Vite dei filosofi/Libro Nono/Vita di Pirrone
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CAPO XI.
Pirrone.
I. Pirrone eleate, secondo che narra anche Diocle, era figlio di Plistarco.
II. Al dire di Apollodoro, nelle Cronache, fu da prima pittore e udì, come, afferma Alessandro, nelle Successioni, Brisone di Stilpone, poscia accompagnò per tutto Anassarco, così che ebbe a conversare co’ ginnosofisti nell’India, e co’ magi.
III. Sembra che per questa ragione egli abbia sì valorosamente filosofato, introducendo quella specie d’impossibilità di comprendere e sospensione di giudizio, di cui parla Ascanio abderita; poichè nulla essere stimava nè bello, nè turpe, nè giusto, nè ingiusto; e parimente in ogni cosa nulla esistere di vero; ma tutto farsi dagli uomini a norma di legge o di costume; nè ciascuna essere piuttosto così, che così. Conseguente ne era anche la vita, nulla esso evitando, non abbadando a niente, affrontando tutto, carri, se vi s’abbatteva, precipizi e cani od altro di simile, non fidando per nulla ne’ sensi. Per altro, scrive Antigono caristio, ne lo preservavano i famigliari dai quali era seguito; ed Enesidemo afferma aver esso bensì filosofato colla dottrina del sospendere l’assenso, ma non avere per certo, senza preveggenza, fatto ogni cosa, se oltre i novant’anni campò.
IV. Del resto Antigono caristio, nel libro Intorno a Pirrone, racconta questo di lui: che da principio era oscuro, povero e pittore; che si conservano in Elide, nel Ginnasio, alcuni suoi portalampadi sufficientemente lavorati; che usciva a passeggiare e vivea solitario e rado mostravasi alla famiglia, che questo faceva per aver udito da un certo indiano rimproverare ad Anassarco, ch’esso nulla di buono avrebbe potuto insegnare, esso che coltivava l’aule dei re; che sempre in lui era un contegno, per modo che se taluno lo avesse lasciato anche mentre parlava, egli seguitava sino al fine il discorso: quantunque in giovinezza e’ fosse stato irrequieto. Spesso, narra, viaggiava senza dirlo prima a nessuno, girando a caso ove più gli piaceva. E una volta che Anassagora era caduto in un pantano, passò senza soccorrerlo; della qual cosa accagionandolo alcuni, Anassagora stesso lodò la sua indifferenza e mancanza d’affetto. — Sorpreso un giorno che parlava con sè medesimo, e richiestone del motivo rispose: Studio per esser buono. — Nelle dispute da nessuno era sprezzato, perchè il suo dire mirava all’esito ed alle proposte; perciò anche Nausifane fin quando era giovinetto fu preso di lui; e quindi era solito ripetere, che per la disposizione dell’animo si dovea essere di Pirrone, ma pe’ ragionamenti di sè proprio. E diceva che eziandio Epicuro, ammirando spesso il conversare di Pirrone, lo andava continuamente interrogando sopra sè stesso.
V. Fu egli dalla patria tanto onorato, che, e lo costituirono pontefice, e, in grazia sua, decretarono l’esenzione da’ tributi per tutti i filosofi; ma ed anche molti si posero ad imitarne la tranquilla indifferenza in ogni cosa. Ond’è che intorno ad esso si esprime in questo modo anche Timone, e nel Pitone e ne’ Silli.
Come e donde, o Pirrone, o vecchio, uscire
Dai servili hai potuto e vani dommi
Dei sofisti, sciogliendoti da’ nodi
D’ogni persuasione e d’ogni inganno?
Nè ti dai briga di scrutar qual sia
L’ellenic’aura; nè dove si trovi
Ciascuna cosa ed a qual uso. —
E di nuovo nelle Immagini:
Ciò, o Pirrone, d’udir brama il mio core.
Come, uomo già, tu facilmente adesso
Tranquillo viva, solo fra’ mortali
Imperando qual dio.
Gli Ateniesi, secondo che narra Diocle, onorarono Pirrone della cittadinanza per avere ucciso il trace Coti.
VI. Egli, al dire di Eratostene, nel trattato Della ricchezza e della povertà, visse con una sorella, che era levatrice, amorevolmente così, che, s’uopo era, portava esso stesso a vendere in piazza i polli e i porcelloni, e indifferentemente ripuliva le cose di casa, e con indifferenza, narrasi, lavava perfino la troja. Essendosi a motivo di alcun che incollerito per sua sorella — si chiamava Filista — a chi ne lo riprendeva rispose, che non in una feminetta stava la prova dell indifferenza. — Assalito una volta da un cane, se ne turbò; ma disse a chi il biasimava, com’era al tutto difficile spogliarsi l’uomo; e che si dovea combattere al possibile coll’opere contro le cose, se no, col discorso almeno. — Narrasi che per un’ulcere usò e rimedj putrefacienti e tagli e l’applicazione del fuoco, ma che neppure contrasse le ciglia. Questa sua disposizione ne fa conoscere anche Timone, ne’ suoi discorsi A Pitone. E l’ateniese Filone, ch’era amico suo, scrive, come particolarmente e’ facea ricordanza di Democrito, e poscia anche d’Omero, ammirandolo e del continuo ripetendo:
Qual delle frondi tal dell’uom la razza.
E che assomigliava gli uomini alle vespe, alle mosche e agli uccelli; e che citava questi versi ancora:
Or muori anche tu, amico; a che sospiri
Così? Morìa Patroclo ancor che tanto
Fosse di te migliore.
E quant’altri Omero ne dirige continuamente all’incostanza insieme e vacuità e fanciullaggine degli uomini. Anche Posidonio racconta intorno a lui qualche cosa di simile a questo: Spaventati dalla burrasca alcuni che navigavano seco, egli tranquillamente ne riconfortò lo spirito, facendo osservare nella nave un porcelletto che mangiava, e dicendo, che il sapiente doveva ridursi ad una sì fatta imperturbabilità. — Il solo Numenio afferma che avesse dommi proprii.
VII. Pirrone ebbe, fra gli altri, alcuni celebrali discepoli, dei quali fu Euriloco, cui si attribuisce questo difetto. Narrasi che una volta e’ si lasciò esasperare per modo, che preso lo spiedo colle carni, corse dietro al cuoco sino in piazza; e che, anche in Elide, essendo eccessivamente stancato ne’ ragionamenti da coloro che lo interrogavano, trattasi di dosso la veste, traversò nuotando l’Alfeo. Era poi nimicissimo a’ sofisti, come afferma Timone. — Filone in vece più sovente disputava. E però di esso pure dice così:
Separato dagli uomini, brïoso,
Parlante con sè stesso, non di gloria,
Non di quistioni brigasi Filone.
Oltre questi furono uditori di Pirrone, Ecateo abderita. Timone fliasio, l’autore dei Silli, intorno al quale diremo, ed anche Nausifane teo, di cui fu discepolo, secondo alcuni, Epicuro.
VIII. Tutti costoro Pirronisti, dal maestro, e Dubitativi ed Esaminatori, e anche Ritenuti e Investigatori, quasi dal domma, furono soprannomati. Filosofia investigatrice adunque ([testo greco]) dal cercare per tutto la verità; esaminatrice ([testo greco]) dal sempre osservare e non trovar mai; ritenuta ([testo greco]) da ciò che proviamo dopo la ricerca, dico il sospendimento del giudizio; dubitativa ([testo greco]) dal dubitare dei dommi e di sè. (Pirronisti poi da Pirrone). Teodosio però, ne’ Capitoli scettici, dice che la scettica non s’ha a nominare pirronica; poichè se ci è incomprensibile il moto della mente per una parte o per un’altra, non sarà visibile la disposizione di Pirrone, e non veggendola nè pirronisti potremo chiamarli. Oltre ciò, nè Pirrone aver primo rinvenuta la scettica, nè avere alcun domma; ma doversi chiamare pirronica per assomiglianza. — Di questa setta alcuni fanno Omero inventore; poichè sulle medesime cose, più di qualunque, in diversi luoghi, altimenti si esprime, e non dommatizza, secondo definizione, sugli asserti; e poichè anche le sentenze dei sette Savi sono scettiche, come il Nulla di troppo, e Alla malleveria sta presso il danno, la quale dimostra che al mallevare con persuasione e di buona fede tien dietro il danno. Ed eziandio Archiloco ed Euripide tennero dello scettico. Archiloco ne’ versi in che dice
O di Leptine figlio, o Glauco, tale
Nasce il pensier negli uomini, qual Giove
Ogni giorno a’ mortali lo trasmette.
Ed Euripide:
E perchè dunque i miseri mortali
Dicono di pensar? non dipendiamo
Da te, non facciam quel che vuoi che sia?
Sono anche scettici, secondo costoro, e Senofane e Zenone eleate e Democrito: Senofane in quelli ove dice:
Non seppe il certo nè saprà l’uom mai.
Zenone il molo distrugge dicendo: Ciò che si muove, nè si muove nel luogo dov’è, nè in quello in cui non è. Democrito esclude le qualità delle cose dicendo: Legge il freddo; legge il caldo; verità atomi e vuoto. E di nuovo: Vero non conosciamo; poichè la verità sta nel profondo. E Platone lascia la verità agli dei e ai figli degli dei, il probabile cerca col discorso. Ed Euripide dice:
Chi conobbe se il vivere è morire,
S’è morir ciò che l’uom vivere appella?
Ed anche Empedocle così:
Ciò comprendere gli uomini non ponno
Coll’occhio, coll’udito o colla mente.
E prima:
Ciò sol credendo in che ciascuno a caso
S’abbatte.
Ed Eraclito ancora: Non facciamo temerariamente congettura intorno alle cose grandi. Quindi Ippocrate in maniera incerta e umanamente si spiega; e prima Omero:
De’ mortali volubile la lingua,
I discorsi frequenti.
e
Largo il campo del dire e quinci e quindi.
Qual parola tu dici e tal l’ascolti,
parlando dell’eguaglianza, della forza e della controvertibilità dei ragionamenti. Però gli Scettici persistevano nel rovesciare i dommi di tutte le sette, ed essi nulla dommaticamente asserivano; poichè mentre producevano quelli degli altri e li spiegavano, non definivano niente, nè pur questo medesimo. Per modo che toglievano di mezzo anco il definire quando dicevano per esempio: Nulla definiamo, perchè altrimenti avrebbero definito. Per altro, soggiungevano, riferiamo le enunciazioni per dimostrazione del sospeso assenso, come se anche ciò potesse mostrarli annuenti. Per la sentenza adunque, Nulla definiamo, dimostravano quella affezione dell’animo che fa rimanere neutrali; al pari che per mezzo del Nulla più e dell’Ad ogni discorso un discorso si oppone, e simili. Dicesi poi il Nulla più anche positivamente di alcune cose che sono simili, per esempio: Il pirata non è più malvagio del bugiardo. Per altro dagli Scettici non positivamente ma negativamente si ragiona, come da chi confuta e dice: Scilla non esistette più della chimera. Il medesimo più prendesi talvolta comparativamente, come quando diciamo: Più dolce il miele dell’uva; talvolta anche positivamente e negativamente, come quando diciamo: La virtù giova più che non nuoce; poichè indichiamo che la virtù giova e non nuoce. Ma gli Scettici tolgono eziandio il medesimo Nulla più; poichè siccome non v’ha una provvidenza più di quel che non siavi, cosi anche il nulla piu non è più che non sia. Quella frase significa dunque, secondo che afferma Timone, nel Pitone, il nulla definire, ed anzi il non assentire ad alcuna cosa. Anche la frase ad ogni discorso inferisce del pari la sospensione dell’assenso; poichè per le cose differenti essendo eguale la forza dei discorsi segue l’ignoranza della verità; e piuttosto a quest’istesso discorso si contrappone un discorso, il quale, dopo avere anch’esso distrutti gli altri, aggirato da sè medesimo perisce; alla maniera dei purganti che fatta passare innanzi la materia, ed essi si evacuano e si disperdono. Su di che asseriscono i Dommatici non distruggersi il ragionamento, ma rafforzarsi. Quindi usavano solo i ministerii de’ ragionamenti, non essendo possibile distruggere un ragionamento con un non ragionamento. In quel modo che sogliam dire non essere un luogo, ed è mestieri assolutamente nominare il luogo, sebbene non dommaticamente, ma dimostrativamente; e del pari, nulla farsi per necessità, ed è mestieri pronunciare necessità. Di questo non so qual modo d’interpretazione usavano essi. Poichè quali appajono le cose, tali non sono in natura, ma sono solamente apparenti; e dicevano cercare non quelle che si intendono, essendo chiaro ciò che s’intende, ma quelle a cui i sensi partecipano. Non è dunque la ragione pirronica che un’indicazione delle cose che appajono, o, come che sia, s’intendono, secondo la quale tutto con tutto si paragona, e, comparato, si trova avere molta disparità e disordine, siccome dice Enesidemo, nel suo Quadro delle dottrine pirroniche. Per rispetto poi alle opposizioni nelle speculazioni dimostrando avanti
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Aristotele, viaggiava senza bere per l’arida Libia. Uno si dà alla medicina, un altro all’agricoltura, un altro a’ traffichi; e queste cose a chi nuocono ed a chi sono utili. Il perchè va sospeso l’assenso. — Terza, ciò che dalle differenze de’ meati dei sensi: poichè una mela si presenta pallida alla vista, al gusto dolce, all’olfatto odorosa. Una stessa figura, per diversità di specchi, si vede tutt’altra. Segue dunque che le cose apparenti non sono piuttosto le tali che le tali altre. — Quarta, quello che dalle disposizioni e in generale per le alternative, come salute, malattia, sonno, veglia, gioia, tristezza, gioventù, vecchiaja, coraggio, timore, bisogno, sazievolezza, odio, amicizia, riscaldamento, raffreddamento; secondo che esalano, secondo che sono compressi i pori. Diverse dunque appajono le cose che cadono sui sensi per rispetto alle qualità delle disposizioni; chè neppure i pazzi sono fuor di natura. E perchè il sarebbero essi piuttosto che noi? Noi stessi vediamo il sole come stante. E lo stoico Teone titoracense, dormendo, passeggiava nel sonno, e uno schiavo di Pericle sulla sommità del tetto. — Quinta, quello che dalla educazione e le leggi, e le mitiche credenze, e le artificiali convenzioni, e le opinioni dommatiche. In queste si contengono le cose circa il bello ed il brutto, circa il vero ed il falso, circa il buono e il cattivo, circa gli iddìi e il nascimento e la corruzione di tutto che appare. Però una cosa medesima secondo gli uni giusta, secondo gli altri ingiusta; e a questi buona, a quelli cattiva. Avvegnachè i Persiani non giudicano sconveniente aver commercio colla figlia, i Greci colpevole. I Messageti, come scrive Eudosso, nel primo Dei periodi, hanno comuni le donne, e i Greci no. I Cilicii amano i ladronecci, ma non i Greci. Anche circa gli iddii, altri altrimenti li stima; questi provvidenti, quegli no. Gli Egiziani seppelliscono imbalsamando, i Romani abbruciando, i Peoni gettando negli stagni. Il perchè intorno i veri sospensione di giudizio. — Sesta, quello che dalla mistione o comunanza, secondo la quale nulla di per sè distintamente appare, ma coll’aria, colla luce, col liquido, col solido, calore, freddo, molo, evaporazioni ed altre forze. Quindi la porpora mostra diverso colore al sole, alla luna e alla lucerna, ed anche il nostro colore altro appare sotto il mezzogiorno e altro sotto il tramonto. E il sasso, che si solleva nell’aria, più di leggieri si trasporta nell’acqua, sia che, essendo grave, venga dall’acqua sollevato, sia che, essendo leggiere, dall’aria si aggravi. Ignoriamo adunque il particolare, siccome l’esistenza dell’olio nell’unguento. — Settima, quel che dagli intervalli e da certe posizioni e dai luoghi e da ciò che è ne’ luoghi. Di tal modo le cose che stimiamo grandi appajono piccole, le quadrate rotonde, le piane con protuberanze, le diritte inclinate, le pallide di altro colore. E però il sole apparisce piccolo per la distanza, e i monti da lunge sono aerei e lisci, aspri da vicino. Diverso in oltre il sole che sorge, nè simile a mezzo il cielo. Ed uno stesso corpo altro in un bosco fitto, altro in un terreno nudo; e le effigie per qualche postura, e il collo della colomba secondo ch’e’ si volge. Poichè dunque non si possono concepire queste cose fuor dai luoghi e dalle posture, la loro natura ci è ignota. — Ottava, ciò che dalla quantità o di calore o di freddo o di celerità o di tardezza o di pallore o di altra colorazione. Quindi il vino, preso moderatamente, rinforza, in maggior copia infiacchisce; parimente il cibo e simili. — Nona, quello che da continuità o istraordinarietà o radezza. Quindi non destano ammirazione nè i tremuoti ove di frequente accadono, nè il sole che ogni giorno si vede. — Favorino questa nona maniera dice ottava; decima Sesto ed Anesidemo; ma il medesimo Sesto ottava la decima, e nona Favorino. — Decima, quello che dai reciprochi paragoni, come il leggiero col grave, il forte col debole, il maggiore col minore, l’alto col basso. Il perchè il destro non è certo destro per natura, ma l’intendiamo quasi in relazione coll’altro; quindi traspostolo non sarà più destro. Similmente e padre e fratello come in rapporto ad alcun che, e il giorno col sole, e tutto colla mente. Ciò adunque è come sconosciuto per sè che ha relazione con qualche cosa. E questi sono i dieci modi.
X. Ma Agrippa ne aggiunse a questi altri cinque: quello ch’esce dalla discrepanza; quello che si produce in infinito; quello che ha relazione ad alcun che; quello che deriva da ipotesi e quello che per reciprocazioni. Quello pertanto che da discrepanza mostra che ogni quistione la quale si potesse proporre da’ filosofi o per consuetudine è in grande conflitto e piena di confusione; quello che procede in infinito non permette di accertare la quistione, poichè altro da altro trae la fede, e così all’infinito; quello che da alcun che, nulla dice che di per sè possa essere afferrato, ma con altro; quindi ignoto. Il modo che si stabilisce dalle supposizioni è quando taluno crede i principii delle cose doversi prendere da quelle come verisimili, senza chieder ragione; lo che è stoltezza, potendosene supporre uno contrario. Il modo che per mezzo di reciprocazione, è costituito quando la cosa posta in quistione, ad essere fermata, abbia mestieri della prova dedotta da ciò che si cerca, come se taluno stabilisca che vi sono pori dallo esistere esalazione; questi, per affermare, piglia l’esistenza della esalazione.
XI. Costoro tolgono di mezzo ogni dimostrazione e criterio e segno e cagione e moto e disciplina e generazione e l’esistenza in natura di qual siasi bene o male; poichè ogni dimostrazione, dicono, consta di cose dimostrate o non dimostrate. Se dimostrate, anch’esse abbisogneranno di qualche dimostrazione, e così all’infinito; se non dimostrate, sia che tutte od alcuna o anche una sola discordi, eziandio in complesso sono indimostrabili. Che se, proseguono, v’ha taluni dai quali si stimi esservi cose non bisognevoli di dimostrazione, sono essi mirabili per una tale sentenza se non comprendono che prima questo medesimo, per avere la costoro fede, ha mestieri di dimostrazione. Non potendosi stabilire, dall’esser quattro gli elementi, che quattro sono gli elementi. Oltre ciò, col negare le dimostrazioni particolari, negasi esservi anche la generale dimostrazione. E per sapere che avvi una dimostrazione è necessario un giudizio, e che avvi un giudizio è necessaria una dimostrazione; ond’è che entrambi sono incomprensibili riferendosi l’uno all’altra. Come adunque si potrebbero comprendere le cose non evidenti ignorandosene la dimostrazione? Cercasi poi non che cosa elle appajano, ma se in sostanza stieno così. Dimostrano essi apertamente stolti i Dommatici; poichè la deduzione da un’ipotesi non ha la convenienza di un esame, ma di una tesi. Ora con sì fatto ragionamento possiamo metter la mano anco negli impossibili. Però quelli che stimano non doversi giudicare il vero dalle cose che sono per circostanza, nè stabilir leggi da quelle che per natura, dicono, determinar essi le misure di ognuna, non accorgendosi che quanto apparisce, apparisce per ordinamento e reazione; od ogni cosa dunque è a dirsi vera, od ogni cosa falsa. Che se taluna è vera, in qual modo discernibile? Non dal senso le cose sensibili, tutte eguali ad esso apparendo; non dall’intelligenza, per la stessa cagione; nè fuor queste vedersi altra facoltà ne’ giudizj. Colui dunque, dicono, che stabilisce qualche cosa di sensibile o d’intelligibile primamente deve regolare l’opinione intorno a quella; poichè gli uni ne tolgono una parte, gli altri un’altra. Però è mestieri giudicare o per mezzo del senso, o per mezzo dell’intelligenza. Ora di entrambi si disputa; dunque non si possono approvare le sentenze in riguardo alle cose sensibili o intelligibili. Che se dobbiamo rinunciarvi per la pugna ch’è nelle intellezioni, si toglie ad ognuno la misura colla quale sembra potersi esaminare diligentemente qualsiasi cosa: tutto quindi stimerassi eguale. Più, colui che fa queste ricerche in nostra compagnia, dice: Una cosa che appare è dessa verisimile o no? Se è verisimile, nulla avrà da replicare quegli cui appare in altro modo; poichè siccome egli è degno di fede affermando ciò che appare, così anche l’avvèrsario. Se poi non verisimile, nè esso sarà creduto dicendo quello che appare. E il persuasivo non s’ha a stimare che sia vero; poichè ned esso persuade la medesima cosa ad ognuno, nè continuamente le stesse; e la persuasione nasce anche da ciò ch’è estrinseco, dalla riputazione di chi parla, o dalla riflessione, o dalla dolcezza, o dalla consuetudine, o dalla grazia. Toglievano di mezzo anche il criterio con questo discorso: O il criterio è stato esaminato, o non è stato esaminato. Ma se non è stato esaminato, costituisce una cosa sospetta che si allontana dal vero e dal falso; se è stato esaminato, una di quelle che si giudicano partitamente; di modo che sarebbe lo stesso e giudicare ed esser giudicato; e chi giudica il criterio sarà giudicato da un altro; e anche questi da un altro, e così all’infinito, A ciò s’arroge il non essersi d’accordo intorno a questo criterio, alcuni chiamando criterio l’uomo stesso, alcuni i sensi; altri la ragione, altri la fantasia che comprende. E l’uomo non accordarsi nè con sè nè cogli altri, siccome è manifesto dalla differenza delle leggi e dei costumi. I sensi essere ingannevoli, la ragione discorde; e la fantasia che comprende giudicarsi dalla mente e la mente in diverse maniere rivolgersi. Dunque è ignoto il criterio, e perciò la verità. Ma nè pure v’ha segno; poichè, essi dicono, se v’ha segno, o è sensibile, o intelligibile. Ora sensibile non è, essendo il sensibile comune, e il segno particolare; e il sensibile è tra ciò ch’è differente, e il segno tra ciò che ha relazione con qualche cosa. Ma neppure è intelligibile, perchè l’intelligibile o è apparente di apparente, o non apparente di non apparente, o don apparente di apparente, o apparente di non apparente. Ora null’avvi di questo; però non segno. L’apparente dunque non è dall’apparente, poichè ciò che appare non ha mestieri di segno, il non apparente dal non apparente, poichè deve essere apparente ciò che si discopre da qualcuno; il non apparente poi non può apparire dall’apparente, da che vuol essere apparente ciò che offre ad altro occasione di essere compreso; l’apparente, in fine, non è dal non apparente, poichè il segno appartenendo a ciò che ha relazione con qualche cosa, dev’essere compreso con ciò di cui è segno; e questo non è. Nessuna dunque delle cose oscure si può comprendere, poichè per segni, dicesi, comprendonsi le oscure. — E cosi anche tolgono di mezzo la causa. La causa è fra le cose che hanno relazione ad alcun che, poichè l’ha con ciò ch’e causato. Ora le cose relative si pensano dalla mente soltanto, ma non esistono, e la cagione quindi sarebbe solo intellettiva; poichè se è causa, deve starsi unita a quello di che si dice cagione, altrimenti non sarebbe cagione. E a quel modo che il padre, senza ch’esista colui pel quale dicesi padre, non saprebbe esser padre, così eziandio la causa. Ora non esiste la causa in relazione a ciò che si concepisce, poichè non generazione, non corruzione, non altro che; dunque non v’è causa. Che se v’è causa, o un corpo di un corpo è cagione, o una cosa incorporea di una cosa incorporea; ora nulla di questo; dunque non v’è causa. Però un corpo di un corpo non potrebbe esser cagione, da che entrambo hanno la stessa natura. Che se l’uno dei due si dirà cagione in quanto è corpo, anche l’altro, essendo corpo, diverrà cagione. Ora essendo cagione entrambo in comune, non vi sarà il paziente. Una cosa incorporea, per la stessa ragione, non potrà essere causa di una incorporea. Una cosa incorporea non è cagione di un corpo, poichè una cosa incorporea non produce un corpo. Un corpo, di cosa incorporea non potrebbe esser cagione, da che ciò che nasce deve essere di materia paziente; nulla poi v’ha di paziente per via di cosa incorporea, nè che possa esserlo per altro; non v’è dunque causa. Con che si raccoglie i principii d’ogni cosa non sussistere realmente, dovendo essere qualche cosa ciò che fa ed opera. — Ma neppure avvi molo; poichè ciò che si muove, o si muove nel luogo in cui è, o in quello in cui non è. Ora nel luogo in cui è non si muove, e neppur si muove in quello in cui non è; dunque non avvi moto. — Anche le discipline e’ tolgono di mezzo. Se, dicono, s’insegna qualche cosa, o s’insegna ciò ch’è in quanto è, o ciò che non è in quanto non è. Ma nè ciò ch’è s’insegna, perchè è — poichè la natura delle cose esistenti a tutti appare e si fa conoscere — nè ciò che non è, perchè non è, da che a ciò che non è nulla può accadere, neppur da essere insegnato. — Nè parimente, dicono, v’ha generazione; poichè non si fa ciò che è, perchè è, nè ciò che non è, perchè non sussiste; e non essendo quello che non sussiste, nè manco avviene che nasca. — Nè v’esser bene o male in natura; poichè se un bene o un male è da natura, per tutti deve essere un bene od un male, come a tutti fredda la neve. Ora un bene ed un male non sono comuni a tutti; dunque il bene ed il male non sono da natura. Imperciocchè, o s’ha da chiamar bene tutto che per alcuni si apprezza, o non tutto; ma tutto non può chiamarsi, poichè la stessa cosa taluno stima un bene, come la voluttà Epicuro, taluno un male, cioè Antistene; quindi accade che la stessa cosa sia un bene ed un male. Che se non tutto chiamassimo bene quello che da taluno si apprezza, e’ sarebbe mestieri distinguere le opinioni; la qual cosa è impossibile, attesa l’egual forza delle ragioni. Dunque sconosciuto il bene da natura. — Puossi del resto tutto intero il modo della costoro induzione considerare ne’ trattati che ci hanno lasciato. Da che non ne lasciò per verità lo stesso Pirrone, ma sì gli amici suoi Timone, Enesidemo, Numenio, Nausifane ed altri così fatti. Per contradire ai quali i Dommatici affermano che i Pirronisti concepiscono e dommatizzano; perchè ciò che credono confutare concepiscono; perchè in questo medesimo si raffermano e dommatizzano; e perchè quando dicono nulla definire e ad ogni ragione essere contrapposta una ragione, queste cose stesse e definiscono e spacciano quai dommi. A costoro rispondono: Intorno a quanto noi andiamo soggetti come uomini si concede; poichè e che sia giorno, e che viviamo, e tante altre cose patenti nella vita, noi riconosciamo. Ma sopra ciò che i Dommatici asseriscono col discorso, spacciandolo concepibile, sospendiamo il giudizio, siccome oscuro, e solo conosciamo quel che patiamo. Poichè noi confessiamo che vediamo, e noi sappiamo che questo intendiamo, ma come noi vediamo o come intendiamo ignoriamo; e che questo paja bianco noi diciamo a di discorso, non affermando se ciò anche sia. In quanto alle parole Nulla definisco, o simili , noi le diciamo non come dommi. Poichè non sono simili al dire che il mondo è sferico; essendo questo oscuro, e quelle asserzioni. Nel dire adunque che nulla definiamo, neppur questo definiamo. Ripigliano i Dommatici, che costoro distruggono la vita, rigettando da essa tutto ciò che la costituisce. Ma costoro li accusano di menzogna, poich’e’ non tolgono il vedere, ma il come si conosca il vedere, e: Noi ammettiamo, aggiungono, ciò che appare, non che sia anche come appare; e sentiamo che il fuoco brucia, ma ci guardiamo dall’affermare se da natura abbia la facoltà di bruciare; e vediamo che qualche cosa si muove e che perisce, ma come ciò avvenga non sappiamo. Solo dunque, dicono, noi contrastiamo alle cose incerte che sussistono per concomitanza a ciò che appare. Poichè quando diciamo un’immagine avere rilievi, noi esponiamo ciò che appare; ma quando affermiamo ch’essa non ha rilievi, non già quello che appare, ma altro diciamo. Il perchè anche Timone scrive nel Pitone non essere usciti dalle consuetudini; e nelle Immagini si esprime così:
— Da qualunque
Parte derivi è sovra ognun possente
Ciò che appar. —
E dice ne’ suoi trattati Dei sensi: Che questo sia dolce non istabilisco; che questo appaja confesso. Ed Enesidemo, nel primo Dei discorsi pirronici, nulla afferma definire Pirrone dommaticamente, pe’ contrarj argomenti, ma tener dietro alle apparenze. Lo stesso scrive anche nel libro Contro la filosofia, e in quello Della ricerca. E Zeusi del pari, l’amico di Enesidemo, nel libro Delle duplici ragioni, e Antioco di Laodicea e Apella, nel libro Di Agrippa, pongono le apparenze sole. Così dunque, al dire anche di Enesidemo, secondo gli Scettici, è criterio l’apparente; e così la pensava Epicuro. Ma Democrito scrive che criterio non s’ha dalle cose apparenti, e che neppure esistono. Contro questo criterio delle cose apparenti i Dommatici proseguono dicendo, che quando dalle cose medesime ci sono porte diverse fantasie, come da una torre, aspetto o di rotonda o di quadrata, se lo Scettico nessuna delle due preferisce, nulla fa; ma se una di quelle si pone a seguire, non più la stessa forza, dicono, attribuisce alle cose apparenti. A costoro rispondono gli Scettici, che allorquando ci si offrono fantasie mutate dalle prime diciamo che l’une e l’altre ci appajono; e perciò stabilire essi le cose che appajono perchè appajono. — Gli Scettici, dicono Timone ed Enesidemo, appellan fine la sospensione del giudizio ([testo greco]) cui tien dietro a maniera d’ombra la tranquillità dell’animo ([testo greco]). Cioè non eleggeremo nè fuggiremo l’una piuttosto che l’altra delle cose che sono in noi; ma sì quelle che in noi non sono, ma sono per necessità, nè si possono fuggire, come l’aver fame, sete, dolore; da che sì fatte cose non ci togliam d’attorno col discorso. E ripigliandosi dai Dommatici, come lo Scettico non possa vivendo sottrarsi, qualora gli venisse comandato, anche dal macellare suo padre, gli Scettici rispondono, com’egli viver possa ritenendo dalle quistioni dommatiche l’assenso, non da ciò che è necessario alla vita e proprio a conservarla. Quindi secondo la consuetudine ed eleggiamo e fuggiamo alcuna cosa, e facciamo uso delle leggi. Alcuni per altro l’apatia, alcuni la dolcezza dicono chiamar fine gli Scettici.
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