeno era per esso loro il costume ospitale d’ammettere ai casalinghi conviti i forestieri, e festevolmente trattarli8: di che poscia eglino facevano anzi pompa, che un sacro dovere. Più propria di loro è l’usanza di dar posto nel convito alle femmine tenendole sedute in sul medesimo letto trinclinario insieme cogli uomini9: costume specialissimo, che senz’altro dimostra quanto la civiltà etrusca s’allontanasse dalle maniere orientali e greche in questo particolare importante della vita domestica. Erano le cene degli Etruschi abbondanti: imbandite due volte al giorno: vi spiccavano lo sfarzo delle vesti cenatorie, il numero dei servi, la copia degli ar[p. 204 modifica]genti10; lo che non disdice alle molte dovizie loro. Ma di troppo e la gola, e la lussuria, e l’intemperanza dei Toschi, chiamati pingui per frizzante concetto11, furono esagerate dagli scrittori: e non senza malignità Timeo ad infamare i Sibariti diceva, ch’ei si davano vanto d’imitare a casa nel vivere voluttuoso i Tirreni e gli Ionj; superando così in ogni genere di delizia non solo tutti i Greci insieme, ma tutti i Barbari12. Pure Virgilio, quasi con voce d’istorico, conferma la divolgata fama delle inveterate licenze toscane13. Perchè di vero eccessivo nella maggior fortuna era stato il lusso, e il viver lauto della gente etrusca, sì nella città, che in campo sotto l’arme14. La qual cosa è tanto maggiormente notabile, quanto che nella medesima età, ed a fronte di coteste mollezze nostrali, altri popoli indurati dormivano sul [p. 205 modifica]saccone15, e provvedevano al parco cibo con sole civaie.

Per costumi sì tanto trascorrenti nelle voluttà vuolsi che le femmine in Etruria, belle di forma, non vi fossero troppo caste16. Che per un’antica rispettosa religione di famiglia elle vi godessero di prerogative onorevoli, e di matronale rispetto, non può nè meno dubitarsi. Il nome materno, che per vetusta usanza si trova costantemente espresso nella nomenclatura de’ figli17; uso anche degli Egizj18; mostra questa deferenza del costume al sesso donnesco. Una specie di berretta in forma di cono, o sia il tutulo, s’usava dalle sole matrone quale acconciatura del capo dignitosa; e con lo stesso tutulo italico d’antica foggia veggiamo pure adorne le immagini di certe deità femminili19. [p. 206 modifica]

Consisteva dapprima il vestiario muliebre in una stretta e lunga tunica prolungata sino ai calcagni, con manto alle volte sovrapposto, e con calzari a punta rilevata20: indi, per crescente lusso, si veggono usate più leggiadre forme di tuniche, vistose palle, zone, e calceamenti impudichi. Innumerabili sopra tutto sono le suppellettili di oro di fino lavoro, monili, diademi, armille, orecchini, fibule, anelli, e mille altre pompose bagattelle, che tuttodì si rinvengono entro i sepolcri delle donne, quali sono figurate per adornamento nelle loro immagini stesse21. Costumavano gl’Itali primi lunga chioma e barba non rasa, siccome veggonsi effigiati in antichissime sculture d’Etruria e de’ Volsci22: tanto per fratellanza si trovano le usanze loro esser conformi. Non altramente Virgilio, il quale ritrasse i costumi con la fedeltà d’un istorico, e con la vaghezza d’un poeta, rappresenta il toscano Mezenzio con barba lunga e distesa23. Per uguale usanza sono chiamati intonsi da Tibullo e da Orazio i Romani antichi. Nè forse prima del quinto secolo s’introdusse generalmente in Italia l’arte di [p. 207 modifica]radersi24. D’allora in poi nell’Etruria i molli ed effeminanti si lisciavano diligentemente i volti con la pece; per lo che v’erano officine di destri artefici, come di barbieri in Grecia25. Il vestiario rusticano consisteva in una succinta e rozza veste con cappuccio di color verdastro, di che in Roma stessa s’onoravano e Fabricj e Curj26: l’urbano si componeva di tunica e di pallio: tanto che civilmente in toga s’andava al tempio, si sacrificava, s’entrava nella curia, si compariva agli spettacoli e dovunque. La toga pretesta listata di porpora fu per certo un antico vestimento toscano di nobil condizione, introdottosi per tempo nel costume dei Romani27: i quali tolsero anche dall’Etruria e la bolla d’oro, fregio de’ fanciulli bennati28, e molte altre cose onorevoli d’uso privato e pubblico29. Una specie di sopravveste o di manto vergato agli orli di be’ colori30 spettava ugualmente [p. 208 modifica]al vestiario etrusco degl’ingenui: dove elle talune figurine, che porgiamo sotto gli occhi del lettore, danno la forma delle povere vesti dei lavoratori, artigiani, ed altri volgari, che per essere più spediti o cingevano una fascia stretta in su i fianchi, o un giubbone serrato alla vita fino a mezza coscia31. La dignità de’ grandi cittadini spiccava bensì nelle vesti intessute d’oro, e nella toga ricamata o dipinta di forma semicircolare: diversa in questo, come nota Dionisio, dalla foggia de’ Lidj, che usavano toga quadrata32. Ed a maggiore dimostrazione o dell’ufficio, o della preminenza della schiatta, cotesti grandi usavano anche l’andare in cocchio o in lettiga, accompagnati da clienti e da servi pronti a ogni bisogno. Fregio loro speciale erano i sandali detti tirreni33: nobile calzamento di color rosseggiante, e di suolo molto alto, con cintoli d’oro: lo stesso che s’appropriarono i senatori in Roma34; e di cui Fidia non seppe rinvenire il più degno per adornarne la sua famosa Minerva35. [p. 209 modifica]

Vivevano i nostri antichi, come replicatamente facemmo conoscere nell’altro volume, per casali, borghi, villaggi e terre grosse: costume affatto confacente alla vita rustica e campestre. Quei che abitavano in terre murate, e vere città munite, o sia il popolo dei primitivi cittadini, vi menavano vita d’uomini nobili e d’agiati. Le città non erano grandi: per parlare di quelle dell’Etruria soltanto, Fiesole, Roselle, Populonia e Cossa, di cui sussistono in buona parte le antiche mura, hanno alquanto meno di due miglia in circuito: Volterra quattro miglia, o circa36. Vejo, maggiore di tutte, avrebbe avuto intorno a sei miglia di giro, se crediamo a Dionisio37. Situate in luoghi montuosi e forti erano le città di natura loro irregolari e scoscese nell’interno: le strade strette, tortuose e disagevoli, come apparisce ancora in Cortona posta entro il suo primo cerchio: e salvo i tempj, all’uso toscanico non molto grandi, il Foro, la Curia, le terme ed altri pubblici edifizj, non dobbiamo figurarci ch’elle avessero, quanto è al materiale, un aspetto bello, nè ornamenti molti. Le case tuttavia dovevano esservi comode e bene distribuite: poichè in oltre agli appartamenti degli uomini e delle donne, i giovani ed anche i servi, occupavano quartieri separati [p. 210 modifica]e distinti, e tutti ugualmente acconci38; però non sapremmo dire se le case de’ maggiori cittadini avessero tutte a un modo cortili39 e portici40, di che ebbero lode d’inventori gli architetti d’Adria. In Tuscolo bensì le case de’ privati vi compariscono piccole e semplici: ogni altro edifizio di costruzione soda, anzichè bella: nè certo queste città latine, o de’ Volsci, o del Sannio, dove si mirava solo all’utilità del comune, potevano avere l’aspetto vago e le ornate fabbriche d’una Pompeja, laddove la civiltà greca e romana avevano da lungo tempo introdotto gli usi ed i costumi d’una vita delicata.

Per tutta Italia i giuochi e gli spettacoli pubblici, espressione de’ costumi nazionali, vi furono istituiti come atti solenni di religione. Ma più che altrove in Etruria41, dove maggiormente tendevasi ad esaltare il culto divino mediante ufficj graditi, v’erano celebrati con grande splendidezza di pompa. I giuochi del Circo, maggiori di tutti, facevano essi stessi parte delle feste religiose42: vi si portavano con pomposa mostra le immagini divine riccamente abbigliate, e v’avean luogo in onore di quelle ludi principali. Tarquinio il vecchio introdusse bene avvedutamente questi medesimi giuochi circensi annuali [p. 211 modifica]dall’Etruria in Roma: di colà vennero i cavalli per la corsa ed i pugili43. Ciascuna città onorava del pari i suoi iddii grandi e proiettori con siffatti giuochi ginnici insieme ed equestri: li praticavano con uguale apparato Vejenti44 e Ceriti45; nè solamente la corsa delle quadrighe e il pugilato, dati da Tarquinio in ispettacolo a’ suoi, ma mostrano di più le pitture stesse dei sepolcri di Tarquinia e di Chiusi, non ha guari tempo discoperte, che vi si costumavano altresì gli esercizi tutti della ginnastica nobilitata 46. Questi giuochi, primi principj dell’arte militare, e semi di valore, non erano solo de’ Greci: gli usavano Egizj, ne’ cui monumenti più antichi si veggono figurate consimili scene di ludi ginnastici, e similmente vi davan opera altri popoli civili, qual proprio istituto della giovanile educazione, perchè in afforzando il corpo conducevano pure al massimo incremento della forza morale. Per costume etrusco, dice Eratostene47, solean trattarsi quelle pugne al suono di tibie o di flauti. Lo confermano le mentovate pitture, ed altri monumenti, in cui tutte volte intervengono come ministri delle feste i subuli o trombettieri48: [p. 212 modifica]così pure coll’armonia de’ flauti s’accompagnavano certi ludi scenici senza parole, usitati in Etruria per uopo di religione49: foggia d’azioni mimiche rappresentate con gran cerimonia dagl’istrioni; che tal era il nome etrusco degli attori50. Erano costoro persone servili al pari de’ giocolatori, saltatori, acrobati, che spesso ritroviamo effigiati in monumenti nostrali giocolando in sulle corde tese, o in terra51: all’opposto l’educazione degli atleti, uomini ingenui, era tutta liberale; e col solo fine d’onorare degnamente negli estinti la virtù de’ prodi, solevano i funerali dei benvoluti compiersi spesso con tali giuochi ginnastici e belle valentìe. Così fatto costume ne dà ragione senz’altro del motivo per cui, sì nelle pitture di sepolcri, come in quelle di moltissimi vasi ivi entro riposti, si veggono rappresentati tutti gli esercizi della nobil arte ginnastica; premi non pure di virtù a’ generosi e valenti in questa vita, ma simbolo ancora di quelli che s’addicevano loro nella futura: sicchè per cotesti simboli stessi miravano i parenti e gli amici a rimunerare nell’ultim’ora del loro buon volere i mani de’ lagrimati congiunti. Tal era infatti, e non altro, lo scopo pietoso per cui ebbero principio i giuochi degli atleti: instituzione divina di Bacco stesso primigenio o Zagreo, il dio infernale52. Ben dunque [p. 213 modifica]questo sacro antichissimo costume de’ ludi atletici ne’ riti funerei dava compimento intero a’ misteri, il cui primitivo concetto s’era perduto, o mutato affatto in processo di tempo: ond’è che per total degenerazione dei costume antico indi nacquero tra dì noi le mortali zuffe dei gladiatori. Si vuole ch’elle prendessero origine, e principio nella Campania tra Etruschi e Sanniti53: dove in fatti l’arte, non che l’uso de’ combattimenti gladiatorj, vi si coltivava in ogni età con passione sfrenata54. Capua era la grande scuola degli accoltellanti: per rispetto di religione Diana, dea tutelare del luogo, v’avea la presidenza de’ loro giuochi55: e di colà s’introdussero in Roma intorno la fine del quinto secolo56; poscia per tutta Italia. Di tal modo che per inclinazione d’animi forti e guerrieri questi ludi stessi dell’anfiteatro, che Cicerone chiama eccitatori del coraggio57, vi divennero alfine quasi in ogni città lieto e universale spettacolo. Forse anco i Volsci non molto s’iscostavano dal costume antico degli Etruschi: poichè usavano con pari studio [p. 214 modifica]in casa loro pubbliche corse di giovani armati e di cocchi58.

Uno de’ grandi principj d’umanità, e insieme uno de’ costumi più potenti, e più generalmente rispettati, si era la religione de’ sepolcri, che per riti sacri, e per misteri, perpetuava la memoria de’ padri e la pietà nelle famiglie. Questa pietosa sollecita cura che prestava ciascuno alle spoglie mortali de’ suoi, predestinate a viva immortalità occupava l’animo dell’uomo tanto più fortemente, quanto egli era più ubbidiente e arrendevole a religione. La considerazione del suo bel passaggio era il massimo pensiero del vivente in questa vita terrena. Da ciò quel grande studio che poneva ogni uno a preparare sua sedia: dimora eterna di giustizia e di verità, dicono gli Egizj59. Non havvi parte dell’antico suolo dell’Etruria dove non si rinvenghino in grandissimo numero sepolcri; ma questi stessi monumenti ora semplici, ora sontuosi, e soprattutto variatissimi in fra loro di qualità, di materia, di forma, danno principalmente al filosofo una netta idea, così della grande inegualianza delle fortune, come del progresso dell’arti paesane. Sono dessi per lo più scavati in fila nelle rupi, e sempre al di fuori dell’abitato: una o più stanze fatte a volta ora piana, ora a botte, formano l’oscuro e cavo sepolcro: tavolta nudi affatto [p. 215 modifica]d’ogni ornamento, talvolta fregiati non senza molta cura all’esterno di prospetti architettonici, e nell’interno di sculture o di pitture allegoriche distese in sulle pareti; e tali in somma che per artificio mollo rassomigliano ai sepolcri egizj60. Altri ipogei di più regolare architettura sono edificati di grandi pietre spianate e pulite all’esterno come il bel monumento, detto di S. Manno, nel perugino61, ed altri di minor mole62: benchè superiore a tutti e in grandezza e in fabbricazione siasi la nobil tomba di Vulci, per l’innanzi ricordata63. La maniera più volgare però della sepoltura consisteva nel porre i corpi morti sotterra circondandoli di lastre di pietra, o di grandi tegoli, sui quali iscrivevasi con un ferro il nome del defunto. Ed ivi entro a tutti questi avelli, conforme al sacro rito funereo, racchiudevano i congiunti, secondo facoltà, tutto ciò che di più caro, o di più pregiato, servir poteva ad onorare l’estinto al momento di staccarsi da quello, e dargli un eterno a dio64. Se pure talune suppellettili di casa non si collocavano ancora nel monumento pel solo amoroso pensiero, che ciò era stato più adoprato, o più prezzato in vita, doveva aversi seco nella morte. L’uso più antico era di sep[p. 216 modifica]pellire il corpo: indi si introdusse il rito più onorifico d’abbruciarlo, e custodirne le ceneri in urne o vasi di mille fogge: sopra d’ogni recipiente segnavasi con brevi epigrafi il prenome e cognome del defunto, e gli anni che visse65. Il rito della combustione avevasi per più gradito al dio infernale, perchè instituito da Bacco istesso66. Pure alle volte in una stessa sepoltura comune gentilizia si poneva senza distinzione, benchè con riverenza pari di sacrifizio, tanto il corpo, quanto il cenere di coloro che partecipavano al culto privato della famiglia: consuetudine o statuto di religione che si ritrova ugualmente prescritto nella legge romana dei funerali67. Molto più notabile, atteso la singolarità del costume, è il rito egizio che si vede adoprato in talune sepolture degli Etruschi: sia che ciò fosse una speciale religione della casa, o piuttosto, come par probabile assai, una strania e molto accetta superstizione rinnovatasi in secoli non troppo antichi68.

Quale e quanto si fosse nell’universale il dovuto ufficio con cui s’assistevano per religione i moribondi nell’ultim’ora, e quanto solenne la funebre pompa colla quale s’accompagnava alla sepoltura il defunto di nobile stato, e là si deponeva con preghi, donativi, e riti sacri all’ombre, l’appalesano a tutti con signi[p. 217 modifica]ficanti immagini i nostri monumenti funerei. Qui tu vedi giacente in letto una matrona languente: i parenti e un fanciullo le sono allato in atteggiamento di cordoglio; altri uomini attorno e donne famigliari danno segni di mestizia dolorosa e di lutto al flebile suono de’ flauti: tre assistenti in fine, che possono credersi sacerdoti, tendono nella destra bastone augurale, simbolo di benigna propiziazione69. Altrove un mesto figlio compie l’ultimo misericordioso rito inverso il vecchio padre, chiudendo i di lui occhi in quell’estremo punto de’ moribondi70. Per altri monumenti veggiamo il trasporto del defunto alla sepoltura disteso sopra d’un feretro, o carro funebre, accompagnatovi da’ suoi parenti e dagli amici, e convolato insieme dalle prefiche, donne prezzolale, che in lode dell’estinto vi cantavano al suono de’ flauti il lugubre canto delle nenie71: costume antico introdottosi anche nel funereo cerimoniale romano 72. Secondo la fortuna o il grado dell’estinto si abbigliava il corpo morto di ricche vesti: si decorava e s’abbelliva alla volta di nobili arredi, e di suppellettili d’oro, d’argento, o d’ambra acconciamente lavorate ad uso dei mortori73: e tale [p. 218 modifica]quale ponevasi colle necessarie formalità il defunto nella sepoltura suffragato con preci, offerte, libamenti, odoriferi profumi, e ogni altro miglior rimedio che si addiceva al sito dei mani. Tra i suffragj dell’anima occorreva spesso anche il convito funebre74, qual simbolo sensuale de’ godimenti riserbati nell’altra vita: e tutto ciò che avea servito alla mensa consacrata, piattelli, vasi, coppe, anfore, fiale, tazze da bere, pare si lasciasse per religione nella tomba allato del morto, a giudicarne almeno dalla quantità di tali stoviglie dì terra dipinte o non dipinte, nobili e volgari, che tuttodì si ritrovano abbondantissime per entro i sepolcri. Grande era la cura e il pensiero di custodirli inviolati sotterra: il tremendo dio infernale vi si mostrava come guardiano del luogo sotto forme mostruose e terribili75: nè v’appariva meno, a talento di chi ordinava il sepolcro, qualunque altro simbolo figurato che per valido riparo avesse convenienza alcuna con la terribile Nemesi. Tutti grandi spauracchi al malvagio violatore con i quali studiava ciascuno salvare sue reliquie da empia profanazione76. Se l’istoria d’un popolo tuttavolta si debbe ricercare, come insegna Tucidide, anco ne’ suoi sepolcri, si vuol qui ricogliere che a malgrado di tante solennità nell’esequie non si [p. 219 modifica]scorge mai che gli Etruschi, seria e malinconica nazione sì per temperamento, sì per forza d’educazione, mostrino apparentemente per alcuna iscrizione sepolcrale sensibilità di dolore, nè tampoco nessuna di quelle tenere espressioni di rammarico, che fan sacro il cordoglio: formule lamentabili sì tanto comuni nelle leggende mortuali greche e romane. Così pure nelle coppe, o in altri vasi per uso di bere, quelle gentili maniere greche di acclamazione e di saluto, che si rinvengono frequenti sopra i vasellami dipinti77, non si sono mai vedute fin ora in monumenti propri degli Etruschi.

La stessa religione del sepolcro si ritrova con pari ossequio verso i mani, e con pari osservanze coltivata per tutta Italia. Ciascun popolo si conformava in questo al costume universale: nel resto aveva per lo più usanze, maniere, e consuetudini sue proprie. Tal era quel giudizio di dio, o altrimenti quello appresso gli Umbri, in vigor del quale i duellanti, combattendo armati come in guerra, stimavano aver buona ragione colui, che di sua mano uccideva l’avversario78: costume fiero che dimostra quanto durasse tra di loro gran tempo il barbarico dritto della forza. Più specialmente gli Etruschi, che guardavano in ogni cosa [p. 220 modifica]alle formalità, costumavano in casa fare impastare il pane, e battere i loro schiavi con misurati colpi a tempo di flauto79. Uso italico delle donne era il salutare i parenti abbracciandoli80. Ma chi potrebbe dire quali si fossero in generale quei singolari modi ed abiti degli Etruschi, che fecero sentenziare a Dionisio81 non esser dessi somiglianti a nessun altro nel costume? Tutto riferiva quel popolo a religione. Or certe formule costanti, e certe voci etrusche d’ignoto significato, come Phleres, Tece, Turce, Clen, Tinmcuil, Muthina e simili82, che spesso ripetute si leggono in statue votive, e in molti belli arnesi, mostrano esse stesse con evidenza la singolarità, e specialità di tenace costume nazionale sia sacro, sia civile. Perciocchè tali voci si risolvono tutte in quelle formule colle quali si accompagnavano i sacrifizi, i voti, le offerte, gli alti in somma più meritorj della religione. Addurremo altri esempi nel capitolo seguente traiti dalle arti del disegno. Nè per certo v’ha luogo di maravigliarsi se usanze e fogge di vita sì fattamente nostrali appaiono di tanto radicale nel costume popolare, anco per monumenti dell’età meno antica.

Note

  1. Horat. epod. od. ii. 41.; Ovid. de medic. faciei. ii. sqq.; Juvenal. vi. 163.; Martial. i. ep. 63.
  2. Ovid. l. c.; Juvenal. vi. 286-290. La rocca e il fuso di Tanaquilla , tosca d’origine, e moglie di Tarquinio prisco, si mostravano nel tempio di Sanco. Varro ap. Plin. viii. 48.
  3. Alcim. Sicul. ap. Athen. x. ii. p. 441. Secondo la mitologia, Fatua, moglie di Fauno, era stata battuta a morte per aver bevuto vino: manifesta allegoria del costume più antico. Lactant. Inst. i. 22.
  4. Naev. in fab. Ariolo ap. Macrob. Sat. ii. 4.; Posidon. Hist. ap. Athen. vi. 26.
  5. Mensa Sabella. Juvenal. iii. 169.; Fest. v. Scensa o Scesna; voce de’ Sabini per coena.
  6. Virgil. ix. 603-613.; Cato in Orig. et Varro in gente pop. rom. ap. Serv. ad h. l.; conf. Justin. xxii. 1.
  7. Armati terram exercent, dice Virgilio degli Equi, vii, 748.
  8. Heraclid. Pont. p. 213.
  9. Aristot. ap. Athen. i. 19.; Heracl. l. c. Vedi i monumenti tav. xli. 10., lviii. 1., cvii.
  10. Posidon. ap. Athen. iv. 12.; Diodor. v. 40.
  11. Obesus Etruscus. Catull. 37. 2.; Pinguis Tyrrhenus. Virgil. Georg. ii. 193.
  12. Diodor. viii. fragm. p. 33. ed. Bipont.; Athen. xii. 3. ex Timaeo.
  13. At non in Venerem segnes, nocturnaque bella,
    Aut, ubi curva choros indixit tibia Bacchi,
    Exspectare dapes, et plenae pocula mensae.

    Virgil. xi. 735. conf. Theopomp. ap. Athen. xii. 3.

  14. Ἀβροδίαιτον γὰρ δὴ καὶ πολυτελὲς τὸ τῶν Τυῤῥηνῶν ἔθνος ἦν, οἴκοι τε καὶ ἐπὶ στρατοπέδου, ὑπεραγάμενον ἔξω τῶν ἀναγκαίων πλούτου τε καὶ τὲχνης ἔργα παντοῖα πρὸς ἡδονὰς μεμηχανημένα καὶ τρυφάς. Dionys. ix. 16.
  15. Antiquis enim torus e stramento erat. Plin. viii. 48., xix. i.
  16. Καὶ τὰς ὄψεις πὰνυ καλὰς. Theopomp. ap. Athen. xii. 3. Che non fossero in concetto di pudiche lo dice Orazio. iii. od x. 11.

    Non te Penelopen difficilem procis
    Tyrrhenus genuit parens.

    Ma più aspramente Plauto. Cistell. 2. 3. 20.

    ...non enim hic, ubi ex Tusco modo
    Tute tibi indigne dotem quaeras corpore.

  17. Nelle iscrizioni mortuali si vede sempre dichiarata la filiazione materna.
  18. Champollion, Précis da syst. hiérogl. p. 109 sqq.
  19. Adornamento frequentissimo in statuette muliebri etrusche: tale quali si vede in capo a molte deità. V. tav. xxix. 1-4., xxxii. 2, xxxiii. xxxix. 3. 4. Usato ancora dalle donne romane. Varro l. l. vi. 3.
  20. Calceolos repandos.: com’era calzata la Giunone di Lanuvio, così veggonsi molte statuette etrusche di stile antico. Vedi tav. xxix. xxxii. 2., xxxiii. xxxv. 12., xxxvii. 1.
  21. Vedi tav. xlvi. lx. cv. cvii.
  22. Vedi tav. li. Ed i bassi rilievi volsci tav. i.
  23. Propexam barbam. x. 838. Tito Tazio Sabino, Romolo e Numa, hanno ugualmente lunga barba ne’ loro ritratti ideali. Visconti, Iconogr. rom. 1. 2. 3.
  24. An. 454, cui P. Ticinio Mena condusse dalla Sicilia barbieri in Roma. Varro ap. Plin. vii. 59.; Gell. iii. 4.
  25. Theopomp. ap. Athen. xii. 3. p. 518.; Aelian. de nat. anim. xiii. 27.
  26. Contentus illic veneto duroque cucullo. Juvenal. iii. 170. Sagis cucullis era il consueto vestimento del contado, adoperato anche dai viandanti. Columell. r. r. i. 8., xi. 1.; Capitol. Vero. 4.
  27. Pretextae apud Etruscos originem invenere. Plin. viii. 48., ix. 39.; Flor. i. 6.; Macrob. Sat. i. 6.
  28. Hetruscum aurum. Juvenal. v. 164.; Plin. xxxiii. 1. Vedi tav. xliii. xliv. 1., xlvi. 11.
  29. Flor. i. 5.
  30. Vedi tav. lxx.
  31. Vedi tav. xxxvii. 8-11.
  32. Dionys. iii. 61. Bene Virgilio descrive la veste di Lauso, , quale si conveniva a giovane di nobile stato: Et tunicam, molli mater quam neverat auro. x. 818. Così nelle sculture delle urne i vestimenti si veggono spesso dipinti e screziati di più colori con fregi indorati.
  33. Τυρρηνικὰ σανδάλια: Polluc. ex Gratino vii. 86. 92. 93.; Clem. Alex. Paedagogus. T. ii. p. 11.; Hesych. s. v.
  34. Lepidus in libro de sacerdotibus ap. Lyd. de Magistr. p. rom. p. 37.; Virgil. viii. 458.; Serv. ad h. l.
  35. Polluc. l. c.
  36. Vedi la pianta di Volterra antica e moderna tav. i.
  37. Dionys. ii. 54. Vedi Tom. i. p. 142. n. 133. E per maggiore illustrazione la pianta topografica di Veij misurata e descritta dal sig. W. Gell. Mem. dell’Inst. di archeolog. tav. i. p. 3 sqq.
  38. Diodor. v. 40
  39. Vitruv. vi. 3.
  40. Diodor. l. c. et al.
  41. Tertull. de Spect. 5.
  42. Varro ap. August. de civ. Dei. vi. 6.
  43. Ludicrum fiat, equi, pugilesque ex Etruria maxime acciti. Liv. i. 35.
  44. Plin. viii. 42.; Fest. v. Ratumena.; Plutarch. Poblic.
  45. Herodot. i. 167.
  46. Vedi tav. lxviii. lxx.
  47. Libro primo Olympionic. ap. Athen. iv. 13. p. 154.
  48. Vedi tav. liv. 2., lviii. 2., lxvii. lxviii. lxx.
  49. Liv. vii. 2.; Valer. Max. ii. 4. 4.
  50. Quia hister tusco verbo Indio vocabatur, nomen histrionibus inditum. Liv. l. c.
  51. Vedi i monum. dell’Italia ec. tav. 56.
  52. Nonn. Dionys. xxxvii. v. 104 sqq.
  53. Nic. Damasc. ap. Athen. iv. 13. Vedi Tom. i. pag. 286. 287.
  54. Tacit. xiv. 17. Esistono ancora le rovine del magnifico anfiteatro di Capua, di quello di Pompeja e di Pozzuoli. Il noto sepolcro di Scauro in Pompeja rappresenta come veri ludi funerali quei combattimenti stessi di gladiatori.
  55. Tertull. de Spectac.
  56. An. 490: con siffatti giuochi Decio e Giunio Bruto intesero a onorare la memoria del defunto padre. Liv. epit. xvi.; Valer. Max. ii. 4. 7.
  57. Tuscul. ii. 17.
  58. Vedi i Monum. tav. lxi.; Becchetti, Bassi rilievi volsci. tav. iii. iv.
  59. Così nelle loro stele, e nelle tavole o scene del giudizio in moltissimi papiri.
  60. Vedi tav. lxii-lxx.; Orioli, dei sepolcrali edifizi dell’Etruria media.
  61. Mus. Etr. t. iii. tav. 5.
  62. Vedi tav. lxxi. 3.
  63. Vedi tav. lxii. 1. Tom. i. p. 149.
  64. Aeternum vale.
  65. Vedi tav. lix. 5., lx. cv.
  66. Nonn. Dionys. xxxvii. v. 104 sqq.
  67. Cicer. de Leg. ii. 22.
  68. Vedi tav. xlvi. ci. 1-5., cxviii. 3.
  69. Vedi tav. lvi: e per confronto il cippo perugino già edito più volte. Mus. Etr. tav. 20. 21. 22. 23.
  70. Vedi tav. lix. 4.
  71. Vedi tav. lvii. 1. 2., xcvi. 1.
  72. Honoratorum virorum laudes.... etiam cantu ad tibicinem prosequuntor: cui nomien neniae. Cicer. de Leg. ii. 24.
  73. Vedi tav. xlv. 3., xlvi.
  74. Vedi tav. lxviii. 1., cvii.
  75. Vedi tav. cii. lix. 2. 3.
  76. Frequente era la violazione da per tutto: pochi sono i sepolcri della necropoli di Vulci che non si trovino frugati e derubati dai malandrini antichi.
  77. Χαῖρε σύ: Χαῖρε καὶ πίει: καλὸς ναιχὶ: σὺ χαῖρε καιριέντως: e simili. Vedi tav. lxxvi. 2., xcvii. 3.
  78. Ὀμβρικοὶ ὄταν πρὸς ἀλληλους ἒχωσιν ἀμφισβήτησιν, κατοπλισθέντες ὡς ἐν πολέμῳ μάχονται. καὶ δοκοῦσι δικαιότερα λέγειν, οἱ τοὺς ἐναντίους ἀποσφάξαντες. Nic. Damasc. ap. Stob. serm. xiii.
  79. Aristot. ap. Polluc. iv. 56.; ap. Plutarch. de cohibenda ira. T. ii. p. 460.; Alcimus ap. Athen. xii. 3.
  80. Plutarch. Quaest. Rom. 6.
  81. Dionys. i. 30.
  82. Voci replicate ne’ monumenti tav. xxxv. 9., xxxviii. 1., xl. 1., xlii. 4., xliii. xliv. Vedi Lanzi, Saggio T. ii. p. 477 sqq. Le interpretazioni allegate posuit, dedit, e simili, sono tutte congetturali.