Istoria del Concilio tridentino/Libro terzo/Capitolo I

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Libro terzo - Capitolo I (aprile 1547 - aprile 1548)

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CAPITOLO I

(aprile 1547-aprile 1548).

[Considerazioni dell’autore sul carattere particolare e sul valore della sua opera. — L’imperatore approva la condotta dei prelati rimasti a Trento, i quali convengono di rimanere inattivi, per non creare uno scisma.— Nona sessione: si rinvia al giugno la pubblicazione di nuovi decreti. — L’imperatore sconfigge gli smalcaldici a Mühlberg: l’elettore di Sassonia e il langravio d’Assia prigionieri. — Preoccupato della potenza imperiale, il papa si accosta al re di Francia. — Invio dei cardinali Capodiferro in Francia e Sfondrato a Carlo V. — Sommossa antispagnola a Napoli per l’introduzione dell’inquisizione. — Decima sessione: nuova proroga al settembre. — Accordo franco-papale. — La dieta di Augusta: cattolici e protestanti di fronte al concilio. — Assassinio di Pierluigi Farnese. — Il concilio sospende i lavori. — Da Augusta l’episcopato tedesco chiede al papa che restituisca il concilio a Trento. — L’imperatore ottiene dalla dieta la «remissione» del negozio conciliare, salve certe clausole. — Insistenze dello Sfondrato perché l’imperatore riconosca la traslazione a Bologna, mentre questi, a mezzo del cardinale Madruzzo, insiste pel ritorno a Trento. — La questione in concistoro: nuove insistenze del Mendoza e discorso del cardinale di Guise. — Il papa si riserva d’interpellare il concilio di Bologna, il quale si pronuncia per la legalitá della compiuta traslazione. — Risposta papale in tal senso al Mendoza e invito all’episcopato tedesco di recarsi a Bologna. — Vibrata protesta in concilio del Vargas e del Velasco, oratori imperiali, e del Mendoza in concistoro.— Il papa, assumendosi la parte di giudice, avoca a sé la decisione sulla validitá della traslazione, e invita i prelati di Bologna e di Trento a produrre le loro ragioni. — Rifiuto dei prelati di Trento e osservazioni dei procuratori di Bologna. — La questione rimane indecisa.]

Io non son ignaro delle leggi dell’istoria, né in che quella sia differente dagli annali e dalli diari. So ancora che genera sazietá nello scrittore, e nel lettore tedio, la narrazione [p. 4 modifica] d’accidenti uniformi; e che il raccontare minuzie troppo particolari merita nome d’imprudente saccenteria. Nondimeno osservo di frequenti repliche e minute narrazioni in Omero, e che nell’espedizione di Ciro minore Senofonte piú rapisce l’animo e piú insegna raccontando li ragionamenti seri e giocosí de’ soldati, che le azioni e consegli de’ prencipi. E vengo in opinione che a ciascuna materia convenga la propria e singolar forma, e che questa mia non possi essere formata con le ordinarie regole. Tengo per fermo che questa opera sará da pochi letta, e in breve tempo mancherá di vita, non tanto per difetto di forma, quanto per la natura della materia: di che ne ricevo documento per quello che veggo avvenuto alle altre simili. Ma a me, né a perpetuitá né diuturnitá [guardando], basta che sia per giovare a qualcuno, al quale, conoscendo io che sia per farne suo profitto, la mostrarò, con certezza che nelli tempi seguenti le avvenirá quello che le congionture porteranno.

Li prelati restati in Trento erano molto suspesi, sin che dall’imperator non vennero lettere in commendazione delle azioni fatte da loro, contradicendo alla traslazione e rimanendo in Trento, con ordine espresso di fermarvisi e non partire da quella cittá. Consultarono tra loro se si doveva far alcun atto conciliare, e concordemente fu risoluto che sarebbe stato causa di scisma e da non tentare; solo studiar le materie, aspettando quello che l’opportunitá avesse portato. Passavano qualche scritture tra li teologi di Trento e di Bologna. Questi affettatamente chiamavano «la sinodo di Bologna», e quei «la santa sinodo», sia dove si voglia, e ne restano ancora diverse in stampa. Di Bologna fecero li legati, e altri cardinali di Roma, diversi uffici a parte con alcuni delli rimasti in Trento per farli andar in Bologna, o almeno partir di lá, e non li riusci di guadagnar altri che Galeazio Fiorimonte, vescovo dell’Aquila. S’adoperarono anco, acciò tutti li suoi partiti da Trento si trovassero alla sessione, e ne venissero anco degli altri di piú; il che era facile, per il gran comodo [p. 5 modifica] di far viaggio da Roma a quella cittá. Si fecero diverse congregazioni, nelle quali altro non fu trattato se non come defendere la traslazione per legittima, e le ragioni per mostrare che quei di Trento fossero tenuti ad unirsi con loro.

Venuto il 21 aprile, giorno giá destinato per la sessione, con celebre concorso di tutto il populo di Bologna, e con molta solennitá, li legati accompagnati da trentaquattro vescovi si ridussero al consesso, nel quale altro non fu fatto se non letto un decreto, dove si diceva che essendosi deliberato in Trento di transferir la sinodo a Bologna e celebrar la sessione in quel giorno, pubblicando canoni in materia de sacramenti e della riforma, nondimeno, considerando che molti prelati, soliti a ritrovarsi nel concilio, erano stati occupati nelle loro chiese per le feste di Pasca, sperando che presto saranno per venire, per far le cose con dignitá e gravitá si differisce a celebrare quella sessione sino alli 2 giugno, riservandosi nondimeno di poter anco restringere il termine. Fu anco decretato di scriver lettere per nome della santa sinodo generale alli padri rimasti in Trento, ortatorie ad andar a Bologna e unirsi col suo corpo, dal quale separati non possono chiamarsi congregazione ecclesiastica, anzi danno molto scandolo al popolo cristiano. Le quali lettere, ricevute in Trento, furono giudicate poco prudenti, come quelle che erano per esasperare, non per ammollire gli animi. E perciò fu consegliato di non dare risposta per non introdurre contenzione, ma lasciar cader il tentativo, quale era ascritto alla troppo libertá di procedere del cardinale del Monte, non alla moderazione dell’universale.

Cesare, che con tutto l’esercito era nella Sassonia, con potente armata di quell’elettore a fronte, occupato tutto nelle cose della guerra, aveva deposto li pensieri delle cose del concilio. E il 24 dell’istesso mese, ordinato l’esercito sopra il fiume Elb, detto da’ latini Albis, venne a giornata; dove il duca elettore restò ferito e preso, e l’esercito suo disfatto: onde indebolite le forze de’ protestanti, il langravio fu costretto ad accomodarsi: e pochi di dopo, essendosi interposti [p. 6 modifica] il genero Maurizio e l’elettore di Brandeburg, spontaneamente comparve. Il duca prima fu condannato a morte come rebelle, poi concessagli la vita con varie condizioni durissime, le quali tutte accettò, fuorché di sottomettersi al concilio nella causa di religione: e Cesare si contentò che, fermate le altre, questa fosse tralasciata. Al lantgravio ancora furono proposte altre condizioni: tra quali questa una, di ubidir alle decreti del concilio di Trento; al che non consentendo, sottoscrisse di rimettersi ad un concilio pio e libero, dove fossero riformati il capo e le membra, come farebbe il duca Maurizio e l’elettore di Brandeburg. E rimasero ambidua prigioni, il sassone in perpetuo, il lantgravio a beneplacito di Cesare. Per questa vittoria l’imperatore, fatto patrone della Germania, s’impatronì di numero grande d’artegliaria, e cavò dalle cittá e prencipi gran quantitá di danari; e per dar forma pacifica alle cose con le armi acquistate, ordinò una dieta in Augusta.

Le quali cose afflissero grandemente il pontefice, che considerava l’Italia esser senza aiuto e restar a discrezione dell’imperatore. Si confortava però che sarebbe costretto, avendo vinto per forza, mantenersi anco con la medesimi, e però non averebbe potuto levare l’esercito di lá cosí presto: tra tanto a lui restava tempo di poter trattare e convenire col novo re di Francia, con gl’italiani, e mettersi in sicuro. Sentiva in tante molestie allegrezza d’esser liberato dal timore del concilio. Lodava sopra modo la risoluzione del cardinale del Monte, dal quale riconosceva questo bene. Deliberò di mandar in Francia Geronimo Boccaferro romano, cardinale di San Giorgio, in apparenza per dolersi col re della morte del padre e rallegrarsi del principio del suo regno, ma con commissioni di trattar intelligenza e confederazione; diede il pontefice al legato amplissima potestá di conceder al re ogni dimanda nella materia beneficiale, senza aver risguardo alcuno alli decreti del concilio tridentino. E per esser pronto a ricever ogni occasione che nascesse in Germania d’implicare l’imperatore in difficoltá, e acciocché in dieta non fosse presa qualche deliberazione a suo pregiudicio, mandò Francesco [p. 7 modifica] cardinale Sfondrato per legato, con instruzione di trattare con gli ecclesiastici e tenerli in devozione, e propor anco diversi partiti a Cesare per fermar il concilio in Bologna, dal quale, quando fosse stato in luoco non a sé soggetto, temeva piú che delle armi, quali Cesare avesse potuto mover in Italia.

Fu in questo tempo a Napoli una sedizione gravissima, avendo voluto don Pietro di Toledo viceré introdur in quel regno l’inquisizione secondo il costume di Spagna; repugnando li napolitani, che prima con voci sediziose gridarono per Napoli: Viva l’imperatore, e muora l’inquisizione; poi adunati insieme avevano eletto un magistrato che gli defendesse, e dicevano essersi resi al re cattolico con espressa convenzione che le cause di eresia fossero giudicate dalli giudici ordinari ecclesiastici, e non fosse introdotto special ufficio d’inquisizione. E per questa causa tra spagnoli e napolitani sediziosamente si venne alle armi, e vi furono molte uccisioni, con pericolo anco di rebellione. Dopo ordinate le cose, e poste cinquantamila persone in arme, che con segni delle campane si radunavano, e ridottisi li spagnoli nelli castelli, e il popolo a luochi opportuni fortificatosi d’artegliaria, si fece quasi una guerra formale tra la cittá e li castelli; essendo durato il tumulto dal fine di maggio fino mezzo luglio, con uccisione tra l’una e l’altra parte di trecento e piú persone; nel quale mentre mandò anco la cittá ambasciatori all’imperatore e al pontefice, al quale si offerirono di rendersi, quando avesse voluto riceverli. Ma a lui bastava nodrire la sedizione, come faceva con molta destrezza, non parendoli aver forze per sostenere l’impresa; se ben il cardinale teatino, arcivescovo di quella cittá, promettendoli aderenza de tutti li parenti suoi che erano molti e potenti, insieme con l’opera sua, ché a quell’effetto sarebbe andato in persona, efficacemente l’esortava a non lasciar passar un’occasione tanto fruttuosa per servizio della Chiesa, acquistandoli un tanto regno. Li spagnoli, chiamati aiuti da diverse parti, si resero piú potenti, e vennero anco littere dall’imperatore, che si contentava che non fosse posta inquisizione, perdonava alla cittá, eccettuati [p. 8 modifica] diciannove che nominava, e uno che averebbe scoperto a tempo, pagando quella nondimeno centomila scudi per emenda; condizioni che per necessitá furono ricevute; e, fatti morire per giustizia quei pochi che delli diciannove si potèro avere, restò il tumulto quietato.

In Bologna li legati non sapevano ancora bene che dover fare, e il pontefice li aveva comandato di non procedere ad azione alcuna che potesse esser impugnata e partorisse qualche divisione, ma andassero trattenuti con differire le sessioni; e tra tanto far qualche congregazioni per non mostrare di star in ozio. Però non era facile pigliare buona forma di farle, per discutere la materia dell’eucaristia, mancando li teologi principali, soliti trattare le cose di fede in Trento. Se ne fecero nondimeno alquante, e parlarono diversi teologi; non però si formò decreti. Della riforma non occorre dir altro, perché fu posta per allora in silenzio profondo.

Venuto il 2 giugno, con le medesme cerimonie si celebrò la sessione, dove altro non si fece che prorogarla con decreto simile a quello della precedente, narrando che la sinodo l’aveva differita a quel giorno per l’assenzia dei padri che aspettava: onde, volendo anco trattare con benignitá verso di loro, aggiongeva una proroga sino a’ 15 di settembre, non dovendo tra tanto tralasciare l’esamine dei dogmi e della riforma, riservandosi di poter abbreviare e allongar il termine, eziandio nella congregazione privata.

In Francia non fu difficile al legato ottenere dal re quanto il pontefice poteva desiderare, poiché esso ancora non aveva minore gelosia della fortuna dell’imperatore: si trattò buona intelligenza con proposizioni molto secrete. Tra le pubbliche vi fu che il re mandasse al concilio di Bologna, quanto prima, il maggior numero de prelati che si potesse. Fu contratto matrimonio tra Orazio Farnese nepote del papa e Diana figlia naturale del re, d’etá d’anni nove. Mandò il re sette cardinali francesi a fermarsi in corte, per dar riputazione al pontefice e nodrire l’amicizia tra ambidue. Creò il pontefice ad instanza del re, il 26 luglio, cardinali Carlo di Ghisa, arcivescovo di Rems, e Carlo di Vandomo del sangue regio. [p. 9 modifica]

In fine d’agosto si transferi Cesare in Augusta per celebrarvi la dieta, avendo attorno la cittá tutto l’esercito de spagnoli e d’italiani, e in essa cittá alquante insegne di fanteria. Si fece il principio al 1° di settembre, dove Cesare, principalmente intento a pacificare la Germania, diede parte di tutto quello che aveva per il passato fatto in diverse diete per conciliarla, e come per questa causa aveva operato che fosse convocato e principiato il concilio in Trento; ma non avendo tanta sua fatica giovato, era stato costretto passar ad altro rimedio. E perché era piaciuto a Dio dar felice riuscita al suo conseglio, riducendo lo stato di Germania in termini che si poteva avere certezza di riformarlo, aveva congregato per l’istesso fine li prencipi. Ma perché la differenza della religione era causa di tutte le turbolenze, era necessario cominciare di lá.

Diversa era l’opinione delli prencipi in quella dieta; perché tra gli elettori gli ecclesiastici desideravano e instavano che ’l concilio di Trento si facesse, e non ricercavano in ciò condizione alcuna; li secolari aderenti a’ luterani si contentavano con queste condizioni: che fosse libero e pio; che in quello il pontefice né in propria persona, né per l’intervento d’altri fosse presidente, e rilassasse il giuramento col quale li vescovi li sono obbligati; e appresso, che li teologi protestanti avessero voto decisivo e che li decreti giá fatti si reesaminassero. Li altri cattolici dimandavano che il concilio si continuasse, e che li protestanti avessero pubblica sicurezza di andarvi e di parlar liberamente, ma fossero poi sforzati ad obedire li decreti.

Stava il pontefice coll’animo sollevato, attendendo il successo della dieta in Germania, mentre il 10 settembre Pietro Aloisio, duca di Piacenza, suo figlio, fu da congiurati nel proprio palazzo trucidato, il cadavero ignominiosamente esposto e trattato: e poche ore dopo arrivarono genti da Milano, mandate da Ferrando Gonzaga viceduca, che s’impatronirono della cittá. Questa novitá afflisse il pontefice sopra modo, non per la morte violenta del figlio, né tanto per l’ignominia, [p. 10 modifica] quanto per la perdita della cittá, e perché vedeva chiaramente il tutto esser successo con participazione di Cesare.

Ma in Bologna li legati pensarono che a tanta afflizione e occupazione del papa non era tempo d’aggiongere due lettere alla settimana, che si scrivevano di quello che passava in concilio; e però conveniva prolongar la sessione per longo tempo, e intermettere tutti li atti conciliari, se ben ciò s’averebbe con dignitá fatto, celebrando la sessione intimata per li 15 e differendo la futura; nondimeno, ricercando cosí la mestizia che si doveva tener per la morte del duca, che non si facesse alcuna solennitá, esser meglio anticipar quella, e in una congregazione differirla. Per il che il 14, chiamati li prelati tutti nella casa dell’abitazione del Cardinal del Monte, egli parlò loro in questa sostanza: che ’l di de domani era determinato per la sessione, ma ognuno vedeva le angustie di che la sinodo era circondata; non esser ancora gionti molti prelati che sono in viaggio, specialmente francesi, e li venuti giá poco tempo non esser informati; anzi quei medesmi, che tutta l’estate sono stati presenti alle dispute di questi minuti teologi, non esser ben in ordine: aggiongersi l’atrocitá della morte del duca che teneva ognuno sospeso, e loro occupati in attender alla sicurezza delle cittá della Chiesa; rallegrarsi d’aversi riservato di poter prorogar la sessione per liberarsi dal travaglio di dover andar in chiesa a celebrarla; esser suo conseglio, anzi necessitá, di valersi di quella riserva, allongando la sessione al presente senza celebrarla dimani. Alli padri tutti piacque che s’allongasse. Soggionse il cardinale che dopo molto pensiero non avevano potuto trovar giorno certo dove fermar il piede; che quando erano in Trento, pensando di spedir il decreto della giustificazione in quindici giorni, furono sforzati sudarvi sette mesi continui, facendo anco spesse volte due congregazioni al giorno; che dove si tratta della fede e di confonder gli eretici, bisogna camminar col piè di piombo, e spesso trattenirsi longo tempo nella discussione d’una paroletta; non poter essere certi se vi sará necessitá di celebrar la sessione fra pochi giorni o differirla [p. 11 modifica] anco molti mesi, però esser di parer di allongar la sessione a beneplacito del concilio: questo, senza dubbio, esser il miglior partito. E se alcun dicesse che, sapendo il tempo prefisso, ordinarebbe meglio i fatti propri, questi possono ben esser certi che fra pochi giorni si potrá vedere che corso e progresso sia per avere la sinodo. Piacque a tutti che fosse prorogato a beneplacito del concilio, e furono licenziati.

Questo giorno stesso li prelati di Germania congregati nella dieta, cosí volendo Cesare, scrissero al papa dimandando che fosse ritornato in Trento il concilio. Era la lettera mista di preghiere e di minaccie: esponeva il cattivo stato e pericolo di Germania, al quale si averebbe potuto provvedere se il rimedio del concilio fosse stato dato a tempo, e in Germania, come era stato richiesto; perché avendo essi ampie giurisdizioni, non potevano longo tempo star lontani; e per quella stessa causa niuno era andato né a Mantoa né a Vicenza, e pochi a Trento, cittá che essa ancora appartiene piú tosto all’Italia, specialmente al tempo della guerra. Ora, redutte le cose in tranquillitá, erano entrati in gran speranza che la nave fosse ridotta al porto, quando fuori d’ogni espettazione hanno inteso il concilio, nel quale era posta ogni speranza, esser trasferito altrove, o piú tosto diviso. Per il che, privati di questo remedio, non gli restava altro se non il ricorso alla Chiesa apostolica, con pregar Sua Santitá, per la salute della Germania, a restituir il concilio in Trento; il che facendo, non esserci ossequio che da loro non si debbia promettere; altrimenti non restar loro dove poter ricorrere per aiuto contra li imminenti mali e pericoli. Però si degni aver in considerazione la loro dimanda, pensando che, se egli non vi provvederá, sará possibile assai che sia pensato ad altri consegli e maniere per metter fine alle difficoltá: pregando finalmente la Santitá sua a ricever in bene la loro lettera, essendo essi costretti a viver cosí dall’ufficio proprio e dalla condizione de’ tempi.

Fece di piú Cesare opera diligentissima acciocché tutti si sottomettessero al concilio, istando, pregando e richiedendo [p. 12 modifica] che si rimettessero alla sua fede. Con l’elettor palatino le preghiere avevano specie di minaccie, rispetto alle precedenti offese perdonate di recente. Verso Maurizio duca di Sassonia erano necessitá, per tanti benefici novamente avuti da Cesare, e perché desiderava liberare il lantgravio suo suocero. Per il che, promettendo loro Cesare di adoperarsi che in concilio avessero la dovuta sodisfazione, e ricercandoli che si fidassero in lui, finalmente consentirono, e furono seguiti dalli ambasciatori dell’elettore di Brandeburg e da tutti li principi. Le cittá ricusarono, come cosa di gran pericolo, il sottomettersi indifferentemente a tutti li decreti del concilio. Il Granvella negoziò con li ambasciatori loro assai e longamente, trattandoli anco da ostinati a ricusar quello che i principi avevano comprobato, aggiongendo qualche sorte di minaccie di condannarli in somma maggiore che la giá pagata; per il che finalmente furono costretti di condescendere al voler di Cesare, riservata però cauzione per l’osservanza delle promesse. Onde chiamati alla presenza dell’imperatore, e interrogati se si conformavano alla deliberazione dei principi, risposero che sarebbe stato troppo ardire il loro a voler correggere la risposta de’ principi, e tutt’insieme diedero una scrittura contenente le condizioni con che averebbono ricevuto il concilio. La scrittura fu ricevuta ma non letta, e per nome di Cesare dal suo cancelliero furono lodati che ad esempio degli altri avessero rimesso il tutto all’imperatore e fidatisi di lui; e l’istesso imperatore fece dimostrazione d’averlo molto grato. Cosí l’una e l’altra parte voleva esser ingannata.

Il cardinale Sfondrato non aveva mancato del debito in proporre molti vantaggi per Cesare, quando fosse condesceso a consentir il concilio in Bologna: li mostrò confusioni in che era l’Inghilterra sotto un re fanciullo, con governatori discordi e con li popoli tra loro dissidenti per causa della religione; li scoprí le intelligenze che il papa teneva in quel regno, che tutte sarebbono state a suo favore; propose che il papa l’averebbe aiutato a quell’impresa con numero di gente e di vasselli, che li averebbe concesso di valersi delle rendite [p. 13 modifica] ecclesiastiche di tutti li stati suoi. Era nota all’imperatore la mira del papa di volerlo implicar in nova impresa per intorbidarli quella che giá aveva a fine condotto. Però rispose che col pontefice voleva esser unito nelle cose della religione, ma dove si trattava di guerra era risoluto far li fatti suoi da se stesso, e non esser capitano di chi in l’opportunitá l’abbandonasse, come nella guerra di Germania. E dall’altro canto esso ancora propose diversi vantaggi al papa, quando consentisse il ritorno del concilio a Trento. Sopra che avendo il legato certificato di non aver commissione alcuna, spedí Cesare in diligenza il Cardinal di Trento al pontefice, per negoziare la restituzione del concilio e altri particolari che si diranno. Il pontefice, dopo averlo piú volte ascoltato, senza scoprir qual fosse l’animo suo, finalmente rispose che dovesse parlarne in consistoro.

Il cardinale a’ 9 di decembre, in presenzia di tutto il collegio, dopo aver narrato quante fatiche e pericoli aveva passato Cesare, non per altro che per sostenere la dignitá del concilio, e come finalmente per la sua diligenzia e autoritá aveva indotto tutti li principi e stati di Germania ad aderirvi e sottomettervisi, pregò Sua Santitá a nome di Cesare, di Ferdinando e di tutto l’Imperio che per l’amor di Dio volesse far ritornare a Trento li vescovi che erano a Bologna, per finir l’opera necessaria incominciata; e ancora si contentasse mandar un legato o doi in Germania, con pienissima autoritá pontificale, senza ritenerli facoltá alcuna, acciocché con loro conseglio si ordinasse un modo di vivere sino al concilio, e si reformasse l’ordine ecclesiastico: e appresso di ciò avesse considerazione e determinasse se, occorrendo vacanza della Sede durante il concilio, l’elegger il pontefice toccasse alli padri di esso o alli cardinali, acciò, occorrendo, non nascesse qualche novo moto. Questo terzo punto fu aggionto per avvertire il pontefice della sua vecchiezza e prossima mortalitá, e indurlo piú facilmente a condescendere, per non lasciar la sua posteritá erede del dispiacer che sentiva l’imperatore per la sua renitenza. A queste proposte rispose il pontefice, [p. 14 modifica] commendando la buona volontá dell’imperatore e le opere fatte in pubblico servizio della Chiesa, e concludendo d’aver udite le proposizioni, alle quali averebbe avuto la considerazione che meritavano, e risoluto quello che avesse piaciuto a Dio inspirarli. Il cardinale, dopo aver provato in diverse audienze private d’aver qualche buona risoluzione dal pontefice, vedendo che altro non si poteva da lui avere, lasciata la instruzione a don Diego di Mendoza, quale l’imperatore a questo effetto aveva fatto andar a Roma da Siena, dove si trovava per accomodare le differenze di quella repubblica, si parti e tornò in Augusta.

Don Diego nel consistoro pubblico congregato per dare il cappello al cardinale di Ghisa, dove ogni qualitá di persone può esser presente, si presentò inanzi al papa, e li espose l’istesse cose dette dal cardinale; aggiongendo aver commissione, se la Santitá sua interponeva dilazione o scusa, di protestare che la sinodo di Bologna non era legittima. Rispose il pontefice volere prima intendere la mente e le ragioni delli padri del concilio di Bologna, e comunicare la proposta con li re e principi cristiani, per far risoluzione matura in servizio di Dio e sodisfazione comune.

Il cardinale di Ghisa in quello stesso consistoro fece un pubblico ragionamento per nome del re di Francia; e disse in sostanza che il re Francesco non aveva mai perdonato a spesa e pericoli per mantenere la libertá anco delli altri principi; in conformitá di che Enrico, non degenerando dalla bontá paterna, subito cessato il dolore per la morte del padre, aver voluto dechiarare la sua osservazione verso la sede romana; esser illustri i meriti dei re di Francia verso i pontefici, e superare tutti quelli delle altre nazioni; ma sopra tutto esser molto opportuno questo che fa il re, promettendo tutte le sue forze per conservar la dignitá pontificia, in questo tempo che è cosí vilipesa. Aggionse che pregava il pontefice a ricever il re per figliuolo e promettersi da lui ogni aiuto; e del resto aver mira che la Chiesa non ricevi alcun danno o vergogna, essendo ben noto da che deboli principi sono nate de gran [p. 15 modifica] fazioni, le quali hanno condotto li pontefici in gran calamitá. Passò agli esempi di molti papi tribulati, e da’ re di Francia difesi e sollevati, concludendo che il presente re non vorrá esser inferiore de’ suoi progenitori nel conservar la dignitá della sede apostolica.

Fu opinione di molti che il pontefice fosse autore al Ghisa di parlare in quel tenore, per dar animo a’ cardinali suoi dependenti e per mortificar li spiriti elevati degl’imperiali, e far vedere che non potevano pensar a sforzarlo. E per esequire quanto a don Diego aveva detto, scrisse a Bologna al Cardinal del Monte la proposizione fattali e la deliberazione sua, ordinandoli che quanto prima, invocato lo Spirito Santo, esponesse il tutto alli padri, e inteso il loro parere, rescrivesse qual fosse la mente del concilio. Il legato, congregati li padri, espose le commissioni, e fu il primo a dire il voto suo, il quale fu dagli altri seguito; perché lo Spirito, solito a movere li legati conforme alla mente del papa, e li vescovi a quella delli legati, operò come altre volte fatto aveva. Per il che, raccolti li voti, il cardinale col parere e per nome comune rispose che avendo la sinodo, quando si fece il legittimo decreto di transferirla da Trento a Bologna, ammonito tutti di mettersi in viaggio, e dopo gionti in Bologna, intendendo che alquanti erano restati in Trento, di novo amorevolmente esortati a partirsi di lá e unirsi al corpo del concilio, del che non essendo da alcuni di essi tenuto conto, rimanendo ancora in quella cittá con sprezzo della sinodo e scandolo di molti, quasi come pretendessero essi di esser il concilio legittimo, o di non esser tenuti di ubidir a questo: li padri non sapevano vedere come, salva la dignitá e reputazione della sinodo, si potesse trattar del ritorno a Trento, se li rimasti in quella cittá non andavano prima a Bologna a congiongersi con li altri e riconoscere la potestá del concilio. Il che quando fosse fatto a contemplazione della Germania, s’averebbe potuto trattare di ritornar in Trento, se però quella nazione avesse data una idonea sicurtá di sottomettersi alli decreti cosí da farsi come anco giá fatti; aggiongendo esser [p. 16 modifica] uscita certa fama che, quando il concilio fosse ritornato in Trento, doveva introdursi in quello un proceder populare e licenzioso. Per la qual causa giudicavano li padri necessaria un’altra buona sicurtá: che dovesse esser servato l’ordine continuato nella celebrazione de’ concili dagli apostoli sino a quella etá, desiderando anco cauzione di star securi e di poter partire e transferire ancora il concilio, quando fosse parso alla maggior parte, e di poterlo finire quando giudicassero aver sodisfatto alle cause per che era stato convocato; supplicando in fine Sua Santitá a non constringerli a quello che sarebbe contra l’onor di Dio e la libertá della Chiesa.

Il pontefice, ricevute queste lettere, finita la messa del giorno di san Gioanni evangelista, ritornato alla camera dei paramenti con li cardinali, comunicò loro la risposta del concilio; la qual essendo dalla maggior parte approvata, fatto chiamar il Mendoza, li riferí il parere della sinodo, approvato anco dalli cardinali. E aggionse non esserci cosa la qual non facesse per causa della Germania; di che poteva Cesare esser buon testimonio. Che teneva anco certo, la dimanda fattagli da esso ambasciatore per nome di Cesare, di Ferdinando e dell’Imperio aver una condizione congionta, cioè quando sia con pace e comodo delle altre nazioni e con libertá della Chiesa; la quale poiché, congregata in un concilio generale, aveva giudicato altrimenti, e dell’istesso parer era anco il collegio delti cardinali, egli non doveva né poteva riputarla se non giuridica e ragionevole, e approvarla, come anco faceva. Che averebbe desiderato per l’amor paterno verso Cesare e il re poter darli risposta piú grata; ma da un pontefice capo della Chiesa non si doveva aspettare se non quello che il buon governo delle cose pubbliche lo constringeva deliberare. Che conosceva la prudenza dell’imperatore e il filial amor suo, onde confidava che averebbe ricevuto quello che da tanti padri era giudicato necessario; averebbe comandato alli prelati spagnoli che erano in Trento di ridursi immediate a Bologna, e si sarebbe adoperato acciò la Germania ricevesse le condizioni dal concilio proposte; e quanto prima inviasse li [p. 17 modifica] prelati tedeschi, e rendesse cauta la sinodo che sarebbono osservate le proposte condizioni. Il Mendoza, intesa la risposta, vedendo la risoluzione del pontefice, voleva allora allora protestare che l’adunanza di Bologna non era legittimo concilio, e che, non rimettendolo la Santitá sua in Trento, sarebbe stata essa causa di tutti li mali evenimenti che fossero occorsi alla cristianitá; e che in difetto suo Cesare, come protettore della Chiesa, averebbe provveduto: ma interponendosi il cardinale di Trani, decano del collegio, e alcuni altri cardinali, si contentò di riferir questa risposta a Cesare e aspettar novo ordine da lui.

Il pontefice, considerata l’azione del Mendoza, giudicò che questo negozio potesse camminar a qualche disparer tra lui e l’imperatore, nel qual caso non li pareva utile per sé aver li prelati di Germania mal disposti. Alla ricevuta della loro lettera, di cui s’è parlato, restò offeso per l’ultima particola del pensar ad altri consegli e rimedi, avendola per una minaccia aperta, e deliberò di non darli risposta alcuna, e restò in quel parere tre mesi. Ora, meglio consegliato, dubitò che, tenendosi sprezzati, non venissero a qualche risoluzione precipitosa, la quale Cesare lasciasse correre per implicarlo in maggiore difficoltá: onde, risoluto di prevenir il male con onorarli di risposta, la ordinò molto modesta e artificiosa, ancorché non senza risentimento conveniente alla sua dignitá. Incominciò la lettera dalle lodi della loro pietá, quale appariva nella sollecitudine usata per rimediare alle eresie e sedizioni, affermando che da altrattanta egli ancora per l’ufficio suo pastorale resta assai occupato, in maniera che mai ha lasciato né lascia passar tempo senza pensar a qualche rimedio; e dal principio del ponteficato ricorse a quello che da loro è menzionato, cioè al concilio. E qui, narrate le cose successe nella convocazione e li impedimenti perché non si venne all’esecuzione immediate, soggionse che, congregato il concilio, molti decreti sono stati deliberati, cosí condannando gran parte delle eresie, come per riformazione della Chiesa; che la partita del concilio da quella cittá fu senza sua saputa; ma [p. 18 modifica] avendo la sinodo potestá di farlo, presuppone che sia stato con causa legittima, sin che li consti in contrario; e se ben alcuni pochi non hanno consentito, non però si può dire che il concilio sia diviso. Soggionse che non è transferito in cittá molto lontana né poco sicura; e l’esser suddita della Chiesa la rende piú sicura alla Germania, la qual ha ricevuta da lei la religione cristiana e molti altri benefici. Poco importar a lui che il concilio sia celebrato lá o altrove; non impedire che li padri non possino elegger altro luoco, purché non siano sforzati; ma che cosa li ritenga dal ritornar a Trento potranno vedere dalle lettere di Bologna, de quali manda copia. Che ha differito a risponder alle lettere loro, perché, essendo andato a lui per nome di Cesare il Cardinal di Trento, e dopo Diego Mendoza, ha voluto prima rispondere all’imperatore. Che dalla copia delle lettere dei padri di Bologna vedranno quello che convenga fare, prima che deliberar il ritorno: però li pregava a venire, o mandar procuratori a Bologna, e proseguire il concilio. In fine aggionse non esser restato turbato per il capo delle loro lettere, dove accennano che saranno presi novi modi e consegli, essendo conscio a se medesimo di non aver tralasciato alcuna parte del suo debito e d’aver abbracciato la Germania con ogni caritá: ben promettersi di loro e di Cesare che non faranno cosa alcuna senza maturitá, ma se saranno tentati consegli contra l’autoritá della sede romana, non lo potrá proibire, avendolo Cristo predetto quando la fondò: non però temer che li tentativi possino succeder felicemente, essendo fondata in una fermissima rocca. Piú volte altri aver macchinato il medesimo; ma, destrutti i loro tentativi, Dio aver dato esempio in quelli di quanto possi sperare chi vorrá entrarvi: e se le miserie passate non moveranno li presenti a desistere, esser nondimeno certo che essi resteranno costanti nella pietá e fede sempre prestata, e nelle loro congregazioni non daranno luoco a consegli contrari alla dignitá della Chiesa.

Cesare, avvisato dalTambasciator suo delle condizioni proposte da’ bolognesi e della risoluta risposta del papa, [p. 19 modifica] quantunque chiaramente conoscesse che la Santitá sua s’era coperta col nome di concilio e padri di Bologna, quali era notissimo dependere in tutto e per tutto e ricever ogni moto da lui, per render certo il mondo che non aveva tralasciato mezzo alcuno di ritornar il concilio in piedi, mandò a Bologna Francesco Vargas e Martino Velasco, li quali a’ 16 di gennaro, avuta l’udienza dal consesso dove, insieme con li cardinali del Monte e Santa Croce legati, erano li padri, non in maggior numero che nell’ultima sessione, presentarono lettere dell’imperatore, quali erano inviate Consentili patrum Bonomie. Le quali lette, incominciando il Vargas a parlare, il Monte l’interruppe, dicendo che, se bene quella santa sinodo non era tenuta ascoltarlo, non essendo le lettere indirizzate a lei, come quella che non era «convento» ma «concilio», tuttavia non recusavano udirlo, con protesto che fosse senza pregiudicio suo e senza avvantaggio d’altri, e che restasse libero alli padri di continuar il concilio e passar inanzi, e proceder contra li contumaci e ribelli con le pene delle leggi. Vargas ricercò che della protestazione, fatta inanzi che intender la proposta, fosse fatto istromento; poi pregò li padri, per nome di tutta la repubblica cristiana, a proceder con equitá, perché, perseverando ostinati nel parer da loro non con intiera prudenzia e maturitá abbracciato, il fine non poteva riuscir se non con gran calamitá pubblica; ma condescendendo a Cesare, tutto avvenirebbe felicemente. Egli era per mostrarli quanto pernicioso error sarebbe il non mutar deliberazione, e quanto la volontá di Cesare verso il servizio di Dio e pubblico della Chiesa era ottima. In queste parole di novo fu interrotto dal Monte, qual disse: «Son qua io presidente di questo sacrosanto concilio e legato di Paulo III, successor di Pietro e vicario di Cristo in terra, insieme con questi santissimi padri, per proseguir a gloria di Dio il concilio transferito legittimamente da Trento; e preghiamo Cesare di mutar parere e di porgerci aiuto a questo effetto, e raffrenar li perturbatori del concilio, sapendo Sua Maestá che chi mette impedimento alli sacri concili, sia di che grado si voglia, incorre gravissime [p. 20 modifica] pene dalle leggi: e siamo cosí disposti che, succedendo qualunque cosa, non averemo rispetto a qual si voglia minaccie, né saremo per mancar alla libertá e onore della Chiesa, del concilio e nostro».

Allora il Velasco leggette la protesta che teneva scritta in mano, la summa della quale era: che essendo la religione sbattuta, i costumi corrotti e la Germania separata dalla Chiesa, l’imperatore aveva dimandato il concilio a Leone, Adriano, Clemente, e in fine a Paulo III. E narrati li impedimenti e difficoltá nell’adunarlo, toccò le cose trattate nel concilio, soggiongendo che in questo mentre l’imperatore fece la guerra principalmente per causa della religione, e quietò la Germania con la virtú sua, con grandissima speranza che al concilio andassero quelli che sino allora l’avevano ricusato: ma che allora essi reverendissimi legati, contra l’aspettazione di tutti, senza saputa del papa, fatta nascere e finta una causa leggerissima, proposero ai padri la translazione del concilio senza darli tempo di pensare; al che essendosi opposti alcuni santi vescovi, protestando di voler restar in Trento, essi col solo consenso di pochi italiani decretarono la translazione, e il dí seguente partirono e se n’andarono in Bologna. Che l’imperator, avuta la vittoria, sollecitò in molti modi il pontefice, pregandolo a farli ritornar in Trento, mostrando li scandoli e pericoli imminenti se il concilio non si finisca in quella cittá; e fra tanto operò nella dieta d’Augusta che tutti li tedeschi si sottomettessero al concilio. Mandò finalmente il cardinale di Trento a Sua Beatitudine a significarli questo, e pregarla a far tornar il concilio in Trento. Fece anco andar il Mendoza a Roma per far l’istesso ufficio. Che il pontefice ha interposto tempo per trattar con essi congregati, quali hanno dato una risposta vana, capziosa, piena d’inganni, degna che il pontefice la dannasse; il quale però l’ha approvata e seguita, chiamando la congregazione bolognese, che è illegittima, con nome di generale concilio, dandoli tanta autoritá che essa medesima non ha saputo tanta arrogarsene. Certa cosa esser che il concilio congregato in Trento non si poteva [p. 21 modifica] transferire se non per urgente necessitá, diligente discussione e consenso di tutti; che con tutto ciò essi asserti legati e gli altri precipitosamente erano usciti di Trento, finte certe febbri e infezioni d’aria e testimoni affettati de’ medici, quali l’evento ha mostrato che non erano cause manco di vano timore. Che quand’anco vi fosse stata necessitá di farlo, conveniva trattarne prima col papa e con l’imperatore, che ha la tutela de’ concili; ma tanta fu la loro fretta, che non consultarono manco con loro medesimi. Che era debito ascoltar ed esaminar le contradizioni e pareri di quei padri che parlavano per conscienzia, li quali, se ben erano manco di numero, dovevano esser preferiti come piú savi. Che quando si avesse dovuto partire, non conveniva uscir di quella regione, ma seguendo i decreti dei santi concili elegger un altro luoco in Germania. Non potersi in alcun modo difendere di aver eletto Bologna, suddita della Chiesa, dove certo era che germani non sarebbono andati, e quale ognun poteva per molte cause ricusare; il che non era se non dissolvere il concilio alla sprovvista. Per il che l’imperatore, al qual appartiene defender la Chiesa e protegger li concili generali, per componer li dissidi di Germania, e anco per ridur la Spagna, li altri regni e stati suoi alla vera vita cristiana, vedendo che la partita da Trento, fatta senza ragione, perturba tutto il suo proposito, ricerca essi asserti legati, con gli altri vescovi che partirono, a ritornar in Trento. Che ciò non possono recusare, avendo promesso di farlo, cessate le suspizioni di peste. Il che se faranno, sará cosa gratissima a tutto il populo cristiano. Ma quando non, essi procuratori per special mandato di Cesare protestano la translazione o vero recesso esser illegittimo e nullo, con tutte le cose seguite e che seguiranno; e l’autoritá di essi asserti legati e delli vescovi lá presenti, come pendenti dal nuto del pontefice, non esser tanta che possi dar legge a tutta la repubblica cristiana nella causa di religione e di riforma de costumi, e massime a quelle provincie, li costumi e instituti de’ quali non li sono noti. Similmente protestano che la risposta di Sua Santitá e la loro non è conveniente, ma illegittima, piena [p. 22 modifica] d’inganni e illusoria; e che lutti li danni, tumulti, rovine ed estermini di popoli, che di lá sono nati, nascono e possono nascere, non debbono esser imputati a Cesare, ma a quella congregazione che chiamano concilio, potendo ella facilissimamente e canonicamente rimediarvi. Protestando similmente che l’imperator per difetto, colpa e negligenzia loro e del papa provvederá con tutte le sue forze, non tralasciando la protezione e tutela della Chiesa, che se li conviene per esser imperatore e re, conforme alle leggi e al consenso dei santi Padri e del mondo. Dimandarono in fine instrumento pubblico delle cose da loro trattate, e che il mandato di Cesare e la protestazione loro fosse inserta negli atti di quella asserta congregazione.

Dopo la protesta, il Velasco presentò la scrittura medesima che teneva in mano, e replicò l’instanza che fosse registrata. Il Cardinal del Monte, con consenso della sinodo, con gravissime parole protestò esser parecchiati piú tosto a morire che sopportare l’introduzione d’un tal esempio nella Chiesa, che la potestá secolare congreghi concilio; che Cesare è figlio della Chiesa, non signore o maestro; che esso e il suo collega sono legati della santa sede apostolica, e che non recusavano di render conto a Dio e al pontefice della loro legazione, e che fra pochi giorni averebbono risposto alla protestazione lettagli.

Il Mendoza in Roma, ricevuta la risposta da Cesare che dovesse proseguir inanzi e protestare al papa in presenza delli cardinali e li ambasciatori de’ prencipi, e ricevuto avviso dell’azione fatta in Bologna dal Vargas e Velasco, comparve in consistoro, e inginocchiato inanzi il papa, lesse la protestazione, tenendola in mano scritta. Incominciò dalla vigilanza e diligenza dell’imperatore per riunire la repubblica cristiana divisa in varie opinioni della religione. Narrò gli uffici fatti con Adriano, Clemente e con l’istesso Paulo per indurli a convocar il concilio. Al quale poiché li rebelli di Germania ricusavano sottomettersi, indotto dall’istessa pietá li ha costretti con le armi all’obedienza; nel che quantunque il pontefice, per non mostrare di mancar alla pubblica causa, abbia [p. 23 modifica] contribuito certo leggier aiuto di gente, si può dir però che con le sole forze di Cesare una tanta guerra sia ridotta a fine. Nella quale mentre egli era occupato, ecco che la buon’opera principiata in Trento fu interrotta con un pernicioso tentativo di trasferir il concilio sotto pretesti non veri né verisimili, ma solo ad effetto che non sortisse il fine della quiete comune, non ostante che la piú pia e sana parte delli padri si opponesse e rimanesse nell’istesso luoco. Che a questi doverebbe esser dato il nome di concilio, e non a quelli che sono ritirati a Bologna, quali la Santitá sua onora di quel nome per esser aderenti a lei, la volontá de’ quali antepone alle preghiere dell’imperatore, del re Ferdinando e delli principi dell’Imperio, non curando la salute di Germania e la conversione delli sviati, per ridur li quali, poiché si sono contentati di sottomettersi al concilio di Trento, non restarebbe altro che ritornarlo in quella cittá. Del che essendo da esso ambasciatore per li nomi sopraddetti supplicato, ha dato una risposta piena di artifici e senza alcun fondamento di ragione: laonde vedendo che le requisizioni evangeliche fatte a’ 14 e 27 decembre alla Santitá sua da lui come ambasciator cesareo, e a’ 16 gennaro in Bologna da altri procuratori della medesima Maestá, delle quali né in uno, né in altro luoco era stato tenuto conto, allora protestava la partita da Trento e la transazione del concilio a Bologna esser nulle e illegittime, che introdurranno contenzione nella Chiesa, metteranno la fede cattolica e la religione in pericolo: oltreché di presente danno scandolo alla Chiesa e deformano il suo stato; che tutte le ruine, dissidi e scandoli che nasceranno si doveranno imputar a Sua Beatitudine, la qual, ancorché obbligata sino al sangue a provvedervi, favorisce e fomenta li autori; che l’imperator per defetto e colpa di Sua Santitá vi provvederá con tutte le sue forze, per ufficio suo come imperatore e re, secondo la forma statuita dalli santi Padri e osservata con consenso del mondo. Voltato poi alli cardinali, disse che, ricusando il papa di attender alla pace della religione, unione della Germania e riformazione dei costumi, se essi medesimamente [p. 24 modifica] saranno negligenti, protestava quel medesimo a loro che alla Santitá sua. E lasciata la scrittura che teneva in mano, non essendogli da alcuno fatta risposta, si partí.

Il pontefice, considerata la protestazione del Mendoza, e maturato il negozio con li cardinali, s’avvidde esser ridotto ad un stretto passo, e che era molto contra la dignitá sua l’esser preso per parte e che contra lui si voltasse la contenzione; né esservi rimedio, se non con trovar strada di farsi neutrale e giudice tra quelli che approvavano la traslazione e che l’impugnavano. Per far questo era necessario declinare la protestazione, sí che paresse non contra lui fatta, ma inanzi lui contra li bolognesi; il che non potendosi fare con dissimulazione, risolvè d’imputare all’ambasciatore transgressione del mandato cesareo, giudicando che l’imperatore, vedendo la destrezza sua nel caricare l’ambasciatore per fuggir di rompere con la Maestá sua, dovesse imitarlo, e come se fosse stato protestato contra li bolognesi, proseguir, riconoscendo il papa per giudice. Per il che il mercore 1° febbraro, nel consistoro, fatto chiamare il Mendoza, diede la risposta molto prolissa, dicendo in sostanza che il protestare era cosa di cattivo esempio, usata da quelli che hanno scossa l’obedienzia o vacillano da quella; che duole a lui e al collegio de’ cardinali di quell’azione inaspettata, per l’amor paterno sempre portato a Cesare, e per esser fatta in tempo quando meno era aspettata, avendo fatto la guerra e avendo la vittoria contra li suoi nimici e della Chiesa, aiutato dalle genti pontificie, mantenute con immensa spesa: aiuti grandi e opportunissimi, che non meritavano dopo la vittoria un tal frutto, cioè che il fine della guerra fosse principio di protestar contra lui. Mitigava ben il suo dolore, perché l’ambasciatore aveva eccesso i termini del mandato cesareo, nel qual ha comandato ai suoi procuratori a Bologna che protestino alli legati, e a lui che in presenza del pontefice e de’ cardinali protestasse contra il concilio di Bologna, ma non contra il pontefice. Che Cesare aveva fatto ufficio di modesto prencipe, conoscendo che il pontefice è unico e legittimo giudice nella causa della [p. 25 modifica] transazione; la qual causa quando ricusasse di conoscere, allora averebbe luoco la protesta contra di lui: e però era piú conveniente che li padri rimasti in Trento, se avevano causa di querela contra quei di Bologna, ne instituissero giudicio inanzi a lui. Ma l’ambasciatore aveva pervertito l’ordine, tralasciando la petizione che doveva fare e ricercando un indebito pregiudicio contra il concilio; onde cadendo da sé l’atto della protestazione, non farebbe bisogno dar risposta. Nondimeno, per sincerar la mente di tutti, voleva anco aggiongere. E prima, per quello che tassa lui da negligente e loda Cesare per sollecito, disse non voler detraere alla buona mente e azioni dell’imperatore; ben precederlo, sí come in etá, cosí in diligenza. Mostrò che aveva desiderato sempre il concilio, e con effetti mostrato il desiderio. E qui discorse tutte le azioni fatte a questo fine, e li impedimenti attraversati da altri, e qualche volta anco da Cesare con diverse guerre. Soggionse che se le cause della traslazione siano legittime o no si reservava giudicarlo; ma ben diceva che il laudar li rimasti in Trento era lodar li alienati dal corpo della Chiesa. Non ricusare, né mai aver ricusato che si ritorni a Trento, purché si faccia legittimamente e senza offesa delle altre nazioni; che il voler reputar Trento solo atto a celebrar il concilio era fare ingiuria allo Spirito Santo, che in ogni luoco è adorato ed è presente; né si deve aver risguardo che la Germania ha bisogno della medicina, poiché per quella ragione bisognerebbe far anco un concilio generale in Inghilterra e altrove; non si piglia il comodo di quelli per chi si fanno le leggi, ma di quelli che le hanno a fare, che sono li vescovi. Spesse volte si sono fatti concili fuori delle provincie dove erano le eresie. Scoprir bene che cosa gli dispiace nella risposta datagli, cioè che siano ricevuti li decreti fatti e da farsi, e sia tenuto il modo servato sino dal tempo degli apostoli. Che egli è per fuggir ogni negligenza nella cura della Chiesa; e se Cesare vorrá usar diligenzia, pur che stia tra i termini prescritti dalle leggi e dai Padri che si convengono a lui, la funzione dell’un e l’altro, distinte, saranno salutifere alla [p. 26 modifica] Chiesa. E per quanto s’aspettava a conoscere se la transazione era legitima o no, avocava a sé la causa e deputava quattro cardinali, Parisi, Burgos, Polo e Crescenzio, per conoscerla, comandando a ciascuno che, pendente la cognizione, non attenti alcuna novitá, e dando termine un mese alli padri di Bologna e di Trento da produr le loro ragioni. E questo decreto lo fece ridur in scritto dal secretario consistoriale nella forma giudiciale solita della corte, con inibizione alli prelati di Bologna e di Trento di non innovar alcuna cosa, pendente la lite.

Della risposta del pontefice non bastò alli imperiali di ridersi per la distinzione ivi apportata di protestare non contra il papa, se bene inanzi il papa; ma ancora Diego replicò una nova protesta, dicendo aver da Cesare speciale mandato di protestare nella forma che usata aveva. E in Bologna, ricevuta la inibizione del pontefice, non facendosi piú reduzione de vescovi né congregazione de teologi, a poco a poco partirono tutti, fuorché li stipendiati dal papa, che non potevano farlo con loro onore. Quei di Trento non si mossero, cosí volendo Cesare, per mantenervi il segno di concilio e tenir in speranza li cattolici di Germania e in ufficio li protestanti, e acciò non restasse caduca la promessa fatta da loro di sottomettersi al concilio di Trento, per non esser quello in esistenza.

Il pontefice fece passar a notizia delli prelati rimasti in Trento la risposta data al Mendoza, e aspettò quindici giorni, se da lui o da loro fosse fatta qualche apertura che lo facesse giudice, come aveva disegnato. Ma vedendo che niente succedeva, scrisse un breve al Cardinal Paceco e agli arcivescovi e vescovi restati in Trento, a similitudine d’una citazione, nel qual dopo aver detto le cause che lo mossero ad intimar il concilio, e li impedimenti e dilazioni occorse nel congregarlo e l’allegrezza che ebbe vedendolo principiato (la qual anco s’aumentò per il felice progresso, mettendolo in speranza che in breve dovesse esser provveduto a tutti i mali della Chiesa), soggionse che altrettanta molestia riceveva dalli contrari incontri: onde quando intese la partita dei suoi legati [p. 27 modifica] e della maggior parte dei vescovi da Trento, essendo rimasti essi nei medesimo luoco, sentí dispiacere come di cosa che poteva tirar indietro il progresso del concilio e dar scandolo alla Chiesa. Le qual cose essendo cosí ben note a loro come a lui, si maravegliava perché, se la translazione del concilio era parsa loro giusta, non fossero andati in compagnia degli altri; se ingiusta, perché non avevano fatto querela a lui. Esser cosa chiara, né loro poterla ignorare, ch’erano in obbligo de l’uno o dell’altro di questi doi; de’ quali qualsivoglia che fosse stato abbracciato averebbe levato le occasioni di scandolo. Non poter restar di scriverli con dolore che in l’uno o in l’altro abbiano mancato, e che egli sia stato avvisato prima delle loro querele dall’imperatore che da alcuno di loro, almeno per lettere o per nonci; e di questo ufficio tralasciato aver maggior causa di dolersi del cardinale, maggiormente ubbligato per la dignitá del cardinalato. Ma poiché quello che egli aspettava che fosse fatto da loro è stato prevenuto da Cesare, il qual si è querelato per mezzo dell’ambasciator suo che la translazione del concilio sia nulla e illegittima, offerisce a loro prontamente quello che non li averebbe negato se essi si fossero lamentati, cioè di udir le loro querele e conoscer la causa. E quantunque dovesse presuppor che la translazione fosse legittima, nondimeno per far l’officio di giusto giudice si offeriva pronto di udir loro e le ragioni che addurranno in contrario; che in ciò ha voluto anco tenir conto della nazione spagnola e delle loro persone, non volendo che prevalesser le gran presunzioni che si dovevano aver contra di loro. Per il che avendo col conseglio de’ cardinali avocato a sé la causa della translazione del concilio, e commessa ad alcuni di essi per riferirla in consistoro, e chiamati tutti li pretendenti interessi, e inibito alli prelati di Bologna e di Trento di attentar alcuna cosa pendendo la lite (si come nella scrittura, della qual manda copia, si conteneva), desiderando finir la causa quanto prima, li comanda che, pretendendo la translazione esser invalida, tre di loro almeno ben informati debbino assister nel giudicio e allegar le pretensioni loro, e presentarsi [p. 28 modifica] per ciò quanto prima, volendo che la presentazione fatta al cardinale e a doi o tre di loro, con l’affissione alle porte della chiesa di Trento, obblighi tutti come se fosse personalmente intimata. Mandò anco il pontefice alli congregati in Bologna ad intimare l’istesso decreto, li quali mandarono a Roma immediate.

Ma il Cardinal Paceco e li altri spagnoli rimasti in Trento, che si ritrovarono insieme al numero di tredici, avendo prima mandato ad intender la mente dell’imperatore, risposero alla lettera del pontefice sotto il 23 marzo in questa sostanza: che confidavano nella benignitá e prudenza sua, qual facilmente cognoscerá essi, nell’aver contraditto alla transazione, nell’aver taciuto, nell’esser restati in quella cittá, niente aver manco pensato che di offender la Santitá sua; anzi la principal causa del dissentir dagli altri esser stata il veder che si trattava di cosa gravissima senza saputa della Santitá sua, nel che anco desideravano che non fosse tenuto cosí poco conto dell’imperatore. Che pareva loro chiaro che la transazione non dovesse esser ben interpretata né facilmente approvata da Sua Santitá, la qual pregavano a non credere che l’imperatore abbi prevenuto la querela loro, aspettata dalla Beatitudine sua, sopra la illegittima transazione del concilio, perché essi glie n’abbiano fatta querela, ma per proprio moto di Cesare, il quale reputava appartener a lui la protezione della Chiesa. Che non sarebbe mai venuto in mente loro la Santitá sua aver potuto desiderar questo ufficio di esser avvisata da essi, la qual reputavano aver avuto intiero conto dalli suoi legati, avendo essi parlato in pubblico e con scrittura de notari, che pareva loro bastar aver detto il parer loro, e del resto tacere. Per il che non credevano che la loro presenza fosse necessaria in altro. Che se vi è mancamento, il candor dell’animo nondimeno è chiaro. Che pensavano a loro bastare dissentire dalla translazion proposta, e per modestia e umiltá non interpellar la Santitá sua, qual speravano non dover mancar a quello che avesse giudicato utile per la Chiesa. Non vedere perché dovessero partir con li legati, i quali promisero, e [p. 29 modifica] nella congregazion generale e nella pubblica sessione, di dover tornare a Trento subito che fosse cessato il sospetto del morbo, massime se la Germania si fosse sottomessa al concilio. Che essi si fermarono nella cittá, credendo che dovessero ritornare, massime quando intesero per grazia di Dio e per virtú dell’imperator la Germania essersi al concilio sottomessa. Che alcuni abbiano ricevuto scandolo, come dice Sua Santitá, dal loro esser rimasti, bastare a loro che non l’hanno dato, e che dall’altra parte la partita degli altri ha turbato molti. Che la loro nazione ha sempre venerato il successor di san Pietro, nel che da loro non è stato commesso mancamento. Pregare Sua Santitá che non sia ascritto loro a fraude quello che a buon fine hanno fatto; quale pregano umilmente che non consenta siano messi in lite. La causa di che si tratta non esser di loro ma di Dio: quando di loro fosse, esser parecchiati a sostener ogni torto; ma essendo di Dio e di Cristo, come è, a nessun piú appartenere che al vicario suo. In fine pregarono Sua Santitá che rimettesse in piedi l’interrotto concilio, rendesse a quel luoco li legati e li padri; e il tutto si facesse per la breve, senza trattar di translazione. Pregarlo ricever in bene le loro parole, non dette per significar qual sia il debito della Santitá sua, ma quello che essi da lei sperano.

La risposta delli spagnoli, dal pontefice ricevuta, fu mandata alli cardinali commissari della causa, da’ quali fu comunicata alli procuratori delli bolognesi, acciò proseguissero inanzi. Questi risposero esserli grato che li spagnoli riconoscano il giudicio e il giudice, e che non voglino esser parte: con tutto ciò esser necessario ributtare alcune cose dette nella risposta loro, per metter in chiaro la veritá. Per quel che dicono che doveva esser avvisata prima la Santitá sua, questo era superfluo, essendovi una special bolla, che allora fu letta. Che l’imperatore sia stato negletto non si può dire, poiché tanto conto è stato tenuto di Sua Maestá quanto del pontefice, non comportando il fatto dimora; poiché era necessario o dissolver o transferir il concilio per il progresso che faceva il [p. 30 modifica] morbo pestilente nella cittá e luochi circonvicini, per la partita di molti padri successa e imminente, e per la contestazione giurata dei medici, specialmente del Fracastoro stipendiato pubblico, per il timore che si aveva che non fosse levato il commercio delle cittá vicine: le quali cose constano tutte negli atti per comandamento di Sua Santitá a Roma trasportati. Che li legati dopo il decreto li esortarono andar a Bologna; e gionti a Bologna gli ammonirono per lettere; onde non possono dire di non aver dovuto seguire li legati perché non fossero di parere che il concilio si trasferisse: imperocché essendo liberi li voti di tutti nel concilio, poterò con conscienzia dissentire dagli altri; ma avendo la maggior parte fatto un decreto, a quello convien che la minore accomodi la conscienzia sua, altrimente mai cosa alcuna si terminerebbe. Che sia stato promesso il ritorno si può veder nel decreto con che forma; ma se sono restati credendo che gli altri dovessero ritornare, perché non risponder alle lettere dei legati, che li ammonivano di andare a Bologna? Ma quando chiamano asserta la suspizione della pestilenzia, è verisimile che li sia caduta quella voce per caso, altramente, non avendo causa d’allegare contra la translazione e non mandando secondo il decreto di Sua Santitá, incorrerebbono nelle censure. Né quella division vale, se la causa è di loro o di Dio; perché, in quanto a loro appartenga, niuno vuole farli ingiuria; in quanto sia di Cristo, poiché è question di fatto, è ben necessario dilucidare quello che in fatto non è chiaro. Onde avendo l’imperator chiamato li legati asserti e li padri che sono in Bologna non «concilio» ma «privata adunanza», e aggregato molti obbrobri contra la translazione, fu ragionevole che la causa fosse assonta da Sua Santitá, non per fomentar le liti, anzi per sopirle. Se li scandoli siano nati per la translazione o perché essi siano rimasti, da questo solo si può vedere, perché il loro rimanere è causa che non si possi tornarvi; e quando pregano la Santitá sua di ritornar l’interrotto concilio, se ciò intendono delle solite congregazioni, quelle mai si sono intermesse, se della pubblicazione dei decreti, quella è stata differita in grazia loro: [p. 31 modifica] e giá tante cose sono discusse in Bologna, cosí della fede, come della riforma, che se ne può far una longa sessione. Per il che pregano la Sua Santitá di dar la sentenzia, considerando che nessun concilio, fuor di tempo di scisma, è durato tanto quanto questo; onde li vescovi sono desiderati dalle sue chiese, alle quali è giusto che siano renduti.

Questa scrittura fu in fine d’aprile presentata. Dopo la quale non fu proceduto piú inanzi nella causa, perché li cardinali deputati non sapevano trovar modo come venir a fine: il prononciar la translazione legittima in assenza di chi la contradiceva, non avendo modo di constringerli a ricevere la sentenza, era fare un scisma; meno si vedeva modo come sforzarli ad assistere al giudicio. Il pontefice era di ciò molto angustiato, non vedendo manco partito alcuno come senza forma di giudicio si potesse comporre questa difficoltá.