Malmantile racquistato/Quarto cantare

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Quarto cantare

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Terzo cantare Quinto cantare
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QUARTO CANTARE.

ARGOMENTO.

I guerrier di Baldon son mal disposti,
Perchè la fame in campo gli travaglia.
Il Fendesi, e Perlon lasciano i posti,
Non vedendo arrivar la vettovaglia.
Psiche non tiene i suoi pensieri ascosti
A Calagrillo, cavalier di vaglia,
Che promette aiutar la damigella,
E poscia ascolta una gentil novella.


1.
Omnia vincit Amor, dice un testo;
E un altro disse, e diede più nel segno:
Fames Amorem superat; e questo
È certo, e approva ognun c’ha un po’ d’ingegno;
Perchè, quantunque Amor sia sì molesto,
Che tutt’i martorelli1 del suo regno
Dicano ognora: ahi lasso! io moro, io pèro;
E’ non si trova mai che ciò sia vero.

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2.
Non ha che far nïente colla Fame,
Che fa da vero, purch’ella ci arrivi;
Posson gli amanti star senza le dame
I mesi e gli anni, e mantenersi vivi;
Ma se due dì del consueto strame
I poveracci mai rimangon privi,
E’ basta; chè de fatto andar gli vedi
A porre il capo dove il nonno ha i piedi.
3.
Talchè si vien da questi effetti in chiaro,
Che d’Amore la Fame è più potente;
Ond’è che ognun di lui più questa ha caro,
E quando alle sue ore ei non la sente,
Lamentasi, e gli pare ostico e amaro.
Perciò riceve torto dalla gente,
Mentre ciascun la cerca e la desia,
E s’ella viene, vuol mandarla via.
4.
Anzi la scaccia, come un animale2
Sul buon del desinare e della cena:
Per questo ella talor, che l’ha per male,
Più non gli torna; ovver per maggior pena
In corpo gli entra in modo e nel canale,
Che non l’empierebb’Arno colla piena;
Come vedremo che a Perlone3 ha fatto,
Che a questo conto4 grida come un matto.

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5.
Desta l’Aurora omai dal letto scappa,
E cava fuor le pezze di bucato;
Poi batte il fuoco, e cuocer fa la pappa
Pel suo giorno bambin ch’allora è nato.
E Febo, ch’è il compar, già colla cappa
E con un bel vestito di broccato,
Che a nolo5 egli ha pigliato dall’Ebreo,
Tutto splendente viensene al corteo.
6.
Nè per ancora le Ugnanesi genti
Hanno veduto comparire in scena
La materia che dà il portante6 a’ denti,
E rende al corpo nutrimento e lena;
Perciò molti ne stanno malcontenti,
Che son usi a tener la pancia piena:
E ben si scorge a una mestizia tale,
Che la mastican tutti più che male.
7.
È tra costoro un certo girellaio7,
Che per l’asciutto8 va su i fuscellini9,
Male in arnese, e indosso porta un saio
Che fu sin del Romito de’ Pulcini10.
Ci è chi vuol dir ch’ei dorma in un granaio,
Perc’ha il mazzocchio11 pien di farfallini:
È matto in somma; pur potrebbe ancora
Un dì guarirne, perchè il mal dà in fuora12.

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8.
E perch’ei non avea tutt’i suoi mesi13,
Fu il primo ad esclamare e far marina14,
Forte gridando: oimè! ch’io vado a Scesi15
Pel mal che viene in bocca alla gallina16.
Onde Eravano e don Andrea Fendesi,
Che abbruciavano insieme una fascina,
E per cibare i lor ventri di struzzoli17
Cercavan per le tasche de’ minuzzoli,
9.
Mentre di gagnolar giammai non resta
Costui ch’è senza numero ne’ rulli18,
Anzi rinforza col gridare a testa19,
Lasciano il fuoco e i vani lor trastulli:
E per vedere il fin di questa festa,
Se ne van discorrendo grulli grulli
Del bisogno ch’essi han che ’l vitto giunga,
Perchè sentono omai sonar la lunga20.
10.
Così domandan chi sia quei ch’esclama,
E mette grida ed urli sì bestiali.
Gli è detto: questo è un tale che si chiama
Perlone, dipintor de’ miei stivali;
Un uom, che al mondo acquistasi gran fama
Nel far de’ ceffautti21 pe’ boccali:
E con gl’industri e dotti suoi pennelli
Suo nome eterno fa negli sgabelli22.

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11.
Si trova in basso stato, anzi meschino;
Ma benchè il furbo ne maneggi pochi,
Giuocherebbe in su’ pettini da lino,
Chè un’ora non può viver ch’ei non giuochi.
Ma s’ei vincesse un dì pur un quattrino,
In vero si potrebbon fare i fuochi;
Perchè, giuocando sempre giorno e notte,
Farebbe a perder colle tasche rotte.
12.
Giuocossi un suo fratel già la sua parte,
Suo padre fu del giuco anch’egli amico;
Però natura qui n’incaca23 l’arte,
Avendo ereditato il genio antico.
Costui teneva in man prima le carte,
Che legato gli fosse anche il bellico;
E pria che mamma, babbo, pappa e poppe,
Chiamò spade, baston, danari e coppe24.
13.
Ma perchè voi sappiate il personaggio
Che ciò25 racconta, è il Franco Vicerosa26,
Cavaliero, del qual non è il più saggio,
Scrittor sublime in verso quanto in prosa;
Dipinge, nè può farsi da vantaggio,
Generalmente in qualsivoglia cosa;
Vince nel canto i musici più rari,
E nel portare occhiali non ha pari.

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14.
È suo amico, ed è pur seco adesso,
Salvo Rosata27, un uom della sua tacca;
Perocchè anch’ei si abbevera in Permesso,
E pittor, passa chiunque tele imbiacca;
Tratta d’ogni scïenza ut ex professo,
E in palco fa sì ben Coviel Patacca28,
Che, sempre ch’ei si muove o ch’ei favella,
Fa proprio sgangherarti le mascella.
15.
Or perchè Franco ed egli ogni maniera
Proccuran sempre di piacere altrui,
Di Perlone dan conto, e dove egli era
Di conserva n’andar con gli altri due;
Là dove minchionando un po’ la fiera29,
Il Franco disse lor: questo è colui
Che in zucca non ha punto30; anzi ragionasi
D’appiccargli alla testa un appigionasi31.
16.
Spiacque il suo male ad ambi tanto tanto:
E mentre ei piange ch’e’ si getta via32,
Il pietoso Eravan pianse al suo pianto,
Verbigrazia, per fargli compagnia.
Poi tutto lieto postosegli accanto,
Per cavarlo di quella frenesia,
Di quelle strida e pianto sì dirotto,
Che fa per nulla il bietolon mal cotto33,

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17.
Se forse, dice, tu sei stato offeso,
Che fai tu della spada, il mio piloto34?
A che tenere al fianco questo peso,
Per startene a man giunte come un boto35?
Se al corpo alcun dolor t’avesse preso,
Gli è qua chi vende l’olio dello Scoto:
Se t’hai bisogno d’oro, io ti fo fede
Che qualsivoglia banca te lo crede.
18.
Dopo Eravano poi nessun fu muto;
Chè ognun gli volle fare il suo discorso,
Offerendo di dargli ancora aiuto,
Mentre dicesse quanto gli era occorso;
Ond’ei, che avrebbe caro esser tenuto
D’aver piuttosto col cervello scorso36,
Alzando il viso, in loro gli occhi affisa,
E sospirando parla in questa guisa:
19.
Non v’è rimedio, amici, alla mia sorte:
Il tutto è vano, giacchè la sentenza
È stabilita in ciel della mia morte,
Che vuol ch’io muoia, e muoia in mia presenza.
Già l’alma stivalata37 in sulle porte
Omai dimostra d’esser di partenza;
E già col corpo tutt’i sentimenti
Le cirimonie fanno e i complimenti.

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20.
Mutar devo mestier, se avvien ch’io muoia,
Di soldato cioè nel ciabattino;
Perocchè mi convien tirar le cuoia38,
Per gir con esse a rincalzare il pino.
Un’altra cosa ancor mi dà gran noia:
Ed è, che sotto son come un cammino;
E che innanzi a Minòs e agli altri giudici
Rappresentar mi debba co’ piè sudici.
21.
Ma ecco omai l’ora fatale è giunta,
Ch’io lasci il mio terrestre cordovano39;
Già già la Morte corre, che par unta,
Verso di me colla gran falce in mano;
Spinge ella il ferro nel bel sen di punta40,
Ond’io mancar mi sento a mano a mano;
Però lo spirto e il corpo in un fardello
Tiro fuor della vita e vo all’avello.
22.
Ormai di vita son uscito, e pure
Non trovo al mio penar quiete e conforto.
O cielo, o mondo, o Giove, o creature,
Dite, se udiste mai così gran torto?
Se Morte è fin di tutte le sciagure,
Come allupar41 mi sento, ancorchè morto?
E come, dove ognuno esce di guai,
Mi s’aguzza il mulino piucchè mai42?

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23.
Va’ a dir43 che qua si trovi pane o vino
O altro da insegnar ballare al mento:
Se non si fa la cena di Salvino44,
Quanto a mangiare, e’ non c’è assegnamento.
O ser Isac45, o Abramo, o Iacodino,
Quando v’avete a ire al monumento,
Voi l’intendete, che nel cataletto
Con voi portate il pane ed il fiaschetto.
24.
Orbè, compagni46, olà dal cimitero,
Se ’l ciel47 danari e sanità vi dia,
Empiete il buzzo48 a un morto forestiero,
O insegnategli almeno un’osteria.
Sebben voi fate qui sempre di nero49,
Perchè di carne avete carestia,
È tale l’appetito che mi scanna,
Che un diavol cotto ancor mi parrà manna.
25.
Sebben non c’è da far cantare un cieco,
Di questa spada all’oste fo un presente,
Che ad ogni mo’, da poi ch’ella sta meco,
Mai battè colpo o volle far nïente.
Per una zuppa50 dolla ancor di greco.
Ma che gracch’io? qui nessun mi sente.
Che fo? se i morti son di pietà privi,
Meglio sarà ch’io torni a star tra’ vivi.

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26.
Qui tacque, e per fuggir la via si prese,
Facendo sempre il Nanni51 ed il corrivo;
Perch’egli è un di que’ matti alla senese,
C’han sempre mescolato del cattivo.
Per aver campo a scorrere il paese,
Ne fece poi di quelle coll’ulivo52,
Mostrando ognor più dar nelle girelle;
E tutto fece per salvar la pelle.
27.
Perch’uno, che il soldato a far s’è messo,
Mentre dal campo fugge e si travia,
Sendo trovato, vien senza processo
Caldo caldo mandato in Piccardia.
Però s’ei parte, non vuol far lo stesso,
Ma che lo scusi e salvi la pazzia;
Onde minchion minchion, facendo il matto,
Se ne scantona che non par suo fatto.
28.
Il Fendesi a scappare anch’ei fu lesto,
Con gli altri tre correndo a rompicollo;
Volendo risicar prima un capresto,
E morir collo stomaco satollo,
Che restar quivi a menarsi l’agresto53,
Ed allungare a quella foggia il collo.
Il danno certo è sempre da fuggire;
S’egli avvien peggio poi, non c’è che dire.

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29.
Lasciam costoro, e vadan pure avanti
Cercando il vitto lì per quel contorno;
Che se fame gli caccia, e’ son poi fanti
Da battersi ben ben seco in un forno;
Perchè d’un gran guerrier convien ch’io canti,
Mezzo impaniato, perch’egli ha d’intorno
Una donna straniera in veste bruna,
Che s’affligge e si duol della fortuna.
30.
Calagrillo è il guerriero, e via pian piano
Cavalcando ne va con festa e gioia,
Ognor tenendo il chitarrino in mano,
Perchè il viaggio non gli venga a noia.
È bravo sì, ma poi buon pastricciano54;
E’ farebbe servizio infino al boia:
Venga chi vuol, a tutti dà orecchio,
Sebben e’ fosse il Bratti Ferravecchio55.
31.
Poichè bella è colei che si dispera
Sempre piangendo senz’alcun ritegno,
E vanne, come io dissi, in cioppa56 nera
Per dimostrar di sua mestizia il segno,
Perciò con viso arcigno e brutta cera
Par un Ebreo ch’abbia perduto il pegno;
E di quanto l’affligge e la travaglia,
Calagrillo il campion quivi ragguaglia.

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32.
Signore, incominciò, devi sapere,
Ch’io ebbi un bel marito; ma perch’io
Dissi chi egli era contro al suo volere,
Già per sett’anni n’ho pagato il fio;
Perch’egli allor, per farmela vedere,
Stizzato meco se n’andò con Dio
In luogo, che a volerlo ritrovare
La carta vi volea da navicare.
33.
E quando poi io l’ho bell’e trovato,
Martinazza, ch’è sempre lo scompiglia,
Fa sì, che pur di nuovo m’è scappato,
Ed in mia vece all’amor suo s’appiglia.
Tal ch’io rimango cacciator sgraziato:
Scuopro la lepre, e un altro poi la piglia.
Ti dico questo, perchè avrei voluto
Che tu mi dessi a raccattarlo aiuto.
34.
Ei le promette e giura che ’l marito
Le renderà; però non si sgomenti:
E se non basterà quel c’ha smarrito,
Quattro e sei, bisognando, e dieci e venti.
Ed ella lo ringrazia, e del seguito
Di tante sue fatiche e patimenti
(Fatta più lieta per le sue promesse)
Così da capo a raccontar si messe:

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35.
Cupido è la mia cara compagnia,
Ricco garzon, sebben la carne ha ignuda;
Anzi non è: t’ho detto una bugia;
Perch’ei non mi vuol più cotta nè cruda.
Ma senti pure, e nota in cortesia:
Quando la madre sua, ch’era la druda
Del fiero Marte, idest la Dea d’Amore,
Gravida fu di questo traditore,
36.
Perch’una trippa avea, che conveniva
Che dalle cigne omai le fosse retta,
Cagion, che in Cipro mai di casa usciva,
Se non con due braccieri ed in seggetta;
Pur sempre con gran gente e comitiva,
Com’a Regina, com’ell’è, s’aspetta;
I paggi addietro e gli staffier dinanzi,
E dagl’inlati due filar di Lanzi57;
37.
Essendo così fuori una mattina
Per suoi negozi e pubbliche faccende,
Urtò per caso una vacca trentina58,
E tocca appena, in terra la distende;
Ond’ella, dopo un’alta rammanzina,
Perch’una lingua ell’ha che taglia e fende:
Va’, che tu faccia, quando ne sia otta,
Un figliuol, dice, in forma d’una botta.

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38.
E così fu; chè in vece d’un bel figlio,
Di suo gusto e di tutt’i terrazzani,
Un rospo fece come un pan di miglio,
Che avrebbe fatto stomacare i cani;
Che poi, cresciuto, fecesi consiglio
Di dargli un po’ di moglie; ma i mezzani
Non trovaron mai donna nè fanciulla,
Che saper ne volesse o sentir nulla.
39.
Se non che i miei maggiori finalmente,
Mio padre che ’l bisogno ne lo scanna,
Con un mio zio ch’andava pezïente59,
E un mio fratello anch’ei povero in canna60,
Sperando tutti e tre d’ungere il dente
E dire: o corpo mio, fatti capanna61,
E riparare ad ogni lor disastro,
Me gli offeriro, e fecesi l’impiastro.
40.
Fu volentier la scritta stabilita;
Io dico sol da lor, che fan pensiero
Di non aver a dimenar le dita62,
Ma ben di diventar lupo cerviero.
E perchè e’ son bugiardi per la vita,
Dimostrano a me poi ’l bianco pel nero;
Dicendomi, che m’hanno fatta sposa
D’un giovanetto, ch’è sì bella cosa.

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41.
Soggiunsero di lui mill’altre bozze;
Ma quando da me poi lo veddi in faccia
Con quella forma e membra così sozze,
Pensate voi se mi cascò le braccia:
Anzi nel giorno proprio delle nozze,
Che a darmi ognun venia il buon pro vi faccia,
Ogni volta, con mio maggior dolore,
Sentivo darmi una stoccata al cuore.
42.
Non lo volevo; pur mi v’arrecai,
Veduto avendo ogni partito vinto63;
Ma perchè non è il diavol sempre mai
Cotanto brutto com’egli è dipinto,
Quand’io più credo a gola esser ne’ guai,
Ecco al mio cuore ogni travaglio estinto;
Vedendo ch’ei lasciò, sendo a quattr’occhi,
La forma delle botte e de’ ranocchi.
43.
E molto ben divenne un bel garzone,
Che m’accolse con molta cortesia;
Ma subito mi fa commissïone,
Ch’io non ne parli mai a chicchessia,
Perch’io sarò, parlandone, cagione
Ch’ei si lavi le man de’ fatti mia,
E per nemmen64 sentirmi nominare
Si vada vivo vivo a sotterrare.

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44.
E perchè quivi ancora avrà paura
Ch’io non vada a sturbargli il suo riposo,
Avrà sopr’ad un monte sepoltura
Che mai si vedde il più precipitoso,
Ed alto poi così fuor di misura,
Che non v’andrebbe il Bartoli65 ingegnoso;
Oltrechè innanzi ch’io vi possa giugnere,
Ci vuol del buono, e ci sarà da ugnere.
45.
Poichè una strada troverò nel piano,
Che veder non si può giammai la peggio;
Poi, giunta a piè del monte alpestre e strano,
Con due uncini arrampicar mi deggio,
Menando all’erta or l’una or l’altra mano
Come colui che nuota di spasseggio;
Ed anche andar con flemma e con giudizio
S’io non me ne vogl’ire in precipizio.
46.
Scosceso è il monte, in somma, e dirupato;
E ’l viaggio lunghissimo e diserto.
Così disse Cupido smascherato,
Dopo cioè ch’ei mi si fu scoperto;
Ond’io promessi di non dir mai fiato,
E che prima la morte avria sofferto,
Che trasgredir d’un punto in fatti o in detti
I suoi gusti, i suoi cenni, i suoi precetti.

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47.
Nè tal cosa a persona avrei scoperta;
Ma perchè tuttavia la gente sciocca
Ridea del rospo e davami la berta,
Ed io che quand’ella mi viene in cocca
Non so tenere un cocomero all’erta,
Mi lasciai finalmente uscir di bocca
Che quel non era un rospo, ma in effetto
Un grazïoso e vago giovanetto.
48.
E che, se lo vedesson poi la notte
Quando in camera meco s’è serrato
E getta via la scorza delle botte,
Ch’un Sole proprio par pretto sputato,
Le male lingue forse starian chiotte
Che sì de’ fatti altrui si danno piato;
Perocchè non si può tirare un peto,
Che il comento non voglian fargli dreto.
49.
Le ciglia inarca e tien la bocca stretta
Chiunque da me tal maraviglia ascolta;
Ma quel che importa, a sordo non fu detta;
Chè Vener che ogni cosa avea ricolta,
Per veder s’ella è vera o barzelletta,
Poichè a dormire ognun se l’era colta,
Entra in camera e vien pian piano al letto,
E trova il tutto appunto come ho detto.

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50.
E nel vedere in terra quella spoglia
Che per celarsi al mondo il giorno adopra,
Di levargliela via le venne voglia,
Acciò con essa più non si ricuopra;
Così la prende, e poi fuor della soglia
Fa un gran fuoco e ve la getta sopra:
Nè mai di lì si volle partir Venere,
Insinchè non la vedde fatta cenere.
51.
Fu questa la cagion d’ogni mio male;
Perchè quando Cupido poi si desta,
Si stropiccia un po’ gli occhi e dal guanciale
Per levarsi dal letto alza la testa,
E va per rivestirsi da animale,
Nè trovando la solita sua vesta,
Si volta verso me, si morde il dito,
E nello stesso tempo fu sparito.
52.
Non ti vo’ dir com’io restassi allora,
Che mi sovvenne subito di quando
Il primo dì mi si svelò, che ancora
Mi fece l’espressissimo comando
Che in alcun tempo io non la dessi fuora;
Ed io son ita, sciocca, a fare un bando:
E poi mi pare strano e mi scontorco,
S’egli è in valigia66 ed ha comprato il porco67.

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53.
Sospesa per un pezzo io me ne stetti,
Ch’io aspettava pur ch’ei ritornasse;
A cercarne per casa poi mi detti,
Per le stanze di sopra e per le basse.
Guardo su pel cammin, giro in su i tetti,
Apro gli armari e fo scostar le casse;
Nè trovandolo mai, al fin mi muovo
Per non fermarmi finch’io non lo trovo.
54.
Scappo di casa, e via vo sola sola;
Nè son lontana ancora una giornata,
Ch’io sento dire: aspettami figliuola.
Mi volto, e dietro veggomi una Fata;
E perch’ella mi diede una nocciuòla,
Quest’è meglio, diss’io, d’una sassata.
Di ciò ridendo, un’altra sua compagna
Mi pose in mano anch’ella una castagna.
55.
Ed io, che allora avrei mangiato i sassi,
M’accomodai per darvi su di morso;
Ma fummi detto ch’io non la stiacciassi,
Se un gran bisogno non mi fosse occorso.
Vergognata di ciò, con gli occhi bassi
Il termine aspettai del lor discorso;
Poi, fatte le mie scuse e rese ad ambe
Mille grazie, le lascio, e dolla a gambe.

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56.
Ripongo la nocciuòla e la castagna,
E rimetto le gambe in sul lavoro
Per una lunga e sterile campagna
Disabitata più che lo Smannoro68.
Dopo cinqu’anni giunta a una montagna,
Mi si fe’ innanzi un grande e orribil toro,
Che ha le corna e i piè tutti d’acciaio,
E tira, che correbbe nel danaio.
57.
E come cavalier che al saracino
Corre per carnovale o altra festa,
Verso di me ne viene a capo chino,
Colla sua lancia biforcata in testa.
Io già colle budella in un catino
Addio, dicevo al mondo, addio chi resta;
Addio Cupído, dove tu ti sia,
A rivederci69 ormai in pellicceria.
58.
O mamma mia, che pena e che spavento
Ebbe allor questa mezza donnicciuola!
Tremavo giusto come un giunco al vento;
Chè quivi mi trovavo inerme e sola.
Pur, come volle il cielo, io mi rammento
Del dono delle Fate; e la nocciuòla
Presa per caso, presto sur un sasso
La scaglio; ella si rompe, e n’esce un masso.

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59.
Tal pietra per di fuori è calamita,
E ripiena di fuoco artifiziato.
Ormai arriva il toro, ed alla vita
Con un lancio mi vien tutto infuriato:
Ma perchè dietro al masso ero fuggita,
Il ribaldo riman quivi scaciato70;
Chè in esso dando la ferrata testa,
In quella calamita affisso resta.
60.
Sfavilla il masso al batter dell’acciaro,
E dà fuoco al rigiro71 ch’è nascosto;
Ed egli, a’ razzi ch’allor ne scapparo,
Un colpo fatto aver vede a suo costo,
Perchè non vi fu scampo nè riparo
Ch’ei tra le fiamme non si muoia arrosto.
Ed io, scansato il fuoco e ogni altro affronto,
Lieta mi parto e tiro innanzi il conto72.
61.
Più là ritrovo un grand’uccel grifone,
E topi assai che giran come pazzi,
Perch’egli, entrato in lor conversazione,
Gli becca, graffia e ne fa mille strazzi.
Di lor mi venne gran compassïone,
E vo per ovviar ch’ei non gli ammazzi;
Ma quei mi sente al moto, e in piè si rizza,
E per cavarsi vien con me la stizza.

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62.
Questo animale ha il busto di cavallo,
Di bue la coda, e in sulle spalle ha l’ale;
Il capo e il collo giusto come il gallo,
E i piè di nibbio vero e naturale;
Gli artigli di fortissimo metallo,
Grandi, grossi e adunchi in modo tale,
Che non vedesti, quando leggi o scrivi,
Mai de’ tuo’ dì i più bei interrogativi.
63.
Son appuntati poi, che a far più acuto
Un ago altrui darebbe delle brighe;
Talchè, se al viso fossemi venuto,
Con essi mi lasciava assai più righe
D’un libro di maestro di liuto
E d’una stamperia di falsarighe,
Con farmi a liste come le gratelle,
Da cuocervi le triglie e le sardelle.
64.
Or per tornare: in quel ch’io ho timore
Che ’l mio grifo sia scherzo del grifone,
La castagna, ch’i’ho in tasca, caccio fuore,
La rompo, e n’esce subito un lione,
Che mi scemò non poco il batticuore;
Perch’egli in mia difesa a lui s’oppone,
E mostrògli or coll’ugna ed or co’ denti,
In che mo’ si gastigan gl’insolenti.

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65.
L’uccello anch’egli, che non ha paura,
Gli rende molto ben tre pan per coppia;
Ma quel, che aver del suo nulla si cura,
Il contraccambio subito raddoppia;
E ben ch’ei voglia star seco alla dura,
L’afferra e stringe tanto, ch’egli scoppia;
Di poi garbatamente gli riseca
Gli stinchi su’ nodelli e me gli reca.
66.
Metto uno strido, e mi ritiro in dreto,
Io, c’ho paura allor, ch’ei non m’ingoi;
Ma quegli, ch’è un lione il più discreto
Che mai vedesse il mondo o prima o poi,
Ciò conoscendo, tutto mansueto
Gli lascia in terra, e va pe’ fatti suoi.
Ed io gli prendo allora, essendo certa
D’averne aver bisogno in sì grand’erta;
67.
Là dove non si può tenere i piedi,
Ma bisogna che l’uom vada carponi.
Perciò con quegli uncini poi mi diedi
A costeggiar il monte brancoloni:
E convenne talor farsi da piedi,
Battendo giù di grandi stramazzoni,
Perchè non v’è dove fermare il passo;
Cagion, che spesso mi trovai da basso.

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68.
Tutti quei topi via ne vengon ratti,
E furon per mangiarmi dalla festa;
Perocchè dalle granfie io gli ho sottratti
Di quella bestia a lor tanto molesta.
Così vo rampicando come i gatti
Sull’aspro monte dietro alla lor pesta,
Sopportando fatiche, stenti e guai,
E fame e sete quanto si può mai.
69.
Pur finalmente in capo a due altr’anni
Giungemmo al luogo tanto desiato.
Ma non finiron qui mica gli affanni,
Perchè di muro il tutto è circondato;
E qui s’aggiunge ancor male a malanni,
Ch’io trovo l’uscio, ma ’l trovo diacciato73.
Pensa se allor mi venne la rapina74,
E s’io dicevo75 della violina.
70.
Ora tu sentirai, che ’l dare aiuto
A tutti quanti sempre si conviene;
Perchè giammai quel tempo s’è perduto,
Che s’è impiegato in far altrui del bene.
Non dico sol all’uomo, ma anche a un bruto
Che forse immondo e inutile si tiene,
E che tu non lo stimi anche una chiosa76;
Perocch’ognuno è buono a qualche cosa.

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71.
Se tu giovi al compagno, allor tu fai
(Quasi gli presti roba) un capitale;
Anzi talor, per poco che gli dài,
Ti rende più sei volte che non vale.
Ma non si dee ciò pretender mai,
Perch’ell’è cosa che starebbe male;
Questo è un censo, il quale a chi lo prende
Richieder non si può, s’ei non lo rende.
72.
Guarda s’ell’è così: io, per la mia
Pietà di prender di quei topi cura,
Da lor vinta restai di cortesia
E n’ebbi la pariglia coll’usura;
Perocchè in questa zezza ricadía77,
Ch’io ho d’aver trovata clausura,
Eglino tutti sul cancel saliro
E si fermaro, ove è la toppa, in giro.
73.
E gli denti appiccando a quel legname
Come se ’n bocca avessero un trapáno,
Presto presto vi fecero un forame,
Da porre il fiasco78 e vendere il trebbiano;
Talchè, in terra cascando ogni serrame,
Spalanco l’uscio di mia propria mano
E passo dentro, e resto pur confusa,
Perch’ancor quivi è un’altra porta chiusa.

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74.
Ma parve giusto come bere un uovo
A’ topi farvi il consueto foro.
E dopo questa a un’altra, e poi di nuovo
Infino a sette fanno quel lavoro;
Quando fra verdi mirti mi ritrovo,
Che fan corona a una cassa d’oro,
Ch’è a piè d’un tempio ch’è dipinto a graffio79,
E a prima faccia tien quest’epitaffio:
75.
Cupído Amor, che tanti ha sbolzonato,
Bersaglio qui si giace della morte:
Ei, ch’era fuoco, il naso ora ha gelato,
Se i cuor legò, prigione è in queste porte.
Hallo trafitto, morto e sotterrato
Quella cicala della sua consorte;
Nè sorgerà, se pria colma di pianto
Non sarà l’urna che gli è qui da canto.
76.
Non ti vo’ dire adesso, se in quel caso
Mi diventaron gli occhi due fontane,
E feci come chi s’è rotto il naso,
Che versa il sangue e corre al lavamane.
Così cors’io a piangere a quel vaso,
Durando a lagrimar sei settimane;
E per aver quel più voglia di piagnere
Mi diedi pugna sì, ch’io m’ebbi a infragnere.

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77.
Quando veddi ch’egli era poco meno
In su che all’orlo ed esser a buon porto,
Volli, innanzi ch’e’ fosse affatto pieno
E che ’l marito mio fosse risorto,
Lavarmi il viso e rassettarmi il seno,
Acciò sì lorda non m’avesse scorto.
Perciò mi parto, e cerco se in quel monte
Per avventura fosse qualche fonte.
78.
In quel ch’io m’allontano, com’io dico,
Martinazza, che era in Stregheria,
Passò di là portata dal nimico80,
Chè non potette star per altra via;
E perchè sempre fu suo modo antico
Di far per tutto a alcun qualche angherìa,
Lesse il pitaffio, squadrò l’urna, e tenne
Che lì fosse da farne una solenne.
79.
Se qua, dice fra sè, Cupído dorme,
Vo’ risvegliarlo, per veder un tratto
S’egli è come si dice, e se conforme
A quel che da’ pittori vien ritratto;
Sebben chi lo fa bello, e chi deforme:
Basta; mi chiarirò com’egli è fatto.
Per questo ad empier mettesi quel vaso,
A cui poco mancava ad esser raso.

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80.
Coll’animo di piagner vi s’arreca;
Ma ponza ponza81, lagrima non getta:
Si prova a far cipiglio e bocca bieca82,
Nè men questa è però buona ricetta.
Al fin si pone a un fumo che l’accieca,
Sicchè per forza a piangere è costretta;
Onde la pila in mezzo quarto d’ora
Restò colma, e Cupído scappò fuora.
81.
Quand’ella verso lui voltò le ciglia,
E vedde quella sua bella figura
Disposta e grazïosa a maraviglia
Che più non si può far ’n una pittura,
Gli s’avventa di subito e lo piglia;
E senza ricercar della cattura83,
Da’ suo’ staffieri tenebrosi e bui
Portar se ne fa via con esso lui.
82.
Fermossi a Malmantile, e per marito
Lo volle, e già le nozze han celebrate.
Come sai tu, dirai, tutto il seguìto?
Lo so, chè me lo dissero le Fate,
Quelle che mi donâr quel ch’hai sentito;
Che in due aquile essendo trasformate,
Perchè lassù i’ facea degli sbavigli,
M’han trasportata qua ne’ loro artigli.

Note

  1. St. 1. Martorello. Dimin. di martire.
  2. St. 4. Anzi. ecc. Anzi come bestia ch’egli è, la scaccia.
  3. A questo conto. Per questa cagione.
  4. Perlone è l’autore.
  5. St. 5. A nolo, perchè la sera Febo se ne spoglia ed è costretto di renderlo.
  6. St. 6. Portante è un certo andare dei cavalli. Qui, moto.
  7. St. 7. Girellaio. Stravagante, a cui gira molto il cervello.
  8. Asciutto. Magrezza.
  9. Fuscellini. Sottilissime gambe.
  10. Romito de' Pulcini.Un romito così detto dai molti pulcini che allevava. Essendo egli morto da un pezzo, quel saio che gli era appartenuto, doveva essere assai logoro.
  11. Mazzocchio. Parte del cappuccio; qui, capo. Il senso ascoso di questi due versi è spiegato dal seguente emistichio.
  12. Dà nfuora. Viene alla cute; si fa scorgere con pazzie di nuovo genere.
  13. St. 8. I suoi mesi. Le sue lune, i suoi venerdì: frasi usate per dire che uno ha poco giudizio.
  14. Far marina. Brontolare, strepitare.
  15. Scesi. Assisi (Scendere,
  16. Mal della gallina. Pipita (appipito, appetito).
  17. Struzzoli. È nota la voracità di questi animali.
  18. St. 9. Rulli. Nel giuoco dei rulli, ciascun rullo o rocchetto ha un numero, eccetto uno, che dicesi il Matto.
  19. A testa. Con quanto n’ha in gola.
  20. La lunga. È un certo suono prolungato di campana. Qui forse si vuol fare il bisticcio con l’altro modo: Far allungare il collo, che dicesi di chi ci fa aspettare per andare a pranzo all’ora stabilita.
  21. St. 10. Ceffautti. Brutti ceffi.
  22. Sgabelli. Di pittore dappoco sogliamo dire: Pittore da boccali, Pittore da sgabelli.
  23. St. 12. Incaca. Disgrada, ha in tasca.
  24. Spade, Baston ecc. Semi di carte da giuoco, corrispondenti a Fiori, Picche, Cuori, e Quadri.
  25. St. 13. Ciò. Queste notizie intorno a Perlone.
  26. Franco Vicerosa. Francesco Rovai ebbe veramente le virtù che qui gli si danno.
  27. St. 14. Salvo Rosata. Salvator Rosa, amicissimo del Lippi, è pittore e poeta più celebre del Rovai.
  28. Coviel Patacca. Con questo nome il Rosa recitava da Napoletano.
  29. St. 15. Minchionan la fiera o la Mattea, vale semplicemente minchionare, canzonare.
  30. Punto di sale.
  31. L'appigionasi, come a casa vuota di abitatori.
  32. St. 16. Si getta via. Si dispera.
  33. Bietolon mal cotto. Uomo sciocco.
  34. St. 17. Piloto. Poltrone.
  35. Boto. Voti. Immaginette che si mettono intorno ad altre immagini di Santi e Madonne, per grazie ricevute.
  36. St. 18. Aver scorso. ecc. Aver data la volta al cervello.
  37. St. 19. Stivalata. In procinto, pronta alla partenza.
  38. St. 20. Tirar le cuoia. ecc. Morire, ed esser sotterrato sotto a un pino; per un albero qualunque.
  39. St. 21. Cordovano è una sorta di pelle.
  40. Spinge ecc. Questo e il primo verso della Stanza sono del Tasso, là dove ci descrive la pietosa morte di Clorinda.
  41. St. 22. Allupare. Avere una fame da lupi.
  42. Mi s'aguzza ecc. Mi cresce la fame, quasi mi si aguzzassero le macini del cibo, i denti.
  43. St. 23. Va' a dir. Ben s’inganna chi crede che ecc.
  44. Salvino andava a letto senza
  45. cenare. — Oh ser Isac ecc. Era opinione volgare che gli Ebrei nel seppellire ì morti mettesser loro accanto del cibo.
  46. St. 24 Compagni. Parla a’ morti.
  47. Se il ciel. Così il ciel vi dia ecc.
  48. Buzzo. Ventre.
  49. . Far di nero. Mangiar di magro.
  50. St. 25 Zuppa o suppa. Pane intriso nel vino.
  51. St. 26 Il Nanni ecc. Il buffone e il semplice, il goffo.
  52. Con l'ulivo. Pazzie solenni. Rami d’ulivo si portano nelle grandi solennità.
  53. St. 28 Menar l'agresto. È modo basso per dire, perdere il tempo.
  54. St. 30 Pastricciano. Uomo di buona pasta.
  55. Bratti ecc. Più che un nome proprio, questo pare che sia un nome comune, corrotto da, Baratta ferri vecchi.
  56. St. 31 Cioppa. Sorta di gonnella.
  57. St. 36 Lanzi. Fanti di lancia, altrimenti detti Trabanti. (Salvini.)
  58. St. 37 Vacca Trentina. Così chiamiamo certe donnicciuole poco oneste. (Minucci.)
  59. St. 37 Peziente, ora pezzente.
  60. In canna, cioè Quanto una canna, che è priva e vota d’ogni sostanza, non tanto fuori, che dentro. (Biscioni)
  61. Fàtti capanna. Diventa capacissimo, sì che si possa insaccar sempre.
  62. St. 40. Dimenar le dita ecc. Lavorare, per mangiar come lupi.
  63. St. 42. Partito vinto. Determinazione presa irrevocabilmente.
  64. St. 43. Per nemmen. Anche solo a sentir me che lo nomini.
  65. St. 44. Il Bartoli, Cosimo, fu un reputato ingegnere.
  66. St. 52. S'egli è in valigia. Se è in collera.
  67. Comprare il porco. Andarsene senza dire addio, come fa chi, nel comprare, inganna il venditore; che se ne va subito, per paura di essere richiamato a rivedere i conti.
  68. St. 56. Smannoro: Si dovrebbe dire Ormannoro. Campi Ormannorum, erano certe pianure vicine a Firenze possedute dagli Ormanni.
  69. St. 57. A rivederci ecc. È il saluto di congedo attribuito alle volpi, di cui si dice che tutte finiscono in pellicceria.
  70. St. 59. Scaciato. Scornato, deluso.
  71. St. 60. Rigiro. Il fuoco artifiziato.
  72. Il conto. Questa parola non aggiunge nulla al tirare innanzi; ma, dice il Minucci, l’uso nato da quei che tengono i libri di debitori e creditori, ci obbliga a dir così.
  73. St. 69. Diacciato qui vale serrato. Vedi c. III, 3.
  74. Rapina. Rabina, rabbia
  75. Dicevo. ecc. Brontolavo imprecando.
  76. St. 70. Chiosa. Punto, iota, acca.
  77. St. 72. Zezza ricadía. Ultima noia, molestia.
  78. St. 73. Pôrre il fiasco Vedi c. I, 76. Ma qui credo che pôrre sia contratto da porgere e non da ponere. Di questi forami o finestrini da porgere il fiasco a chi va a comprare il trebbiano (vino qualunque) dai privati, se ne vede ancora moltissimi nelle case e fin nei palazzi di Firenze.
  79. St. 74. A sgraffio o graffito si dipinge con un ferro acuto nell’intonacatura fresca dei muri.
  80. St. 78. Dal nemico ecc. Portataci dal diavolo; chè in altro modo non ci sarebbe potuta venire.
  81. St. 80. Ponzare è una forza che si fa in sè medesimo, ritenendo il fiato, quasi riducendo tutto lo sforzo in un punto, come fanno le donne quando mandano fuora il parto. È corrotta dal buon toscano pontare. (Minucci.)
  82. - Bocca bieca. Bocca storta; come fanno i bambini, quando sono per dare in uno scoppio di pianto; il che in qualche luogo d’Italia dicesi Fare il pizzo.
  83. St. 81. Cattura. Qui, La somma di danaro che competeva al birro o birri che avean pigliato qualcuno.