La metà del mondo vista da un'automobile/XX
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CAPITOLO XX.
DAL VOLGA ALLA MOSKWA
La Siberia che torna — Un villaggio ostile — L’ospitalità d’un mugnaio — Nishnii-Nowgorod — L’odissea d’un dispaccio — La Strada — Wladimir — Una panna volontaria — Mosca ci accoglie — Sulle rive della Moskwa.
A Kazan le molle furono riparate. L’operazione si compiè rapidamente nella notte. Un fabbricante di molle da vetture si assunse l’incarico di rifare i “fogli„ spezzati in dieci ore, e mantenne la parola. Alle nove del mattino, 24 Luglio, potevamo lasciare Kazan con la macchina in perfetto ordine. Passammo sotto alle severe muraglie del Kremlino, di quell’antica cittadella tartara che ha una delle più torve storie di fuoco e sangue, che vide le stragi di cristiani ordinate da Makhmet-Amin, le stragi di tartari ordinate da Ivan IV, le stragi di nobili ordinate dal ribelle cosacco Pugatcheff, che vide quattro volte la città saccheggiata e annientata. Arrivammo al lontano operoso sobborgo dell’Ammiragliato, poi al porto sul Volga.
Il gran fiume, il massimo fiume d’Europa, ampio, maestoso, lento, superbo, era pieno di battelli, di grandi vapori che vanno a navigare fin nel Caspio, di chiatte, di rimorchiatori, di piroscafi da passeggieri. L’imminenza della fiera di Nishnii-Nowgorod lo affollava. Esso sorregge sulla superficie delle sue acque uno dei più grandi traffici del mondo: unisce la Persia, il Caucaso, il Turkestan al centro della Russia. Le genti più varie si agitavano sulla riva, fra le stazioni d’imbarco, tutte di legno, dominate da un marinaresco sventolio di bandiere e di segnali: si vedevano tartari, armeni, circassi, kirghisi, in mezzo alla moltitudine di contadini russi. Partivano battelli per Nishnii-Nowgorod.
Imbarcammo sopra uno dei ferry-boat che fanno la spola da una riva all’altra. Non traversavamo il Volga come gli altri fiumi sopra un pontone, o una barca, o una zattera; era un vero e proprio piroscafo che ci portava; e ci pareva grandioso come un transatlantico. Dei cosacchi ammucchiati a prua, fra teleghe e cavalli, suonavano le balalaike — quelle strane mandòle triangolari che gli slavi hanno portato fino alle sponde dell’Adriatico — e cantavano.
In pochi minuti fummo sulla riva destra, disseminata di ville, collinosa e verde. E partimmo veloci, ascendendo fra i colli dai quali ammiravamo l’indimenticabile spettacolo di Kazan tutta bianca, che levava in alto le scintillanti cupole della cattedrale dell’Annunciazione, la prima chiesa sorta sulle rovine della dominazione musulmana. Vicino a quelle cupole, vedevamo — singolare contrasto di forme e di ricordi — la vecchia, oscura, alta torre tartara detta Siumbeka, che prende il nome dal nome d’una principessa tartara la quale, secondo una poetica leggenda, salì sulla sua cima mentre la città assediata cedeva agli assalti degli slavi vittoriosi, e si precipitò nel vuoto per morire insieme alla patria. Nella bassa Kazan, ancora tutta tartara, dalle case piccole inframezzate di giardini, sorgevano minareti. E vicino al fiume un panorama strano di edifici rotondi: erano colossali serbatoi di petrolio che le navi portano da Baku, risalendo il Volga. Kazan è uno dei più grandi depositi di petrolio del mondo. Poi tutto si allontanò, si dissipò, sparì dietro alla vetta d’un colle. Ed eccoci di nuovo nella solitudine della campagna.
Scendemmo al sud per qualche tempo, fino ad un bivio: a sinistra la strada per Saratow, a destra quella per Mosca. E riprendemmo il cammino dell’occidente. Correvamo per sentieri abbandonati, incerti, coperti d’erbe; eravamo costretti a ritornare alle più modeste velocità, con la vaga impressione che la grande città allora lasciata, dagli ampi boulevards corsi da scampanellanti trams elettrici, popolosa, animata, rumorosa, moderna ad onta delle venerabili chiese, fosse stata un sogno, un’allucinazione venutaci in piena Siberia.
Era infatti la Siberia che tornava. In qualche punto le acque avevano talmente scavato sulla strada, da trasformarla in burrone profondissimo sulle cui rive andavamo cercando dei passaggi. Ci avvenne di perdere la direzione, come in Mongolia. Arrivammo in un luogo ove ogni traccia di strada o di sentiero era assolutamente sparita, e noi ci demmo a ricercare non più la buona via, ma un uomo che ci servisse da guida. Ogni tentativo fatto consultando la carta e la bussola, ci aveva condotto contro a degli ostacoli insormontabili. Vedemmo due contadini che falciavano l’erba in un prato. Uno di loro consentì a montare sull’automobile ed a condurci. Dopo una decina di verste raggiungemmo un viottolo fangoso fiancheggiato dalla linea telegrafica.
— Seguite il telegrafo! — ci disse l’uomo lasciandoci.
Era tanto tempo che non ci facevamo più guidare dall’interminabile fila di pali! E ci avvicinavamo a Mosca. Tutto il traffico terrestre laggiù si svolge nell’inverno, quando la neve livella mirabilmente ogni terreno sul quale scivolano le slitte veloci: è inutile dunque mantenere delle strade costose. Nell’estate vi sono i fiumi. Anticamente, in epoche precedenti alla navigazione a vapore, esisteva lì una strada magnifica, della quale trovavamo appena alcune vestigia: resti di filari di betulle centenarie, ponticelli malfermi, e, nei luoghi paludosi, brevi tratti pavimentati, ora sconnessi dalle erbacce. I contadini, per andare da un villaggio all’altro, preferiscono non passare più su quella via distrutta; vanno capricciosamente per viottoli numerosi che formano una rete inestricabile. Quel labirinto era la nostra disperazione. Superavamo tutte le difficoltà incontrate nei peggiori tratti siberiani. Ne uscivamo lentamente ma facilmente, per la pratica acquistata.
Verso l’una attraversavamo un piccolo villaggio quando, sulla piazzetta erbosa che circonda sempre le bianche chiesuole dei villaggi russi, l’automobile, benché andasse molto piano, spaventò un cavallo attaccato ad una telega vuota. Il cavallo si mise in fuga; un ragazzo d’una decina d’anni, che era allora disceso dalla telega, volle fermare il cavallo; afferrò la lunga capezza che si trascinava dietro al carro, e tentò di tirarla. Disgraziatamente la corda gli si avvolse attorno ad una gamba; egli cadde. Mandammo un grido di spavento; già vedevamo con l’immaginazione il fanciullo trascinato per un piede e massacrato orribilmente. Ma non pensavamo alla provvidenziale ampiezza degli stivali russi; il ragazzo era appena caduto, che la corda attorcigliata alla sua gamba non faceva altro che cavargli lo stivale, ed egli rimase sano e salvo. Il cavallo si fermò di fronte al recinto della chiesa. L’incidente sollevò contro di noi l’ira della popolazione. In un momento si formò un gruppo compatto di contadini che, profittando della nostra lenta andatura, si mise ad inseguirci. Ad essi se ne aggiunsero degli altri. Si armarono di pietre, e vennero all’assalto, urlando. Ci gridavano in tono furibondo: “Fermatevi!„
La fuga della telega da sola non poteva giustificare tanta indignazione. Anche un contadino russo era capace di comprendere che non avevamo alcuna colpa. Ma qualche giorno dopo, a Mosca, quel furore, ed anche la muta ostilità incontrata in tanti centri della campagna russa, ci furono spiegati. Pare che l’automobile abbia servito in varie occasioni ai rivoluzionari per compire le loro gesta e per gettare proclami incendiari. Certo è che in molti paesi russi si è creata l’opinione che le automobili siano i veicoli dei nemici della religione e dello Zar. La fuga d’un cavallo fu per noi la determinante d’uno scoppio di vecchia ostilità.
Gl’inseguitori non parevano disposti a lasciarci sfuggire. La strada ad un certo punto, li aiutò. C’incontrammo, passata la chiesa, in una discesa precipitosa, piena di solchi e di buche. Dovemmo rallentare, frenando, per non spezzare la macchina. I contadini erano capitanati da un giovanotto biondo, dalla camicia rossa, che correva velocemente avanti agli altri urlando loro qualche cosa per incoraggiarli. La distanza si raccorciava rapidamente. Dei sassi cominciavano ad arrivare. Ancora pochi secondi e saremmo stati raggiunti. Allora mi decisi a fare un gesto che interruppe immediatamente l’inseguimento. Fu un gesto molto semplice della mano destra tesa, un gesto che feci levandomi in piedi e volgendomi alla turba; essa si fermò di colpo, ammutolì, rinculò, Un imbarco difficile.
e ci lasciò andare. Debbo aggiungere che nella mano destra stringevo l’impugnatura della Mauser, armata ed abbassata in mira.
Poco dopo affondavamo nel fango, presso ad un piccolo fiume, il Zimylskaja. Ci liberammo con un’ora di lavoro, aiutati da tre mujik che passavano. Attraversammo il fiume sopra un vecchio ponte, lasciammo a sinistra la pittoresca cittadina di Woronowka, e via ancora per strade incerte e insidiose. Intanto il tempo s’era fatto minaccioso. Da ponente si avvicinava un nero temporale, che ci fu sopra mentre ci trovavamo in mezzo a grandi foreste di quercie e di faggi, guastandoci il piacere d’incontrarci in alberi amici. Eravamo sazi di abeti e betulle. Gli abeti sono certamente fra gli alberi più belli; hanno una specie di severità architettonica con le loro oscure punte da cattedrale; ma alla lunga finiscono per diventare noiosi, noiosi come una selva d’ombrelli chiusi. Le quercie ci sembravano semplicemente deliziose; avevano una fisionomia disinvolta, variata, familiare, pareva che gesticolassero con i loro rami contorti e irregolari agitati dal vento; erano gli alberi di casa nostra.
Pioveva dirottamente, con il consueto accompagno di lampi e di tuoni. Era deciso che dovesse piovere tutti i giorni; avevamo ammesso questo fatto come una condizione necessaria e ineluttabile. Vedevamo arrivare i temporali senza neppure pronunziare una parola impaziente o esprimere il più leggero malumore. Non avevamo neanche la noia di prepararci alla pioggia infilandoci gl’impermeabili, perchè li portavamo sempre indosso; poteva esserci il più bel sereno e il sole più fulgido di questo mondo, noi non ci toglievamo più quel prezioso indumento. Non credevamo al tempo buono; sapevamo da prima che era uno scherzo ingenuo del cielo.
Naturalmente le strade, cattive col sole, divennero impraticabili. Andavamo come si poteva, scivolando, pattinando, spingendo la macchina a spalla per salite viscide di fango, ci fermavamo a prender acqua nei fossi per metterla nel radiatore che lo sforzo continuo del motore prosciugava; attraversavamo larghe pozze, che parevano stagni, dopo avervi passeggiato a piedi per sondarne la resistenza nel fondo. Percorrevamo forse otto o nove chilometri all’ora. La sera ci sorprese in mezzo ad una solitudine. Partendo da Kazan speravamo di raggiungere Tschebokssary, lontana 160 chilometri; alle otto di sera non avevamo percorso più di 80 chilometri. Ci eravamo decisi a fermarci al prossimo villaggio. Ma l’oscurità, che la pioggia anticipava, non ci permetteva di vedere nettamente il suolo, e, ad un tratto, l’automobile s’inclinò tutta sopra il fianco sinistro e si fermò. Eravamo affondati. Ettore non aveva scorto una profonda avvallatura melmosa, e due ruote vi erano andate dentro fino ai mozzi.
Guardammo intorno se si vedeva alcun villaggio. Niente. Eravamo in una valletta deserta. In fondo scorreva un torrente gonfiato dalla pioggia. Il Principe ed io, lasciando Ettore alla custodia della macchina, c’incamminammo verso la cima d’una collina per vedere se da lassù ci fosse dato di scorgere luoghi abitati. Non si vedeva niente. La campagna oscura e triste, una prateria ondulata, rotta qua e là da neri boschetti; null’altro. Ci rassegnammo a passare la notte sull’automobile, coperti alla meglio dalle pellicce e dagl’impermeabili. Il torrente muggiva. Tornavamo scoraggiati, quando nello scroscio dell’acqua udimmo un rumore di legno percosso, un rapido ta-ta-ta. Ci fermammo ad ascoltare:
— Si direbbe un mulino — osservammo.
— Ma non si vede una casa!
Guardammo meglio, lungo il torrente. Frugavamo con gli occhi le sue rive.
— Là, là, — esclamai — c’è un tetto.... in quel boschetto di salici.... a sinistra del ponticello.
C’incamminammo in quella direzione; un viottolo ci condusse. Era proprio un piccolo mulino solitario. Entrammo in un cortiletto. Sulla porta d’un’isba era una vecchia che vedendoci rientrò spaventata. Due uomini comparvero, in attitudine poco benevola, chiedendoci:
— Chi siete?
Borghese spiegò il nostro essere, parlò dell’automobile, promise loro equi compensi se ci avessero aiutato, e finì coll’indurli, rabboniti, a venire a vedere la macchina meravigliosa affondata nel fango.
— Bisogna andare al villaggio — dissero dopo avere ben osservato — e chiamare aiuto. Noi al mulino siamo in quattro soli. Quanto siete disposti a spendere per risollevare il carro?
— Cinque rubli! — rispose il Principe. Era la somma di partenza, come nelle aste pubbliche.
Cinque rubli! I mugnai si sentirono abbacinati da questa ricchezza. Cinque rubli! Si guardarono, scambiarono poche parole. Era venuta loro una forza da giganti e un coraggio da leoni. Volevano guadagnarli tutti loro i cinque rubli; avrebbero sollevato dieci automobili....
— Non c’è bisogno di chiedere aiuto al villaggio — esclamarono — facciamo da noi. Abbiamo travi, tavole, tutto.
Andarono, e tornarono di corsa insieme ai loro due compagni che erano rimasti al mulino, e si misero al lavoro. Noi li aiutammo con tutte le nostre forze, e con l’esperienza. A furia di leve e di binde la macchina fu risollevata in mezz’ora. Fortunatamente l’incidente era avvenuto in una ripida discesa. Con la pala scavammo un po’ il terreno avanti alle ruote, Ettore mise in azione il motore e prese il volante, e bastò una buona spinta perchè l’automobile partisse; arrivò al fondo della valletta, passò un piccolo ponte di legno, infilò un viottolo e andò a fermarsi nel cortile del mulino. Il mugnaio stesso ci aveva offerto ospitalità nella sua povera casa.
Sospese il lavoro della mola. Era festa quella sera al mulino. Le donne si affaccendavano; erano due donne, la madre e la moglie del mugnaio. Gli altri uomini erano i garzoni. Ci portarono delle uova, del latte, del pane. Accesero il fuoco nella stufa, accesero tutti i lumi della casa. Uno degli aiutanti arrivò dopo un’ora con un enorme boccione pieno di vodka, che era andato a comperare al villaggio: i cinque rubli cominciavano a convertirsi in ebrezza.
Riuniti intorno a noi, quei grossi uomini biondi, si misero a bere alla nostra salute. Ingoiavano bicchieri colmi del terribile liquore, dopo essersi fatti tre volte il segno della croce col bicchiere in mano e aver pronunziato una breve preghiera. Pareva una libazione sacra: quella sbornia cominciava con la solennità d’un rito. Le donne guardavano, in disparte, melanconicamente, silenziose. Dei bambini sporchi giuocavano in un angolo. Una lampada votiva ardeva avanti all’immagine del Redentore appesa ad una parete rozza dell’isba. All’interno quelle rozze case di travi, calafatate fra trave e trave con muschio secco, dal basso soffitto e le piccole doppie finestre che non si possono aprire, fanno pensare a stive di antiche navi.
Non tardò la vodka a produrre i suoi effetti. Il mugnaio si accorse di amarci. Ci guardava teneramente. I suoi occhi azzurri si empivano di lagrime di commozione. Come ci amava! Sentiva il bisogno di dircelo, di ripetercelo: “Vi amo! Vi amo!„. E ci abbracciava uno ad uno baciandoci con reverenza affettuosa sulla fronte. I suoi uomini approvavano gravemente con cenni Un mujik curioso. del capo e con parole convinte. Era giusto amarci — dicevano — bisognava amarci. La loro simpatia profonda si estendeva sulla nostra patria. Perchè mai non avevano mai incontrato italiani nella loro vita? — si chiedevano sorpresi. — Un popolo da adorarsi. Tutte le benedizioni del cielo erano invocate sopra di noi. La giovane donna, dal volto serio e quasi addolorato, profittò dell’emozione affettuosa del marito per portar via la grossa bottiglia della vodka senza che se ne avvedesse, e per andarla a nascondere in un angolo, sotto a degli stracci.
Quando mostrammo desiderio di riposare, tutti uscirono e ci lasciarono soli. Le donne e i bambini andarono a dormire in un andito, per terra. Gli uomini rimasero a lungo sulla soglia dell’isba, e li udimmo cantare per ore di quei melanconici canti slavi solenni come preghiere. Poi, sopita forse l’ebrezza dal freddo della notte, tornarono al mulino, che si rimise al lavoro: ta-ta-ta-ta....
Noi ci eravamo sdraiati sul pavimento. Io non potevo dormire; dei grossi topi si rincorrevano intorno. Improvvisamente mi sentii investire da un soffio d’aria fresca. Mi accorsi che la porta si apriva adagio adagio. Qualcuno voleva entrare senza farsi udire.
Sollevato sul gomito, sforzai la vista nel buio. Dallo spiraglio della porta filtrava un barlume di luce che mi permise di vedere, o meglio d’indovinare la persona che s’introduceva così furtivamente nella nostra stanza: era la donna, la giovane. Distinguevo il biancore del suo lungo camiciotto bianco. Essa, aperta la porta, ristette sulla soglia ascoltando. Che voleva? Io guardavo con intensa curiosità.
Rassicurata dal silenzio entrò. Era scalza, e non faceva il minimo rumore; pareva un’ombra. Si diresse con sicurezza verso un angolo, si chinò a frugare. Mi ricordai: era il posto ove essa aveva nascosto la vodka. Infatti sentii, da un lievissimo rumore del vetro, che afferrava la bottiglia; la vidi risollevarsi. Dopo un istante udii un gorgogliare leggero del liquido, lungo, interrotto da sospiri....
La brava donna beveva.
Ci rimettemmo in marcia alle sei del mattino. Le strade erano prosciugate, e migliori. Per lunghi tratti trovammo un terreno simile a quello della steppa, sul quale potemmo lanciarci a grandi velocità. Attraversammo Tschebokssary, nell’ora del mercato, vecchia città di provincia che ha una sonnolenta aria di riposo, come di città pensionata. Passammo per un villaggio in giorno di fiera, strano per la gran folla tutta vestita di bianco e di nero, una folla che aveva un’apparenza monacale. A mezzogiorno eravamo a Wassilsursk, graziosa cittadina sulla riva destra del Sura — confluente del Volga — posta alla foce del fiume, civettuola in mezzo al verde di piccoli boschi, tutta scomposta sul declivio d’una collina, quasi che le sue casette si siano immobilizzate mentre scendevano a gara in disordine verso il fiume. Traversammo il Sura sopra una chiatta a rimorchio d’un vaporino. La strada per Nishnii-Nowgorod riprende alla riva sinistra, un paio di verste a monte. E via, e via, per tutto il giorno, fiancheggiando di tanto in tanto il Volga, del quale scorgevamo le ampie e pigre spire svolgentisi nella vallata vasta, corse da battelli; via per campagne umide di pioggia, pittoresche nella loro pallida immensità.
Cominciammo a trovare, nel pomeriggio, delle ville signorili disperse per i boschi, e incontrammo comitive di villeggianti. La gran città, Nishnii-Nowgorod era vicina. Verso il tramonto ci apparvero lontano delle ciminiere d’opifici, immediata avanguardia delle moderne metropoli. In cima ad una salita stavano delle iswoshchik. Quando le raggiungemmo fummo accolti da un grido di saluto.
— Evviva!
Era in esse l’agente commerciale d’Italia in Russia — una specie di diplomatico dell’industria —, un segretario del console italiano a Mosca, un agente consolare, alcuni connazionali. Entravamo nell’orbita ufficiale dell’Europa. Ricevemmo la nostra posta, lettere, giornali, telegrammi. Era una ripresa di contatti. La gran solitudine finiva. Era finita.
Comparvero delle bottiglie di champagne, dei bicchieri, brindammo, stringemmo commossi dieci volte le stesse mani, domandammo notizie del nostro mondo. Poi fummo presi da una subitanea impazienza, dalla voglia imperiosa di finire, di correre, correre senza fermarci più, come quel personaggio della leggenda fiamminga il quale si fabbricò due gambe meccaniche che camminavano da sole, e corre, corre ancora, perchè si dimenticò di mettervi anche un meccanismo per fermarle.
— In macchina! In macchina! — esclamammo.
Non sentivamo più stanchezze e malinconie. Tutto era dimenticato: — In macchina! — E poco dopo il superbo panorama di Nishnii-Nowgorod si spiegava sotto a noi. Da Kazan avevamo percorso 447 chilometri. Era sera quando entravamo per le ampie vie dell’antica capitale russa. “Nowgorod la Bassa„, che fu il vero nido dell’immenso Impero. Le undici torri del Kremlino, in alto, sulla città, erano ancora illuminate dal tramonto; fiammeggiavano superbamente al di sopra delle cupole d’oro e dei bianchi campanili. Quelle undici dominatrici noi le guardavamo con un certo senso d’orgoglio pensando che sono un po’ italiane; furono fatte da un architetto italiano, Pietro Frasiano, quando il Kremlino cessò di combattere e volle abbellirsi. Intorno a quella fortezza si erano formati gli eserciti che avevano conquistato Kazan ai tartari; più tardi vi si formò l’esercito che scacciò i polacchi da Mosca. Nowgorod la Bassa deve apparire sacra all’anima slava.
Eravamo appena arrivati, quando ci venne comunicato un invito. Alcuni eletti cittadini, fra i quali il Governatore, vollero festeggiarci con un banchetto all’aperto, in un gran giardino della “Città alta„. L’aria era mite, il cielo sereno: vedevamo il Volga, alla confluenza dell’Oka, ampio, pallido, scorrere nella vallata sotto a noi, costellato da miriadi di lumi di battelli ancorati, simile ad una via lattea distesasi sulla terra: una musica suonava fra gli alberi. Ci attardammo sedotti dalla dolcezza della notte calma. Durante il banchetto vennero a chiamarmi.
— Che c’è? — chiesi al cameriere inguantato che mi avvertiva.
— Voi avete spedito un telegramma?
— Sì, due ore fa.
— Bene. L’ufficio telegrafico avverte che non può trasmetterlo.... Se volete parlare al telefono....
Corsi ad un telefono che m’indicarono. Fui messo in comunicazione coll’ufficio telegrafico. Il mio dispaccio non poteva essere trasmesso perchè non era scritto in russo. Da Nischne-Udinsk non avevo più sentito dire questa graziosa enormità. Per fortuna avevo sotto mano le persone più influenti della città che telefonarono, corsero all’ufficio, parlamentarono, e tornarono trionfanti. Il telegramma sarebbe partito.
— Ognuno fa il comodo suo! — esclamarono come commento. — L’ufficio trovava che il dispaccio era troppo lungo....
— Sono i tempi!
Era passata da un pezzo la mezzanotte quando fu bussato alla porta della mia camera, all’albergo. Sopra un «gorto».
— Che c’è? — chiesi.
— Voi avete spedito un telegramma?
Balzai dal letto furibondo e corsi ad aprire.
— Sì — gridai al maitre d’hôtel al quale mi trovai di fronte — sono quattro ore che l’ho spedito. Quattro ore!
— Tranquillizzatevi — mi rispose dolcemente — il vostro telegramma è partito, e sarà forse arrivato. L’ufficio telegrafico chiede soltanto un piccolo schiarimento...
— Quale?
— Domanda se le parole del vostro dispaccio debbono esser lette dall’alto in basso, una sotto l’altra, oppure in linea orizzontale da sinistra a destra.
Rimasi allibito. Caddi sopra una sedia, esclamando con voce dolente:
— Io non ho telegrafato in cinese! E nemmeno in giapponese! Ve lo giuro. Ho scritto in una lingua europea. Soltanto il cinese e il giapponese si scrivono dall’alto in basso. E si leggono dall’alto in basso. E si telegrafano dall’alto in basso.
— Va bene, va bene. Telefono subito. Dunque, da sinistra a destra?
— Ma se l’hanno già trasmesso! Come l’hanno trasmesso?
Come?
— Dall’alto in basso, signore!
Erano le dieci del mattino quando riprendemmo il viaggio. La nostra grigia e sporca automobile ce l’avevano, con gentile pensiero, ornata di mazzi di fiori. La gente per le vie ci salutava con lieta cordialità, usciva fuori dai negozi, si affollava verso di noi. Attraversammo l’Oka sul “Ponte della Fiera„, il magnifico ponte di legno che unisce Nishnii-Nowgorod alla Jamarka, la località della famosa fiera di S. Pietro e S. Paolo. Eravamo all’antivigilia della sua apertura. Essa si preparava a ricevere i 400.000 stranieri che vi accorrono ogni anno. Il grandioso fiume era solcato da innumerevoli vapori e battelli variopinti, era pieno di frastuono, di movimento, di luce, di canti.
Montagne di mercanzie si accatastavano sulla riva, dominate da uno sfarfallamento di bandiere. Enormi barche ormeggiate alle rive sostenevano edifici provvisori, caffè e trattorie galleggianti, multicolori, festonate, un teatro, luoghi ove la gente va a fumare perchè il fumare è proibito per le strade della Jamarka. Abbiamo attraversato, lungo la riva sinistra dell’Oka, il vasto territorio della fiera, con i suoi seimila magazzini, i suoi negozi, i suoi mercati, tutta un’altra città, morta per dieci mesi dell’anno, allagata a primavera, e della quale vedevamo il rumoroso risveglio. La sua strana popolazione lasciava il lavoro per stringersi al nostro passaggio. C’è di tutto alla fiera di Nishnii, ma l’automobile non vi era apparsa ancora.
Fra la grave e pensosa moltitudine slava, vedevamo curiose genti intorno a noi. Molti i tartari dal kaftan alla turca o dal kulmak azzurro; e i kirghisi venuti dalle loro steppe (ne avevamo incontrati tanti per la via) conducendo per migliaia di chilometri mandrie di cavalli legati l’uno all’altro con corde di paglia e le corde legate alla telega; v’erano circassi coperti di armi vistose; persiani, dall’alto berretto peloso, che avevano risalito il Volga da Astrakan; e armeni dal volto severo; siberiani di Tobolsk venuti con carichi di pellicce preziose. Passò fra la folla la voce che noi giungevamo da Pechino: ci guardarono sorpresi, ci domandarono mille cose che non sempre comprendevamo. Passammo avanti al magnifico palazzo dove il governatore risiede nell’epoca della fiera, poi entrammo nella Moskowskaja, la strada di Mosca, ingombra di carri, fiancheggiata da opifici, bella, ampia, massicciata, piana, diritta.
Mettemmo la macchina in velocità. La città e la sua Jamarka si allontanavano a poco a poco. La strada si spopolava. Ci trovammo soli, e ci aspettavamo di entrare in uno dei soliti miseri sentieri campestri che fino a quel giorno erano stati la nostra pista. Questa volta però il sentiero non arrivava: la massicciata continuava eguale. E non ci abbandonò più. La strada, la vera strada era raggiunta.
Finalmente! Dopo 7500 chilometri di viaggio, dopo quarantasei lunghi giorni di fatiche, di pene, di sofferenze, di sconforti! La cercavamo, la sospiravamo fin da quando uscimmo dal deserto mongolo: credevamo di raggiungerla a Kiakhta, a Irkutsk: ad ogni tappa eravamo sorretti dalla speranza di trovarla. Descrivendo il viaggio ho parlato di strade per dare un nome agl’indefinibili luoghi sui quali passavamo. In realtà avevamo camminato quasi sempre sulla terra naturale, più o meno buona, sulla sabbia, sul fango, sui sassi, sugli sterpi. La strada cominciava soltanto allora, preceduta dalla piccola, lontana avanguardia di Kazan. Cominciava a Nishnii-Nowgorod, città indimenticabile che segnava per noi l’inizio della fase risolutiva del viaggio. Ci pareva l’inizio della civiltà.
L’Europa non ha i suoi confini come vogliono i geografi, e come noi avevamo creduto, tra le foreste degli Urali; no: essa comincia a Nishnii-Nowgorod, con quella striscia bianca sulla quale correvamo, larga, invitante, nastro infinito che partendo da lì ravvolge tutte le nostre nazioni. Ci sembrò allora, allora soltanto, di aver trionfato di ogni difficoltà: non avremmo dovuto più scalare rocce, scendere precipizi, sobbalzare sopra tronchi d’albero; non saremmo più affondati in paludi insidiose: non avremmo più dovuto cercare la direzione tra le erbe degli acquitrini e gli alberi delle foreste. La strada ci conduceva: essa era la nostra amica, la nostra guida, ci sorreggeva, ci accompagnava alla mèta.
Mandammo un grido di gioia quando, dall’alto d’una collina la vedemmo svolgersi fino all’orizzonte. E pure, rimaneva in noi un senso di dubbio, una vaga ansia: eravamo stati troppe volto ingannati, e temevamo ancora un poco che essa ci sparisse, ci abbandonasse. Non potevamo abituarci ad un cambiamento così completo e repentino. E così bello.
È stato forse per renderci il cambiamento un po’ meno radicale, per mettervi una certa sfumatura, che anche la Moskowskaja volle essere almeno ostile in qualche cosa, sul principio: nei ponticelli. I suoi ponticelli erano vecchi e malsicuri. Sentivamo sotto le ruote l’aborrito scricchiolare del legno. Mentre correvamo veloci, ecco uno di quei ponticelli cedere sotto il peso dell’automobile; una tavola si spezza. Borghese grida ad Ettore che conduce:
— Forza: A tutta forza!
Il motore romba alto, e la macchina, che pareva stesse per arrestarsi, balza in avanti sulle tavole tutte inclinate. È in salvo. Dietro a noi udiamo un cadere di legname. Dopo una cinquantina di verste passiamo i confini del governatorato di Nishnii-Nowgorod. Troviamo strade eccellenti, ponti nuovi, solidi.
L’automobile si slancia a tutta velocità; noi, curvi in avanti per vincere la resistenza dell’aria, superiamo lunghi tratti in volata, assaporando nuovamente, dopo tanto tempo, la voluttà della corsa ininterrotta. Attraversiamo pittoreschi boschi di faggi, di pini, di betulle, che noi opiniamo appartengano alla Corona Nella foresta. perchè su di essi, da alte torri di legno che sembrano antiche macchine da guerra, vigilano guardiani. Passiamo per campagne coltivate, e fuggono confusamente ai nostri occhi villaggi, campi, quieti stagni coperti da ninfee fiorite, messi dorate, isbe solitarie.
Respiriamo a pieni polmoni il profumo di fieno, di resina, di fiori che esalano il loro alito nell’aria calda. La strada forma dei rettilinei superbi, lunghi fino a 60 verste. Se non ci avessero trattenuto i lavori di certi ponti in ricostruzione, avremmo potuto giungere a Wladimir, la prossima tappa, lontana da Nishnii-Nowgorod 250 chilometri, in cinque ore; ne impiegammo invece otto.
Siamo entrati all’ora del passeggio in quella deliziosa cittadina tutta bianca, ombrata da grandi alberi folti, nella quale si sente già, vagamente, la vicinanza della capitale sacra dell’Impero; si sente nella frequenza delle chiese, dei sepolcri, dei tabernacoli, questi ultimi sparsi anche per la campagna, dove alla sera fanno tremolare luci solitarie che il passante saluta col ginocchio a terra.
Prendemmo alloggio in un piccolo albergo. Per la prima volta la stanchezza non ci diede il sonno. Mosca era soltanto poche ore lontana.
Alle sette del mattino varcavamo la bianca porta turrita di Wladimir, e ci lanciavamo verso Mosca.
La strada, inondata di sole, era splendida, diritta come fosse stata tracciata a colpi di cannone attraverso le steppe, le boscaglie, i campi, i fiumi, gli stagni. Vi è in questa rigidezza qualche cosa di grandioso e di jeratico. Tale strada meravigliosa non può finire che davanti al supremo spettacolo del santuario dell’Impero.
Siamo spronati dal desiderio di giunger presto. Voliamo. La macchina pare che ci senta, che ci comprenda: regolare, silenziosa, obbedisce alla minima mossa dell’acceleratore, balza avanti e si contiene docile al gesto di Borghese che sta al volante; molleggia leggermente sulle pneumatiche con oscillazioni dolci che ci cullano. Alle otto attraversiamo una cittadina.
La gente esce dalle botteghe, accorre dalle vie laterali, ci saluta festosamente. Persino un grosso gendarme sorridente porta la mano alla visiera. Passandogli vicino gli chiediamo:
— Come si chiama questa città?
— Pokrow!
Rimaniamo sorpresi. Pokrow è a circa 80 verste da Wladimir. Continuando di questo passo arriveremmo a Mosca prima delle dieci. E non possiamo: dobbiamo giungervi alle due pomeridiane. Perchè? Per un dovere di cortesia. Alla vigilia ci avevano telegrafato da Mosca chiedendoci l’ora del nostro arrivo, e il Principe, abituato alle sorprese del passato, aveva fatto un calcolo molto largo, lasciandovi il posto a tutte le eventualità, e aveva risposto: Alle ore due. Eccoci dunque costretti ad una “panna„ volontaria. Decidiamo di alleviarla con una colazione.
Mezz’ora dopo ci fermiamo a Bogorodsk, all’albergo principale. Ci sediamo alla mensa con la solennità che conviene alla nostra prima colazione civile, e ci offriamo la seconda bottiglia di champagne del viaggio: la prima fu a Tankoy. Da Pechino in qua, durante le marce, non avevamo mai fatto colazione avanti ad una tovaglia; avevamo mangiato sull’automobile, e spesso ce ne eravamo anche dimenticati.
Ci sentiamo lieti, d’una letizia quasi infantile. Il tempo s’è guastato, comincia a piovere, ma noi ridiamo del tempo e deridiamo la pioggia: non ci fermeranno più. Sono ostilità tardive e inutili. Il nostro vecchio ed ostinato nemico, il tempo, è vinto.
In un momento la notizia del nostro arrivo si sparge per la città. Il pubblico si affolla nel cortile intorno all’automobile, si ferma per la strada a guardare le nostre finestre. Riceviamo la visita di ufficiali, di funzionari, di ricchi proprietari. Siamo invitati da ogni parte. Borghese deve schermirsi per non correre il rischio di arrivare a Mosca alle due.... del giorno dopo. Non possiamo fare a meno di accettare una coppa di champagne presso una signora che possiede alcuni fra i più importanti cotonifici della regione; essa è venuta all’albergo, in una ricca vettura, a pregarci con tanta squisita cortesia, che abbiamo ceduto. Gli operai si accalcano fuori degli opifici per salutarci mentre passiamo per recarci alla villetta di legno della proprietaria.
A mezzogiorno riprendiamo i nostri posti sulla macchina, e affrettiamo l’andatura per guadagnare tempo. Temiamo d’aver prolungato troppo la panna di Bogorodsk. Siamo a trenta verste da Mosca, quando c’imbattiamo in due superbi soldati che scambiamo per cosacchi del Kuban, pittoreschi nella tradizionale uniforme alla circassa con le ricche cartuccere ai lati del petto, il gran pugnale alla cintura, l’alto colbacco di pelo. Essi sono fermi, uno di fronte all’altro ai lati della strada. Appena siamo passati, voltano i cavalli e ci seguono a gran galoppo. Di cento in cento metri altri cosacchi guardano la strada, e si uniscono alla cavalcata che noi distanziamo rapidamente. Non tardiamo ad accorgerci che questo servizio di vigilanza è per noi, per farci trovare la via sgombra dai carri che le sentinelle fanno scostare dal centro della strada. I soldati appartengono ad un nuovo corpo di gendarmeria istituito a Mosca dopo i moti rivoluzionari.
Caso strano, i carrettieri non sono furibondi, non c’ingiuriano; anzi ci salutano con effusione. Ma le sorprese non sono ancora finite. All’una e un quarto, giungendo al confine della circoscrizione di Mosca, in una località chiamata Kordenky, scorgiamo una folla intorno a carri luccicanti, nei quali, avvicinandoci, riconosciamo tante automobili in fila. Altre ne arrivano velocemente facendo squillare le loro trombe. Sono le prime grandi automobili che rivediamo. Sono venute ad incontrarci. Da esse e intorno ad esse si leva un grido di saluto: Urrah! — Siamo circondati, stringiamo cento mani tese.
È un momento ineffabile.
Sul viso diplomatico di Borghese vedo passare una vaga ombra di commozione. Mancano ancora quattromila chilometri per giungere a Parigi, ma ci pare d’essere arrivati. Ci ricongiungiamo al nostro mondo, alla nostra vita. Chiudiamo veramente adesso la grande parentesi di desolazione e di solitudine che questa dura prova rappresenterà nella nostra esistenza.
Col cuore un po’ gonfio, con gli occhi arrossati non soltanto dal vento e dalla pioggia, scendiamo dall’automobile in mezzo alla fraterna adunanza. Il presidente dell’Automobile Club di Mosca, alla cui iniziativa dobbiamo questo affettuoso saluto, ci comunica che siamo nominati membri onorari del Club, e ci consegna il prezioso distintivo di smalto e d’oro, che subito fissiamo sui nostri infangati berretti. Seguono delle presentazioni. Scambiamo i saluti col Console generale di Francia, col Console belga, col Console d’Italia, con l’Agente commerciale d’Italia, che avevamo già incontrato a Nishnii-Nowgorod, con i membri dell’Automobile-Club, della Società ciclistica, della Colonia italiana. Io mi trovo fra numerosi colleghi: il corrispondente del Matin, il quale comunica al Principe le congratulazioni del suo giornale — a cui si deve la geniale idea della Pechino-Parigi —; ritrovo il confratello del Daily Mail che ci segue in ferrovia da tappa in Panorama di Wassilsursk sulla Sura, confluente del Volga. tappa; e molti giornalisti esteri. Vi sono delle signore. Una di esse, con pensiero squisito, depone sulla nostra macchina un ciuffo di rose, quasi per fare un po’ di festa anche a lei, che ha tanto merito se siamo arrivati. Un rinfresco ci viene offerto dal presidente dell’Automobile Club in un’isba vicina — una rozza casetta di legno i cui abitatori guardano con stordimento una così straordinaria ed elegante invasione.
— A Mosca! A Mosca! — si grida.
Verso le due riprendiamo il cammino, seguiti da tutte le automobili.
Lo spettacolo fantastico di questo veloce corteo mi richiama alla mente un altro corteggio: quello che seguiva la nostra automobile, recante il governatore cinese della Mongolia, per le strade di Urga. Ripenso a quella furibonda cavalcata di fieri mongoli, dalle vesti variopinte ed i cappelli a cono, la quale ci diede l’idea che l’automobile fosse inseguita ferocemente da tutta la barbarie asiatica. Ma qui, adesso, sembriamo noi i barbari, sporchi come siamo di polvere, di fango, sopra un carro rosso, opaco, del colore della terra, bruttato di mota, carico di cordami vecchi, di catene, di pale rugginose; mentre dietro a noi brillano metalli forbiti, lucide vernici di automobili aristocratiche, sulle quali fremono al vento eleganti toilettes estive, con la loro freschezza di piume, di fiori, di veli, di nastri.
Improvvisamente si apre all’orizzonte la visone di Mosca.
È uno scintillìo di cupole d’oro sopra una bianca, diafana distesa di edifici. È un’apparizione imponente. Un sogno.
Arriviamo ai sobborghi pieni di opifici, irti di ciminiere alte, fumanti; sobborghi nuovi, rumorosi di lavoro, che cingono la solenne quiete antica dei santuari.
Che cosa avviene? Una gran folla invade la strada. Sono tutti operai che accorrono dalle fabbriche, a centinaia, a migliaia, donne e uomini. Le finestre sono gremite. Dalla ferrovia suburbana, che attraversiamo, vengono pure squadre di lavoratori, correndo. Che cosa avviene?
Ma quando siamo vicini comprendiamo. Un urlo formidabile ci accoglie. È il saluto del popolo, gridato dalla voce terribile della moltitudine. Il saluto si rinnova e si propaga, ci segue, ci fiancheggia. Noi non abbiamo la coscienza di meritarlo, ma nel nostro animo penetra impetuosa l’onda di questa simpatia. Udiamo gridare in italiano: “Viva l’Italia!„. Scrosciano battimani. Dalle imperiali dei trams, i passeggieri in piedi alzano i berretti. I cocchieri, i tramvieri, i gendarmi stessi ci salutano.
Borghese non può esimersi dal rispondere col gesto della mano, mentre mormora tutto meravigliato:
— Ma che abbiamo fatto, dopo tutto?
Attraversiamo così il sobborgo Novaya Andronovka, ed entriamo per la barriera Rogojskaja. Uno speciale servizio di polizia mantiene la strada sgombra dalle vetture. Velocemente c’immergiamo nel cuore della città, dove troviamo la calma. I saluti si fanno silenziosi. Per grandiosi boulevards arriviamo finalmente presso le superbe mura vetuste del Kremlino, dove la gente non ci conosce più, e si ferma a guardare con aria interrogativa il nostro corteo, certamente meravigliandosi che tante belle automobili siano precedute da una così brutta e sporca, montata da gente ancora più sporca.
Scendiamo all’albergo, e cadiamo subito in una dolce prigionia. Il Comitato della corsa s’impossessa di noi. Esso vuole festeggiarci, e occorrono almeno due giorni di tempo per farlo coscienziosamente. La nostra stanchezza non ci rende ribelli all’ukase del Comitato.
— Ebbene — ci diciamo consultandoci sul programma futuro — fermiamoci. Cercheremo di non cedere alle seduzioni di futuri riposi. Fileremo da Mosca su Parigi!
E Pietroburgo? Anche Pietroburgo ci aspettava. L’itinerario della corsa, è vero, escludeva la capitale russa, troppo lontana. Con la scelta della strada di Perm e con l’andata a Pietroburgo allungavamo il percorso di settecento chilometri almeno. Ma il Comitato di Pietroburgo, che aveva sorvegliato la distribuzione dei depositi di benzina, che aveva fatto fare rilievi stradali, che aveva organizzato sottocomitati in tutte le grandi città per riceverci e confortarci, si era reso il più utile di tutti i Comitati, e non potevamo trascurare il suo invito. Saremmo dunque andati a Pietroburgo, ma per non rimanervi che poche ore. Perchè poi c’era Berlino, da dove avevamo ricevuto telegrammi d’invito fino da quando eravamo a Tomsk....
Mosca ci offrì ad un tempo tutti quei pranzi, quelle cene e quelle colazioni che ci mancarono durante il viaggio. Le nostre tempre, che resisterono alle fatiche e alle privazioni, cominciarono a piegarsi sotto quella reazione terribile, alla quale non potevamo opporci tanta era la cordialità che l’accompagnava. Fummo ospiti della Colonia italiana, che volle presentarci preziosi ricordi che non erano certo necessari perchè la memoria di quei momenti rimanesse indelebile in noi; fummo ospiti dell’Automobile Club, del Console italiano, di amici vecchi e nuovi; scambiammo brindisi, udimmo orchestre, concerti, canti; passammo per tutti i più sontuosi e rinomati restaurants moscoviti, dal Métropole all’Ermitage, dal Mauritania — perduto fra le ombre folte del Petrowsky-Park — famoso per i suoi cori cosmopoliti, all’elegante Yard, dove i concerti cominciano a mezzanotte per finire al sorgere del sole.
Le automobili di Mosca furono messe a nostra disposizione per percorrere la città e i dintorni pittoreschi. Così fummo condotti a vedere il tramonto dallo storico Vorobievy Gory il “Monte delle Passere„ sul quale il grande Napoleone si fermò ad ammirare il meraviglioso panorama di Mosca nella sera del 14 Settembre 1812. Il sole agonizzante tingeva di sangue l’immensa, superba città: le cupole dorate mandavano bagliori di fiamme: tutto si confondeva in un fulgore che sembrava irreale: uno spettacolo sublime.
Fummo condotti ad assistere alle celebri corse al trotto nel magnifico ippodromo che è il più bello del mondo. Dalle tribune monumentali seguimmo le fasi della perenne lotta fra cavalli russi e americani, lotta che continua tutti i giorni, anche in inverno quando la pista è coperta di neve e i cavalli trascinano veloci slitte.
Insomma ci hanno fatto vivere in poche ore la molteplice e singolare vita di quest’unica città, vera capitale russa senza ministeri, moderna ed antica, lavoratrice e sacra, che si diverte anche sotto al presente “piccolo stato d’assedio„, per il quale si vedono le guardie sorvegliare il movimento dei ricchi equipaggi al passeggio armate di fucili con la baionetta in canna mentre pattuglie di cosacchi passano con le carabine alla coscia trottando fra le carrozze. Non è raro il caso, per le grandi vie, che all’improvviso un ordine venga gridato dalle guardie, che tutte le vetture si tirino in disparte, e che si veda passare velocemente, al mezzo galoppo, una fila di tre o quattro carrozze precedute, fiancheggiate e seguite da plotoni di cosacchi con la rivoltella in pugno e spianata: si tratta di un trasporto di denaro Wassilsursk sul fiume Sura. appartenente allo Stato. Il pericolo ha innalzato il Rublo agli onori sovrani.
Intanto l’automobile aveva rinnovato la sua toilette da viaggio; era stata ben lavata e ripulita. Non aveva avuto bisogno d’altro. All’esame delle sue macchine avevano assistito automobilisti, sportsmen, giornalisti, chauffeurs; era stato eseguito nel garage dell’Hôtel Métropole. Con nostra sorpresa si trovarono intatti anche vari pezzi che per solito si debbono cambiare di frequente perchè soggetti a rapido logoramento: per esempio i “martelletti dell’accensione„, piccoli dischi eccentrici che fanno dai 1200 ai 1400 giri al minuto, e le “valvole d’aspirazione„ che ogni minuto dànno dai 2400 ai 2800 colpi. Assolutamente come nuovi si ritrovarono gl’ingranaggi del “cambio di velocità„ i “cuscinetti„, e l’“albero di trasmissione„ — noto anche sotto il nome di cardàno, il quale da molti tecnici è ritenuto meno resistente della trasmissione “a catena„. Fu soltanto cambiata la ruota fabbricata dai mujik fra Perm e Kazan, perchè si riscontrò che era male “centrata„, e che perciò sforzava le pneumatiche.
Tale abbandono ci dispiacque; a quella rozza ruota dovevamo molta riconoscenza.