La vita di Castruccio Castracani da Lucca
Questo testo è incompleto. |
LA VITA
DI
DA LUCCA
DESCRITTA
DA NICCOLÒ MACHIAVELLI
E MANDATA
A ZANOBI BUONDELMONTE
ED
A LUIGI ALAMANNI SUOI AMICISSIMI.
E’ pare, Zanobi e Luigi carissimi, a quegli che la considerano cosa maravigliosa, che tutti coloro o la maggiore parte di essi, che hanno in questo mondo operato grandissime cose, e intra gli altri della loro età siano stati eccellenti, abbino avuto il principio e il nascimento loro basso e oscuro, ovvero dalla fortuna fuora d’ogni modo travagliato; perché tutti o e’ sono stati esposti alle fiere, o egli hanno avuto sì vile padre, che vergognatisi di quello si sono fatti figliuoli di Giove, o di qualche altro Dio. Quali sieno stati questi, sendone a ciascheduno noti molti, sarebbe cosa a replicare fastidiosa, e poco accetta a chi leggesse, perciò come superflua la omettereno. Credo bene che questo nasca che, volendo la fortuna dimostrare al mondo di essere quella che faccia gli uomini grandi, e non la prudenza, comincia a dimostrare le sue forze in tempo che la prudenza non ci possa avere alcuna parte, anzi da lei si abbi a ricognoscere il tutto. Fu adunque Castruccio Castracani da Lucca uno di quelli, il quale secondo i tempi in ne’ quali visse, e la città donde nacque, fece cose grandissime e come gli altri, non ebbe più felice nè più noto nascimento, come nel ragionare del corso della sua vita si intenderà; la quale mi è parso ridurre alla memoria degli uomini, parendomi avere trovato in essa molte cose, e quanto alla virtù e quanto alla fortuna, di grandissimo esemplo. E mi è parso indirizzarla a voi, come a quegli che più che altri uomini che io cognosca, delle azioni virtuose vi dilettate.
Dico, adunque, che la famiglia de’ Castracani è connumerata intra le famiglie nobili della città di Lucca, ancora ch’ella sia in questi tempi, secondo l’ordine di tutte le mondane cose, mancata. Di questa nacque già uno Antonio, che diventato religioso fu calonaco di San Michele di Lucca, e in segno di onore era chiamato messer Antonio. Non aveva costui altri che una sirocchia, la quale maritò già a Buonaccorso Cennami; ma sendo Buonaccorso morto, ed essa rimasta vedova, si ridusse a stare col fratello, con animo di non più rimaritarsi. Aveva messer Antonio, dietro alla casa che egli abitava, una vigna, in la quale, per avere a’ confini di molti orti, da molte parti e senza molta difficultà, vi si poteva entrare. Occorse che andando una mattina poco poi levata di Sole madonna Dianora che così si chiamava la sirocchia di messer Antonio, a spasso per la vigna, cogliendo, secondo il costume delle donne, certe erbe per farne certi suoi condimenti, sentì frascheggiare sotto una vite intra i pampani, e, rivolti verso quella parte gli occhi, sentì come piangere. Onde che, tiratasi verso quello romore, scoperse le mani e il viso d’uno bambino, che rinvolto nelle foglie pareva che aiuto le domandasse. Tale che essa, parte maravigliata, parte sbigottita, ripiena di compassione e di stupore, lo ricolse, e portatolo a casa, e lavatolo, e rinvoltolo in panni bianchi come si costuma, lo presentò alla tornata in casa a messer Antonio. Il quale udendo il caso, e vedendo il fanciullo, non meno si riempiè di maraviglia e di pietade, che si fusse ripiena la donna. E consigliatisi intra loro, quale partito dovessero pigliare, deliberorono allevarlo, sendo esso prete, e quella non avendo figliuoli. Presa adunque in casa una nutrice, con quello amore che se loro figliuolo fusse, lo nutrirono; e avendolo fatto battezzare, per il nome di Castruccio, loro padre, lo nominorono. Cresceva in Castruccio con gli anni la grazia, e in ogni cosa dimostrava ingegno e prudenza, e presto secondo la età imparò quelle cose, a che da messer Antonio era indirizzato; il quale, disegnando di farlo sacerdote e con il tempo rinunziargli il calonacato, e altri suoi benefizj, secondo tale fine lo ammaestrava; ma aveva trovato subietto allo animo sacerdotale al tutto disforme. Perchè come prima Castruccio pervenne alla età di quattordici anni, e che incominciò a pigliare uno poco di animo sopra messer Antonio e madonna Dianora, e non gli temere punto, lasciati i libri ecclesiastici da parte, cominciò a trattare le armi, nè di altro si dilettava che o di maneggiare quelle, o con gli altri suoi equali correre, saltare, fare alle braccia, e simili esercizj; dove ei mostrava virtù di animo e di corpo grandissima, e di lunga tutti gli altri della sua età superava. E se pure ei leggeva alcuna volta, altre lezioni non gli piacevano che quelle che di guerre o di cose fatte da grandissimi uomini ragionassero. Per la qual cosa messer Antonio ne riportava dolore e noia inestimabile.
Era nella città di Lucca uno gentile uomo della famiglia de’ Guinigi, chiamato messer Francesco, il quale per ricchezza, per grazia e per virtù passava di lunga tutti gli altri Lucchesi, l’esercizio del quale era la guerra, e sotto i Visconti di Milano aveva lungamente militato; e perchè Ghibellino era, sopra tutti gli altri che quella parte in Lucca seguitavano era stimato. Costui trovandosi in Lucca, e ragunandosi sera e mattina con gli altri cittadini sotto la loggia del Podestà, la quale è in testa della piazza di San Michele, che è la prima piazza di Lucca, vide più volte Castruccio con gli altri fanciulli della contrada, in quegli esercizj, che io dissi di sopra esercitarsi; e parendogli che oltre al superargli, egli avessi sopra di loro una autorità regia, e che quelli in certo modo lo amassino e riverissino, diventò sommamente desideroso di intendere di suo essere. Di che sendo informato dai circostanti, si accese di maggiore desiderio di averlo appresso di sè. E un giorno chiamatolo, il dimandò dove più volentieri starebbe, o in casa d’uno gentiluomo che gl’insegnasse cavalcare e trattare armi, o in casa di uno prete, dove non si udisse mai altro che uffizj e messe. Cognobbe messer Francesco quanto Castruccio si rallegrò, sentendo ricordare cavalli e armi; pure stando un poco vergognoso, e dandogli animo messer Francesco a parlare, rispose: che quando piacesse al suo messere, che non potrebbe avere maggiore grazia che lasciare gli studj del prete, e pigliare quelli del soldato. Piacque assai a messer Francesco la risposta, e in brevissimi giorni operò tanto che messer Antonio gliele concedette; a che lo spinse più che alcuna altra cosa, la natura del fanciullo, giudicando non lo potere tenere molto tempo così.
Passato pertanto Castruccio di casa messer Antonio Castracani calonaco in casa messer Francesco Guinigi condottiero, è cosa straordinaria a pensare in quanto brevissimo tempo ei diventò pieno di tutte quelle virtù e costumi, che in uno vero gentile uomo si richieggono. In prima ei si fece uno eccellente cavalcatore, perchè ogni ferocissimo cavallo con somma destrezza maneggiava, e nelle giostre e ne’ torniamenti, ancora che giovane, era più che alcuno altro riguardevole; tanto che in ogni azione, o forte o destra, non trovava uomo che lo superasse. A che si aggiugnevano i costumi; dove si vedeva una modestia inestimabile; perchè mai non se gli vedeva fare atto, o sentivasegli dire parola che dispiacesse, ed era riverente ai maggiori, modesto con gli equali, e con gl’inferiori piacevole. Le quali cose lo facevano non solamente da tutta la famiglia di Guinigi, ma da tutta la città di Lucca amare. Occorse in quelli tempi, sendo già Castruccio di diciotto anni, che i Ghibellini furono cacciati dai Guelfi di Pavia, in favore de’ quali fu mandato dai Visconti di Milano messer Francesco Guinigi, con il quale andò Castruccio, come quello che aveva il pondo di tutta la compagnia sua; nella quale espedizione Castruccio dette tanti saggi di sè di prudenza e d’animo, che niuno, che in quella impresa si trovasse, ne acquistò grazia appresso di qualunque, quanta ne riportò egli, e non solo il nome suo in Pavia, ma in tutta la Lombardia diventò grande e onorato.
Tornato adunque in Lucca Castruccio, assai più stimato che al partire suo non era, non mancava in quanto a lui era possibile, di farsi amici, osservando tutti quelli modi, che a guadagnarsi uomini sono necessarj. Ma sendo venuto messer Francesco Guinigi a morte, ed avendo lasciato uno suo figliuolo di età di anni tredici, chiamato Pagolo, lasciò tutore e governatore de’ suoi beni Castruccio, avendolo innanzi al morire fatto venire a sè, e pregatolo che fussi contento allevare il suo figliuolo con quella fede che era stato allevato egli, e quegli meriti che non aveva potuto rendere al padre, rendesse al figliuolo. Morto pertanto messer Francesco Guinigi, e rimaso Castruccio governatore e tutore di Pagolo, accrebbe tanto in reputazione e in potenza, che quella grazia che soleva avere in Lucca si convertì parte in invidia, talmente che molti come uomo sospetto, e che avessi l’animo tirannico lo calunniavano; intra i quali il primo era messer Giorgio degli Opizi, capo della parte Guelfa. Costui sperando per la morte di messer Francesco rimanere come principe di Lucca, gli pareva che Castruccio, sendo rimasto in quel governo, per la grazia che gli davano le sua qualità, gliene avessi tolta ogni occasione, e per questo andava seminando cose che gli togliessino grazia, di che Castruccio prese prima sdegno, al quale poco di poi si aggiunse il sospetto, perchè pensava che messer Giorgio non poserebbe mai di metterlo in disgrazia al vicario del re Ruberto di Napoli, che lo farebbe cacciare di Lucca.
Era signore di Pisa in quel tempo Uguccione della Faggiuola d’Arezzo, il quale prima era stato eletto da’ Pisani loro capitano, dipoi se n’era fatto signore. Appresso di Uguccione si trovavano alcuni fuori usciti lucchesi della parte Ghibellina, con i quali Castruccio tenne pratica di rimettergli con lo ajuto di Uguccione, e comunicò ancora questo suo disegno con suoi amici di dentro, i quali non potevono sopportare la potenza degli Opizi. Dato pertanto ordine a quello che dovevano fare, Castruccio cautamente affortificò la torre degli Onesti, e quella riempiè di munizione e di molta vettovaglia, per potere, bisognando, mantenersi in quella qualche giorno; e venuta la notte che si era composto con Uguccione, dette il segno a quello, il quale era sceso nel piano con di molta gente intra i monti e Lucca; e veduto il segno, si accostò alla porta a San Piero, e misse fuoco nello antiporto. Castruccio dall’altra parte levò il romore, chiamando il popolo all’arme, e sforzò la porta dalla parte di dentro; tale che, entrato Uguccione e le sue genti, corsono la terra e ammazzarono messer Giorgio con tutti quegli della sua famiglia, e con molti altri suoi amici e partigiani, e il governatore cacciarono, e lo Stato della città si riformò secondo che a Uguccione piacque, con grandissimo danno di quella; perchè si trova che più di cento famiglie furono cacciate allora di Lucca. Quelle che fuggirono, una parte ne andò a Firenze, un’altra a Pistoia; le quali città erono rette da parte Guelfa, e per questo venivono a essere inimiche a Uguccione e a’ Lucchesi.
E parendo ai Fiorentini e agli altri Guelfi, che la parte ghibellina avessi preso in Toscana troppa autorità, convennono insieme di rimettere i fuorusciti lucchesi, e fatto uno grosso esercito, ne vennono in Val di Nievole e occuparono Montecatini; e di quivi ne andarono a campo a Montecarlo, per avere libero il passo di Lucca. Pertanto Uguccione ragunata assai gente pisana e lucchese e di più molti cavagli tedeschi che trasse di Lombardia, andò a trovare il campo de’ Fiorentini; il quale sentendo venire e’ nemici, si era partito da Montecarlo e postosi intra Montecatini e Pescia, ed Uguccione si misse sotto Montecarlo propinquo a’ nimici a due miglia, dove qualche giorno intra i cavagli dell’uno e dell’altro esercito si fece alcuna leggieri zuffa; perchè sendo ammalato Uguccione, i Pisani e i Lucchesi fuggivono di fare la Giornata con gli inimici. Ma sendo Uguccione aggravato nel male, si ritirò per curarsi a Montecarlo, e lasciò a Castruccio la cura dello esercito. La qual cosa fu cagione della rovina de’ Guelfi; perchè quegli presero animo, parendo loro che lo esercito inimico fussi rimaso senza capitano. Il che Castruccio cognobbe, e attese per alcuni giorni ad accrescere in loro questa opinione, mostrando di temere, non lasciando uscire alcuno delle munizioni del campo; e dall’altra parte i Guelfi, quanto più vedevano questo timore, tanto più diventavano insolenti, e ciascuno giorno, ordinati alla zuffa, si presentavano allo esercito di Castruccio. Il quale, parendoli avere dato loro assai animo, e conosciuto l’ordine loro, deliberò fare la Giornata con quelli; e prima con le parole fermò l’animo de’ suoi soldati, e mostrò loro la vittoria certa, quando volessero ubbidire agli ordini suoi. Aveva Castruccio veduto come i nimici avevano messe tutte le loro forze nel mezzo delle schiere, e le genti più deboli nelle corna di quelle; onde che esso fece il contrario, perchè messe nelle corna del suo esercito la più valorosa gente avesse, e nel mezzo quella di meno stima. E uscito de’ suoi alloggiamenti con questo ordine, come prima venne alla vista dell’esercito nimico, il quale insolentemente, secondo l’uso, lo veniva a trovare, comandò che le squadre del mezzo andassero adagio, e quelle delle corna con prestezza si movessero. Tanto che, quando venne alle mani con i nimici, le corna sole dell’uno e dell’altro esercito combattevono, e le schiere del mezzo si posavano; perchè le genti di mezzo di Castruccio erano rimaste tanto indietro, che quelle di mezzo degli nimici non le aggiugnevano, e così venivano le più gagliarde genti di Castruccio a combattere con le più debole degli nimici, e le più gagliarde loro si posavano, senza potere offendere quelli avevano allo incontro, o dare alcuno ajuto ai suoi. Tale che senza molta difficultà i nimici dall’uno e l’altro corno si misono in volta, e quegli di mezzo ancora, veggendosi nudati dai fianchi da’ suoi, senza avere potuto mostrare alcuna loro virtù, si fuggirono. Fu la rotta e la uccisione grande, perchè vi furono morti meglio che diecimila uomini con molti caporali e grandi cavalieri di tutta Toscana di parte Guelfa, e di più molti principi che erano venuti in loro favore, come furono i Piero fratello del re Ruberto e Carlo suo nipote e Filippo signore di Taranto. E dalla parte di Castruccio non aggiunsero a trecento; intra quali morì Francesco figliuolo di Uguccione, il quale, giovinetto e volenteroso, nel primo assalto fu morto.
Fece questa rotta al tutto grande il nome di Castruccio; in tanto che a Uguccione entrò tanta gelosia e sospetto dello stato suo, che non mai pensava se non come lo potessi spegnere, parendogli che quella vittoria gli avessi non dato ma tolto lo imperio. E stando in questo pensiero, aspettando occasione onesta di mandarlo ad effetto, occorse che e’ fu morto Pier Agnolo Micheli in Lucca, uomo qualificato e di grande estimazione, l’ucciditore del quale si rifuggì in casa Castruccio; dove andando e’ sergenti del capitano per prenderlo, furono da Castruccio ributtati, in tanto che lo omicida mediante gli aiuti suoi si salvò. La qual cosa sentendo Uguccione, che allora si trovava a Pisa, e parendogli avere giusta cagione a punirlo, chiamò Neri suo figliuolo, al quale aveva già data la signoria di Lucca, e gli commise che, sotto titolo di convitare Castruccio, lo prendesse e facesse morire. Donde che Castruccio, andando nel palazzo del signore domesticamente, non temendo di alcuna ingiuria, fu prima da Neri ritenuto a cena, e di poi preso. E dubitando Neri che nel farlo morire senza alcuna giustificazione il popolo non si alterasse, lo serbò vivo, per intendere meglio da Uguccione come gli paressi da governarsi. Il quale biasimando la tardità e viltà del figliuolo, per dare perfezione alla cosa con quattrocento cavagli si uscì di Pisa per andarne a Lucca; e non era ancora arrivato ai Bagni, che i Pisani presono le armi e uccisono il vicario di Uguccione e gli altri di sua famiglia che erano restati in Pisa, e feciono loro signore il conte Gaddo della Gherardesca. Sentì Uguccione, prima che arrivasse a Lucca, lo accidente seguito in Pisa, nè gli parse da tornare indietro, acciò che i Lucchesi, con lo esempio de’ Pisani, non gli serrassino ancora quegli le porte. Ma i Lucchesi, sentendo i casi di Pisa, nonostante che Uguccione fussi venuto in Lucca, presa occasione dalla liberazione di Castruccio, cominciarono prima ne’ circoli per le piazze a parlare senza rispetto, dipoi a fare tumulto, e da quello vennono alle armi, domandando che Castruccio fusse libero; tanto che Uguccione, per timore di peggio, lo trasse di prigione. Donde che Castruccio, subito ragunati sua amici, col favore del popolo fece èmpito contro a Uguccione. Il quale, vedendo non avere rimedio, se ne fuggì con gli amici suoi, e ne andò in Lombardia a trovare e’ signori della Scala; dove poveramente morì.
Ma Castruccio, di prigioniero diventato come principe di Lucca, operò, con gli amici suoi e con il favore fresco del popolo, in modo che fu fatto capitano delle loro gente per uno anno. Il che ottenuto, per darsi riputazione nella guerra, disegnò di recuperare ai Lucchesi molte terre che si erano ribellate dopo la partita di Uguccione, e andò con il favore de’ Pisani, con i quali si era colnegato, a campo a Serezzana, e per espugnarla fece sopra essa una bastìa, la quale dipoi murata dai Fiorentini, si chiama oggi Serezzanello, e in tempo di duoi mesi prese la Terra. Dipoi con questa riputazione occupò Massa, Carrara e Lavenza, e in brevissimo tempo occupò tutta Lunigiana. E per serrare il passo che di Lombardia viene in Lunigiana, espugnò Pontremoli, e ne trasse messer Anastasio Palavisini che n’era signore. Tornato a Lucca con questa vittoria fu da tutto il popolo incontrato; nè parendo a Castruccio da differire il farsi principe, mediante Pazzino dal Poggio, Puccinello dal Portico, Francesco Boccansacchi e Cecco Guinigi, allora di grande reputazione in Lucca, corrotti da lui, se ne fece signore, e solennemente e per deliberazione del popolo fu eletto principe. Era venuto in questo tempo in Italia Federigo di Baviera, re de’ Romani, per prendere la corona dell’Imperio, il quale Castruccio si fece amico, e l’andò a trovare con cinquecento cavalli, e lasciò in Lucca suo luogotenente Pagolo Guinigi, del quale per la memoria del padre faceva quella stimazione che se fusse nato di lui. Fu ricevuto Castruccio da Federigo onoratamente, e datogli molti privilegi, e lo fece suo luogotenente in Toscana. E perchè i Pisani avevono cacciato Gaddo della Gherardesca, e per paura di lui erano ricorsi a Federigo per ajuto, Federigo fece Castrucsignore di Pisa; e i Pisani per timore di parte guelfa, e in particulare de’ Fiorentini, lo accettorono.
Tornatosene pertanto Federigo nella Magna, e lasciato uno governatore a Roma, tutti e’ Ghibellini toscani e lombardi, che seguivano le parti dello imperadore, si rifuggirono a Castruccio, e ciascuno gli prometteva lo imperio della sua patria, quando per suo mezzo vi rientrasse; intra quali furono Matteo Guidi, Nardo Scolari, Lapo Uberti, Gerozzo Nardi e Piero Buonaccorsi, tutti ghibellini e fuora usciti fiorentini. E disegnando Castruccio per il mezzo di costoro e con le sue forze farsi signore di tutta Toscana, per darsi più reputazione si accostò con messer Matteo Visconti principe di Milano, e ordinò tutta la città e il suo paese alle armi. E perché Lucca aveva cinque porte, divise in cinque parti el contado, e quello armò e distribuì sotto capi e insegne, tale che in uno subito metteva insieme ventimila uomini, sanza quegli che gli potevano venire in aiuto da Pisa. Cinto adunque di queste forze e di questi amici, accadde che messer Matteo Visconti fu assaltato dai Guelfi di Piacenza; i quali avevono cacciati i Ghibellini, in aiuto de’ quali e’ Fiorentini e il re Ruberto avevono mandate loro gente. Donde che messer Matteo richiese Castruccio che dovesse assaltare e’ Fiorentini, acciò che quegli, costretti a difendere le case loro revocassino le loro gente di Lombardia. Così Castruccio con assai gente assaltò il Valdarno, e occupò Fucecchio e San Miniato con grandissimo danno del paese; onde che i Fiorentini per questa necessità rivocorono le loro genti. Le quali a fatica erono tornate in Toscana, che Castruccio fu costretto da un’altra necessità tornare a Lucca.
Era, in quella città, la famiglia di Poggio potente per avere fatto non solamente grande Castruccio ma principe; e non le parendo essere remunerata secondo i suoi meriti, convenne con altre famiglie di Lucca di ribellare la città e cacciarne Castruccio. E presa una mattina occasione, corsono armate al luogotenente che Castruccio sopra la giustizia vi teneva, e lo ammazzorono. E volendo seguire di levare il popolo a romore, Stefano di Poggio, antico e pacifico uomo il quale nella congiura non era intervenuto, si fece innanzi, e costrinse con la autorità sua i suoi a posare le armi, offerendosi di essere mediatore intra loro e Castruccio a fare ottenere a quegli i desiderii loro. Posorono pertanto coloro le arme, non con maggiore prudenza che le avessero prese; per che Castruccio, sentita la novità seguita a Lucca, sanza mettere tempo in mezzo, con parte delle sue genti, lasciato Pagolo Guinigi capo del resto, se ne venne in Lucca. E trovato, fuora di sua opinione, posato el romore, parendogli avere più facilità di assicurarsi, dispose e’ suoi partigiani armati per tutti e’ luoghi opportuni. Stefano di Poggio, parendogli che Castruccio dovessi avere obligo seco, lo andò a trovare, e non pregò per sé, perché giudicava non avere di bisogno, ma per gli altri di casa, pregandolo che condonasse molte cose alla giovanezza, molte alla antica amicizia e obligo che quello aveva con la loro casa. Al quale Castruccio rispose gratamente e lo confortò a stare di buono animo mostrandogli avere più caro avere trovati posati e’ tumulti, che non aveva avuto per male la mossa di quelli, e confortò Stefano a fargli venire tutti a lui, dicendo che ringraziava Dio di avere avuto occasione di dimostrare la sua clemenza e liberalità. Venuti adunque sotto la fede di Stefano e di Castruccio, furono insieme con Stefano imprigionati e morti.
Avevano in questo mezzo e’ Fiorentini recuperato San Miniato; onde che a Castruccio parve di fermare quella guerra, parendogli, infino ch’e’ non si assicurava di Lucca, di non si potere discostare da casa. E fatto tentare e’ Fiorentini di triegua, facilmente gli trovò disposti, per essere ancora quegli stracchi e desiderosi di fermare la spesa. Fecero adunque triegua per dua anni, e che ciascuno possedessi quello che possedeva. Liberato dunque Castruccio dalla guerra, per non incorrere più ne’ pericoli era incorso prima, sotto varii colori e cagioni spense tutti quegli in Lucca che potessero per ambizione aspirare al principato; né perdonò ad alcuno, privandogli della patria e della roba, e, quegli che poteva avere nelle mani, della vita, affermando di avere conosciuto per esperienza niuno di quegli potergli essere fedele. E per più sua sicurtà, fondò una fortezza in Lucca, e si servì della materia delle torre di coloro ch’egli aveva cacciati e morti.
Mentre che Castruccio aveva posate le armi co’ Fiorentini e che e’ si affortificava in Lucca, non mancava di fare quelle cose che poteva sanza manifesta guerra operare, per fare maggiore la sua grandezza. E avendo desiderio grande di occupare Pistoia, parendogli, quando ottenessi la possessione di quella città, di avere un piè in Firenze, si fece in varii modi tutta la montagna amica; e con le parti di Pistoia si governava in modo che ciascuna confidava in lui. Era allora quella città divisa, come fu sempre, in Bianchi e Neri. Capo de’ Bianchi era Bastiano di Possente, de’ Neri, Iacopo da Gia; de’ quali ciascuno teneva con Castruccio strettissime pratiche, e qualunque di loro desiderava cacciare l’altro; tanto che l’uno e l’altro, dopo molti sospetti, vennono alle armi. Iacopo si fece forte alla Porta Fiorentina, Bastiano alla Lucchese, e confidando l’uno e l’altro più in Castruccio che ne’ Fiorentini, giudicandolo più espedito e più presto in su la guerra, mandorono a lui secretamente, l’uno e l’altro, per aiuti; e Castruccio all’uno e all’altro gli promisse, dicendo a Iacopo che verrebbe in persona, e a Bastiano che manderebbe Pagolo Giunigi suo allievo. E dato loro il tempo a punto, mandò Pagolo per la via di Pescia, ed esso a dirittura se n’andò a Pistoia; e in su la mezza notte, ché così erano convenuti Castruccio e Pagolo, ciascuno fu a Pistoia, e l’uno e l’altro fu ricevuto come amico. Tanto che entrati dentro, quando parve a Castruccio, fece il cenno a Pagolo; dopo il quale l’uno uccise Iacopo da Gia e l’altro Bastiano di Possente; e tutti gli altri loro partigiani furono parte presi e parte morti; e corsono sanza altre opposizioni Pistoia per loro; e tratta la Signoria di palagio, costrinse Castruccio il popolo a dargli obedienza, faccendo a quello molte rimessioni di debiti vecchi e molte offerte; e così fece a tutto el contado, il quale era corso in buona parte a vedere il nuovo principe; tale che ognuno, ripieno di speranza, mosso in buona parte dalle virtù sue, si quietò.
Occorse, in questi tempi, che il popolo di Roma cominciò a tumultuare per il vivere caro, causandone l’assenzia del pontefice che si trovava in Avignone, e biasimando i governi tedeschi in modo che e’ si facevano ogni dì degli omicidii e altri disordini, sanza che Enrico luogotenente dello imperadore vi potesse rimediare, tanto che ad Enrico entrò un gran sospetto, che i Romani non chiamassino el re Ruberto di Napoli, e lui cacciassero di Roma, e restituissenla al papa. Né avendo el più propinquo amico a chi ricorrere che Castruccio, lo mandò a pregare fussi contento, non solamente mandare aiuti, ma venire in persona a Roma. Giudicò Castruccio che non fussi da differire, sì per rendere qualche merito allo imperadore, sì perché giudicava, qualunche volta lo imperadore non fussi a Roma, non avere rimedio. Lasciato adunque Pagolo Guinigi a Lucca, se ne andò con secento cavagli a Roma, dove fu ricevuto da Enrico con grandissimo onore; e in brevissimo tempo la sua presenza rendé tanta riputazione alla parte dello Imperio che, sanza sangue o altra violenza, si mitigò ogni cosa; perché, fatto venire Castruccio per mare assai frumento del paese di Pisa, levò la cagione dello scandalo; di poi, parte ammunendo, parte gastigando i capi di Roma, gli ridusse volontariamente sotto il governo di Enrico. E Castruccio fu fatto senatore di Roma, e datogli molti altri onori dal popolo romano. Il quale ufficio Castruccio prese con grandissima pompa, e si misse una toga di broccato indosso, con lettere dinanzi che dicevano: "Egli è quel che Dio vuole", e di dietro dicevano: "È sarà quel che Dio vorrà".
In questo mezzo e’ Fiorentini, e’ quali erano mali contenti che Castruccio si fussi ne’ tempi della triegua insignorito di Pistoia, pensavano in che modo potessino farla ribellare; il che per la assenzia sua giudicavano facile. Era intra gli usciti Pistolesi che a Firenze si trovavano, Baldo Cecchi e Iacopo Baldini, tutti uomini di autorità e pronti a mettersi a ogni sbaraglio. Costoro tennono pratica con loro amici di dentro, tanto che, con lo aiuto de’ Fiorentini, entrorno di notte in Pistoia e ne cacciorno e’ partigiani e ufficiali di Castruccio, e parte ne ammazzorono, e renderono la libertà alla città. La quale nuova dette a Castruccio noia e dispiacere grande; e presa licenza da Enrico, a gran giornate con le sue genti se ne venne a Lucca. I Fiorentini, come intesono la tornata di Castruccio, pensando che ei non dovessi posare, deliberorono di anticiparlo e, con le loro gente, entrare prima in Val di Nievole che quello, giudicando che se eglino occupassino quella valle, gli venivano a tagliare la via di potere recuperare Pistoia; e contratto uno grosso esercito di tutti gli amici di parte guelfa, vennono nel Pistolese. Dall’altra parte Castruccio con le sue gente ne venne a Montecarlo; e inteso dove lo esercito de’ Fiorentini si trovava, deliberò di non andare a incontrarlo nel piano di Pistoia né di aspettarlo nel piano di Pescia, ma, se fare potesse, di affrontarsi seco nello stretto di Serravalle, giudicando, quando tale disegno gli riuscisse, di riportarne la vittoria certa, perché intendeva i Fiorentini avere insieme trentamila uomini, ed esso ne aveva scelti de’ suoi dodicimila. E benché si confidassi nella industria sua e virtù loro, pure dubitava, appiccandosi nel luogo largo, di non essere circundato dalla moltitudine de’ nimici.
È Serravalle uno castello tra Pescia e Pistoia, posto sopra uno colle che chiude la Val di Nievole, non in sul passo proprio, ma di sopra a quello dua tratti di arco. Il luogo donde si passa è più stretto che repente, perché da ogni parte sale dolcemente; ma è in modo stretto, massimamente in sul colle dove le acque si dividono, che venti uomini accanto l’uno all’altro lo occuperebbeno. In questo luogo aveva disegnato Castruccio affrontarsi con gli inimici, sì perché le sue poche gente avessero vantaggio, sì per non iscoprire e’ nimici prima che in su la zuffa, dubitando che i suoi, veggendo la moltitudine di quegli, non isbigottissino. Era signore del castello di Serravalle messer Manfredi, di nazione tedesca; il quale, prima che Castruccio fussi signore di Pistoia, era stato riserbato in quel castello come in luogo comune ai Lucchesi e a’ Pistolesi, né di poi ad alcuno era accaduto offenderlo, promettendo quello a tutti stare neutrale, né si obligare ad alcuno di loro; sì che per questo, e per essere in luogo forte, era stato mantenuto. Ma venuto questo accidente, divenne Castruccio desideroso di occupare quello luogo; e avendo stretta amicizia con uno terrazzano, ordinò in modo, con quello, che la notte davanti che si avessi a venire alla zuffa ricevesse quattrocento uomini de’ suoi, e ammazzasse il signore.
E stando così preparato, non mosse lo esercito da Montecarlo, per dare più animo ai Fiorentini a passare. È quali perché desideravono discostare la guerra da Pistoia e ridurla in Val di Nievole si accamporono sotto Serravalle con animo di passare, el dì di poi, il colle. Ma Castruccio, avendo sanza tumulto preso la notte il castello, si partì in su la mezza notte da Montecarlo, e tacito con le sue genti arrivò la mattina a piè di Serravalle; in modo che a un tratto i Fiorentini ed esso, ciascuno dalla sua parte incominciò a salire la costa. Aveva Castruccio le sue fanterie diritte per la via ordinaria, e una banda di quattrocento cavagli aveva mandata in su la mano manca verso il castello. I Fiorentini, dall’altra banda, avieno mandati innanzi quattrocento cavagli, e di poi avevono mosse le fanterie e, dietro a quelle, le genti d’arme; né credevano trovare Castruccio in sul colle, perché non sapevano ch’ei si fusse insignorito del castello. In modo che, insperatamente, i cavagli de’ Fiorentini, salita la costa, scopersono le fanterie di Castruccio, e trovoronsi tanto propinqui a loro, che con fatica ebbono tempo ad allacciarsi le celate. Sendo pertanto gli impreparati assaltati dai preparati e ordinati, con grande animo li spinsono, e quelli con fatica resisterono; pure si fece testa per qualcuno di loro, ma, disceso il romore per il resto del campo de’ Fiorentini, si riempié di confusione ogni cosa. I cavagli erono oppressi dai fanti, i fanti dai cavagli e dai carriaggi; i capi non potevono per la strettezza del luogo andare né innanzi né indietro, di modo che niuno sapeva in tanta confusione quello si potesse o dovesse fare. Intanto e’ cavagli, che erono alle mani con le fanterie nimiche, erano ammazzati e guasti sanza potere difendersi, perché la malignità del sito non gli lasciava; pure più per forza che per virtù resistevono, perché, avendo dai fianchi i monti, di dietro gli amici e dinanzi gli inimici, non restava loro alcuna via aperta alla fuga.
Intanto Castruccio, veduto che i suoi non bastavano a fare voltare e’ nimici, mandò mille fanti per la via del castello; e fattogli scendere con quattrocento cavagli che quello aveva mandati innanzi, li percossono per fianco con tanta furia, che le genti fiorentine non potendo sostenere lo impeto di quelli, vinti più da il luogo che da’ nimici, cominciorno a fuggire. E cominciò la fuga da quelli che erono di dietro verso Pistoia, i quali distendendosi per il piano, ciascuno, dove meglio gli veniva, provvedeva alla sua salute.
Fu questa rotta grande, e piena di sangue. Furono presi molti capi, intra quali furono Bandino de’ Rossi, Francesco Brunelleschi e Giovanni della Tosa, tutti nobili fiorentini, con di molti altri Toscani e regnicoli, i quali, mandati da il re Ruberto in favore de’ Guelfi, con i Fiorentini militavano.
I Pistolesi, udita la rotta, sanza differire, cacciata la parte amica a’ Guelfi, si dettono a Castruccio. Il quale, non contento di questo, occupò Prato e tutte le castella del piano, così di là come di qua d’Arno; e si pose con le genti nel piano di Peretola, propinquo a Firenze a dua miglia; dove stette molti giorni a dividere la preda e a fare festa della vittoria avuta, faccendo in dispregio de’ Fiorentini battere monete, correre palii a cavagli, a uomini e a meretrici. Né mancò di volere corrompere alcuno nobile cittadino, perché gli aprisse la notte le porte di Firenze; ma, scoperta la congiura, furono presi e decapitati Tommaso Lupacci e Lambertuccio Frescobaldi.
Sbigottiti, adunque, i Fiorentini per la rotta, non vedevono rimedio a potere salvare la loro libertà; e per essere più certi degli aiuti, mandorono oratori a Ruberto re di Napoli, a dargli la città e il dominio di quella. Il che da quel re fu accettato, non tanto per lo onore fattogli dai Fiorentini, quanto perché sapeva di quale momento era allo stato suo che la parte guelfa mantenessi lo stato di Toscana. E convenuto con i Fiorentini di avere dugentomila fiorini l’anno, mandò a Firenze Carlo, suo figliuolo, con quattromila cavagli.
Intanto e’ Fiorentini si erano alquanto sollevati dalle genti di Castruccio, perché egli era stato necessario partirsi di sopra e’ loro terreni e andarne a Pisa, per reprimere una congiura fatta contro di lui da Benedetto Lanfranchi, uno de’ primi di Pisa. Il quale, non potendo sopportare che la sua patria fussi serva d’uno Lucchese, gli congiurò contra, disegnando occupare la cittadella e, cacciatane la guardia, ammazzare i partigiani di Castruccio. Ma perché in queste cose se il poco numero è sufficiente al segreto, non basta alla esecuzione, mentre che e’ cercava di ridurre più uomini a suo proposito, trovò chi questo suo disegno scoperse a Castruccio. Né passò questa revelazione sanza infamia di Bonifacio Cerchi e Giovanni Guidi fiorentini, i quali si trovavano confinati a Pisa; onde, posto le mani addosso a Benedetto, lo ammazzò, e tutto el restante di quella famiglia mandò in esilio, e molti altri nobili cittadini decapitò. E parendogli avere Pistoia e Pisa poco fedeli, con industria e forza attendeva ad assicurarsene; il che dette tempo ai Fiorentini di ripigliare le forze, e potere aspettare la venuta di Carlo. Il quale venuto, deliberarono di non perdere tempo, e ragunorono insieme grande gente, perché convocorono in loro aiuto quasi tutti i Guelfi di Italia, e feciono uno grossissimo esercito di più di trentamila fanti e diecimila cavagli. E consultato quale dovessino assalire prima, o Pistoia o Pisa, si risolverono fusse meglio combattere Pisa, come cosa più facile a riuscire per la fresca congiura che era stata in quella, e di più utilità, giudicando, avuta Pisa, Pistoia per se medesima si arrendesse.
Usciti adunque i Fiorentini fuora con questo esercito, allo entrare di maggio del milletrecentoventotto, occuparono subito la Lastra, Signa, Montelupo ed Empoli, e ne vennono con lo esercito a San Miniato. Castruccio, dall’altra parte, sentendo el grande esercito che i Fiorentini gli avieno mosso contra, non sbigottito in alcuna parte, pensò che questo fusse quel tempo che la fortuna gli dovesse mettere in mano lo imperio di Toscana, credendo che gli inimici non avessero a fare migliore prova in quello di Pisa che si facessero a Serravalle, ma che non avessino già speranza di rifarsi come allora; e ragunato ventimila de’ suoi uomini a piè e quattromila cavagli, si pose con lo esercito a Fucecchio, e Pagolo Guinigi mandò con cinquemila fanti in Pisa. È Fucecchio posto in luogo più forte che alcuno altro castello di quello di Pisa, per essere in mezzo intra la Gusciana e Arno, ed essere alquanto rilevato da il piano; dove stando, non li potevano i nimici, se non facevano dua parte di loro, impedire le vettovaglie che da Lucca o da Pisa non venissino; né potevano, se non con loro disavvantaggio, o andare a trovarlo o andare verso Pisa; perché, nell’uno caso, potevono essere messi in mezzo dalle genti di Castruccio e da quelle di Pisa; nell’altro, avendo a passare Arno, non potevono farlo, con il nimico addosso, se non con grande loro pericolo. E Castruccio, per dare loro animo di pigliare questo partito di passare, non si era posto con le genti sopra la riva d’Arno, ma allato alle mura di Fucecchio, e aveva lasciato spazio assai intra il fiume e lui.
I Fiorentini, avendo occupato San Miniato, consigliorono quello fusse da fare: o andare a Pisa o a trovare Castruccio e misurata la difficultà dell’uno partito e dell’altro, si risolverno andare a investirlo. Era il fiume d’Arno tanto basso che si poteva guadare, ma non però in modo che a’ fanti non bisognassi bagnarsi infino alle spalle e ai cavagli infino alle selle. Venuto pertanto la mattina de’ dì dieci di giugno, i Fiorentini, ordinati alla zuffa, feciono cominciare a passare parte della loro cavalleria e una battaglia di diecimila fanti. Castruccio, che stava parato e intento a quello che egli aveva in animo di fare, con una battaglia di cinquemila fanti e tremila cavagli gli assaltò; né dette loro tempo a uscire tutti fuora delle acque, che fu alle mani con loro, e mille fanti espediti mandò su per la riva dalla parte di sotto d’Arno e mille di sopra. Erano e’ fanti de’ Fiorentini aggravati dalle acque e dalle armi, né avevano tutti superato la grotta del fiume. I cavagli, passati che ne furono alquanti, per avere rotto el fondo d’Arno, ferono il passo agli altri difficile; perché, trovando il passo sfondato, molti rimboccavano addosso al padrone; molti si ficcavano talmente nel fango che non si potevano ritirare. Onde veggendo i capitani fiorentini la difficultà del passare da quella parte, li feciono ritirare più alti su per il fiume, per trovare il fondo non guasto e la grotta più benigna che gli ricevessi. Ai quali si opponevano quegli fanti che Castruccio aveva su per la grotta mandati; i quali armati alla leggiera con rotelle e dardi di galea in mano, con grida grandi, nella fronte e nel petto gli ferivano: tale che i cavagli dalle ferite e dalle grida sbigottiti, non volendo passare avanti, addosso l’uno all’altro si rimboccavano. La zuffa intra quegli di Castruccio e quegli che erano passati fu aspra e terribile; e da ogni parte ne cadeva assai; e ciascuno s’ingegnava con quanta più forza poteva di superare l’altro. Quegli di Castruccio gli volevono rituffare nel fiume; i Fiorentini gli volevono spignere, per dare luogo agli altri che, usciti fuora della acqua, potessero combattere; alla quale ostinazione si aggiugnevano i conforti de’ capitani. Castruccio ricordava ai suoi ch’egli erano quelli inimici medesimi che non molto tempo innanzi avevono vinti a Serravalle; e i Fiorentini rimproveravono i loro che gli assai si lasciassino superare da’ pochi. Ma veduto Castruccio che la battaglia durava, e come i suoi e gli avversarii erano già stracchi, e come da ogni parte ne era molti feriti e morti, spinse innanzi un’altra banda di cinquemila fanti, e condotti che gli ebbe alle spalle de’ suoi che combattevano, ordinò che quelli davanti si aprissino e, come se si mettessino in volta, l’una parte in su la destra e l’altra in su la sinistra si ritirasse. La quale cosa fatta, dette spazio a’ Fiorentini di farsi innanzi e guadagnare alquanto di terreno. Ma venuti alle mani i freschi con gli affaticati, non stettono molto che gli spinsono nel fiume. Intra la cavalleria dell’uno e dell’altro non vi era ancora vantaggio, perché Castruccio, conosciuta la sua inferiore, aveva comandato ai condottieri che sostenessino solamente el nimico, come quello che sperava superare i fanti, e, superati, potere poi più facilmente vincere i cavagli; il che gli succedette secondo il disegno suo. Perché, veduti i fanti inimici essersi ritirati nel fiume, mandò quel resto della sua fanteria alla volta de’ cavagli inimici; i quali con lance e con dardi ferendogli, e la cavalleria ancora con maggior furia premendo loro addosso, gli missono in volta. I capitani fiorentini, vedendo la difficultà che i loro cavagli avevano a passare, tentorono far passare le fanterie dalla parte di sotto del fiume, per combattere per fianco le genti di Castruccio. Ma sendo le grotte alte e di sopra occupate dalle genti di quello, si provorono in vano. Messesi pertanto el campo in rotta, con gloria grande e onore di Castruccio; e di tanta moltitudine non ne campò el terzo. Furono presi di molti capi; e Carlo, figliuolo del re Ruberto, insieme con Michelagnolo Falconi e Taddeo degli Albizzi, commissarii fiorentini, se ne fuggirono a Empoli. Fu la preda grande, la uccisione grandissima, come in uno tanto conflitto si può estimare; perché dello esercito fiorentino ne morì ventimila dugentotrentuno, e di quegli di Castruccio mille cinquecento settanta.
Ma la fortuna, inimica alla sua gloria, quando era tempo di dargli vita, gliene tolse, e interruppe quelli disegni che quello molto tempo innanzi aveva pensato di mandare ad effetto, né gliene poteva altro che la morte impedire. Erasi Castruccio nella battaglia tutto el giorno affaticato, quando, venuto el fine di essa, tutto pieno di affanno e di sudore, si fermò sopra la porta di Fucecchio, per aspettare le genti che tornassino dalla vittoria, e quelle con la presenzia sua ricevere e ringraziare, e parte, se pure cosa alcuna nascesse dai nimici che in qualche parte avessino fatto testa, potere essere pronto a rimediare; giudicando lo officio d’uno buono capitano essere montare il primo a cavallo e l’ultimo scenderne. Donde che, stando esposto a uno vento che il più delle volte a mezzo dì si leva di in su Arno, e suole essere quasi sempre pestifero, agghiacciò tutto; la quale cosa non essendo stimata da lui, come quello che a simili disagi era assuefatto, fu cagione della sua morte. Perché la notte seguente fu da una grandissima febbre assalito; la quale andando tuttavia in augumento, ed essendo il male da tutti e’ medici giudicato mortale, e accorgendosene Castruccio chiamò Pagolo Guinigi e gli disse queste parole: - Se io avessi creduto, figliuolo mio, che la fortuna mi avesse voluto troncare nel mezzo del corso il cammino per andare a quella gloria che io mi avevo con tanti miei felici successi promessa, io mi sarei affaticato meno e a te arei lasciato, se minore stato, meno inimici e meno invidia. Perché, contento dello imperio di Lucca e di Pisa, non arei soggiogati e’ Pistolesi e con tante ingiurie irritati e’ Fiorentini; ma, fattomi e l’uno e l’altro di questi dua popoli amici, arei menata la mia vita, se non più lunga, al certo più quieta, e a te arei lasciato lo stato, se minore, sanza dubbio più sicuro e più fermo. Ma la fortuna, che vuole essere arbitra di tutte le cose umane, non mi ha dato tanto giudicio che io l’abbia potuta prima conoscere, né tanto tempo che io l’abbi potuta superare. Tu hai inteso, perché molti te lo hanno detto e io non l’ho mai negato, come io venni in casa di tuo padre ancora giovanetto e privo di tutte quelle speranze che deono in ogni generoso animo capire, e come io fui da quello nutrito e amato più assai che se io fussi nato del suo sangue; donde che io, sotto el governo suo, divenni valoroso e atto a essere capace di quella fortuna che tu medesimo hai veduta e vedi. E perché, venuto a morte, ei commisse alla mia fede te e tutte le fortune sue, io ho te con quello amore nutrito, ed esse con quella fede accresciute, che io era tenuto e sono. E perché non solamente fussi tuo quello che da tuo padre ti era stato lasciato, ma quello ancora che la fortuna e la virtù mia si guadagnava, non ho mai voluto prendere donna, acciò che lo amore de’ figliuoli non mi avesse a impedire che in alcuna parte non mostrassi verso del sangue di tuo padre quella gratitudine che mi pareva essere tenuto di mostrare. Io ti lascio pertanto uno grande stato; di che io sono molto contento; ma perché io te lo lascio debole e infermo, io ne sono dolentissimo. È ti rimane la città di Lucca, la quale non sarà mai bene contenta di vivere sotto lo imperio tuo. Rimanti Pisa, dove sono uomini di natura mobili e pieni di fallacia; la quale ancora che sia usa in varii tempi a servire, nondimeno sempre si sdegnerà di avere uno signore lucchese. Pistoia ancora ti resta, poco fedele, per essere divisa, e contro al sangue nostro dalle fresche ingiurie irritata. Hai per vicini e’ Fiorentini, offesi e in mille modi da noi ingiuriati e non spenti; ai quali sarà più grato lo avviso della morte mia, che non sarebbe lo acquisto di Toscana. Negli principi di Milano e nello imperadore non puoi confidare, per essere discosto, pigri, e gli loro soccorsi tardi. Non dei pertanto sperare in alcuna cosa, fuora che nella tua industria e nella memoria della virtù mia e nella reputazione che ti arreca la presente vittoria, la quale se tu saprai con prudenza usare, ti darà aiuto a fare accordo con i Fiorentini, al quale, sendo sbigottiti per la presente rotta, doverranno con desiderio condescendere. I quali dove io cercavo di farmi inimici, e pensavo che la inimicizia loro mi avessi a recare potenza e gloria, tu hai con ogni forza a cercare di fartegli amici, perché la amicizia loro ti arrecherà securtà e commodo. È cosa in questo mondo di importanza assai cognoscere se stesso, e sapere misurare le forze dello animo e dello stato suo; e chi si cognosce non atto alla guerra, si debbe ingegnare con le arti della pace di regnare. A che è bene, per il consiglio mio, che tu ti volga, e t’ingegni per questa via di goderti le fatiche e pericoli miei; il che ti riuscirà facilmente, quando stimi essere veri questi miei ricordi. E arai ad avere meco duoi oblighi: l’uno, che io ti ho lasciato questo regno; l’altro, che io te lo ho insegnato mantenere.
Di poi fatti venire quegli cittadini che di Lucca, di Pisa e di Pistoia seco militavano, e raccomandato a quegli Pagolo Guinigi, e fattigli giurare obedienza, si morì; lasciando, a tutti quegli che lo avevano sentito ricordare, di sé una felice memoria, e a quegli che gli erano stati amici tanto desiderio di lui, quanto alcuno altro principe che mai in qualunche altro tempo morissi. Furono le esequie sue celebrate onoratissimamente, e sepulto in San Francesco in Lucca. Ma non furno già la virtù e la fortuna tanto amiche a Pagolo Guinigi, quanto a Castruccio; perché non molto di poi perdé Pistoia, e appresso Pisa, e con fatica si mantenne il dominio di Lucca, il quale perseverò nella sua casa infino a Pagolo suo pronipote.
Fu adunque Castruccio, per quanto si è dimostro, uno uomo non solamente raro ne’ tempi sua, ma in molti di quegli che innanzi erono passati. Fu della persona più che l’ordinario di altezza, e ogni membro era all’altro rispondente; ed era di tanta grazia nello aspetto e con tanta umanità raccoglieva gli uomini, che non mai gli parlò alcuno che si partisse da quello mal contento. I capegli suoi pendevano in rosso, e portavagli tonduti sopra gli orecchi; e sempre, e d’ogni tempo, come che piovesse o nevicasse, andava con il capo scoperto.
Era grato agli amici, agli inimici terribile, giusto con i sudditi, infedele con gli esterni; né mai potette vincere per fraude, che e’ cercasse di vincere per forza; perché ei diceva che la vittoria, non el modo della vittoria, ti arrecava gloria.
Niuno fu mai più audace a entrare ne’ pericoli, né più cauto a uscirne; e usava di dire che gli uomini debbono tentare ogni cosa, né di alcuna sbigottire, e che Dio è amatore degli uomini forti, perché si vede che sempre gastiga gli impotenti con i potenti.
Era ancora mirabile nel rispondere e mordere, o acutamente o urbanamente; e come non perdonava in questo modo di parlare ad alcuno, così non si adirava quando non era perdonato a lui. Donde si truovono di molte cose dette da lui acutamente, e molte udite pazientemente.
Avendo egli fatto comperare una starna uno ducato, e riprendendolo uno amico, disse Castruccio: - Tu non la comperresti per più che uno soldo. - E dicendogli lo amico che ei diceva il vero, rispose quello: - Uno ducato mi vale molto meno.
Avendo intorno uno adulatore, e per dispregio avendogli sputato addosso, disse lo adulatore: - I pescatori, per prendere un piccolo pesce, si lasciono tutti bagnare dal mare, io mi lascerò bene bagnare da uno sputo per pigliare una balena. - Il che Castruccio non solo udì pazientemente, ma lo premiò.
Dicendogli alcuno male, ché e’ viveva troppo splendidamente, disse Castruccio: - Se questo fussi vizio, non si farebbe sì splendidi conviti alle feste de’ nostri santi.
Passando per una strada, e vedendo uno giovanetto che usciva di casa una meretrice tutto arrossito per essere stato veduto da lui, gli disse: - Non ti vergognare quando tu n’esci, ma quando tu v’entri.
Dandogli uno amico a sciogliere uno nodo accuratamente annodato, disse: - O sciocco, credi tu ch’io voglia sciòrre una cosa che, legata, mi dia tanta briga?
Dicendo Castruccio a uno el quale faceva professione di filosofo: - Voi siete fatti come i cani, che vanno sempre dattorno a chi può meglio dare loro mangiare; - gli rispose quello: - Anzi, siamo come e’ medici, che andiamo a casa coloro che di noi hanno maggiore bisogno.
Andando da Pisa a Livorno per acqua, e sopravvenendo uno temporale pericoloso, per il che turbandosi forte Castruccio, fu ripreso da uno di quegli che erano seco di pusillanimità, dicendo di non avere paura di cosa alcuna, al quale disse Castruccio che non se ne maravigliava, perché ciascuno stima l’anima sua quello che ella vale.
Domandato da uno come egli avessi a fare a farsi stimare, gli disse: - Fa, quando tu vai a uno convito, che e’ non segga uno legno sopra uno altro legno.
Gloriandosi uno di avere letto molte cose, disse Castruccio: - È sarebbe meglio gloriarsi di averne tenute a mente assai.
Gloriandosi alcuno che, bevendo assai, non si inebriava, disse: - È fa cotesto medesimo uno bue.
Aveva Castruccio una giovane con la quale conversava dimesticamente, di che sendo da uno amico biasimato, dicendo massime che egli era male che e’ si fusse lasciato pigliare ad una donna: - Tu erri, - disse Castruccio, - io ho preso lei, non ella me.
Biasimandolo ancora uno, che egli usava cibi troppo dilicati, disse: - Tu non spenderesti in essi quanto spendo io. - E dicendogli quello che e’ diceva el vero, gli soggiunse: - Adunque tu sei più avaro che io non sono ghiotto.
Sendo invitato a cena da Taddeo Bernardi lucchese, uomo ricchissimo e splendidissimo, e, arrivato in casa, mostrandogli Taddeo una camera parata tutta di drappi e che aveva il pavimento composto di pietre fine, le quali, di diversi colori diversamente tessute, fiori e fronde e simili verzure rappresentavano, ragunatosi Castruccio assai umore in bocca, lo sputò tutto in sul volto a Taddeo. Di che turbandosi quello, disse Castruccio: - Io non sapevo dove mi sputare che io ti offendessi meno.
Domandato come morì Cesare, disse: - Dio volesse che io morissi come lui!
Essendo una notte in casa d’uno de’ suoi gentili uomini, dove erano convitate assai donne a festeggiare, e ballando e sollazzando quello più che alle qualità sua non conveniva, di che sendo ripreso da uno amico, disse: - Chi è tenuto savio di dì, non sarà mai tenuto pazzo di notte.
Venendo uno a domandargli una grazia, e faccendo Castruccio vista di non udire, colui se gli gittò ginocchioni in terra; di che riprendendolo Castruccio, disse quello: - Tu ne sei cagione, che hai gli orecchi ne’ piedi. - Donde che conseguì doppia più grazia che non domandava.
Usava dire che la via dello andare allo inferno era facile, poiché si andava allo ingiù e a chiusi occhi.
Domandandogli uno una grazia con assai parole e superflue, gli disse Castruccio: - Quando tu vuoi più cosa alcuna da me, manda uno altro.
Avendolo uno uomo simile con una lunga orazione infastidito, e dicendogli nel fine: - Io vi ho forse, troppo parlando, stracco -; - Non hai, - disse - perché io non ho udito cosa che tu abbia detto.
Usava dire di uno che era stato uno bel fanciullo e di poi era un bello uomo, come egli era troppo ingiurioso, avendo prima tolti i mariti alle mogli e ora togliendo le moglie a’ mariti.
A uno invidioso che rideva, disse: - Ridi tu perché tu hai bene o perché uno altro ha male?
Sendo ancora sotto lo imperio di messer Francesco Guinigi e dicendogli uno suo equale: - Che vuoi tu che io ti dia, e làsciamiti dare una ceffata? - rispose Castruccio: - Uno elmetto.
Avendo fatto morire uno cittadino di Lucca, il quale era stato cagione della sua grandezza, ed essendogli detto che egli aveva fatto male ad ammazzare uno de’ suoi amici vecchi, rispose che e’ se ne ingannavano, perché aveva morto uno nimico nuovo.
Lodava Castruccio assai gli uomini che toglievano moglie e poi non la menavano, e così quegli che dicevano di volere navigare e poi non navigavano.
Diceva maravigliarsi degli uomini che, quando ei comperano uno vaso di terra o di vetro, lo suonano prima, per vedere se è buono, e poi nel torre moglie erano solo contenti di vederla.
Domandandolo uno, quando egli era per morire, come e’ voleva essere seppellito, rispose: - Con la faccia volta in giù, perché io so che, come io sono morto, andrà sottosopra questo paese.
Dimandato se, per salvare l’anima, ei pensò mai di farsi frate, rispose che no, perché gli pareva strano che fra’ Lazzero ne avessi a ire in paradiso e Uguccione della Faggiuola nello inferno. Dimandato quando era bene mangiare a volere stare sano, rispose: Se uno è ricco, quando egli ha fame; se uno è povero, quando e’ può. Vedendo un suo gentiluomo che si faceva da uno suo famiglio allacciare, disse: Io priego Dio che tu ti faccia anche imboccare. Vedendo che uno aveva scritto sopra alla casa sua in lettere latine, che Dio la guardasse dai cattivi, disse: E’ bisogna ch’e’ non vi entri egli. Passando per una via dove era una casa piccola, che aveva una porta grande, disse: Quella casa si fuggirà per quella porta. Disputando con un Ambasciatore del re di Napoli per conto di robe di confinati, ed alterandosi alquanto, dicendo lo Ambasciadore: Dunque tu non hai paura del re? Castruccio disse: È egli buono o cattivo questo vostro re? E rispondendo quegli che egli era buono, replicò Castruccio: Perchè vuoi tu adunque che io abbi paura degli uomini buoni? Potrebbonsi raccontare delle altre cose assai dette da lui, nelle quali tutte si vedrebbe ingegno e gravità, ma voglio che queste bastino in testimonio delle grandi qualità sue. Visse quarantaquattro anni, e fu in ogni fortuna principe. E come della sua buona fortuna ne appariscono assai memorie, così volle che ancora della cattiva apparissino; per che le manette, con le quali stette incatenato in prigione, si veggono ancora oggi fitte nella torre della sua abitazione, dove da lui furono messe, acciò facessero sempre fede della sua avversità. E perchè vivendo ei non fu inferiore nè a Filippo di Macedonia padre di Alessandro, nè a Scipione di Roma, ei morì nella età dell’uno e dell’altro; e senza dubbio arebbe superato l’uno e l’altro, se in cambio di Lucca egli avesse avuto per sua patria Macedonia o Roma.