Le murate di Firenze/Cap. XXVI: Un sogno

Da Wikisource.
Cap. XXVI: Un sogno

../Dedica ../Cap. XXVII: Terza veduta IncludiIntestazione 26 settembre 2019 100% Da definire

Dedica Cap. XXVII: Terza veduta
[p. 19 modifica]

CAPITOLO XXIV.

Un sogno.



Dei tanti sogni che rammento di aver fatti in vita mia, niun fu mai così fantastico, strano, prolisso, come quello che or sono per narrare; nè ricordo di aver mai di alcuno, come di questo, conservata precisa ed esatta memoria.

La scena si apriva colla rappresentanza di un fatto vero e reale: conciossiachè parevami di esser prigioniero alle Murate, e di giacere insonne nel mio letticciuolo. D’un tratto mi ferisce l’orecchio un lontano muggito, un rumor cupo, sordo continuo, quasi il rubbolar del mare quando vuol far tempesta. Balzo su del letto a mezza vita, sospendo il respiro, appunto gli orecchi e sogguardo la finestra. Un improvviso splendore illumina la cella, da ogni parte sorgono disperate grida, le quali insiem coi bussi profondi che rimbomban pei lunghi corridoi, m’annunziano un pericolo imminente e grave. Getto le coltri, salto a terra e corro alla finestra; orribile vista! da ogni sfondo dello stabilimento sbucavano mugghiando ardentissime fiamme gettando a gran vortici nero e denso fumo. Gli urli, le strida che disperatamente mettevano i carcerati, confuse e mescolate al rantoloso lamentar dei morenti, quella scena riempivano di ribrezzo e di orrore. Nessuno accorreva ad aprir gl’usci, niuno tentava estinguere o circoscriver l’incendio, niun provvedimento, niun riparo era preso, e i miseri prigionieri, [p. 20 modifica]quasi esca appostatamente preparata, erano spietatamente abbandonati al furor di quel fuoco divoratore.

Mentre io esterrito guardava quel lago di fuoco, il fabbricato che mi rimaneva di ricontro crolla, avvalla, si schianta e con orribile fracasso rovina e sprofonda dalle immense vampe dell'incendio ingoiato. La fiamma allora, disserrata e libera da ogni intoppo, s'innalza ardentissima cupamente mugghiando, e spinta da impetuosi buffi di vento, s'appicca di subito, investe con veemenza, e tutta ravvolge ne' suoi vortici la nostra sezione.

Volli gridare, ma il grido mi morì strozzato in gola, e non diè voce alcuna: disperato corro all'uscio, l'urto, lo spingo con quanta forza mi sento in petto; inutile sforzo! esso resiste saldo, incrollabile agli urtoni, ai calci, ai pugni, con che io il tempestava furibondo e disperato.

Già le fiamme colle lor serpeggianti vette mostravansi all'inferriata: il fuoco si dilatava così repentino, sì facilmente e con tanta veemenza incendiava i muri, che pareva fossero di resina costrutti ovver di pece. L'impiantito scottava, le pareti della cella erano infuocate, il fumo, il vampore mi soffocava, e oppresso il petto sentivami venir meno.

Non v'era più scampo; il tonante muggito delle fiamme superava e spegneva nel suo spaventoso rugghìo ogn'altro strido. Alta raccapriccio, orror m'investa e spavento, raggricciar mi sento nelle vene il sangue, e vedendo di non poter fuggir la morte che sì da presso mi stringeva, caddi ginocchioni, levai le mani giunte e gli occhi al cielo, supplicando Dio ad aver di me misericordia, e ai falli miei dar perdonanza. L’ora era giunta, sotto le ginocchia mi traballa il pavimento, si sfasciano, si schiantano, crepitando i [p. 21 modifica] muri, e fra le macerie convolto le fiamme, il fumo, trabucco, precipito in un voraginoso abisso. Serrai con forza gli occhi e i pugni, mi raggricchiai, raggomitolai abbandonandomi così alla ventura. Percorsi cascando un lungo tratto, finché stramazzato in terra sentii cadermi accanto e sopra diroccando e ammassando le rovine.

Per qualche istante fermo rimasi e muto, ma vivo sentendomi tuttora, levai il capo, e quasi tolto di sotto ad un pressoio aspirai quant’aria capir potea ne’ miei polmoni, allargando il petto ad una gran rifiatata; poi con vivo sentimento di riconoscenza: mio Dio esclamai, io vi ringrazio! A voi solo il debbo s'io son vivo ancora.

Nissun sconcio o rottura mi sentiva nel corpo, che tutto parevami rimasto libero del tronco; le sole gambe erano pigiate e sepolte fra’ calcinacci e sassi. Riavutomi alquanto dallo spavento, mi rivolsi carponi, e puntate le mani in terra, m'aiutava di trar le gambe di sotto al peso enorme che le aggravava e premeva; molto faticai, ma potei finalmente moverle, e sane e libere ricuperarle.

Mi rizzai allora e stetti; un fitto buio mi circondava, regnava in quei profondi un cupo silenzio, e l'aria umida, pesante di quel basso luogo sì mi stringeva il petto, che a mala pena mantacar poteva Per conoscere ond'io mi fossi, brancolando tenton mi mossi; metteva piede innanzi piede sospettosamente e lentamente avanzando, né abbandonar mi tentava il corpo sul nuovo passo, se prima assicurato non fossi che sodo e fermo mi sottostasse il terreno. Temeva pauroso l'incontro di qualche precipizio, perché trovato un muro, lo rasentai sempre attenendomivi colle mani quanto più e meglio il potessi. Di tal guisa sentitamente pro[p. 22 modifica]cedendo, arrivai a un punto dove il muro faceva gomito torcendo a sinistra.

Sostai, tastai tutto d’intorno attentamente, e parvemi poter credere di aver percorsa una sotterranea galleria che metteva ad uno sfondo, a cui faceva capo una scala. Rimasi qualche tempo in forse, non sapendo bene se miglior partito fosse il progredire o il retrocedere; se non che risovvenutomi del fuoco, pensai ben fatto l’allontanarmi quanto più potessi da sì terribile nemico.

Cominciai quindi a scender la scala, ma sempre con sollecita precauzione, tentando prima col piede ogni gradino per sentire se abbastanza fosse saldo per reggermi. Le scala pareva che col suo aggiramento circuisse un grosso e massiccio pilone che doveva posare profondo e basso. Mano a mano che io discendeva, sempre più sensibile e molesta mi saliva al naso una muffa atra e crudele, che l’animo mi sgagliardava e la volontà di proseguire innanzi; pur riprendeva le mosse e progrediva, finchè giunto in fondo mi trovai in un terreno declive, molliccio e lubrico.

Feci nuove e accurate indagini, e n’ebbi che io mi trovava in un bugigattolo da ogni parte serrato da muri; una sola uscita vi era, e così stretta e bassa che solo carponi vi si poteva incedere. Mi chinai, e messo a terra un ginocchio entrai col capo in quello sfondo; viddi giù giù lontano un sottilissimo spiraglio di luce che mi avvertì uscir quel buco all’aperto. Il fango, la mota, che alta io sentiva in quella buca mi persuadeva che quella uscita era stata in gran parte interrata da continui depositi che vi facevano le acque. Il volto era tutto grommato di un afronito, dal quale si emanava un vapore acre, fastidioso, acuto, mordente. Mai più mi sarei cimentato in quel valico, se non vi [p. 23 modifica] scorgeva in fondo la luce; ma fremendo nell’animo di uscir fuori, eguasto com’era della libertà, risolvei di tentarlo quali fossero le difficoltà e i pericoli che incontrar potessi.

Entrai risoluto dentro quell’apertura, e camminando carponi vi procedeva coraggioso senza alcun riserbo, tutto di quella melma inzavardandomi. Presto mi ferì l’orecchio un fragoroso stroscio, come di una massa d’acqua che su altra acqua cadendo vi ribolle spumeggiante, si spande e rispiana; dondechè venni in sospetto che quello sfondo riuscisse sulla riva di qualche fiume. Quanto più avanzava, tanto più angusto mi si faceva il buco, e talvolta m’era necessità rettare, e il corpo tutto strisciar sulla belletta e imbrodolarmi infino agli occhi; ma l’uscita era prossima, e la vista della luce il coraggio mi ritornava e la forza, e il desiderio di libertà siffattamente riaccendeva, che nulla curando difficoltà e ostacoli, sempre più affrettava di essere all’aperto.

Giunto in fondo uscii fuori la testa, e con mia gran sorpresa e spavento, invece di un fiume, come aveva sospettato, mi viddi innanzi il mare, che rotto a gran tempesta minaccioso e terribile muggendo bolliva. Mi affrettai di sortir dal buco, mi rizzai tosto in piedi, guardandomi attorno per vedere se fuggir potessi le ondate che già mi veniano alte e grosse ai piedi.

Il buco che io aveva percorso usciva all’angolo di due scogliere, che prolungandosi nel mare e sempre declinando vi si tuffavano e sommergevano. L’enorme altissimo macigno che mi stava alle spalle, calava a sottosquadro, e pareva che ad ogni istante dovesse rovinare e precipitarmi addosso. Le scogliere che da questa spiccavansi internandosi nel mare, erano scheggioni irti, repenti, nudi, deserti, che niuno che non avesse [p. 24 modifica] l’ali avrebbe potuto scandere. Il mare che sempre più sollevavasi in gonfi marosi aveva di già sepolta nelle acque l’apertura donde io era venuto, e quella via m’era preclusa; il cielo si faceva sempre più tetro e fosco; i flutti nereggianti e spumosi si accavallavano con violenza e furore, e talor gonfiandosi mugghianti si sollevavano come altissime montagne infino al cielo, e altamente rombando ricascavano precipitosi, spaventevoli.

Ahi sventura! scampato appena da un grave pericolo di morte, un nuovo me ne soprastava non meno grave e minaccioso; e se io sola mano d’Iddio aveva potuto da quello liberarmi, essa sola poteva da questo pure affidarmi.

Retrocedere era impossiblle; tentar l’ascesa di quelle ripide e stagliate rupi era impresa da forsennato; affrontar l’impeto di quella furiosa tempesta gettandosi al mare era, se non disperata, almeno arrischiatissima risoluzione; fermarsi in quell’angolo colla sola camicia in dosso, esposto sempre all’urto dei gonfi marosi, che il mare fin dall’imo fondo sconvolto gettava altissimi e con furia contro quei massi, valeva quanto rinunziare ad ogni speranza di salvamento, e soccombere da pusillanime, da vile. Il pericolo incalzava; la luce che vedeva a gran tratti mancare m’avvertiva che la notte non era molto lontana, e bisognava quindi risolvere prima che il buio più disastrosa e disperata rendesse la mia disgrazia. Addestrato al nuoto, sciolto di membra, agile, robusto siccome mi sentiva, non era impossibile resistere per qualche tempo all’urto dei flutti, rasentare una scogliera, avanzare nel mare fino al punto ove lo scoglio scendeva a livello dell’acque, montare il sasso, e su per quella schiena inerpicando, salire di punta in punta, guada[p. 25 modifica]gnar la sommità della rupe, e giungere a salvamento. Il progetto era ardito, ma in quelle strette estreme era l'unico che io potessi accettare e seguire.

Feci breve ma fervorosa preghiera, mi premunii con un segno di croce del divino aiuto, e spiccato un salto, mi tuffai nel mare. Animoso procedeva nel gran cimento, affrontando le folate dell’onde, or col petto, or coll’ omero destro, ed or rivolto sulla schiena opponendovi le spalle. Era già vicino a toccar la meta, quando un orribile fischio, come l’acuto sibilo d’immane serpente, mi ferì l’orecchio e m'agghindò il cuore. Spaventato sollevai il capo, e viddi una fosca nube scender dal cielo vorticosa, sibilante infino al mare, comunicare quel suo moto di rotazione all’acque, schiudere alla sua base profondi abissi, e venirmi furiosamente addosso. Viddi appena e già convolto in essa, fui impetuosa mente balestrato in alto mare. Esposto allora a tutto il furor dalla procella, ogni mio sforzo tornò invano; da ogni parte tempestato continuamente sbattuto dal violento cozzo dei sollevati flutti, fui per lungo tempo miserando trastullo dell'onde. Le sofferte fatiche e gli estremi sforzi che or faceva, mi ridussero ben presto a somma prostrazione; le gambe mi spiombavano e non valeva più a sostenerle a galla; le braccia istesse intorpidite e morte più non mi servivan pronte, e spesso affondava in seno all’acque. Avvilito, disperato, sfinito, conobbi che scampato dal fuoco, m’era necessità morir nell'acqua. Rivolsi un'altra volta la mia mente a Dio, implorai soccorso, misericordia, e chiusi gli occhi m’abbandonai come corpo morto all’onde.

Alle dolorose punture dell’unghie acute, adunche di due nerborute granfie che mi ghermirono la schiena, mi risentii; e quando a forza mi sentii alzato su [p. 26 modifica] di peso, tolto all’acqua e sollevato in alto, l’acuto dolore delle trafitte reni, mi fè strettamente serrare i denti e raggricchiarmi tutto. Il poderoso animale vogando di gran lena mi trasportava con tanta velocità, che mi sentiva gelar le membra dal gran vento che mi facevan d'intorno l'ali. Aprii gli occhi, e mi viddi sotto i furiosi cavalloni di quell'acque tempestose, dalle quali credei dover morire aggorgato.

Vago di conoscere da chi fossi tolto per la seconda volta a morte, torcendo il collo mi guardai alle spalle, e viddi un’aquila grandissima tutta bianca come neve, che colle zampe allungate fortemente mi teneva aggrappato, senza che adesso alcun dolore ne sentissi. Lunghe avea le ali, largo il petto, spesse, compatte e lucide le penne; ma qual fu la mia sorpresa allor che essa, calato il capo, mostrommi che dal petto d'aquila, nudo spiccavasi, bianco e snello un collo umano, cui soprastava la bella faccia d'angelica donna! Tenera mi guardò e penetrandomi il cuore con amoroso sorriso, drizzò i suoi belli occhi al cielo, accennandolo del capo.

— Oh sì! diss’ìo, tutto d’amor compreso, t'intendo anima bella, al cielo i nostri voti, al cielo! - Oh come ben ricordo ancora quello sguardo e quel sorriso!

Quando io ritornai la faccia abbasso non viddi più sottostarmi il mare, invece mi trovai vicino e sopra una catena di alte e dirupate montagne. La mia salvatrice calommi pianamente a terra, e mi posò su di un piccol piano di fitta erbetta strato, che sul fianco stendevasi di un alto monte. Toccata terra appena, balzai ritto in piedi rivolgendomi all'aquila per dimostrarle la mia gratitudine e riconoscenza; ma essa prevedendo il mio intendimento, così mi prevenne: [p. 27 modifica]

T’azzitta!
In cor ti leggo ciò che dir vorresti.
Buon veglio, a me t’appressa!

M’accorsi che essa parlava a qualcuno che mi veniva di dietro, perché rivoltomi, viddi inoltrarsi un venerando vecchione, che gentile pareva in atti e costumato. Tutti i capelli aveva canuti, bianca pure e prolissa avea la barba, alta e spiccata la persona. Vestiva una lunga toga verde chiuso, cinta a’ fianchi da due giri da una bianca fune di lana. A lui così parlò la salvatrice mia:

Adesso e sempre a te lo raccomando;
Non ti negar a’ desiderii suoi;
Ma non parlar di lei ch’io tanto amai.
È questo il mio voler, e tu l’osserva.

Il vecchio abbassò la fronte assentendo, e fattosi a me vicino, mi prese tosto per mano. Allora la bell’aquila a me rivolta amorosomante dissemi:

A lui t’affida. Addio.

Disse, e quasi freccia che dall’arco scocchi, si levò trasvolando al cielo. Io la seguitai cogl’occhi, fino a che fatta un punto la perdei. Un desolato sospiro m’uscì allora dal petto, e due grosse lacrime mi caddero dagli occhi. Il vecchio mi guardò a tenera pietà composto, poi squassando il capo: sciagurato, mi disse, tu piangi la tua fortuna! Non andrà gran tempo e più che non vorresti conoscerai quanto bassamente tu avessi posti gli affetti del tuo cuore. Piangerai allora, non già per aver perduto, ma per avere amato un essere così vile, indegno, infame.

Io lo guardai in meraviglia sentendo come ben s’immiasse, ma niente persuaso del suo discorso, anzi da questo offeso: voi mentite, in tuon severo gli risposi. [p. 28 modifica]

— Infelice! Io mentire? Col tempo lo vedrai.

Ciò detto si staccò da me, e avviossi alla volta di un grosso macigno, che sporgendo da una balza faceva caverna, e là dentro entrò mettendo in arco la persona. Poco stante n’uscì con in mano un mantello rosso:

— Prendi, mi disse, copriti! Con questo mantello in dosso tu sarai a tutti invisibile; nè i tuoi passi, nè le tue parole saranno da alcuno intese.

Lo presi, ma prima di vestirmene, il vecchio domandai, se esso almeno m’avrebbe veduto sempre e inteso.

— Per me, rispose, non ha virtù alcuna, e agli occhi miei tu rimarrai sempre qual sei adesso. Allora me lo buttai sulle spalle e mi copersi tutto.

— Or meco vieni, riprese il vecchio, ma lungo il nostro cammino non mi far dimande, perchè non avrai risposta.

— Posso sapere almeno chi voi siate?

— Sono il buon genio: ti basti, seguimi!

Prendemmo il monte avviandoci per la pesta di un sentieruolo arduo e difficile, che saliva repente fra ronchiosi e diroccati massi. Camminammo buon tratto silenziosi e muti, e come fummo gunti in cima al monte, mi viddi innanzi un immenso prato, in mezzo al quale torreggiava maestoso un vasto e magnifico palazzo. Il prato verdeggiava di una minuta, molle, spessa erbetta, ed era bellamente smaltato di vaghi e variopinti fiori. Niuna via era ivi segnata, nè appariva che alcun piede avesse mai calcate quell’erbe, onde stretto da cunosità grandissima e da stupore, non potendo più tener silenzio:

— Buon genio, dissi posso io parlare ancora? — Chiedi. [p. 29 modifica]— Come mai d’intorno a così grandioso palagio non si vede una via, non si conosce una pesta? — Ciò avviene perchè a ben pochi, è dato di arrivar sin qua. — E di chi è quel bel maniero? — Della Verità. — Ohi ohi! Il palazzo della Verità? — Precisamente! Tu credevi forse che in terra la Verità non avesse casa, ma t’ingannasti: non v’ha che questo sol palazzo, è vero, ed è disdetto a molti di entrarvi, ma intanto per qualcuno ha casa anche in terra, e come tu vedi, vasta assai.

Eravamo giunti a breve distanza da quel bellissimo palagio; e quanto più ad esso mi avvicinava tanto, più lo ammirava. Era un immenso quadrato corso tutto a due piani da balaustrati terrazzi, sopra i quali rispondevano le finestre tutte dei primi due piani. Al piano terreno vedevasi un doppio loggiato, ove a due filari in bell'ordine sorgevano spesse e grosse colonne, sulle quali puntavano gli agili archi delle volte reali, che sorreggevano i piani superiori. Come fummo giunti sotto quel loggiato io rimasi altamente stupefatto e trasecolato alla vista delle ricchezze che in quel palazzo erano a gran mano profuse.

Le colonne di quel loggiato eran tutte di marmi peregrini e rari, o di pietre preziosissime. Vedevi il verde cupo del crisolito bellamente intrecciarsi col verde aperto dello smeraldo: gli azzurri lapislazzoli colle colorate turchine; il chiaro zaffiro col fiammeggiante parfido; il pallido col bianco berillo: il bruschino balasco col cupo granato; il flavo giacinto col rosseggiante piropo; il topazzo col rubino, la sarda colla calcedonia, l’agata coll’ amatista, i carbonchi cogl'opali.

Quivi camminavasi sempre sul lucido cristallo di [p. 30 modifica]monte i muri eran tutti di forbito argento; le porte, gli usci di oro finissimo aggirati da cornici di corallo finamente intagliate, e di perle e di diamanti tempestate.

Quivi io non sapeva se più ammirar dovessi il bello, il grande, o il sontuoso, il magnifico.

CAPITOLO XXV.

Prima veduta nel palazzo della verità.


Il buon genio lasciò che per qualche tempo estatico guardassi tanta bellezza e sontuosità, ma vedendo che io men rimaneva là inuzzolito, inebriato a bocca aperta, e immobile come una statua, di tal guisa parlommi: — A che tanto tempo perdi in guardar cose inutili? Su via, spacciati e vieni meco! Il tempo stringe, e quanto devo mostrarti val meglio assai di quel che guardi adesso.

— Eccomi a voi, buon vecchio, io non aveva veduta mai in vita mia una sì bella cosa, e tanto mi riesce nuova e sorprendente, che mi pare un sogno.

Entrammo un ampio portone che metteva a un andito largo e sfogato, a metà del quale s’incontrava un superbo magnifico scalone a chiocciola, che saliva intorno a un gruppo di colonne, siccome le altre gettate di pietre e marmi peregrini e preziosissimi. Salimmo quella scala, e pervenuti al primo piano ci vedemmo di rimpetto un lunghissimo e largo corridoio allumato da ampi finestroni, che in bell'ordine disposti si aprivano a sinistra, mentre a destra vedevasi una lunga [p. 31 modifica]fuga di stanze, ciascuna delle quali aveva l’uscio spalancato.

Il genio mi precedeva, e giunto di faccia al primo uscio, stette, crollò il capo borbottando queste parole: sempre a un modo questo porco!

Mosso da curiosità grandissima affrettai il passo per vedere di chi parlasse, e pervenuto all’uscio guardai nelle stanze e viddi sdraiato sopra un lettuccio un uomo, che abbandonato e rilassato di tutte le membra stava immobile come una massa d’inerte materia. Di tratto in tratto moveva il petto a un lento e rantoloso respiro; la testa gli cascava abbandonata sull’omero destro, e il braccio penzolava a terra. Calva aveva la parte anteriore del capo, lunga, brinata la barba e intrisa tutta di un ributto rossastro, di che era anche impiastricciato all'intorno il pavimento. Dirugginando i denti torceva e strabuzzava gli occhi, e talvolta arrovesciandoli li mostrava come velati a morte.

Una giovine donna d'avvenente aspetto, a lui da presso seduta, con amorosa sollecitudine gli sorreggeva il capo e desolatamente piangeva. A quella vista mi feci all’orecchio del buon genio, pianamente richiedendolo chi fosse quel porcone.

— Perchè tu parli così basso? mi rispose ad alta e spiccata voce il vecchio: non ti dissi che sotto questo mantello niuno ti avrebbe veduto o sentito?

Credei che bociando egli di tal guisa, se non l'uomo, la donna almeno a noi si rivolgesse, ma niuno si riscosse, perchè io fui persuaso che anche il vecchio godesse del privilegio che a me procurava il mantello.

Fatto ardito allora: avete ragione, dissi io pure ad alta voce, aveva dimenticata la virtù del mio mantello; or ditemi dunque chi è costui? [p. 32 modifica]— Egli è medico di professione; la donna che gli vedi accanto è la di lui moglie. Essa è un angelo di bontà, lo ama e lo amò sempre, sebben non lo meriti, del più ardente e sincero affetto; ma per quanto lo accarezzi, lo secondi, lo comporti, non può ottenere che questo perfido non la tenga sempre in gran pressura, non l'affligga e dispetti in mille guise. Tradì lo fede a lei per infardarsi con una sfacciata sgualdrina rotta ad ogni vizio. Anch'essa è vincolata da matrimonio, ma perfidi ambedue, procaci e sfrontati, non intesero che a farsi oggetto di uno scandalo immenso, rendendo pubbliche e manifeste le loro peccaminose tresche.

Da quella martire di sofferenza, che gli vedi piangere accanto, ebbe due figli, un maschio ed una femmina, ma nella gestazione dei feti, adizzato dalla sua druda, attentò sempre alla vita della moglie, curando con iniquo disegno la di lei gravidanza per tumori uterini. Dio la volle salva a dispetto e gastigo di quei due scellerati, e nonostante i medicinali i più nocivi, e una cura tutta intesa alla di lei morte, essa, si sgravò al debito tempo di sue creature. Il maschio resistè a tutti i disagi, a tutti i malitrattamenti che dovè soffrire nell' utero materno, e dato vivo alla luce, rimase a conforto di questa infelice, che nell'amor del figlio alleggia e mitiga l'affanno che il marito le cagiona. Non fu così della bambina, la quale dovè anche di più soffrire i barbari trattamenti del padre, perchè da lui giudicata un doppio tumore uterino. Contro la vita di lei e della moglie tanto brancicò e trafficò costui, che la creatura imbozzacchì, incatarzolì in seno alla madre e mostratasi appena alla luce, morì prima che venuta fosse a vita.

— Misero me! Che sento mai! [p. 33 modifica]— È poco ancora, ascolta! Nel disimpegno di quei doveri, ai quali la sua professione lo chiama, fu sempre trascurato, dispettoso, iniquo; i poveri li ebbe in conto di quisquiglie o superfluità dell’umana famiglia, e senza ribrezzo seppe farsi talvolta certo stromento della morte di qualche infelice, che per una troppo lunga malattia gli riusciva d’incomodo e di peso.

Ma se per qualche tempo tuffandosi nel lezzo di sordide passioni potè in esse spegnere ogni sentimento di onestà, e far tacere il rimorso, venne il fatale momento in cui le cose mutarono aspetto. L’amore, quando è fondato nel solo senso, è pianta che non attecchisce e non gitta profonde radici. Passata la foga dei primi affetti, sminuito il potere di quel fascino che acceca e inebbria ai primi baci, spenta quella fiamma che destano i primi sguardi lascivi di una mondana, finito il potente prestigio della novità, l’ardenza dell’amor si raffredda, l’illusione sparisce, e il cuore rimane vuoto, nauseato, scontento, freddo. Così avvenne a costui; quando slombato e lonzo si vidde impotente a sbramare e saziare le inesplebili voglie della sua druda, le di lei incessanti e soverchie pretensioni gli divennero gravi e fastidiose, il di lei contatto mancò di quel magico potere che s’ebbe nei primi tempi, e non bastò più a liberarlo da quella noia, da quel disgusto che continuamente lo tormentava. Allora la coscienza (che si desta sovente e morde anche in seno all’empio) fece sentire la sua voce, atroci rimorsi lo agitarono, conturbarono e si sentì piombato in un baratro di insopportabile cruccio.

Che fare allora? Smarrita una volta la buona via non è così facile rinvergarla; rivolgersi a Dio, non lo pensò neppure perchè in Dio non credè giammai; staccarsi e dividersi da quella insatollabile sanguisuga per cercare [p. 34 modifica]in seno alla propria famiglia e nell'amore della propria consorte quella pace e quel conforto di cui tanto abbisognava, era virtù troppo difficile a un’anima inviziata, invescata in un impuro amore; lottar sempre e soffrir le punture acute e crudeli di quei rimorsi che lo pungevano continui, implacabili, era prodezza impossibile a quell’anima vile, infingarda: non v’era dunque altro scampo, altro rimedio che l’abbrutimento, e lo trovò nell'ubriachezza. Affogato nel vino e nei liquori, perduta la ragione e il sentimento, egli vive la vita del vegetabile e si contenta.

Guardalo in viso, e vedrai che l’abbrutimento, la intemperanza, lo hanno anticipatamente attempato; vedrai nelle di lui guancie quei solchi grossolani che da questi vizi derivano; vedrai nella di lui fronte quella rughe trasversali che l'inquietudine accennano e l'agitazione dell’animo, e dovrai persuaderti che la di lui vita fu ed è tale appunto, quale io te la ho descritta.

— Perdonate, buon genio, se vi interrompo; mi diceste che quest’uomo esercita la medicina; ma i poveri malati come saran trattati da un medico ubbriaco?

— Forse meglio allora che quando è sano di mente.

— Abbiate pazienza, il vostro discorso non mi quadra per niente.

— Perchè tu non sai che sano di mente abusa spesso della poca sua scienza a danno dei malati; tu non sai che giudica delle malattie senza studiarle, senza chiarirsi dei sintomi che le accompagnano, senza interrogare l’ammalato, senza formarsi insomma quel ragionato criterio della malattia e del malato, indispensabile ad una sana cura, e senza del quale è caso e non virtù se una guarigione si ottiene. Succede [p. 35 modifica]quindi spessissimo che per trascuratezza tratta i malati, come per malvagità e malizia trattò sua moglie e prende una zucca per un fico, per la sola ragione che il rampicante stelo di quella la portò fuori in mezzo ai fichi. Quando invece è ubbriaco, o non visita i malati, ed è il meglio che possa far loro, o visitandoli li sbircia alla sfuggita, e balbezzata malamente qualche parola, li lascia senza fare ordinazioni di sorta, e la natura, non contrariata da nocivi medicamenti, opera da sè, e qualche volta guarisce il male. Ti attaglia così!

— Or sì che m’entra e mi s’accosta; ma dove abita costui, fra orsi o fra talpe?

— Appunto fra orsi e fra talpe. Presto verrà il terribile giorno di sua morte, e forse è più vicino assai di quello che esso crede. Allora roso dal dolore di avere tradita, disamata, stranata questa donna che tanto lo amò, esagitato dal rimorso di tanti delitti commessi, maledetto, esecrato dai poveri che trascurò e disprezzò sempre, triste, avvilito, disperato, morirà senza compianto della morte dei peccatori.

Requiescat in pace. Amen.

— E puoi credere che riposar possa in pace l'anima di un tanto peccatore? Ah no! Per sua ultima e somma sventura dovrà eternamente penare giù nello inferno.

— Me ne rincresce, ma se lo è meritato. Ditemi, buon vecchio, che cosa significa quello scritto che ha in fronte?

— Sappi che tutti coloro che son qui hanno scritta in fronte una parola che che li caratterizza. Vuoi vedere ciò che è scritto nella fronte di costui? Vieni.

Così dicendo, francamente si mosse verso il letto, e si fermò prossimo alle materie da questo disgraziato [p. 36 modifica]reiette. Io, che aveva dimenticata un’altra volta la virtù del mio mantello, lo seguii in punta di piedi, ma il vecchio che non sentiva la mia pesta, si voltò d’un tratto, e vedutomi camminar così leggero; quanto tu se’ semplice e balordo! Sorridendo mi disse; indi soggiunse: leggi.

Portai gli occhi sulla fronte dell’ubbriaco e viddi scritta la parola, l’empio. Torsi subito lo sguardo da quella ributtante, schifosa faccia, perché vedendolo cogli occhi immobili e tutti bianchi, mi parve un agonizzante, e temeva vederlo ad ogni istante spirare.

Nauseato poi dal puzzo acre e molesto che da quei reciticci esalava: partiamo, buon vecchio, dissi: ho veduto abbastanza. Ma in sull'atto del partire rivolsi lo sguardo alla donna, e vedutala così affannosamente singhiozzare, mi sentii commosso a pietà, e non seppi di là partirmi senza dirle una parola di consolazione.

Feci un passo verso di lei e con voce appassionata: deh, signora! le dissi, non si affligga tanto di un male che appunto perché tocca gli estremi è al momento di cessare: faccia cuore! Dio non mancherà di premiare le preclare di lei virtù, toccherà il cuore a questo sciagurato e lo renderà padre amoroso, marito fedele e tenero, lo speri. Ma come se io avessi parlato ad una statua, essa non si fece per nulla viva, ond'io maravigliato inarcai le ciglia, spalancai gli occhi e fisso la guardai. Le grasse risa in cui ruppe il vecchio dietro a me, mi tornarono a mente, che io aveva il

mantello in dosso e vergognai di mia bessaggine. [p. 37 modifica]

CAPITOLO XXVI.

Seconda veduta.

Appena usciti da quella stanza, il buon genio mi si fece nuovamente scorta, e come fu pervenuto alla seconda si fermò dicendo: benissimo! così appunto voleva vederti. — Accorsi curioso all’uscio, e viddi nella stanza un brutto vecchio, che stizzosamente svellevasi con ambo le mani i pochi e brinati capelli che gli coprivano il cranio. Ritto costui in mezzo la stanza e colla faccia a noi rivolta, mi mostrò subito lo scritto che aveva in fronte, ed era la parola, il ladro.

Piccoli e tondi aveva gli occhi, colorati al bulbo di un lucido nero; vermiglie le guancie, ma profondamente solcate da fosse triangolari; largo e piuttosto schiacciato il naso; aperte e vibranti le narici; piccole le orecchie, sottili le labbra e tremole; proporzionata e strettamenle chiusa la bocca; soverchiamente sporgente il mento colla punta volta in su. Di visaggio aspro e chiuso presentava nell’insieme l’aspetto di un vecchio scaltrito, stizzoso, perverso.

Distante da lui di un passo era seduto un giovane nella di cui fronte viddi scritta la parola il fanciullone.

Questi aveva il pugno destro alla bocca, e biascicava le nocche della media congiuntura delle dita, mentre che colla sinistra sollazzava la fagiana; messo in così sconcio atteggiamento con due occhi stupidi, sonnacchiosi, musava scioccamente sorridendo.

— Perchè, domandai io al genio, questo vecchio arcigno sì grosso si mostra e arrovellato?

— Egli n’ha ben donde, mi rispose facendosi tutto severo in viso; ascolta. Nato da genitori miserabili, [p. 38 modifica]iva da ragazzetto raccattando lo sterco per le vie con un cesto in mano, e per le strettezze di sua famiglia ebbe qualche volta a campar d’accatto. Fatto giovinetto s' addò al mestiere del carrettiere, e passò qualche anno miseramente campando con questo mezzo.

Per sua sorte fu notato un giorno da un ricco signore, al quale parve vedere in questo giovine un non so che di svegliato, di intelligente; lo desiderò e lo ebbe al suo servizio.

Da buono e amoroso padrone quale era, procacciò che il suo protetto apparasse leggere, scrivere e abbacare: poscia a provarne la capacità e la fedeltà, gli affidò alcuni affari che il giovane procurò maneggiare e compiere con prontezza, precisione e puntualità. Nulla trascurò che giovar potesse a farlo meglio entrare in cuore al padrone; non sdegnò nè le ipocrite arti dell' assentatore, nè le bassezze del vile; seppe in tutto con sì fino accorgimento, e con tanta simulazione condursi, che il padrone sedotto, ingannato da quelle apparenze di sviscerato affetto, e di tenera sollecitudine, le creò intimo confidente, e gli affidò la miglior parte dei suoi interessi. Accortosi costui della favorevole impressione fatta nell'animo del suo benefattore, si guardò bene dal comprometterla e menomarla con qualche mancanza prima di esser fatto certo e sicuro che il padrone non lo sorvegliasse. Fu quindi per qualche tempo esattissimo nel disimpegno dei suoi doveri, tanto che il padrone non sapeva restarsi dal lodarlo e accarezzarlo. Qualche anno dopo divenne primo ministro di tutto il ricco patrimonio di questo signore, e quando potè tenersi sicuro che il padrone, reputandolo incapace di tradimenti e infedeltà, cecamente a lui si affidava, allora giudicò esser venuto il tempo di pensare a sè e cominciò a rubare. [p. 39 modifica]Niun figlio maschio aveva questo signore, bensì quattro figlie che eran già fatte nubili. Come eredi di un così vasto e ricco patrimonio, queste signorine ebbero molti pretendenti e richieditori. Il padre che non aveva altro occhio in capo che questo ladro, a lui commise di scegliere fra i richiedenti quelli che meglio giudicasse convenire a ciascuna delle figlie. Costui assunse volentieri l’impegno, acutamente e scaltramente avvisando che questo affare gli potesse gittar buono. Niun pensiero si diede di conoscere le qualità e il carattere dei mariti che voleva proporre alle padrone, bastava che essi non si negassero alle di lui pretensioni e interessate mire, ed erano ottimi. Guidato da solo spirito di interesse mercanteggiò queste giovani nel più iniquo e infame modo, prezzolandole ad una ad una secondo lo lor gioventù e avvenenza. Matrimoni combinati con intendimento così scellerato, non potevano riuscire a bene, e fu così. Quelle disgraziate signorine furono sacrificate e congiunte ad uomini, che non potevano farle, come non le fecero, contente.

Tre morirono ben presto di crepacuore; la quarta potè durarla un po’ di più, perchè di carattere più fermo, di complessione più robusta. Unica sopravvisse al padre, ma dovè essa pura soccombere alle stranezze continue, alle crudeli e barbare pressure di un marito fantastico, disumano, empio, e di angoscia morire.

Il padre, veduta la deplorabil riuscita di questi matrimoni, venne in sospetto che questo perfido lo avesse tradito, e che abusando della sua illimitata fiducia che esso in lui aveva posto, sacrificato avesse per abbominevole interesse e padre e figlie. Diffidato allora lo tenne d’occhio, lo scrutinò attentamente nell'amministrazione affidatagli, e si accorse, ma troppo tardi, che rubava a doppia mano. [p. 40 modifica]Di tanto sdegno infiammò allora che sull'istante lo volle cacciato di casa sua, e non soffrì di più sentirlo pur rammentare.

Qualche anno poi venne a morte, e memore sempre delle ribalderie, delle truffe e perfidie di questo ladro, volle apposta nel suo testamento come condizione obbligatoria, che costui non mettesse mano mai più in alcuna cosa della eredità che lasciava. Lo fece indarno, conciossiachè questo menticurvo furfante lo aveva prevenuto fin da quando entrò ne' convegni con coloro, ai quali aveva sacrificate le figlie del benefattore, essendo fra loro rimasti composti, che l'amministrazione dei beni che avrebbe un giorno ereditati, dovesse esser ceduta e rilasciata per intero al traditore. Le leggi ordinariamente son deluse quando vincolano ricchi e signori: quindi la volontà del testatore rimase frustrata, e gli eredi, che dimoravano a gran distanza dai beni redati, ne rimisero l'agenzia, siccome erano convenuti, nelle mani di questo ladro.

Fu allora che potè meglio soddisfare all'avidità che lo divorava di arricchire: accorto, attento, instancabile come era lontano dall'occhio dei padroni, e supremo ammimstratore di un così ricco patrimonio, in poco tempo accumulò grandi ricchezze.

— Oh che ladro!

— Questo è poco ancora! Giovane di appariscente aspetto procurò di cavar costrutto anche da questo pregio di natura, ingegnandosi di procacciarsi l'amore di una qualche ricca giovane. Pose gli occhi e fermò suo pensiero sopra una bella fanciulla appartenente a cospicua famiglia, e seppe così bene simularsi innamorato, spasimato di lei che riuscì a sedurla e a rubarle il cuore. La giovane di costui pazzamente presa e guasta, lo volle a marito a dispetto dei genitori, ma [p. 41 modifica]ebbe presto a pentirsene; conciossiachè non prima questo iniquo la ebbe sua, che gettò la maschera e si mostrò quale era, un freddo, indifferente egoista. Niun altro sentimento ebbe in lui potere mai, eccetto quello dell’interesse, egli non poteva dunque esser per la moglie quello che essa sperò, un innamorato.

Ebbe da questa donna due figli, una femmina e ua maschio, e perchè gli sembravan già troppi, volle fra sè e la consorte stabilita separazione di toro. Qui m’è imposto tacermi di un ributtante lenocinio, del quale costui si bruttò per far denaro. Ti basti che frugato sempre, invasato dal demone dell’interesse, non si rifiutò ad azioni così turpi, così nefande, infami, esecrabili, che un’anima sensibile, onesta, non può rammentarle senza inorridire e raccapriccire.

La di lui figlia, che era primogenita, giovane di grande spirito e ricca di pregi e di virtù non comuni, non poteva passare inosservata all’avaro, astuto padre, il quale non si peritò di far mercato delle di lei doti, sacrificandola ad un coticone rozzo, sguaiato, ignorante, da lui sopra ogni altro stimato, perché in quel luogo più di ogni altro ricco. La figlia si oppose, ma contro la espressa di lei volontà a quel tanghero la impalmò, e non si rimase di crudelmente vessarla, finchè essa non si piegò alle sue sozze, interessate brame.

— Oh mostro d’iniquità!

— Aveva questo ladro tre fratelli, due preti e uno secolare; quest’ultimo era ammogliato ed aveva una figlia. Uomo molto industrioso e insieme onesto e pio, non aveva accumulate ricchezze quanto costui, ma a furia di risparmi e di fatiche era riuscito a formarsi un discreto patrimonio: viveva quindi comodamente, e quel che più monta, onoratamente. Divenne vedovo [p. 42 modifica]e non ostante toccasse già un'età piuttosto avanzata, s'innamorò di una giovincella di bassa mano, e fattane richiesta ai di lei genitori, e sentito il parere della giovane, s'ebbe dagli uni e dall'altra il bramato consenso.

Questo ladro infame penetrò le intenzioni del fratello, e non sapendo intendere come potesse amarsi una donna senza mire di interesse, acremente lo rampognò, insinuandogli che l'unirsi in quella età ad una giovane e bella fanciulla era una vera pazzia: che lo avrebbe fatto padre di molti figliuoli e tradotto così a miseria e a ruina. Nonostante le contrarie insinuazioni e i continui rimbrotti di costui, l'innamorato vecchio la durò fermo nel di lui divisamento, e secretamente sposò la fidanzata. Ciò fatto, a fine di togliersi ai rimproveri, e alle impertinenti vessaziom di questo avaraccio, si ritirò per qualche mese in uno dei suoi poderi per ivi godere in pace i primi tempi almeno del matrimonio. Ma questa prudente risoluzione non bastò a salvarlo dalle perfide trame di questo iniquo, che indispettito più che mai di essere stato gambeggiato, si convenne e collegò con uno dei fratelli preti (degno di lui germano) e con esso tramò la rovina del fratello secolare. L'opera infernale cominciò dal soffiare in quest'uomo semplice, ingenuo, lo spirito di gelosia.

A tutti gli amanti è terribile il martello della gelosia, nei vecchi poi quanto più è facile, tanto più è funesto.

Il novello sposo fu ben presto tempestato da crudeli sospetti, e gustate appena le felicità dell'amore, piombò, infelice! nella più tetra melanconia.

Dalla gelosia alla pazzia è breve e facile il passo; il vecchio cominciò a dare in ciampanelle, e trascurò in parte i suoi interessi. Nulla faceva però che alcuno offender potesse: più che altro, siccome uomo [p. 43 modifica]sinceramente pio, trasmodava in atti di pietà, e si rendeva ridicolo praticandoli in luoghi e con modi non sempre convenienti.

Alla malvagità di questo iniquo serpente quel poco bastò, perché aggroppando a quei pochi fatti, per sè stessi innocenti, circostanze false e calunnie infami, col pretesto di voler provvedere alla sicurezza, all'onor del fratello, e all'interesse della nipote, tanto importunò le autorità civili, che gli riuscì di ottenere un decreto, per il quale il di lui fratello era dichiarato civilmente interdetto e sottoposto a un curatore. Immaginerai che il curatore doveva essere e fu questo maledetto ladro.

L’infelice geloso, trangosciato allora nell’anima e nel cuore, conturbato e confuso nella mente, trascurato, disprezzato da tutti, impedito perfino nell'amministrazione dei propri beni, strepitò, infuriò, altamente rimproverando fratelli e magistrati, il ladro non mancava mai di aggravare, aggrandire ogni piccolo sgarro del vacillante fratello, e inventando e calunniando sempre potè finalmente ottener l’ordine che l’infelice fosse rinchiuso in un manicomio siccome pazzo. Egli stesso lo fece legare, e lo tenne prigioniero nel suo palazzo, finchè non ebbe occasione propizia per farlo trasportare nello spedale dei pazzi nella capitale del regno.

— Ah birbante iniquo!

— Allora tutto contento ne andò in gloria; il fratello che non aveva voluto fare a modo suo, lenguiva carcerato fra i matti: la cognata che non volle temere il suo sdegno era ora alla di lui balìa e poteva vendicarsi, come si vendicò, barbaramente stranandola, e così miseramente tenendola a stecchetto, che tal fiata ebbe a patir la fame. Intanto egli amministrava i [p. 44 modifica]poderi, e tutti conduceva gli interessi del matto. Maestro egregio nel furto, e avido sempre di nuovi guadagni, non poteva rispettare, risparmiare le sostanze del fratello, e non le risparmiò.

Erano già scorsi trenta mesi, da che il matto era stato rinchiuso nel manicomio, e sebbene avesse date indubbie prove di ricuperato senno, non poteva ottenere di essere lasciato libero, perchè costui vi si opponeva con tutti quei mezzi, di cui poteva disporre.

Allora la moglie del matto volle tentare di portarsi presso il marito, e là fare quanto potesse e sapesse più per riaverlo libero. Andò, e sostenuta da uno dei superiori dello stabilimento, tanto disse, con tanto impegno e calore pregò, supplicò le autorità che, ottenne di ricondurlo seco in patria. Tutto ciò fu accortamente operato all'insaputa del ladro, ma non prima ne ebbe notizia, che quasi moltiplicandosi volò da un giudice all'altro, da un'autorità minore a una superiore, e alcuni ingannando, comprando altri, serpentando tutti, potè disporre le cose in modo che il matto, nonostante fatto libero, non avrebbe ottenuto per qualche tempo ancora di essere sciolto dal curatore, e così esso avrebbe avuto tempo opportuno per consumare interamente il progettato furto, e ordinare a tal'uopo il conteggio di amministrazione.

Il matto appena ripatriato si occupò indefesso della riabilitazione, ma incontrò tali e tanti ostacoli e così ostinate opposizioni, che egli ne era alla disperazione.

Fu saviamenie consigliato di procurarsi l'appoggio di un medico, e fortunatamente ottenne di essere addrizzato e raccomandato da un uomo nell'arte salutare valentissimo e di specchiata onoratezza. Come questi ebbe intesa la indegna, esecrabile persecuzione, della quale questo buon uomo era stato vittima infelice, accettò [p. 45 modifica]volentieri le di lui difese, e con tal nerbo di ragioni, con tal facondia e robustezza di eloquenza sostenne il certo senno dell’interdetto, che le autorità doveron cedere e reintegrarlo ne’ suoi diritti.

Frattanto il ladro non avea dormito, e con tanto artifizio e sottile accorgimento aveva alterati i conti, che quando rese ragione al fratello dell’amministrazione tenuta resultò che di un patrimonio di oltre dodici mila scudi, non rimaneva a profitto del matto che un solo podere, e il rimanente tutto era devoluto a questo barattiere infame, a compenso delle spese che fece apparire di aver sostenute nel tempo che fu curatore.

— Oh che ladro, oh che ladro!

— Ma Dio non paga ogni sabato sera! Il prete, che si era collegato con questo iniquo nella persecuzione e rovina del fratello, poco tempo dopo fu colpito da apoplessia, e senza poter far parole in pochi giorni se ne morì. Fu breve il tempo della di lui malattia, ma fu tanta, la pressa e l'attività di questo ladro, (attento sempre e e instancabile quando si trattasse di cose che potessero tornargli a grand'uopo) che in quei pochi giorni, tutto trambusto, frugò, rovistò ogni mobile e in tutti i ripostigli per impossessarsi di tutto il denaro e di tutti i fogli del moribondo. Ciò fatto senza posare nè giorno nè notte si diede a falsar cedole, scritture, obbligazioni, contraffacendo sempre la firma del defunto, tanto che riuscì a disporre le cose in modo, che quando si venne alla divisione del patrimonio dal defunto prete lasciato (divisione che per la cessione e rinunzia fatta dall’altro fratello prete doveva esser fatta a perfetta metà fra i due fratelli secolari) apparì, che alcuni poderi appartenevano per metà a questo ladro, il quale ne desumeva il diritto di proprietà da private scritture; che gli altri beni non bastavano a coprire e compensare [p. 46 modifica]i debiti che il defunto aveva contratti con costui, come risultava da diverse obbligazioni e ricevute.

A tale inaspettata e strana rivelazione, il matto restò di sasso, conciosiacchè nìuno seppe mai che il defunto avesse il minimo debito, e molto meno che nei suoi possedimenti vi entrasse condomino questo ladro, ma la sua sorpresa e maraviglia non distrusse i falsificati documenti che il ladro gli metteva sott'occhio, e da buon uomo, qual fu sempre, si lasciò aggirare, ingarabullare da questo farabutto, chiamandosi per contento di alcune intarlate masserizie, e di una tenue somma di danaro, che per abbonirlo e racchetarlo questo scaltro ladro credè ben fatto dargli.

— Oh che ladro, oh che ladro!

— Rimaneva ancora l'altro fratello prete, il quale era parroco in un paesetto non molto lontano da quel luogo. Questi mantenuto e spesato da un ricco signore suo popolano, lasciava tutti i redditi della parrocchia a qaesto ladro, giacchè per i suoi bisogni n’avea di vantaggio degl’incerti. Erano già meglio che trent’anni scorsi, da che costui si beccava per intero i proventi della chiesa, e siccome ammontavano ad una somma rilevante, per non trovarsi in impacci col fratello secolare quando il prete fosse venuto a morte, accortamente avvisò di assicurarsene il certo dominio con un testamento. Cominciò ad accarezzare il prete, a lisciarlo, confettarlo quanto più e meglio sapesse, poi lo assediò così importuno, lo pregò, tempestò tanto, che lo ebbe indotto a far testamento, e a chiamare erede di ogni suo avere quel mangianocche, che gli vedi lì seduto da presso, che è di lui figlio. Ed ecco che alla morte di questo prete il povero matto non ebbe un’altra volta che pochi stracci e qualche centinaio di scudi, che il prete per punto [p. 47 modifica]di coscienza, nonostante le contrarie insinuazioni di questo esoso egoista, credè dovergli lasciare.

— Oh che ladro, oh che ladro!

— Il matto è uomo veramente buono, anzi buonissimo. Fu talvolta insegnato a farsi render ragione, a chiamare a sindacato il fratello ladro, ma esso non volle farlo mai, adducendo a ragione, che il piatire con un fratello era imperdonabile delitto. Accettò sempre volentieri quel poco che gli volle dare, e tutta quiete e pace se la rideva in seno della sua famiglia, sempre allegro, contento, col cuor nello zucchero.

Troppo lungo sarei se io volessi parlarti di tutti i furti da questo insigne ladro perpetrati: se narrar ti volessi in quanti modi con quali iniquissime arti trappolò, frodò tutti quelli che ebbero con esso qualche interesse. Ti basti che scaltro sempre, infingitore pronto, paziente, costante nell'intendimento di arricchire, potè nel breve giro di trent'anni accumulare in soli beni stabili (non computando il molto danaro contante le molte cedole di crediti che tiene in maggior copia di quel che si crede) un patrimonio di meglio che centomila scudi.

— La è una fava! Misericordia che ladro!

— Niuno fuggì mai alle sue granfie senza lasciarvi o pelo o pelle, ed è più facile camminar calzati di lana per un campo di lappole senza che alcuna ti si appiccichi, di quel che sia l'impacciarsi con lui e uscirne senza danno.

— Ma ditemi, buon genio, nel luogo dove esso abita, la giustizia umana sarà cieca, sorda, stupida, addormentata?

— Tu se’ giovane ancora, o almeno non hai tutta quella sperienza che potresti avere. E non sai tu che la giustizia fra gli uomini è ben raro che si mostri? che un [p. 48 modifica]uomo astuto e scaltro, come costui, provveduto di mezzi che alla circostanza non risparmia, acceca i ministri della giustizia quante volte a lui talenta, li compra, li seduce, li fa muti e morti a di lui riguardo; per risvegliarli poi e farli stromenti di ingiustizie e di prepotenze, quando per vendetta o per capriccio gli piaccia affliggere e perseguitare qualcuno? Quelle ricchezze che accumulò rubando, senza che la umana giustizia vi si opponesse, servono ora a corromperla, traviarla, e a farla sostegno anzi che castigo delle sue molte e abbominevoli iniquità. Però non sempre a stuzzicare il can che dorme accasca che destandosi fugga; ve n’ha taluno che molestato si rivolta e ringhia, e allor che meno il pensi ti si avventa, ti azzanna e morde. Potrebbe quindi addivenire che sebben furbo e maligno qualcuno lo arrivasse; anche le volpi qualche volta restan colte alla tagliola.

— Gli starebbe a dovere che qualche malanno gli tornasse in capo, ed avrei proprio gusto di vederio sbattere un poco quel mento a scodella per paura, o incioccar per rabbia i denti.

— Che vuoi che inciocchi che non ne ha più uno.

— Peccato! Era meglio gli fosser cascate l’ugna, avrebbe così raspato un po’ meno. Ma di dove è questo vecchiaccio grifagno?

A questa mia domanda il vecchio si voltò verso il finestrone che ci rimaneva dirimpetto, e: vedi, mi disse, quei monti laggiù lontani ricoperti di neve?

— Sì, buon vecchio, li scorgo bene.

— Gli antenati di questo ladro venner di là.

— E che monti sono?

— Sono i monti Carpazi.

— Ah ah! Non è meraviglia dunque se ebbe sempre in mente di carpare. Ma se la memoria non mi fallisce, [p. 49 modifica]parmi che i monti Carpazi dividano la Transilvania e l’Ungheria dalla Moldavia e dalla Gallizia.

— Precisamente.

— Dunque noi siamo ora?

— Nella Transilvania.

— Dio aiutami! Ma come farò a ridurmi in patria colla sola camicia in dosso?

— Di ciò non ti prender pena, tornerai più facilmente e più presto che non pensi.

— Ah sì, intendo, mi lascerete il mantello, e allora quando avrò fame prenderò il pane dove lo trovo senza che alcuno mi veda; quando sarò stanco m’assiderò sul primo baroccio, carro o carrozza che incontri; se poi arrivo a qualche strada ferrata, è festa solenne, mi traforo non veduto in un vagone, e via cogl’altri senza pagare un soldo. Bella cosa aver questo mantello! Lo avesse avuto per un mese almeno il ladro, Dio sa quanto avrebbe rubato!

Se mi vien fatto di giungere fino a casa, voglio provarmi a far qualche scherzo dando il gambetto a taluni, che intendo io, per vedere se stramazzando in terra si rompessero il grugno o le corna e rinsavissero. Gio. Battista Vico da giovanetto era uno stupido, ma la frattura del cranio, che gli si spaccò ruzzolando una scala, gli risvegliò lo intelletto e divenne un gran filosofo. Chi sa che qualcuno di quei furfanti rompendosi la testa non torni a coscienza!

— A coscienza? E puoi crederlo? Essi hanno il cuore come un macigno duro, e l’ anima tuffata, affogata in tanta lordura di vizi, che per farli tornare a coscienza altro ci vuole che stramazzoni o culattate.

— E che volete saper voi dì chi io parlo?

— Lo so, lo so, non dubitare che io ti leggo in fondo al cuore ogni tuo pensiero e sentimento. [p. 50 modifica]— Ma sapete che questa vostra vista penetrativa non mi va gran fatto a fagiolo? Non prima io concepisco un pensiero, che voi, voltati in là, e l’avete imbroccato netto. O bella questa!

Mentre il genio squacqueratamente se la rideva, io che aveva ritornati gli occhi sul ladro, lo viddi sempre più infuriare e dibattersi come un forsennato, perchè risvegliata la mia curiosità.

— Lasciam le baie, ripresi, e ditemi mai più perchè questo vecchiaccio ladro tanto si arrovelli e crucci.

— Lo avresti già saputo se tu fossi un po’ men ciarliero, un frèno. Tu vuoi che io tutto ti dica spalancatamente, e mi diverti poi e mi dilunghi sì dalla linea che io vorrei tenere, che il mio racconto si fa oltremodo prolisso.

— Avete ragione, non parlo più.

— Oh si tu se' proprio quello! Or sappi dunque che questo vecchio iniquo soffre oggi, vivente ancora, una parte di quelle pene che eternamente il crucceranno.

Egli vede che per sola avidità di guadagno, e per una vergognosa mira di interesse, ha sacrificata la sua figlia, la quale contrariata sempre in tutti i più cari affetti del suo cuore, trangosciata e oppressa l’anima dal crudele e continuo tormento di vedersi in braccio a un uomo che non stima, perchè privo e manco d’ogni merito e virtù, che non ama perchè non stima, è fatta oggimai vittima dei molti affanni che la trambasciano, e dovrà presto soccombere alla fatale influenza di quel malore che da lungo tempo la rode e consuma.

Vede che il figlio è tale uno sciocco, che aperto gli mostra essergli stato dato da Dio a giusta punizione dei tanti furti commessi. Un insulso bamboccione che pargoleggia e si balocca, come tu vedi, quasi uno stupido e dementato fanciullo. Allevato e cresciuto fra le noie [p. 51 modifica]dell'ozio, ne ha dovuto subire le troppo facili e funeste conseguenze, dandosi sfrenatamente ai due vizi che sono all’ozio indivisibili compagni, la ubriachezza cioè e il giuoco. A questi due vizi sposa una mente, per natura sua imbecille, e potrai facilmente intendere che questo balordo sarà il trastullo di quanti lo conosceranno e il punto di mira degli astuti e de' bari.

Ed ecco che tutti i sudori, le fatiche, i pensieri, i timori, gli affanni che dovè soffrire costui per ammassare tante ricchezze; le ingiustizie, i rubamenti, le estorsioni, le angherie, i soprusi, de’quali ha l’anima assomata per farsi danarioso e ricco, finiranno col dovere abbandonare il male accattato tesoro ad un figlio che disgraziatamente e dissennatamente lo getterà, ad una figlia che avrà breve e travagliata vita.

Egli non è così povero di consiglio che non conosca ora a suo danno essere pur troppo vero il proverbio, che quel che viene di ruffa in raffa, se ne va di buffa in baffa. Dopo aver condotta una vita di continuo travaglio, tapinandosi giorno e notte per far danaro; dopo aver sofferte privazioni di ogni sorta senza aver gustato mai un giorno di pace, si vede adesso prossimo a morire privo di ogni conforto e di speranza.

Anzi il disgraziato dilapidamcnto che esso prevede delle sue ricchezze, la sciagura, la maledizione che con tanti delitti ha chiamata in capo a’ suoi figli, la Divina Giustizia, alla quale dovrà presto render ragione dei commessi misfatti senza speranza di poterla ingannare e corrompere, sono agl’occhi della sua mente idee, pensieri così terribili e crudeli, che egli soffre anche adesso pene d’inferno. Ecco perchè disperato si strappa e svelle i capelli.

— Tira, tira e pelati, vecchiaccio infame, e vedi a

che conduca il furto! Dio faccia che almeno in punto di [p. 52 modifica]morte si penta, e coll'aiuto della divina grazia confessi con sincero dolore i suu peccati, e acquisti così salute!

— Vana speranza! Esso morirà di febbri gastrico-biliose: conciossiachè si arrovella, e sarà roso da rabbia disperata fino all'ultimo istante di sua vita. Ma quando anche si pentisse, basta forse solo il pentimento? Tu sai che trattandosi di furti, per ottenere salvezza fa duopo anche restituire il mal tolto; or pensa se un avaro di questa fatta potrà risolvere e determinarsi mai a restituire! Non è impossibile, lo concedo, perchè la grazia di Dio può sempre operare un miracolo, ma è però così difficile, così contrario alla natura di questa sordida passione, che non è temerario l’arbitrare, che dopo morte egli piomberà nell'inferno.

— Io ci giuocherei che ruba qualche cosa anche laggiù.

— Tu scherzi! Non ruberà, ma credi pure, e credi il certo, che il non poter rubare gli sarà di indicibile tormento.

— Sono del vostro sentire; maledettissimo ladro! Alla lontana da quei che vengono dai Monti Carpazi.

— Ogni regola ha la sua eccezione, ma tieni ben certo che nel generale quei che vengono di là sono come il carbone, che o brucia o tinge.

Così dicendo il buon genio avviavasi per alla volta della terza stanza.