Le Mille ed una Notti/Storia del Re Gilia, del visir Scimas, e de' loro figliuoli

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Storia del Re Gilia, del visir Scimas, e de' loro figliuoli

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Storia del Re Gilia, del visir Scimas, e de' loro figliuoli
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NOTTE DCCCLXXI-CMX

STORIA

DEL RE GILIA, DEL VISIR SCIMAS,

E DE’ LORO FIGLIUOLI.

— Eravi una volta nell’Indie un re potente di nome Gilia, che governava con equità i suoi popoli, colmando di benefizi gl'infelici, ed amando i sudditi da’ quali era adorato. Settantadue vicerè governavano sotto ai suoi ordini; trecentocinquanta cadì, o giudici, rendeano nel suo regno giustizia, e sette visiri erano incaricati della cura degli affari, col loro capo o gran visir chiamato Scimas. Nel suo ingresso al ministero era questi un giovane di ventott’anni, di dolce e facile eloquenza; spiegava negli affari mirabile intelligenza, e sino dalla più tenera infanzia aveva seguito il sentiero della saggezza e della virtù

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«Il re nudriva il più vivo affetto per questo visir non solo riguardo alle di lui qualità personali, ma anche perchè seguiva maravigliosamente le benefiche sue disposizioni verso i sudditi. Gilia sarebbe stato il re più felice, se il cielo avessegli concesso un figlio; sola cosa che mancava alla sua felicità. Una notte, egli vide in sogno un albero immenso che ergevasi dal suo corpo, ed era circondato da parecchi altri alberi: usciva dall’albero di mezzo una fiamma che consumò tutti gli altri che stavangli intorno. Colto il re da spavento, si destò di botto, e fece sull’alto chiamare il visir Scimas, il quale lo trovò sul letto col terrore dipinto in volto. Prosternossi il visir a terra, e fece i voti consueti per la conservazione del monarca; quindi gli domandò per qual motivo lo facesse venire a simile ora della notte. Gli comandò il re di sedere, e raccontatogli il sogno, soggiunse: — Vi ho fatto chiamare, perchè siete versatissimo nell’interpretazione dei sogni.» Scimas sorrise. — Cosa ne dite?» riprese il re; «parlate, poichè mi attendo qualche cosa di funesto. — Rassicuratevi,» rispose il visir; «questo sogno non presagisce nulla se non di gradevole; avrete in fine un erede della corona. Ecco tutto ciò che posso per ora rivelarvi; non è ancor tempo di parlar dei resto.» Il re supplicollo di spiegarsi più chiaramente, ma Scimas ricusò di arrendersi alle sue istanze. Gilia lo congedò adunque, e fece chiamare tutti gl’interpreti dei sogni e gli astrologi della sua corte per avere una spiegazione intiera del sogno. — Il visir aveva ragione,» disse il primo interprete; «sarebbe meglio custodire sul resto il silenzio, ma siccome gli ordini vostri sono assoluti, sappiate dunque, o gran re, che il figliuolo che vi deve nascere, sarà pe’ suoi popoli un fuoco divoratore, e li tratterà come il gatto fece una volta coi sorci. — E come li trattò egli?» chiese Gilia. [p. 235 modifica]

«— Un gatto,» continuò l’interprete, «dopo aver a lungo girato senza cogliere nessuna preda, scoprì finalmente appiè d’un albero un nido di sorci. Se ne accostò egli, ma i sorci si strinsero insieme, e chiusero l'ingresso della loro dimora. «Perchè, fratelli, disse loro il gatto con voce melata, perchè mi chiudete la porta in questa notte burrascosa? vengo a cercare presso di voi ricovero contro la tempesta. Appena posso trascinarmi per la vecchiaia; assiderato dal freddo, e molle di pioggia sino alle ossa, tutte le forze mie sono esauste; è come straniero che imploro un asilo ospitale. Sapete che chi soccorre gl’infelici e gli stranieri, sarà nel giorno del giudizio ricompensato. Vi assicurerete tal ricompensa, se mi accoglierete sol per questa notte! poichè allo spuntar del giorno prenderò commiato per raggiungere i miei compagni. — Come! rispose il vecchio sorcio; ch’io riceva nel mio albergo il mio più crudel nimico? come fidarmi alle vostre parole? — Non oso dire che avreste torto, riprese il gatto con voce lusinghiera; ma dimenticate il passato. Sapete che Iddio perdona a quelli che perdonano ai loro fratelli: sono stato sinora nemico vostro, è vero; ma i benefizi vostri, d'un nemico vi faranno di me un amico. Giuro per tutto ciò che v’ha di più sacro, di non farvi il menomo male; calcolate sulla mia promessa. — Mi ricordo, fece il sordo, un proverbio che dice: Chi si lascia persuadere dalle parole d’un nemico, mette la mano in un buco pieno di serpi. — Ah! riprese il gatto, con voce fioca e quasi moribonda, ah! io sento, vengo a spirare sulla vostra soglia; queste sono l’ultime mie parole. » Il sorcio, dotato di cuore compassionevole, credette infatti che il gatto toccasse l’estrema sua ora, e ricordando il precetto di Dio che comanda di perdonare ai propri nemici, aprì per fare un’opera meritoria. Il gatto si rinchiuse dietro la porta per tema [p. 236 modifica] che la preda non gli sfuggisse; quindi, slanciatosi sul sorcio, e pigliatolo, divertivasi a farlo passare da una zampa all’altra. «-«Deve sono le vostre promesse ed i giuramenti? gridò il sorcio. Aveva ben ragione chi disse che fidarsi del suo nemico è lo stesso che correre alla propria perdita: nondimeno, ripongo in Dio la mia speranza.» Nel medesimo istante, passò un cacciatore con due cani: udendo rumore nel buco, il cane vi spinse il muso, e latrando con tutta forza, diede un morso mortale al gatto nel momento in cui stava per divorare il sorcio... Così, gran re,» proseguì l'interprete, «sarà del vostro popolo, non meglio trattato dal figliuol vostro che nol fosse il sorcio dal gatto. Ma più felice ne sarà la fine; chè finalmente rientrerà nella via della saviezza e della virtù, nella quale niuno può meglio guidarlo del vostro gran visir, il virtuoso Scimas. —

«Venti giorni dopo, una donna del serraglio si trovò incinta. Gilia fe' chiamare il gran visir e gli disse: — Avevate ragione, o visir; una delle mie donne porta in seno la prole. Pregate Iddio che sia un principe erede della mia corona, e partecipate a tutta la mia gioia ed alla mia felicità.» Scimas stava in profondo silenzio. — Perchè,» riprese il re, «non prendete parte al mio giubilo, e restate silenzioso? — Dio prolunghi i giorni di vostra maestà!» disse il visir baciando la terra. «Non veggo in fatti perchè chi sta seduto sotto un albero fronzuto non abbia a rallegrarsi di tal ombra; e neppur veggo perchè chi incontrò una fonte refrigerante ond’estinguere la sete che lo divora, non godesse del suo incontro; ma vi sono tre cose sulle quali fa d’uopo tacere prima di conoscerne il fine. Non bisogna parlare di un viaggio prima d’esserne tornato; d’un combattimento prima che sia finito, e d’un fanciullo prima che sia nato. Allorchè se ne parla anticipatamente, [p. 237 modifica] si suol esporsi ad inganno come quel dervis che calcolava il benefìzio del suo olio. — Raccontatemi questa storia,» disse Gilia. Ed il visir gli narrò ciò che segue:

«— Un dervis, che viveva d’elemosina, era giunto a raccogliere una brocca piena d’olio in un tempo in cui questo era carissimo, e teneva il vaso sospeso al capezzale. Una sera ch’erasi coricato con un bastone in mano, si mise a calcolare il guadagno che poteva ricavarne. «-«Lo venderò caro, dicea, e comprerò una pecora che mi farà tanti agnelli il primo anno, tanti il secondo, tanti il terzo; gli anni seguenti, gli agnelli moltiplicheranno, ed io mi troverò in istato di comprare un campo, sul quale farò fabbricare una vasta casa. Avrò gran numero di schiavi e d’animali domestici: allora sposerò la figlia di qualche ricco personaggio, e saran celebrate le nozze colla massima magnificenza. S’imbandiranno le vivande più rare ed i più squisiti liquori, e voglio che tutti, ricchi e poveri, dotti e mercanti, siano invitati: nulla vi mancherà, e si parlerà ancora lungo tempo dopo di queste nozze. Mia moglie mi darà un figlio che avrà una buona, educazione; lo istruirò io medesimo nelle scienze e nella morale: sarà un fanciullo mansueto, docile e seguirà con sommissione i consigli di suo padre; ma se sognasse di resistermi e far il cattivo, ah! come ti farei gioucare, baston mio, sulle sue spalle!» Sì dicendo, nel calore dell’immaginazione, credendo realmente di battere il figlio, il dervis colpì col bastone nella brocca, che spezzatasi, gli sparse l’olio sul viso e sulla barba... Perciò, gran re,» disse Scimas, «non bisogna parlare delle cose prima del tempo. — Hai ragione,» ripigliò Gilia; «sei veramente un abile visir ed un savio di mirabile prudenza.» Scimas baciò la terra, formando mille voti per la prosperità del monarca. [p. 238 modifica]

Finalmente, la moglie del re, ch’era incinta, mise alla luce un figlio, e tale avvenimento produsse allegrezza universale alla corte ed in tutta la città. Spedirono messaggi in tutte le province per invitare i grandi ed i principi, i ricchi ed i sapienti. Recaronsi questi tutti alla corte, formando un’immensa riunione, presieduta dal re e dai sette visiri. Scimas, come gran visir, aprì la seduta col discorso seguente:

«— Lode a Dio che ci ha colmati de’ suoi benefizi, dandoci il miglior segno dell’infinita sua bontà col concederne un re padre del suo popolo; poichè un buon re che veglia ai bisogni dei sudditi e li protegge contro i nemici, è il massimo favore della Provvidenza. Ringraziamo dunque il cielo di vivere sotto l’ombra della protezione d’un simile monarca, e vivere tranquillamente come pesci in uno stagno. — E come vivono i pesci?» chiese Gilia, interrompendo il discorso. — Benissimo,» rispose Scimas, «allorchè hanno acqua in copia, e quando ne mancano, assai male. Potrei raccontarvi, ma non ne val la pena, la storia de’ pesci che, trovandosi una volta in secco nel loro stagno, vennero a consultare un vecchio gambero sul partito d’abbracciare in tale emergenza. Il gambero consigliò di ricorrere a Dio, innalzando preghiere per ottenere la pioggia. Seguirono i pesci il consiglio, ed in breve lo stagno fu pieno d’acqua. Così, allorchè noi incominciavamo a disperare della nascita d’un erede del trono, abbiamo rivolte al cielo le nostre preci, ed esso le ha esaudite, concedendo un principe al migliore dei monarchi.

«— Un re,» disse il secondo visir, cominciando il suo discorso, «non è in vero degno di tal nome se non quando governa con giustizia ed equità, e si mostra protettore delle leggi e padre del suo popolo: un tal re si assicura l’amore ed il cuore de’ sudditi, e preparasi una gloria immortale in questo mondo e nel[p. 239 modifica]l’altro. Apprezziamo la nostra ventura di possedere un simile sovrano, e ringraziamo il cielo di aver assicurata la nostra felicità, mediante la nascita d’un principe, che ci promette il più lieto avvenire. Non dobbiamo, per questo benefizio, minor riconoscenza al cielo, dei corvi che videro salva dalle fauci d’un serpente la loro prole.

«— Raccontacene la storia,» disse Gilia, ch’era estremamente curioso.

«— La storia è semplicissima,» rispose il visir. «Avevano due corvi costruito il loro nido su d’un albero, appiè dei quale anche un serpente teneva il suo. Vegliavano quelli sulle loro uova con tenera sollecitudine; nondimeno, il primo anno il serpente li divorò prima che fossero schiusi i pulcini. La stessa cosa stava per succedere l’anno dopo; ma i corvi implorarono il soccorso del cielo, ed una cicogna portò via il serpente, mentre saliva sull’albero per divorare i corbacchiotti... Iddio ha in simil guisa ascoltate le nostre preghiere, conservando la posterità d’un buon re come conservò quella dei corvi.

«— Salve, diletto re!» disse il terzo visir.«Le rare virtù della vostra sublime anima vi assicurano l’amore degli uomini e degli angeli; sono esse prezioso dono del cielo, perchè di là viene tutto ciò che gli uomini posseggono. Dio è il dispensatore delle grazie: agli uni concede la potenza, agli altri la sapienza; a questo i tesori, a quello la virtù. Egli è che distribuisce i beni ed i mali, che fa nascere le malattie e rende la salute; che forma i ricchi ed i poveri, che dà la vita e la morte. Pose egli il colmo alle sue grazie ed alla nostra felicità colla nascita d’un principe: riceviamo dunque dalle sue mani con grato cuore tal benefizio. Guardiamoci dal desiderare al di là di quanto ci ha destinato la bontà divina, per timore non ci accada come a quella [p. 240 modifica] volpe, la quale, disgustandosi del solito suo cibo, volle assolutamente mangiar il cuore d’un asino salvatico. — Come!» disse Gilia; «che cosa accadde a quella volpe? — Non contentavasi più,» riprese il visir, «del vitto giornaliero che Iddio le aveva destinato, e concepì estremo desiderio di mangiar il cuore d’un asino selvatico. Un giorno, trovatone uno ucciso in caccia, gli estrasse il cuore e lo divorò; ma inghiottì nel medesimo tempo il ferro della freccia rimasto nella piaga, che le cagionò la morte.

«— Possa il giovane principe,» disse il quarto visir, «intendere sin dalla culla la santa verità d’onde dipende la felicità dei re e dei popoli! Buon re è quello che regna con mansuetudine e saviezza, e protegge l’onore ed i beni de’ sudditi; simile monarca è sostegno dell’impero, ed il suo regno non è che una serie di splendidi trionfi sopra i suoi nemici. Ma un principe tirannico cagiona la propria ruina e quella del suo popolo; ei deve temere la sorte di quel re inumano che negò l’elemosina ad un povero mendico. — Questa dev’essere una storia morale,» disse Gilia; «raccontatela. — Un monarca crudele che regnava a Mogrib,» riprese il visir, «aveva un figlio tutto all’opposto del padre. Questi opprimeva il popolo, ne assorbiva quasi tutti i beni, e gli lasciava appena di che campare la vita. Il figliuolo, invece, era beneficentissimo, viveva come un povero eremita, e viaggiava di paese in paese, sussistendo di sole elemosine. Tornato in capo ad un anno nella capitale di suo padre, fu arrestato dalle guardie, che lo spogliarono d’uno de’ due abiti che possedeva. «Mi appello di questa violenza alla giustizia del re,» disse ai ladroni. — È il re medesimo,» risposero quelli, «che ci comandò d’operare così.» Lo sventurato principe aspettò che il re uscisse dalla porta del palazzo, di cui gli era stato negato l’ingresso; ma il [p. 241 modifica] genitore nol riconobbe. Ascoltato ch’egli ebbe le sue lagnanze, gli disse: «Chi t’ha spinto a venire in questa città? Non sai tu il trattamento che s’infligge agli stranieri? Ma poichè ti lagni d’essere stato spogliato degli abiti, comando che sii fatto spirare in mezzo ai tormenti.» Quindi lo fece gettare in un carcere. Là il giovane principe supplicò Iddio di venirgli in aiuto ed ascoltare la prece dell’oppresso. Nel medesimo istante, piovve fuoco dal cielo e ridusse in cenere il palazzo e tutta la città del tiranno. «I sospiri d’un cuore oppresso, disse il principe, si sono cangiati in fiamme divoratrici.» E subito alla domane, lasciate le ruine fumanti di quel soggiorno d’iniquità, andò a servire Iddio in un santo ritiro come aveva fatto prima.... Tale è il destino del re che non vi somiglia, o sire! Possa dunque il principe vostro figliuolo procedere sulle vostre orme, e meritare come voi l’amore del popolo!

«— La nascita di quest’illustre rampollo,» disse il quinto visir, «è la ricompensa delle virtù magnanime di vostra maestà; è il pegno della nostra felicità e della felicità dell’avvenire. Sinora quella onde abbiamo goduto sotto il vostro regno era stata turbata dall’inquietudine in cui ci gettava la privazione d’un erede per succedervi al trono. Dovevamo temere, che divisi nella scelta quando avessimo voluto eleggerci un re, non cadessimo nel caso nel quale trovavansi le cornacchie, che... — In qual caso trovavansi le cornacchie?» interruppe il re Gilia. — Le cornacchie,» proseguì il visir, «aveano vissuto a lungo felicissime sotto un re della loro specie, ma morto questo infine, tutto divenne confusione; chè dopo la sua morte que’ volatili non poterono andar d’accordo nella scelta d’un nuovo re. In quella giunse d’improvviso un falco forastiero, che intavolò negoziazione con loro. Lo scelsero esse a loro re, ed [p. 242 modifica] affrettaronsi a rendergli omaggio. «-«La felicità del mio popolo, disse il falcone, è il voto più caro del mio cuore, e lo governerò in modo conveniente.»-» Frattanto si pose a divorare le cornacchie, a romperne le ossa ed a cavar loro gli occhi. Pentironsi elleno allora, ma troppo tardi, del fallo commesso... Sarebbe forse così accaduto tra noi, o sire, senza la nascita di questo pegno della nostra felicità, che assicura all’impero ed alla casa vostra la durata del loro splendore. Noi siamo pieni di giubilo e di gratitudine.

«— Sire,» disse il sesto visir, «adoperaste il digiuno e le veglie per ottenere al trono un erede, ed il cielo esaudì i voti vostri. Permettete di renderne pubbliche azioni di grazie; ma in pari tempo pregheremo Dio di farle volgere al bene dell’impero; perocchè spesso gli uomini non sanno quello che desiderano. Come esempio di tale verità si ponno citare quo’ figliuoli i quali.... — Di quali figliuoli volete parlare?» domandò Gilia. — Per esempio di questa verità, diceva,» prosegui il visir, «si possono citare quei figliuoli che aveano tormentato a lungo il padre affinchè mostrasse loro cosa riponesse in una cassa che teneva sempre chiusa. Ricusò egli ostinatamente di compiacere alla loro domanda; ma un giorno, durante la di luì assenza, essi aprirono la cassa, e ne uscirono de’ serpenti che li posero a morte. —

«Il settimo visir tenne il discorso seguente: — Applaudisco a tutto quello che quest’illustri visiri, miei colleghi, dissero sull’equità e la prosperità del regno della maestà vostra. Unisco alle loro le mie azioni di grazie, e riconosco non esservi al mondo bene maggiore o maggior male d’un buono o d’un cattivo re. Ringrazio pure il cielo d’avervi conceduto un illustre rampollo, da voi, o sire, meritato colla vostra pazienza e rassegnazione, come il ragno meritò il [p. 243 modifica] riposo dopo molte tempeste. — Spiegatevi più chiaramente, interruppe Gilia; ed il visir continuò in questa guisa: — Un vento impetuoso trasportò un giorno in mare un ragno che riposava tranquillo nella sua tela, e l’onde il ributtarono sulla spiaggia. Si volse egli allora al vento, e gli fece i più amari rimproveri per averlo così trasportato.

«Se t’ho portato via, rispose il vento, non ti ho anche riportato sull’onde del mare? ti avrebbero esse ricondotto alla spiaggia, se io non ve le avessi sospinte?» Il ragno, pazientando, tacque ed aspettò tempi migliori. Ridottosi al lavoro, non ne fu più interrotto.... Così, gran re, voi cercaste inutilmente per lunga serie d’anni di avere un figlio, che vi viene finalmente concesso per la vostra pazienza e rassegnazione, il che vi assicura molta gloria e rinomanza. —

«Allorchè il settimo visir ebbe terminato il suo discorso, alzossi il re medesimo, e disse:

«— Lodi sempiterne al Dio clementissimo, misericordioso, creatore di tutte le cose! Egli accorda la forza ed il potere a colui tra’ suoi servi che proscelse per suo rappresentante sulla terra onde far osservare la sua legge ed i suoi precetti, mantenere la gloria e la felicità dei popoli. Avventurati quei re che governano secondo le sante sue leggi! e’ saranno l’oggetto dell’eterne sue ricompense. Ma guai a coloro che si ribellano contro il proprio sovrano, poichè la loro ribellione sarà punita in questo mondo e nell’altro. I nostri visiri hanno già espressa la gratitudine che dobbiamo verso la divinità per la nascita del principe che ne fu concesso. Io mi unisco ad essi perchè sono l’umile servitore del sovrano Signore; sta il mio cuore nelle sue mani, e la lingua mia si conduce conforme a’ suoi precetti. Prego il cielo di concedere a mio figlio i talenti e [p. 244 modifica] le virtù necessarie, affinchè regni un giorno come re giusto e saggio, che altri voti non abbia fuor del bene del sud popolo. —

«Allorchè il re ebbe finito il suo discorso, il visir ed i grandi dell’impero, i savi ed i sapienti, prosternatiseli dinanzi, tornarono alle case loro. Il re, rientrato anch’egli in palazzo, diede al figliuolo il nome di Vird-Khan, cioè Re-delle-Rose.

«Giunto il principino all’età di dodici anni, si pensò alla sua educazione. Fece dunque il re fabbricare un palazzo contenente trecentocinquantasei appartamenti; scelse poi trenta savi e sapienti che dovevano istruire il principe conducendolo ogni giorno dall’uno all’altro appartamento all’uopo di evitare la noia che avrebbe senza dubbio provata nel corso delle lezioni, se fosse mai sempre rimasto nelle medesime stanze. Ogni sette giorni il principino subiva un esame in presenza del re, ed i progressi che faceva in tutte le scienze, destavano stupore: era una maravigila d’intendimento e di sapere, cosa che dovea attribuirsi agli sforzi riuniti dei saggi e de’ dotti incaricati della sua istruzione.

«Allorchè il principe ebbe compiti tre lustri, gli istitutori dichiararono che l'allievo ormai ne sapeva più di loro, e felicitarono il re sulla beatitudine della quale l'aveva colmato il cielo dandogli un tal figlio.

«Gilia fece chiamare il gran visir e gli disse: — Gli istitutori di mio figlio mi assicurano ch’ei possiede una cognizione profonda di tutte le cose, nè più gli resta nulla da imparare; che ne dite voi, visir? — Il rubino,» rispose Scimas, «non è meno una pietra preziosa, benchè nascosto nel seno della terra; ma onde il suo pregio sia conosciuto dagli uomini, bisogna produrlo alla luce del giorno. Domani, se vostra maestà permette, metterò in evidenza le cognizioni del principe che paragono al rubino. — [p. 245 modifica] «Convocò il re una numerosa assemblea di consiglieri e di tutti i detti per assistere all’esame solenne che doveva farsi alla domane. Entrato Scimas nella sala, baciò la terra dinanzi al principe, e gli chiese: — Cos’è l’essere, l’esistenza, l’essere nell’esistenza e la durata dell’essere nell’esistenza?» Il principe rispose subito: — L’essere è certamente Iddio; l'esistenza, la creazione; l’essere nell’esistenza, questo mondo; e la durata dell’essere nell’esistenza, l’altro mondo.»

Scimas gli domandò poi su che si fondassero tali definizioni, ed in qual maniera bisogna condursi in questo mondo per essere nell’altro felici; ed il principe diede a tutte quelle interrogazioni bellissime risposte. Paragonò questo mondo ad una casa nella quale il padrone pose, perchè vi lavorassero, operai che ricalcitrano sinchè vi abbiano trovato una focaccia di miele, cui prendono tanto gusto che più non ne vogliono uscire. Lo paragonava anche ad un re ingiusto che spoglia tutti quelli che passano pe’ suoi stati; l’altro mondo paragonava ad un re giusto e benefico, che ricompensa coloro che lo servono. Continuando simili allegorie, soggiunse: — L’uomo è un mercatante mandato da un re giusto negli stati d’un re ingiusto per farvi commercio vantaggioso. Sa il mercante che il re ingiusto s’impossesserà di tutti i suoi beni, vale a dire, che il mondo ne occuperà esclusivamente la vita, e come buon calcolatore, fa allora i suoi conti; non sagrifica del suo capitale, cioè della sua vita, se non quanto è necessario per attraversane gli stati del re ingiusto, e cerca di conservare il resto per poter tornare un po’ più presto nel regno del monarca benefico, cioè alla felicità eterna. —

«Gli domandò poi Scimas in che cosa consistessero i castighi e le ricompense per l’anima e per il regno; il principe rispose colla parabola dello storpio e del cieco, che trovandosi in un giardino, formarono il [p. 246 modifica] pensiero di mangiar frutti. Riunirono tutti i loro sforzi per riuscirvi, così che nessun di loro avrebbe potuto fare da sè solo, poichè il cieco non vedea dova fossero i frutti, nè lo storpio poteva giungervi. Sopravvenuto il padrone del giardino, voleva punire il reo; quelli scaricavano la colpa l’un sull’altro, ma il padrone li punì ambedue come meritavano. — Qual è il più prezioso dei tesori celesti?» continuò Scimas. — La lode del Signore,» rispose il principe. — Quale il più prezioso dei tesori della terra? — L’obbedienza ai precetti di Dio. — Come acquistansi la scienza, il giudizio, la ragione? — La scienza acquistasi collo studio, il giudizio coll’esperienza, ed un intelletto penetrante coll'esame e la meditazione: queste tre qualità unite formano un uomo saggio. — L’uomo saggio può egli soccombere alle tentazioni della carne? — Può; come l'aquila che roteando nell’alto de’ cieli, scorge sulla terra un cacciatore che mise per lei un pezzo di carne. L’aquila vi piomba, e s’invesca nello reti con maraviglia del cacciatore. Sa l’uom saggio domare le sue passioni, come il cavaliere un cavallo focoso; gli trattiene la briglia e nol fa avanzare: l’ignorante abbandona le redini al cavallo che lo precipita nell’abisso dove trova morte. — Quando la scienza e la ragione procurano esse i maggiori vantaggi? — Allorchè servono a meritare la felicità eterna. Qual è il miglior uso che l’uomo far possa del suo tempo? — Fare delle buone azioni. — Come si deve dividere il proprio tempo per adempire a’ suoi doveri verso il mondo e verso il cielo? — Il giorno e la notte compongonsi di ventiquattr’ore che bisogna dividere in tre parti. Se ne dedica una alle occupazioni necessarie per procurarsi la sussistenza; l'altra al riposo ed all’orazione; la terza allo studio e ad acquistare la scienza; imperocchè l’uomo, che non s’istruisce, somiglia ad una terra incolta che non [p. 247 modifica] produce se non ingrati rovi. — A che cosa servono il sapere senza il giudizio, e la scienza senza lo spirito? — Somigliano ad un oriuolo che indichi le ore, ad un pappagallo che ripeta parole, ad un animale che meccanicamente conosca l’ora in cui deve mangiare, dormire o vegliare senza saperne di più. — Veggo che siete istruito di tutto ciò che concerne le scienze. Ditemi adesso come possa l’uomo diventare padrone del diavolo. — Allorchè gli accordi poca forza e potere su sè medesimo; non avendo Satana forza e potere se non se gliene accordi. — Quali sono i doveri d’un re verso i suoi visiri? — Una fiducia illimitata; in tutte le circostanze importami e difficili, un re deve giovarsi dei lumi del visir. — E quali sono i doveri d'un visir verso il suo re? — Deve tutto sagrifcare per degnamente adempire al suo ministero, nè mai oltrepassare i limiti del rispetto. Non operando così, troverebbesi nel caso di quel cacciatore, il quale, veduto un leone occupato nel suo pasto, lo prese bel bello per la coda. Si lasciò il leone prendere tranquillamente; tal che il cacciatore, insuperbendo, immaginavasi già di esserne padrone, allorchè la belva, gettatasegli furiosa addosso, lo sbranò. — Quali sono le qualità precipue che rendono un visir prezioso al suo signore? — Fedeltà a tutta prova, attività instancabile, prontezza ed energia nell’esecuzione degli affari. — Come deve un visir condursi verso un re ingiusto, tirannico, oppressore del suo popolo? — Deve fargli sentire la verità come ad un re giusto e benefico, ma guardandosi bene dall’irritare le passioni del padrone. — In che consistono i doveri reciproci dei re e de’ sudditi? — Deve il re osservare le leggi, proteggere l’onore ed i beni de’ sudditi; questi devono obbedire a’ suoi ordini, partecipare alle sue gioie ed alle sue pene, pagare esattamente i tributi ed implorare dal cielo la conservazione del loro [p. 248 modifica] sovrano. Il re, sopra tutte le cose, deve vagliare al mantenimento della religione, dei privilegi e diritti dei suoi soggetti. — Benissimo! Ora ditemi, o principe, che cosa si deve fare per comandare alla propria lingua, e non lasciarsi traviare? — Bisogna astenersi dalla menzogna, non dir male del prossimo e guardarsi dal dare risposte sconsiderate. Non si debbono mai rivelare i discorsi uditi, nè parlare delle cose che non si sanno. La parola è come una freccia che non si può ritrarre scoccata che sia, e tacere è quanto far si possa di più saggio. — Quale condotta si ha a tenere verso i parenti, gli amici, i compagni? — Rispettare ed onorare i parenti, trattarli con dolcezza, e mostrarsi sommessi ai loro voleri. Quanto agli amici, devesi ognora essere pronti a sagrificare per essi le proprie fortune, soccorrerli nell’avversità ed aver in essi una fiducia illimitata. Circa ai compagni, bisogna cercare d’esser loro grati, con maniere cortesi ed un carattere amabile. — Credete voi che il destino d’ogni mortale sia fissato dall’eternità; e devesi in tal caso cercare d’accrescere la propria felicità oppure trascurar questo pensiero come inutile? — Io sono del parere di quelli i quali pretendono che bisogna lavorare e darsi pensiero di procurarsi il necessario della vita; ma che non si debba inquietarsi e tormentarsi dell’avvenire, nè desiderare per avarizia di accumular ricchezze. — «Il visir e tutti i saggi congregati, stupiti dell’aggiustatezza e della verità di tali risposte, prosternaronsi davanti al re, e lo felicitarono per la fortuna che aveva di possedere in suo figlio una sì sorprendente maraviglia d’istruzione.

«— Illustri visiri, e voi, savi, sorgente d’ogni scienza,» disse allora il principe in aria modesta, «illuminatemi adesso intorno ad alcuni dubbi. Io sono un vaso d’argilla grossolana, ma voi l’empirete di prezioso liquore: sono un uomo in preda alla [p. 249 modifica] malattiadell’ignoranza, ma voi mi guarirete coi rimedi de’ vostri lumi.» Rispose Scimas con un complimento analogo, e pregò il principe di proporgli i suoi dubbi. Il primo concerneva la creazione. — Di che formò Iddio l’universo?» chiese il principe. — Di nulla,» rispose Scimas; «ei l’ha creato pel solo effetto della sua onnipotenza. Se ne dubitate, considerate il sole e la luna nel loro alzarsi e nel tramonto. — Io non dubito dell’onnipotenza di Dio, ma spiegatemi come si manifesti. — Pel solo potere della sua parola; perocchè la sua parola trasse dal nulla tutto ciò che esiste, e senza di lei, nulla esisterebbe., — Se Iddio è la verità stessa, e creò tutte le creature nella via della saviezza, come l’errore trovò mai adito nel mondo? — Mediante gli uomini che abbandonarono il sentiero della verità. Perciò Iddio diede il pentimento ed il castigo a compagni dell’errore e di chi dilungasi dal sentiero della virtù. — Ma d’onde viene questa differenza tra gli uomini, che gli uni camminano nel sentiero della saviezza e della virtù senza mai scostarsene, mentre gli altri, passando continuamente la vita in mezzo al delitto ed all’errore, s’attirano sul capo lo sdegno del Signore? — Iblis n’è la cagione: era egli la più perfetta delle creature di Dio; ma avendo negato d’adorare Adamo, fu spacciato dal cielo, e da quel tempo, geloso della sorte degli uomini, non cerca che di nuocer loro. — Ma se Dio è onnipotente, come possono gli uomini, che sono sue creature, operare contro la volontà sua, e mostrarsi ribelli a’ suoi ordini? — Nol possono se non in quanto Iddio lo permette; e quando persistono nella disobbedienza, è inevitabile la loro ruina. — Ha Iddio creato esattamente ciò ch’è necessario, oppure creò egli più o meno che necessario non fosse? — Dio creò esattamente tutto ciò ch’era necessario, nè più, nè meno. — Quali sono le due cose, una delle quali è [p. 250 modifica] grata a Dio, e l’altra lo eccita all’ira? — Il bene ed il male, che sono come i corsieri del corpo e dell’anima. — Come mai il bene ed il male ci penetrano nel corpo e nell’anima? — Pei cinque sensi, che sono gli organi a cui mezzo si pratica il bene come il male. Così, la lingua articola la verità come la bugia; guidano gli occhi alla felicità eterna, allorchè contemplano le cose sante, o precipitano nella perdizione quando si fermano su cose scandalose; le orecchie ascoltano le lodi di Dio od i discorsi empi; le mani fanno elemosina o s’impadroniscono deila roba altrui; i piedi conducono alla moschea o ne’ prostriboli. — Sapeva Iddio preventivamente che Adamo mangerebbe del frutto vietato, e si renderebbe reo di disobbedienza? — Certo, Iddio lo sapeva prima; ed era soltanto per avvertire Adamo, che gli annunziò ch’egli morrebbe appena ne avesse gustato. — Ora comprendo; ma ciò che non mi hanno mai potuto spiegare è il solletico che questo mondo ha pegli uomini e la preferenza ch’essi gli danno sull’altro. — Ciò proviene perchè non si occupano se non della vita presente, nè pensano alla morte: se vi pensassero, perderebbe il mondo a’ loro occhi ogni solletico, ed essi si occuperebbero del mondo e della felicità avvenire. — Voi mi avete illuminato il cuore,» disse il principe, «colla fiaccola della vostra sapienza, e dissipate le nubi dei miei dubbi. —

«Allora un savio tra i presenti si alzò, e volse al principe queste parole: — Poichè sapete tante cose, ditemi, ve ne prego, quali sono le maggiori felicità di questo mondo? — Sono,» rispose il principe, «la salute dell’anima e del corpo, un’esistenza avventurosa, un figlio sommesso e virtuoso. — Quali sono le tre cose delle quali tutti gli uomini concordano nel vantare l’eccellenza? — I piaceri della tavola, ed i godimenti che gustar fanno il sonno e le donne. [p. 251 modifica] — Quali sono le tre cose delle quali non si può liberarsi quando lo si desidera? — La stupidità, la menzogna e la sincerità. — Qual è la bugia più innocente, benchè siano biasimevoli tutte? — Quella che impedisce un male, e dalla quale può ridondare un bene. — Qual è la sincerità men degna di lode, quantunque essa sia sempre lodevole? — La sincerità colla quale uno loda sè medesimo. —

«Avendo il re e tutti gli astanti intese le risposte del principe, piene d'una sapienza quasi incredibile, sclamarono tutti ad una voce: — Felice il popolo che sarà governato da un re sì illuminato!» Gilia riconobbe solennemente il figlio per erede della corona, e tutta la corte venne a rendere al principe il debito omaggio in tale qualità.

«Due anni dopo, Gilia fu assalito da una malattia mortale. Allorchè senti avvicinarsi l’ora estrema, fe’ chiamare al suo letto il figlio, i parenti e tutti i grandi della corte. — Sento,» disse, «che la mia morte non è lontana; ascolta, o figlio, l’ultime mie parole. Ti raccomando dieci cose che ti saranno di somma utilità in questo mondo: Se l’ira ti vuol vincere, domala. Se parli, pesa le tue parole. Se prometti alcuna cosa, mantieni la promessa. Se giudichi, sii imparziale. Se hai odio, perdona al tuo nimico. Se sei ricco, sii liberale. Se stai al disopra degli altri, tratta bene gl’infimi; se ti trovi in una classe inferiore, obbedisci a’ tuoi capi. Se puoi far del bene, non lasciartene sfuggire l’occasione. Osserva sempre le leggi, ascolta i consigli degli uomini savi e virtuosi. Dimostra indulgenza verso piccoli e grandi, e sii nella tua condotta prudente e circospetto. — «Voltosi poi agli ulema presenti, disse loro: — Vi raccomando l’obbedienza a mio figlio; poichè ora voi siete legati a lui dai medesimi doveri che sino a questo giorno aveste con me, ed egli è il vostro [p. 252 modifica] signore e re. Possa Iddio spargere su di voi i tesori della sua misericordia!» Gli morì allora la voce sul labbro, e stringendo tra le braccia il figliuolo, rese l'estremo anelito. Si lavò il suo corpo e gli resero gli ultimi uffizi con tutta la pompa usitata in simili occasioni. Proclamato re, e vestito delle insegne della sua dignità, l'anello e la corona, salì il principe Vird-Khan sul trono.

«Camminò il giovane alcun tempo sulle orme de padre; ma presto le passioni impossessaronsi dell’animo suo, e gli fecero dimenticare i consigli paterni e tutti i principii di saviezza svolti così bene nel suo esame. Abbandonossi egli soprattutto ad un amore disordinato per le donne; appena udiva parlare d’una bella giovane, se la faceva immediatamente condurvi per isposarla. Per tal guisa in pochissimo tempo egli ebbe un serraglio più numeroso del re Salomone, e vi passava le notti ed i giorni. Stava i mesi intieri chiuso colà, senza menomamente occuparsi degli affari di stato, dei quali abbandonava tutto il pensiero a' visiri. Non rispondeva mai ai rapporti che gli si dirigevano, anzi neppur li leggeva.

«Tale condotta eccitò in breve il malcontento del popolo, il quale cominciava a mormorarne altamente. — È mestieri,» dicesasi, «rivolgerci al gran visir Scimas; egli forse troverà alcun modo di salvezza, poichè se il re continua a condurre simil vita, l’impero è minacciato d’inevitabile ruina... Saggio visir,» gli dissero pertanto i malcontenti, «il nostro re ha dimencato i nobili sentimenti della sua gioventù per abbandonarsi ad un amore sfrenato delle donne, e siamo perduti s’ei non muta condotta. Stiamo mesi intieri senza vederlo, trascura tutti gli affari, ed imploriamo indarno la sua giustizia. Ricorriamo dunque alla vostra, e vi supplichiamo di rimediare a questo stato di cose; discorretene col re, e scongiuratelo a rientrare nel retto sentiero. — [p. 253 modifica]

«Scimas risolse di fare il suo dovere, rendendosi organo della voce del popolo presso al trono. Chiese dunque una conferenza per discorrere d’affari importanti col re. — Visir,» gli disse il ciambellano, al quale si rivolse, «è più d’un mese che non ho visto la faccia del re; come oserei io penetrare sino a lui per annunziarvi? Rivolgetevi agli eunuchi che dalla cucina portano i piatti alla di lui tavola; son essi che avvicinano la sua persona. —

«Recossi Scimas alla porta della cucina, dove aspettò alcun tempo sinchè venne a passare uno dei cuochi, al quale disse che desiderava intertenersi un momento col re, se sua maestà lo vedesse permettere. Profittò lo schiavo del momento favorevole per annunziare il visir, che questa volta fu introdotto. Seimas si prosternò dinanzi al re, e baciategli le mani ed i piedi: — Possente monarca,» gli disse, «Iddio vi concesse lumi e cognizioni che superano quelle di tutti gli altri re; ma ei ve li ha concessi non solo per voi, ma anche pel bene de’ vostri sudditi; li avete ricevuti affinchè possiate governare lo stato, conoscere i bisogni del vostro popolo, e non perchè doveste immergervi nello stravizzo. La prosperità e felicità de’ loro sudditi, ecco i grandi oggetti che occupar debbono i sovrani. Rientrate in una via che vi condurrà alla gloria, e rinunziate a quelle voluttà che vi precipiteranno in fondo all’abisso. Potrebbe forse accadervi ciò che un giorno accadde ad un pescatore. — E che gli accadde dunque?» domandò il re.

«— Un pescatore,» riprese il visir, «camminava lungo la sponda d’un fiume, nel quale era solito gettare le reti, e scorto un grosso pesce nell’acqua: «Che farò colle mie reti? disse; è meglio che segua questo pesce per pigliarlo a nuoto.» Gettossi nel fiume, ed afferrollo in fatti per la coda; ma la corrente lo trascinò in un vortice d’onde non vedeva modo [p. 254 modifica] veruno di uscirne. Fortunatamente, giunsero in suo aiuto vari battelli di pescatori, che lo salvarono. «Perchè, gli dissero quelli, dopo averlo tratto dall’acqua, lasciasti la retta via, la via della salute? perchè ti sei da te stesso precipitato nel pericolo?» Tale sarà il vostro destino, o sire, se continuate a seguire la strada perigliosa nella quale avete sin qui proceduto, e che vi condurrà a perdita inevitabile; abbandonatela dunque, e datevi alle cure che richiedono gli affari dello stato. — Che bramate dunque da me?» disse il re; «che debbo fare? — Permettete,» ripigliò Scimas, «che torni domani per discorrere con voi sui bisogni dello stato; uscite e mostratevi al popolo, ch’è impaziente di rivedervi. — Lo farò,» rispose il re. Seimas se ne andò a render conto del suo colloquio agl’inviati del popolo, che lo avevano pregato di tal passo.

«Aveva il re una donna che amava più di tutte ed era quasi sempre con lui. Entrò questa precisamente nel punto che Scimas si allontanava, e vedendo il re immerso in profonde rimessioni, glie ne domandò la cagione. Il sultano le confessò l’inquietudine in che lo metteva il malcontento del popolo. — Ah!» gli disse la donna, «i vostri maladetti visiri vogliono opprimervi di fatiche, senza lasciarvi un istante di quiete, per sagrificarvi ai loro interessi, come i ladroni sagrificarono un fanciullo. — Non so questa storia,» fece Vird-Khan, che amava le novelle quanto suo padre Gilia; «raccontatemela, ve ne prego.

«— Essendosi una torma di ladroni,» riprese la favorita, «introdotta un giorno in un giardino, vi trovò un giovinetto. «Monta su quell’albero, i ladri gli dissero, e gettaci noci; te ne daremo la tua porzione. «-«Salì il fanciullo sull’albero, e fece cadere le noci scuotendo fortemente i rami, come avevangli [p. 255 modifica] detto i ladri. Ma a un tratto sopraggiunse il padrone del giardino e li sorprese. «Noi non ne abbiam colpa, dissero i ladroni; abbiam trovato qui questo ragazzo, ed ei ci chiamò per raccogliere le noci che coglieva.» Ebbe il fanciullo un bel giustificarsi; il padrone gli fece portare la pena del furto, ed i ladri se n’andarono..... I vostri visiri vogliono così sagrificarvi ai loro interessi e trarsi d’impaccio, mettendo voi nell’imbarazzo.

«— Hai ragione, mia diletta,» disse il re; «non sarò tanto stolto da caricarmi del peso degli affari; val molto meglio passare piacevolmente il tempo in colloqui amorosi. —

«La domane, il visir ed il popolo recarensi al palazzo colla speranza di vedere il re, ma non furono lasciati entrare. — Saggio visir,» disse il popolo a Scimas, «vedete che insensato è questo nostro re! Per metter il colmo a’ suoi falli, si fa reo di menzogna; bisogna che gli parliate un’altra volta. —

«Ben sapeva Seimas che quel mutamento nella risoluzione del sultano poteva esser effetto dell’astuzia delle sue donne; fece dunque domandare ed ottenne un’udienza particolare. — Gran re,» gli disse, «avete dimenticato troppo presto i saggi vostri disegni. Somigliate a quell’uomo che soleva trarsi dietro il suo camello sempre imbrigliato; volendo risparmiare la briglia, provò una volta a condurlo senza legarlo; ma il camello si diede alla fuga, privandolo tutto l’utile che ne poteva ricavare. E così voi arrischiate di perdere il trono, volendo risparmiarvi la pena di mettere il morso ed il freno ai vostri sudditi. Credetemi, o sire, per purificare il proprio corpo, non è mestieri fare le abluzioni tutto il giorno; per godere de’ piaceri sensuali, non occorre consumare colle donne tutto il tempo. Si mangia per saziar la fame, si beve per estinguere la sete: l’uom saggio fa il medesimo [p. 256 modifica] colle donne, e non le cerca che per soddisfare ai soli bisogni della natura. Il giorno è composto di ventiquattr’ore; basta passarne dodici nel serraglio, e consacrare il resto agli affari, alla studio od al riposo. Star sempre in società colle donne riesce egualmente pernicioso al corpo od all’anima. Di quanti uomini non hanno desse cagionata la perdita! Potrei citarne ben mille ed uno esempi. — Narratene uno solo,» rispose il re; «basterà a persuadermi.» E Scimas si fece a dire:

«— Un uomo che dedicavasi intieramente alla propria moglie, aveva un giardino nel quale non tralasciava d’andare ogni giorno. Più d’una volta sua moglie volle accompagnarvelo; siccome non poteva ricusare alle sue brame, un giorno la condusse seco. Trovavansi nel giardino appunto due giovanotti: credendo che la coppia vi giungesse per qualche galanteria, si nascosero in un boschetto, per vedere cosa sarebbe accaduto. Era appena la donna entrata nel giardino, che pregò il marito a darle sull’erba prove dell’amor suo. «Non si può, disse il marito, poichè temo che non ci veggano, e ciò sarebbe dare uno scandalo pubblico; d’altra parte, bisogna che vanghi ed adaqui il giardino. — Ah! riprese la moglie, sol di me dovete occuparvi; sapete i precetti dei Corano sui doveri del matrimonio.» Non potè il marito esimersi più oltre, e buono o suo malgrado, gli fu d’uopo arrendersi alle voglie della moglie. I due giovani, impiegati di polizia, persuasi di essere testimoni d’un adulterio, uscirono dal nascondiglio per sorprendere i rei in flagranti. «-«Difendetemi!» gridò al marito la moglie: volle in egli fatti difenderla; ma uno di quelli gli menò un tal pugno che lo distese morto... Vedete ciò che accade quando si seguono i consigli delle donne, e come bisogna respingerli tutti come perniciosi. E che! o sire, dopo essere stato tanto tempo [p. 257 modifica] vestito col manto della saviezza, potreste sostituirvi quello della pazzia? potreste rinunziare, per grossolani diletti, ai vantaggi d’una condotta saggia e virtuosa? — Ebbene,» riprese il re, «domani, se Dio permette, vi darò udienza. —

«Appena Seimas si fu allontanato, entrò la favorita per informarsi dei consigli dal visir dati al monarca. — I sudditi,» gli diss’ella, «sono gli schiavi dei re; ma veggo che qui l’ordine s’è invertito, e che il re è lo schiavo de’ sudditi: essi cercano d’ispirarvi timore, e vogliono sapere se la forza o la debolezza sia il fondo del vostro carattere. Se vi trovano debole, si mostreranno ancor più esigenti; ma se spiegate forza ed energia, tremeranno a voi dinanzi. I vostri visiri vi formano l’oggetto de’ loro motteggi, e vi tratteranno volentieri come certi ladri trattarono un mercante. — E come trattarono essi questo mercante?» chiese il visir; «sarei ben contento di sentirne la storia.

«— Un mercadante ricchissimo,» ripigliò la favorita, «era smontato in un khan dove i ladri, non potendo introdursi colla forza, furono costretti ad usare d’astuzia per venir a capo dei loro disegni. «Lasciate fare a me, disse il capo; m’incarico io dell’impresa.» Si vestì da medico, e in tale abito presentossi alla stanza del mercante. «Non ho bisogno di medici, gli gridò questi che stava allora a tavola; nondimeno, se volete prender parte alla mia mensa, siate il benvenuto.» Il ladro si pose a desco, e mangiato un poco, disse: «Permettetemi almeno, per ringraziarvi dell’ospitalità, di darvi un consiglio salutare. Veggo che mangiate troppo, e potreste risentirne tristi conseguenze. — Come! ripreseli mercatante; io ho, grazie a Dio, uno stomaco eccellente, e quando si digerisce bene, si può sempre mangiare senza timore. — Ma, tornò a dire il ladro, dovete almeno prendere, per [p. 258 modifica] precauzione, un preservativo contro la malattìa che potesse provenirvi dal troppo cibo. Vado a tal proposito a fare un consulto di medici, e domani tornerò con alcuni miei confratelli per cercare i mezzi di allontanare la malattia di cui siete minacciato.» Tornò in fatti il giorno dopo coi compagni, tutti travestiti da medici. Prepararono un sorbetto, e dissero al mercatante, esser quello un preservativo sicuro contro tutti i mali; ed era vero, perchè appena l'ebbe bevuto spirò... Vedete, o sire, se dovete, ascoltando i vostri visiri, prestar fede ai loro discorsi. — Hai ragione, mia diletta,» rispose il re, «io non uscirò. «La domane, allorchè il popolo, recatosi in folla al palazzo, vide che il re non compariva, le mormorazioni divennero più romorose del giorno prima.

«— Non vogliamo per nostro re quel giovane insensato,» gridava la moltitudine; «dobbiamo confidare a mani più abili le redini dall’impero. Andate, savio visir,» dissero poi, volgendosi a Scimas, «andate ad annunziargli che noi eleggeremo un altro re, s’ei non vuol farsi vedere al suo popolo. Noi ci consideriamo come sciolti dal giuramento che gli prestammo, poichè sì poco corrisponde alla nostra aspettativa e tanto male mantiene le sue promesse. Sapremo farci da noi medesimi giustizia colle armi in pugno.

«Fece Scimas tutti gli sforzi per sedare la rivolta, ed introdottosi quindi presso al re, gli parlò senza riguardo.

«— Immerso nei piaceri,» gli disse, «abbondonandovi alle vostre passioni, che fate, o sire, mentre vi minaccia imminente ruina? Chi può accecarvi al punto che non vediate l’abisso spalancato ai vostri piedi? I vostri sudditi ribellati giurarono la vostra perdita; come volete, resistere a tal torrente? Non vi resta ormai che ascoltare i miei consigli: la vostra vita è in periglio; bisogna calmare questo [p. 259 modifica] popolo irritato e ricondurlo all’obbedienza; la vostra sola presenza può scongiurare la tempesta che vi sovrasta. Da gran tempo i sudditi sopportano impazientemente l’amor vostro per le donne e la noncuranza degli affari; ma oggi la loro pazienza è al colmo. Benchè atto ad ardere, il legno alla lunga cangiasi in dura pietra nell’acqua, ed invece di servir d’alimento alla fiamma, fa sprizzare il fuoco allorchè se ne fregano insieme due pezzi. Così accade del popolo: soffre a lungo con pazienza; ma alla fine, inasprito da pesi eccessivi e dalla durata de’ suoi mali, cambia natura, e spiega allora la forza che comprimeva. Voi proverete, o sire, la sorte della volpe e del lupo. — Quale fu la sorte della volpe e del lupo?» interruppe il re; «son curioso di saperlo. — Un branco di volpi,» riprese il visir, «uscì un giorno in cerca di cibo, ed incontrato un camello morto: «Ecco qualche cosa, dissero, di che vivere buon tratto di tempo; ma conviene dividere la preda, affinchè ciascheduna ne abbia egual porzione.» In quel mentre venne a passare di là un lupo; «Volgiamoci a lui, fecero le volpi, è un soggetto rispettabile; gode dovunque di distinta considerazione, ed anzi la sua famiglia regnò un tempo in questo paese.» Presentatesi al lupo, lo pregarono di dar loro ogni giorno una porzione di quel camello, sinchè durasse. Acconsentì il lupo, e lor diede per quel giorno una porzione, onde furono contente. Il giorno appresso, il lupo pensò tra sè: «Qual profitto mi torna da questo partaggio? Sarebbe meglio pensare al bene della mia famiglia.» Ed allorchè vennero le volpi a chiedergli il cibo, egli disse loro che non restava più nulla. «Ci siamo impegnate in un bell’affare con questo traditore, dissero alcune volpi. — Torniamo domani, fecero le altre; forse rientrerà in sè e ci renderà giustizia.» Tornarono dunque la [p. 260 modifica] domane, e nuovamente pregaronlo di distribuire loro la porzione, dicendogli che morivano di fame se n’erano prive, ed ogni speranza riponevano nella sua lealtà e nell’amor suo per la giustizia. Dispiacque tal discorso sommamente al lupo, che volse alle volpi la schiena senza rispondere. «Non ci resta più a prendere altro partito, dissero queste, se non d’andar a portare le nostre lagnanze al leone e chiedergli giustizia.» Eseguirono il loro pensiero e: «Veniamo, dissero al leone, ad implorare la vostra protezione contro un tiranno.» Il leone, fattosi raccontare la cosa, le accompagnò all’antro del lupo, cui sbranò per rendere giustizia alle volpi.... Temete il destino del lupo, o sire! Il vostro popolo potrà trovare un vendicatore che gli renda giustizia. Seguite dunque i miei consigli, e le sagge istruzioni che v’ha date al letto di morte il padre vostro. Tali sono le ultime mie parole. — Ebbene,» rispose il re, «se Dio lo permette, domani darò udienza. —

«Appena la favorita conobbe tale risoluzione, venne a trovare il re e gli disse: — Nulla pareggia il mio stupore, allorchè veggo la cieca vostra sommissione verso i visiri, che vi conducono come loro piace, facendovi tremare dinanzi ad essi ed assoggettandovi agli ordini loro. Troppo debole è il vostro cuore; non sapete dunque che se non si ha cuor d’acciaio non si è nati per regnare? Siete divenuto nelle lor mani un istrumento passivo; invece di essere a voi soggetti, vi fanno agire a seconda dei loro capricci; vi spaventano con vani terrori, come quel ladro che empì di paura un pastore con una pelle di leone. — Contentate la mia curiosità,» fece il re; «questa storia non la so. — C’era una volta,» cominciò la favorita, «un ladro astutissimo, che aveva da lungo tempo esauriti tutti gli artifizi per rubare una pecora del gregge di certo pastore. [p. 261 modifica] Non potendo in alcuna guisa riuscirvi, prese la pelle d’un leone alla quale diede la forma di detto animale, e la collocò a qualche distanza sopra un colle. Venuto poi a trovare il pastore, gli disse: ««Il leone mi manda da te per chiederti un tributo di pecore. — Dov’è il leone?» domandò il pastore. Il ladro gli mostrò lo spauracchio, e l’altro, immaginandosi che fosse un vero leone, gli diede quante pecore volle... Così vi si spaventa con una pelle di leone, e voi vi lasciate tranquillamente rapire i diritti della sovranità. — Hai ragione, mia diletta,» disse il re; e non uscirò dal mio palazzo, ed i temerari saranno congedati. —

«Si negò dunque il giorno appresso d’introdurre nel palazzo i visiri ed i deputati del popolo; la sommossa allora scoppiò tremenda. Il popolo venne armata mano a chiedere la testa del re, e trovando chiuse le porte, le ridussero in cenere. Fu il re istruito del pericolo sovrastante, e non sapendo a qual partito appigliarsi, mandò a cercare la favorita. — Vedi adesso,» le disse, «che Scimas non mi avea detto altro che la verità? Tutti chiedono la mia testa; si è appiccato il fuoco alle porte esteriori del palazzo. Cosa dobbiamo fare? — Non v’affannate per questo,» rispose la favorita; «in tale congiuntura un re debole soccomberebbe; ma un genio, nato per regnare, ha sempre mille mezzi di ripiego. Fingetevi infermo; fate venire il gran visir Scimas, e ditegli che sareste già in via per mostrarvi al popolo ed all’esercito, se non vi foste improvvisamente ammalato, ma che domani uscirete per arrendervi alle loro brame. Domani mettetevi accanto dieci de’ più fedeli schiavi di vostro padre, e sulla cieca obbedienza de’ quali possiate far conto; poi fate entrare, ad uno ad uno, i grandi della corte, sotto pretesto che lo stato di vostra salute non vi permette di [p. 262 modifica] ricevere tanta gente in una volta. Allora fate loro mozzare il capo cominciando dal visir Scimas, poichè egli è l’istigatore di tutte queste turbolenze. In tal modo ristabilirete la calma, e soffocherete per sempre nel popolo i germi della sedizione. — Hai ragione, mia diletta,» soggiunse il re, avvolgendosi la testa per meglio fingere il malato. Quindi, fatto chiamare Scimas:

«— Voi siete,» gli disse, «un servitore fedele, - che non mi avete mai dati se non salutari consigli. Mi preparava a dar udienza, allorchè fui improvvisamente assalito da un dolor di capo insopportabile. Fate le mie scuse al popolo ed ai visiri, e date loro la certezza che domani mi vedranno. —

«Baciò Scimas le mani al re, facendo mille voti per la sua salute; esposto al popolo lo stato del re ed i motivi che avevanlo impedito di uscire, pregò la moltitudine a ritirarsi tranquillamente. «Il re intanto fece venire dieci schiavi de’ più devoti, e richiesto con giuramento cieca obbedienza agli ordini suoi, lor dichiarò che voleva disfarsi dei capi della ribellione. — «Domattina,» disse, «i visiri ed i grandi dello stato entreranno ad uno ad uno in questo appartamento; subito entrati, troncate loro la testa e gettatene da parte i cadaveri.» Risposero quelli: — Abbiamo inteso ed obbediremo. —

«La domane, gli araldi annunziarono che il re era per dar udienza. I visiri ed i ciambellani si posero in ordine, ed il visir Scimas fu il primo ad entrare: ma fu sull’istante assassinato, e la medesima sorte subirono tutti gli altri. Trucidaronsi quindi quanti andavano distinti per talenti o per le cariche che coprivano, sinchè più non rimase che la moltitudine, la quale, perduti i capi, ritirossi in silenzio.

«Dopo tale esecuzione, il re s’immerse più che mai nei piaceri, e commise le più ingiuste vessazioni. [p. 263 modifica] Ammassò immensi tesori in oro, argento e gemme, che destarono l’invidia dei re vicini, talchè avendo uno di questi saputo che Vird-Khan aveva fatto morire tutti i suoi visiri ed i suoi generali, credette giunto il momento favorevole per togliere al giovane tiranno lo infinite ricchezze lasciategli dal padre. Senza consiglieri, senza difensori, governato dalle donne, qual resistenza poteva egli opporre? Convinto di tale verità, scrisse a Vird-Khan la lettera seguente:

««In nome di Dio clemente e misericordioso1.

««Abbiamo per fama saputo che vi siete disfatto de’ vostri ministri, generali e savi, e che da voi medesimo vi precipitaste nell’abisso. La vostra gloria e potenza sono passate. Il cielo m’ha data forza e potere per sottomettervi alla mia obbedienza ed imporvi i miei ordini. Sappiate dunque qual è il mio volere. Fabbricatemi un palazzo in mezzo al mare, o se non lo potete, scendete dal trono. Se negate d’obbedirmi, farò marciare contro di voi un esercito di dodicimila squadroni, ciascun squadrone composto di mille guerrieri, che vi saccheggeranno i tesori, trucideranno i sudditi e rapiranno le vostre donne. Il mio ambasciatore non rimarrà alla vostra corte che tre soli giorni; se in tal tempo non soddisfate alla mia domanda, preparatevi a ricevere l’esercito ch’è pronto marciare contro di voi.»»

«Tale lettura gettò Vird-Khan nella massima costernazione. Sapeva che più non restava alcuno per consigliarlo ed in cui potesse mettere la propria fiducia. Pallido ed alterato, corse dalla favorita, e le [p. 264 modifica] lesse la lettera. Nel dolore che simile novella le cagionò, la favorita lacerossi le vesti, e strappossi i capelli. — Che mi consigli tu adesso?» le disse il re; «cosa debbo fare? — Qual consiglio può dare una donna,» rispose colei, «quando si tratta di guerra? Agli uomini vi dovete rivolgere.» A tali detti il re si sentì lacerare dai rimorsi e dal pentimento di aver fatto perire i suoi visiri, i suoi capitani, e tutti gli uomini notabili per merito, — Siete voi, sciagurate, che cagionaste la mia rovina, come le tartarughe furono causa della perdita della pernice.

«— Degnatevi di raccontarne questa storia,» dissero le femmine; «forse ci distrarrà un poco.» Il re narrò l’apologo seguente:

«— In un’isola coperta di verde erbetta ed irrigata da molti ruscelli, alcune tartarughe menavano altre volte vita felice e tranquilla. Fermossi un dì in quell’isola una pernice per riposare durante il meriggio. Maravigliate le tartarughe della bellezza delle penne e dei modi graziosi della pernice, l’accolsero colle più vive dimostrazioni d’amicizia. La pernice, dal canto suo, sentivasi inclinazione per le tartarughe, e si compiacque molto della loro società; la mattina volava via, e la sera tornava per passar la notte colle amiche. Ma le tartarughe si addolorarono di non averla in loro compagnia l’intiero giorno. Tennero dunque consiglio per pensare ai modi d’indurla a non allontanarsi, ed essendosi una vecchia tartaruga incaricata della bisogna, le altre l’assicurarono di tutta la loro gratitudine se potesse ottenere l’intento. La vecchia dunque si diresse, in nome di tutte le compagne, alla pernice e le disse: «Noi abbiamo per voi la più tenera amicizia; eppure voi, appena spunta l’aurora, ci abbandonate per non tornare se non al tramonto; la vostra assenza ne immerge tutte in profondissima disperazione. - Nè men crudele è [p. 265 modifica] per me l’allontanarmi, la pernice rispose, e vorrei passare con voi la vita intiera; ma sono uccello, ed è di mia natura l’errare qua e là, e non condur vita tranquilla e sedentaria come la vostra. — Avete ragione, fece la tartaruga; ma si tratta di sapere quale di questi due generi di vita sia preferibile, e non valga meglio lo stare tranquillamente a casa sua, che non correre di continuo alla ventura. Rimanete dunque con noi, vivete quieta e tranquilla, e noi c’incarichiamo di rendervela grata con isvariati passatempi.

— Lo farei volentieri, rispose la pernice; ma son dominata dal desiderio di spaziare per l’aria e non so resistervi. — V’è un rimedio, la tartaruga ripigliò; Lasciatevi tagliare le ali che servono a sollevarvi nell’aere, e così noi saremo sempre sicure di godere d’or innanzi della vostra compagnia.» La pernice approvò l’idea, e si lasciò tagliare le penne delle ali; ma appena ebbe gustato i piaceri di quel nuovo genere di vita, sopraggiunse un dì il padrone dell’isola, e pigliò la pernice senza che potesse difendersi o salvarsi colla fuga. Indarno gridò aiuto alle tartarughe, sue compagne; queste non poterono darle che lagrime, «Non sono le vostre lagrime che mi possano salvare, disse la pernice, se non sapete altro mezzo. — Qual mezzo di salvarvi possiamo aver noi? le tartarughe risposero; sagrificheremmo volontieri la nostra vita; ma come proteggervi contro gli uomini? — Veggo, ma troppo tardi, la mia follia, soggiunse la pernice; io sono più colpevole di voi; mi gettai da me medesima nel precipizio ascoltando i vostri consigli; la mia debolezza mi trascinò in guisa, che mi son privata degli unici mezzi di salvezza.»

«Così, femmine disgraziate,» proseguì il re, «voi mi precipitaste in un abisso di meritati mali, poichè ebbi la debolezza di seguire i vostri perfidi consigli. — «Allora, lasciate le donne, si mise a correre qua e [p. 266 modifica] là pel palazzo, gridando; — Dove sono adesso, per assistermi co’ loro consigli? dove sono i miei visiri, i miei generali, e tutti i savi che feci in un momento sì funesto perire? —

«La notte lo colse in quello stato di disperazione. Allora, spogliatosi delle insegne reati, percorse travestito la città colla speranza di trovare forse qualche consolazione o qualche utile consiglio in quel critico momento. Incontrò egli due giovanetti di circa dodici anni, che discorrevano. — Mio padre,» diceva l’uno, «era iersera disperato a motivo della dolorosa situazione de’ suoi affari. Nulla prospera: i campi sono incolti o devastati, e la fame cresce di giorno in giorno. — Non può andar altrimenti,» rispondeva l’altro; «dacchè il re sagrificò alle donne i suoi visiri, tutto va male: fece morire mio padre Scimas, ch’era suo gran visir ed aveva già occupata quella carica presso suo padre. — Vedrai,» riprese il primo, «che Dio farà ricadere sul suo capo la maledizione che merita la sua ingiustizia. — Ah!» disse il figliuolo di Scimas, «che si deve temere quando si è re? — Non hai udito parlare,» proseguì il compagno, «d’una lettera che il re d’uno stato vicino scrisse al nostro? Questo principe straniero minaccia d’invadere lo stato con un esercito di centoventimila uomini, se non gli fabbrica un palazzo in mezzo al mare, e gli concede tre soli giorni di dilazione. — Tanto peggio per lui e per noi,» rispose il figliuolo di Scimas, «s’ei non isceglie tra’ suoi sudditi quelli che sarebbero capaci di scongiurare la tempesta. —

«Simile discorso non fece che maggiormente accrescere la tristezza provata dal re. Nondimeno, sperando che il figlio di Scimas, il quale pareva aver ereditata la sapienza del padre, potesse forse dargli salutari consigli, accostassi ai due ragazzi per conversare seco loro. [p. 267 modifica]

«— Figliuolo,»disse al fanciullo, «hai ragione di biasimare l’ingiustizia del re; ma sapresti tu qualche mezzo di ritrarìo dal pericolo nel quale si trova? — Sì,» rispose il giovinetto; «se il re si degnasse ascoltarmi, potrei dargli buoni consigli. Del resto, non c’è tempo da perdere; s’ei vuol rinunziare alle sue donne, son certo di salvarlo. —

«Sorpreso dell’accento deciso del fanciullo, il re riprese qualche speranza, ed informatosi della sua dimora, tornò alla reggia più calmo che ne fosse uscito. Cenò senza vedere le donne, e posta la sua fiducia in Dio, si addormentò. Alla domane, fece chiamare il figliuolo di Scimas, e gli demandò se si ricordasse di ciò che aveva promesso la sera innanzi. Allorchè il giovinetto l’ebbe riconosciuto, il re lo fece sedere alla propria tavola, e quindi conversarono tra loro. — Per qual mezzo,» chiese Vird-Khan, «pretendi tu stornare il danno onde il re straniero mi minaccia? Se me lo fai noto, diventerai mio visir ed avrai la prima voce nel consiglio — Cosa vale,» rispose il fanciullo, «darvi consigli, a voi che vi lasciate guidare dalle femmine, e faceste perire mio padre Scimas e gli altri visiri? — Il gran visir Scimas era dunque veramente vostro padre?» disse il re, turbato e confuso. Il giovinetto rispose di sì, ed il principe lo pregò di perdonargli. — Fu per acciecamento,» aggiunse, «che mi son fatto reo di quella colpa; ma se mi salvate dal pericolo nel quale ora mi trovo, vi darò la carica di vostro padre, una catena d’oro ed un magnifico corsiero; vi farò riconoscere qual mio gran visir, come il primo dopo di me; in somma, qual mio liberatore e salvatore. Non mi parlate più di donne; le abbandono, se volete, alla vostra vendetta; rassicuratemi soltanto intorno alla salvezza dello stato. - Giurate di seguire i miei consigli,» disse il giovine. Il re vi s’impegnò coi più solenni [p. 268 modifica] giuramenti. Allora il giovane ministro gli palesò tutto il suo disegno. — Se l’ambasciatore del vostro vicino,» disse, «viene a domandarvi la risposta, rimandatelo da un giorno all’altro con diversi pretesti e quindi congedatelo con alterigia; ei non mancherà di lagnarsene per la città e biasimare la vostra condotta. Fatelo allora venire dinanzi, e ditegli che espone il proprio capo, cercando di suscitare il malcontento del popolo; aggiungete che se non rispondeste alla lettera del suo padrone, fu per la moltitudine degli affari e la mancanza di tempo. Ridomandategli la lettera e rilettala, ridendo a tutta gola, direte: - Non merita altra risposta che questa. Il vostro re è un insensato volendo provocare volontariamente la mia vendetta e costringermi a marciare coi mio esercito contro di lui. Chi ne potrebbe far un delitto se devastassimo i suoi stati, e lo precipitassimo dal trono? L’avrebbe meritato, poichè osa attaccarmi sì apertamente. Il vostro re dev’essere ben privo di consiglieri assennati e ragionevoli, se manda qui un insensato come voi, incaricato di una proposizione che non avrebbe dovuto essere mai intesa nel mio consiglio di stato; ma vi farò rispondere dal primo fanciullo che capiti.» Allora mi farete chiamare, e letta in mia presenza la lettera, mi comanderete di rispondervi in vostro nome. — «Tal consiglio sollevò d’un gran peso il cuore dei re, il quale si condusse coll’ambasciatore appunto, come aveva detto il figliuolo di Scimas, sino all’istante in cui lo fece chiamare. — Orsù,» gli disse, «rispondi a questo scritto. — Ho inteso,» rispose il giovinetto, «e sono ad obbedirvi.» Preso allora carta, inchiostro ed un calam o cannuccia, scrisse la risposta seguente;

««In nome di Dio clemente e misericordioso; salute!

««Sappiate, insensato, che non meritate di re se [p. 269 modifica] non il titolo; sappiate che abbiamo ricevuto la vostra lettera, la quale è la prova più evidente della vostra stravagante sciocchezza. Se non fossimo trattenuti dall’umanità e dal diritto delle genti, avremmo già fatto impiccare il vostro ambasciatore. Circa alla morte de’ miei visiri, convengo d’averli fatti perire, ma ne aveva il diritto. Quanto ai savi, ne ho centomila altri per sostituirli. Nel mio regno, i fanciulli stessi sono una maraviglia di saviezza e di sapere. Un solo de’ miei guerrieri equivale ad una legione, e basterebbe per mettere in fuga un intiero squadrone de’ vostri. Inesauribili sono i miei tesori: l’oro è comune nelle mie miniere quanto le pietre. Gli abitanti de’ miei stati godono della più brillante prosperità. Voi credete esigere da me una cosa impossibile, domandando che vi faccia edificare un palazzo in mezzo al mare. Ebbene! lo farò costruire ad onta del furore dei venti e dell’onde. Venite a compiere le vostre minacce, e riceverete di mia mano il castigo dovuto. Peccaste contro Dio, e sarete punito. Vostra pena sia mandarmi sul momento un tributo od io marcerò contro di voi con un milione di guerrieri. Vi concedo tre anni di dilazione invece dei tre giorni che mi avevate concessi nel vostro acciecamento. Voglio risparmiare i vostri popoli, perchè non m’hanno offeso; voi solo porterete la pena della pazzia e temerità vostra. Addio.»»

«Terminata ch’ebbe il giovane segretario questa lettera, trasse di tasca un pennello e colori, e fece sulla carta bianca che rimaneva il proprio ritratto; poi vi scrisse sotto: — È questo il sembiante del segretario di stato dal quale vi feci scrivere la presente risposta: come vedete, non è che un fanciullo. Perciò giudicate se i miei visiri sono veramente saggi. —

«L’ambasciatore baciò la terra e se n’andò, [p. 270 modifica] lietissimo di tornarsene sano e salvo. Scrisse al padrone tutte le particolarità del trattamento ricevuto, e gli disse che Vird-Khan avevagli fatto rispondere da un ragazzo. Tale nuova gettò il re nella disperazione; aprì la lettera e fu per perderne la testa, vedendo dalla nota che l’autore di quella lettera era in fatti un fanciullo. Chiamò all’istante i visiri e consiglieri, e lesse tale risposta, che li colpì tutti di stupore e spavento. Il gran visir Bediol-Gemal fu di parere che bisognava procurar di calmare lo sdegno di Vird-Khan con una risposta destra e prudente. — Scrivetegli,» disse, «di non avergli diretta la prima lettera se non per provare la sua saviezza, ed assicurarvi da per voi di quanto la fama ne pubblicava; che le lodi a lui tributate erano meritatissime, e che fate continui voti per la sua prosperità e per quella del suo popolo. — È cosa maravigliosa» sclamò il re straniero; «come può egli, dopo aver fatti perire i visiri e gli ulema, essere più potente e formidabile che mai? Non attaccherò quel re; fece morire gli uomini più savi del suo regno, ed ecco che presentansi fanciulli degni di sostituirli! È finita per me e pel mio regno, se il mio gran visir non sa stornare là burrasca.» Il savio visir scrisse dunque in nome del suo padrone la lettera seguente:

««Grande e potente re, nostro illustre fratello ed alleato, Vird-Khan, abbiamo ricevuto la vostra risposta ed intesone perfettamente il contenuto. Supplichiamo il cielo di prolungare la durata del vostro impero sino al giorno del giudizio, e farvi trionfare de’ vostri nimici, come anche di tutti quelli che possono augurarvi male. L’illustre vostro padre era nostro fedele amico; abbiamo sempre vissuto in buona intelligenza ed in unione perfetta, e sino dal mio avvenimento al trono, non ho avuto altro desiderio fuor di vivere con voi nella [p. 271 modifica] medesima guisa. Quando seppimo che avevate fatto perire i vostri visiri, fummo effettivamente inquieti sulla vostra prosperità, e tememmo che il male, propagandosi, non giungesse sino a noi. Prendemmo per voi i più teneri pensieri, ma avendo veduto la saggezza nella vostra risposta, ch’era pur dettata da un fanciullo, cessarono tutte le nostre inquietudini, e ci siamo perfettamente rassicurati sui destino del vostro impero.»

Questa lettera, accompagnata da ricchissimi regali, fu mandata sotto scorta di cento cavalieri, e Vird-Khan fu trasportato di giubilo per simile ambasciata. Fe’ chiamare il figliuolo di Scimas, e gli ordinò di leggere la lettera. Parlò quindi con alterigia al capo della deputazione, e gli diresse una quantità di rimproveri pel suo padrone, mentre l’ambasciatore gli faceva le più umili scuse. Vird-Khan comandò al figlio di Scimas di dare una risposta favorevole, e ciascuno ammirò l’eleganza del suo stile; l’ambasciatore, specialmente, non poteva riaversi dalla sorpresa, e ringraziò il cielo d’essere venuto con una lettera di scusa, e tornarsene carico di doni.

«Da quell’istante non cessò di regnare la buona intelligenza tra i due regni. Vird-Khan cangiò condotta, e diede prova del sincero suo pentimento, rinunziando alle donne, e dedicandosi con zelo agli affari di stato. Il figliuolo di Scimas fu innalzato alla dignità di gran visir, e le allegrezze per la città durarono sette intieri giorni.

«— Ed ora cosa dobbiamo fare,» disse Vird-Khan al giovane visir, «per riparare i mali de’ quali ho oppresso i miei sudditi? — Bisogna estirparè la radice del male,» rispose il giovine Scimas, «o continuerà i suoi guasti. — Ma qual è l’origine del male?» chiese il re. — Le donne; » fece il visir; «sono esse che turbano le migliori teste, che [p. 272 modifica] travolgono gli uomini più savi e li eccitano a far pazzie. Allontanatele, respingetene i consigli, e cercate di domare la violenta passione che v’hanno ispirato. Pensate che Iddio disse a Mosè, parlando della scelta d’un re: «Se date a’ vostri fratelli un re, non sia esso contornato da femmine; non abbia lor abbandonato il suo animo ed il cuore.» Pensate a Salomone; era il più saggio tra i re; Dio gli aveva conceduto tanta sapienza e virtù, che niuno poteva stargli a paragone, e le femmine l’hanno perduto e se hanno potuto soggiogare Salomone, qual re può sperare di salvarsi dalle lor mani, e non rimanerne schiavo? — Le ho già bandite dal mio cuore,» rispose Vird-Khan; «ma non basta: quella che cagionò tutti questi mali deve portarne il giusto castigo; sono le donne che m’indussero a togliere la vita a vostro padre. Oh! perchè non posso restituirgli l’esistenza! — Perdonate alla mia sincerità,» ripigliò il giovane visir; «la colpa non è delle sole donne. Son desse una derrata che porta sciagura a quelli che la comprano; la colpa è pur di coloro che non sanno farno a meno. Mio padre vi aveva già prevenuto contro di esse; guardatevi da una ricaduta. — Conosco il mio fallo,» rispose Vird-Kban. — Io non ho altro signore che Dio,» riprese il giovane visir. «Non abbiate più veruna relazione colle donne, e pensate che libera è la nostra volontà, e che siam colpevoli di tutto il male che commettiamo. — Avete ragione, ho agito con ignoranza ed ingiustizia. Che cosa devo fare per l’avvenire? — Spogliatevi,» il visir rispose, «del manto dell’errore ed indossate quello della saviezza; signoreggiate le vostre passioni, occupatevi negli affari dello stato, e meriterete l’amore de’ sudditi e la misericordia di Dio. — Il vostro discorso mi rassicura,» disse il re, «e mi sento la forza di seguire i vostri consigli: siete molto [p. 273 modifica] giovane, ma veggo che avete letto i libri antichi. Mi avete tratto dall’errore e ricondotto sul retto sentiero. — Mio dovere è di parlarvi così; del resto son pronto a sagrificare per voi la vita, e pregherò del continuo il cielo che prolunghi i vostri giorni e colmi il vostro impero di prosperità. — Sarete in avvenire,» disse terminando il re, «mio fratello e mio figliuolo, e ripongo in voi tutta la mia fiducia. —

«Radunò poi tutti i governatori delle province ed i grandi della corte, tra’ quali scelse sette visiri secondo il consiglio del figliuolo di Scimas. — Voi siete miei ministri,» disse loro Vird-Khan; «ma sarete soggetti al figlio di Scimas, che elessi mio primo ministro.» Fece quindi sedere, secondo l’uso, i visiri e lor diede pellicce d’onore. Occuparonsi prima nell’organizzazione dell’esercito, e sostituirono bravi offiziali a quelli periti. Pensando poi ai più pressanti bisogni del popolo, ebbero in breve tutto ristabilito nell’ordine primiero — Ora,» disse quindi il re al figliuolo di Scimas ed agli altri visiri, «ora più non ci resta che a pensare alle donne, che furono la cagione di tutti questi mali. Di qual morte dobbiamo punirle?» Tutti dichiararono che si uniformerebbero al parere del giovane visir figliuolo di Scimas; questi consigliò di farle condurre nelle catacombe, dov’erano stati gettati i cadaveri dei visiri e degli ulema, e lasciarvele morire di fame. Il re seguì il consiglio, e le femmine furono seppellite vive in quelle tombe, d’onde esalava la corruzione. Tale storia si sparse in tutto l’universo, per servire d’esempio ai re che lasciansi governare dalle donne, ed alle donne che vogliono governare i re.»

La notte seguente, Scheherazade, con licenza del consorte, così cominciò un altro racconto:

  1. I Musulmani mettono questa formola, chiamata Besmelè, in testa a tutti gli scritti od a tutti i libri loro, la ripetono innanzi a tutte le loro azioni e nelle circostanze tutte della vita, come prima di mangiare, di bere, di coabitare colle mogli ecc.