Opere latine minori (Boccaccio)/Nota/Carminum quae supersunt
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Il Bocc. scrisse senza dubbio un numero maggiore di poesie latine di quante da me furono potute rintracciare e raccogliere; non saprei dire tuttavia se i suoi contemporanei ne conoscessero molte piú di noi. Espressioni generiche come quelle usate da Filippo Villani nella sua biografia del poeta1 non permettono di renderci conto di ciò. Comunque, oltre ai pochi carmi autentici che sopravvissero2, ce ne fu naturalmente anche qualcuno che venne ascritto al Nostro senza ragione3. Apocrifi sono, infatti, con tutta certezza i due che cominciano:
1) Quando erit obscuri laribus contentus Amicle, interposto nel ms. H VI 123 della Comunale di Siena tra le epistole XV e XVIII del Bocc. col titolo Carmina domini Iohannis (c. 122 r), e di lì pubblicato per inedito e genuino dall’Hortis4; anche ultimamente gli attribuí incerta autenticitá il Wilkins5, a cui sfuggiva come sin dal 1911 il Bertalot avesse osservato6 che si tratta di un carme del Petrarca accolto giá dal Rossetti nella sua edizione su ottimi fondamenti7;
2) Fel laberintine case tibi mitto, Benigne, adespota nel ms. 939 della biblioteca pubblica di Cambrai (c. 170 v) e che a nessuno sarebbe passato per la mente di attribuire al Bocc. se in un’autorevole opera di bibliografia non si leggesse, dopo l’enunciato del titolo e il capoverso, quest’affermazione categorica: «Sans doute de Boccace»8; invece si tratta in realtá di una miserabile poesia ritmica rimata, che risalirá sí e no al secolo XIII.Non esito a mandare in ischiera con questi due il carme elegiaco Tu qui secura procedis mente parumper, che vuole per sé piú lungo discorso. È esso in uno degli zibaldoni autografi boccacceschi, il celebre Laurenziano XXIX 8 (ZL), a c. 60 r-v, dove apparisce diviso in tre parti precedute rispettivamente da queste intitolazioni: Verba puelle sepulte ad transeuntem, Verba transeuntis ad puellam sepultam e Responsio puelle sepulte iuveni conquerenti (la «fanciulla sepolta» risulta essersi chiamata Costanza ed essere stata napoletana). Fu stampato come del Bocc. dall’Hortis9, ma l’editore non si accorse della vera natura di questi versi: i quali, lungi dall’essere originali, sono una mera parafrasi del celebre epitafio latino di Homonœa10. Ciò fu avvertito dal Sabbadini11, che per altro reputò autentiche le tre elegie; esse sarebbero cosí il «piú antico saggio poetico» del Certaldese. Ammisero anche la genuinitá, senza per altro approfondire in modo speciale la questione, l’Hauvette e il Torraca12; la negarono il Novati e lo Zabughin13; non si pronunziò il Wilkins14. In realtá, prescindendo dal contenuto, che non offre nessuna indicazione utile per risolvere il dibattito, contro la paternitá boccaccesca si oppone un valido argomento: a differenza di tutti quanti gli altri scritti autentici conservati in numero di otto dal Laurenziano citato, queste elegie non mostrano né in testa né in fondo il nome del presunto autore, e non presentano tracce o indizi qualsiasi di aver mai recato una simile indicazione15. D’altra parte, a Napoli nel quarto decennio del Trecento e nell’ambiente letterario che il Bocc. frequentava e che il Torraca stesso cosí dottamente illustrò, dovevano considerarsi vecchiumi giá superati quei ritmi a base dattilica, anche per un esordiente che venisse componendo «un’esercitazione giovanile»; onde a ragione lo Zabughin li giudicò «assai anteriori».
A nessuna autoritá fuori che ad una vaga tradizione si appoggiò l’asserto che il Nostro fosse autore dell’epitafio apposto in Santa Croce di Firenze ai giuristi messer Francesco e messer Filippo da Barberino, padre e figlio, morti a pochi giorni di distanza nel 1348 (inc. Inclita plange tuos lacrimis, Florentia, cives)16. Stilisticamente in quei dodici esametri non è nulla di boccaccesco, ed in mancanza di ogni altro argomento ponderabile io non reputerò imprudente respingerli17.
Passiamo adesso senz’altro ai carmi autentici.
I. — È conservato in trascrizione autografa nel ricordato ms. ZL (c. 56 r); ivi ai versi precede una didascalia intesa a dare notizia dell’autore e del destinatario, e che fu presumibilmente di questo tenore: [Iohannes de Certaldo Che]cco de Milecto, ma le prime tre parole e meta della quarta furono poi diligentemente abrase, e della quarta stessa le ultime lettere si scorgono appena come un’ombra18. Il carme fu stampato con qualche sbaglio dall’Hortis19. Nell’originale si osservano le solite manifestazioni dell’incontentabilitá rifacitrice del poeta: le parole raucum 16 e deos iam cantat vertice sistro 28 appaiono rescritte su rasura. Quanto alla mia stampa, riproduce scrupolosamente il ms. (per pochi lievissimi ritocchi ortografici, cfr. qui oltre, p. 293, n. 6).
Al carme segue in ZL la risposta dell’umanista forlivese, che fu anche data in luce dall’Hortis20, e che io stimo opportuno riportare in guisa d’appendice prima di passare oltre, tanto più che la riproduzione non sará, al solito, senza vantaggio21.
Iam medium lucis contingere lumine fulvo,
gadibus et Phebum distare videbat eois
Meris, ab occiduo semotus gurgite quantum
stabat, et alipedes calcabant cursibus austrum;
nulla tamen operosa fuit pars lapsa diei: 5
non frondes capris, ovibus non gramina leta,
non puros querulo labentes murmure rivos
monstrarat pastor, fetus teneri sed amore
captus adit ramos silvestria poma ferentes,
inde legens quecunque suo plus grata sapore 10
fallitur et placidi consumit temporis horas.
Mox, ubi concepit quantum post terga relictum est
solis, in hec dignas effudit verba querelas:
— O demens, o mente levis, quid, credule Meri,
credule, quid blandis donas felicius evum 15
rebus, et ad sanas non retrahis otia curas?
Cur non ipse gregem per mollia prata vagantem
colligis ac numerum pecoris sub colle recenses,
errantemque regis dextra inherente bacillo?
Vel, si forte iuvat levibus resonare cicutis, 20
incipe, nam maior voluit licuisse Menalcas!
Fistula tunc placidum conflabit eburnea carmen;
testor Pana tamen driadasque et numina ruris,
nil minus in pretio quam blandos condere versus.
Sint michi dii testes Museque Elicona colentes, 25
sit quoque Parnasus, deserte sint Aganippe,
olim que nostros recolunt eguisse poetas;
nunc quoque nec suadet celum nec frigida Phebe
pastorum modulos, spondet minus umbra quietem.
Uritur omnis ager, sed habent incendia mundum, 30
aspice, nam minimas contraxit populus umbras;
nonne canes, tremulis lambentes ecthera linguis,
stagna lacusque petunt et siccis faucibus ardent,
et sitis implacata magis quo plurima potant?
Et quondam virides squalent in pulvere frondes, 35
mirtus cum lauris edera ac, que nexibus ambit
arboreum corpus, solitum posuere decorem.
Consonat hinc multa raucum nemus omne cicada;
sibila dant pavide milvi per inane volucres,
et male que false usa est commertia lingue 40
ales, cum nigrum traxit per membra colorem,
inmemor exercet mendacia guctura pene,
per quis eque suas certatim reddere voces
molitur cetus discordi garulus ore.
Omnia nunc varios confundunt murmura versus; 45
quid, si igitur cantes? quid, si canat ipse Menalcas?
quis operis fructus? Nullas mulcebitis aures,
irrita sed potius tradetis carmina ventis. —
Talia dicta dedit Meris, curri forte Menalcas
adveniens subito dextram comprendit amici, 50
sic referens: — Quando nulla est modo gloria Musis,
cedamus, saltusque ultro repetamus amenos,
pabula qua nivei tondent armenta coloris. —
Ille minor sequitur componens fronte galerum;
leva tenet virgam raptam de stipite querno. 55
Dum simul incedunt, dum verba licentia dicunt,
hunc incepta vocat silvestri vigmine septa;
alter abit multam cererem prebere colonis22.
II. — Al carme responsivo del Rossi tien dietro immediatamente in ZL (cc. 56 v-59 r) quest’altro componimento, che s’intitola: Egloga Iohannis [de Certaldo] cui nomen Faunus incipit23. Esso ha purtroppo avuto molto a soffrire per colpa dell’ umiditá, che fece stingere l’inchiostro, specialmente nelle cc. 57 v e 58 r24, tanto che l’Hauvette, il quale fu il primo ad accorgersi delle differenze considerevoli che intercedono tra questo carme e l’egl. III, dovette limitarsi, nello stamparlo, a lasciare apparire piú o meno lacunosi ben quindici versi di cui la lettura integrale gli era riuscita impossibile, ed in una sessantina circa d’altri versi a chiudere tra uncini le restituzioni di parole ed elementi che gli erano parse sicure25. Piú tardi quasi tutte le lacune furono colmate dal Sabbadini con l’aiuto della riproduzione fototipica26; nei due soli luoghi in cui la reintegrazione non fu tentata da lui, mi sono permesso io un supplemento congetturale (spirant 66, profuerit 72), cosí che in questo volume il testo apparisce per ogni sua parte compiuto; probabile ma non certa è anche la lettura Quid 6927.
La stampa dell’Hauvette è diplomatica, ed in complesso abbastanza esatta28. La mia è fedelissima, pur non rinunziando ad uniformare poche grafie incongruenti ed a correggere altre poche meno accettabili29; introduce anche una modesta ma plausibile correzione, habebat 4 in luogo di habebant30. Un’altra si può credere giá voluta ed eseguita dallo stesso Bocc., quando, dopo aver dato in due luoghi a greges un aggettivo di genere femminile, si rese conto della svista (Niveos 98 corr. da Niveas, gratosque 125 da gratasque).
Altri scorse acutamente che questo carme bucolico sta in rapporto strettissimo con la risposta di Checco Rossi al I del Nostro; esso è dunque come una replica di costui ai versi dell’amico forlivese31. Piú tardi, con importanti rimaneggiamenti ed una considerevole diminuzione del numero dei versi, che da 186 diventarono 128, passò come egl. III a far parte del Bucc. carmen, conservando sempre lo stesso titolo (qui, p. 12 sgg.). La corrispondenza poetica costituita dalle tre composizioni si deve ascrivere agli anni 1347-’48.
III. — Fu composto per accompagnare un esemplare del poema dell’Alighieri destinato in dono al Petrarca, ed infatti il donatore lo fece trascrivere appunto nel riguardo del prezioso volume, Vaticano lat. 3199. Questa è la prima redazione del carme; qualche anno piú tardi il Bocc. vi tornò sopra, e, introdottavi una variazione sostanziale e due ritocchi formali, lo ricopiò di proprio pugno in un corpus di scritti danteschi oggi perduto, da cui la poesia fu trascritta sui primi del Quattrocento nel ms. Palatino 323 della Nazionale Centrale di Firenze ed altrove32; un’ulteriore replica del corpus predetto, ancora di mano del Bocc., si ha nel Chigiano L V 176 (Ch).
Le stampe riprodussero, quale la prima redazione33, quale la seconda e definitiva34; quest’ultima, naturalmente, è stata da me accolta, e sul fondamento di Ch (c. 34 r), che dá la lezione più genuina35. Quanto alla redazione originaria, essa differiva dall’altra unicamente in ciò, che al v. 9 ebbe metris, mutato poi in metrum con lieve modificazione del senso; ai vv. 20-21 presentò forma e concetto sostanzialmente diversi,
factusque fere est par gloria gentis, |
Il carme fu composto con ogni probabilitá tra l’estate del 1351 ed il maggio del ’53, tempo dell’ultimo soggiorno avignonese del Petrarca, e fu rielaborato poi nel 1359; ambedue le volte fu inviato al destinatario: la prima nella trascrizione fattane dentro il volume dantesco36, la seconda insieme con un’epistola oggi smarrita, alla quale ultima, oltre che ai versi, rispose il Petrarca con la sua Fam. XXI 1537.
IV. — Dal ms. Laurenziano Gaddiano Rel. 75, della seconda metá del Trecento, di mano d’Agnolo di Torino Bencivenni, che fu coetaneo ed amico del Bocc.38 ed al quale appartengono gli scritti, tutti volgari, contenuti nel libro39. Il Bencivenni registrò nel verso della guardia membranacea anteriore40 l’epitafio del Nostro con l’aggiunta del Salutati41, poi l’epitafio del Petrarca ed infine l’epigramma boccaccesco, cui premise il nome dell’autore (dominus Ioannes Boccacci) ed appose a guisa di spiegazione la postilla «a domino arciepiscopo mediolan. missus ex parte Communis Florentie leo fiorentino», che dal latino approssimativo del pio popolano trasferita in piú corretta forma vorrá suonare: «ad dominum archiepiscopum mediolanensem missus ex parte Comm. Flor. [pro] leone fiorentino». Inedito.
V. — Secondo l’unico apografo conosciuto, Vatic. lat. 5223 (V), dov’è accompagnato dal titolo Responsiva; questo prende significato dal corrispettivo Missiva segnato in testa al carme precedente, al quale è apposto l’indirizzo «Sapienti ac facundissimo viro domino Iohanni Boccatii de Florentia egregio Pyeridum cultori fratrique carissimo». Di su V le due epistole furon trascritte nel secolo XVIII da mons. P. A. Tioli nelle sue miscellanee erudite ora esistenti nella Biblioteca Universitaria di Bologna, e di qui furono tratte in luce da C. Frati nel 188842; la sola missiva di Zanobi era stata prima stampata dall’Hortis sui due mss. Laurenziano Rediano 155 (giá 187) e New College 262 di Oxford43.
La lezione di V (cc. 69 v-70 v) è discretamente scorretta, quantunque il codice possa credersi fatto mettere insieme da Donato Albanzani, l’amico al quale il Bocc. dedicò poi il Bucc. carm. e che forse aveva da lui avuto direttamente in comunicazione le due epistole44. Tralasciando alcune minuzie ortografiche (vicisim 33, narare 35 e discurere 48, ticinni 45, chors 52, Boccatii nella firma, ed anche vinctusque 25 e vincique 31), richiesero l’intervento della critica i passi seguenti: invicta 3, ms. in uita; Faciant 10, ms. Faciunt; dicis 36, ms. ducis; degere 38, ms. decere; desunt 39, ms. desint; surgeret 47, ms. surgent; cuncta 48, ms. vincta45; sumpta 49, ms. sumpto; aut 50, ms. at; peneide 52, ms. peucide; fonte 54, ms. fronte. Il primo e l’ultimo emendamento spettano al Frati; egli mutò anche Faciunt del v. 10 e decere del v. 38 in faciat e dicere, e volle correggere at del v. 50, ma in modo da far perdere la misura al dattilo46. Invece peneide 52 fu proposto dal Torraca47; quanto al v. 63, che nel ms. si legge sfornito di quel michi, la restituzione, necessaria per dar la misura all’esametro e perché compie il senso di affuit, è mia.
Se per la risposta V è il solo apografo a noi pervenuto, la missiva si trova anche negli altri due testi a penna adoperati dall’Hortis48: essi, per una certa lezione in cui concordano tra loro e differiscono da V, sembrano costituire una tradizione indipendente, che però non oserei dire posteriore né migliore49; per questa ragione non ritengo opportuno, nel riprodurre qui il carme dello Stradino, scostarmi da V.
Quid faciam, que vita michi postquam omine claro
cinsit apollinea Cesar de fronde capillos,
scire cupis? Calet ingenium, mea cura libelli:
totaque cum priscis, sterilis quos despicit etas,
vivendi mens fixa viris; nec vulgus et omne 5
quod placeat populis sanctum hoc a mente revellent
propositum. Quotiens mundi laberintus et error
perculerint animum, sacrorum premia vatum
aspiciam concessa michi: mea laurea semper,
ante oculos michi Cesar erit procerumque corona 10
et que cesareo venerunt oscula ab ore,
anulus ac digito iam desponsata poesis.
In varias tamen huc illuc mens nescia curas
vertitur, unde chelim tendat calamumque liramque
temperet, ut longo vigilentur carmine noctes. 15
Nunc paces, nunc bella placent, nunc inclita regum
gesta quibus magne servando est gloria fame;
nunc nova, nunc veterum menti proponitur ordo.
Nescio quid faciam. Nova sordent; prisca, tenebris
obsita, difficile est in lucem vertere: tandem 20
huc magis inclinor, namque antiquissima facta
nec modo gesta canam: medium dabis, optima Clio,
dum meminisse velis humeris digna onera nostris
que fuerint. Ceptoque operi ne viribus impar
deficiam, tu, diva, novo succurrere vati 25
incipias et fonte sacro, dea, perlue pectus.
Caliope similesque una de stirpe sorores,
annuite: in paucos vobis hic forte futurus
est labor, et rari vos in sua regna vocabunt.
Tu modo, si cepti placeat sententia vel si 30
est aliud, nam multa vides. Melioribus utar
consiliis. Tu lora potes sive addere calcar:
miliciam ingenti quocunque in pulvere letus
experiar, seu tu dederis seu cepta probaris,
unde per ora virûm quicunque hic transeat autor. 35
Vale. In Sancto Germano germanis obsesso, quinto ydus octubris.
Tuus ut suus Zenobius de Florentia laureatus immeritus50.
La data apposta a questa epistola la rivela composta, o compiuta, l’11 ottobre del 1355; la responsiva sará di qualche tempo posteriore, e propriamente della fine di quest’anno, se pure non addirittura del principio del 1356. Per la storia esterna della corrispondenza va segnalato come di recente uno studioso abbia sostenuto l’opinione che la missiva sia stata diretta non al Bocc. ma al Petrarca, e del Petrarca non del Bocc. sia la risposta51; ma la testimonianza unanime della tradizione manoscritta ed altre ragioni di fatto obbligano a contrastare come speciosa ed inconsistente ogni argomentazione in contrario52.
VI. — Il grosso lacerto superstite di un altro corpus dantesco ancora di pugno del Bocc., il Riccardiano 1035, contiene, al termine della Comedia, scritto in guisa di explicit e rubricato (c. 178 r), questo tetrastico, ch’è probabilmente posteriore alla crisi di coscienza del 136253. Fu giá stampato, ma senza che se ne riconoscesse l’autore54.
VII. — Due codici hanno conservato a noi quest’importante carme, la cui autenticitá è stata ultimamente rivendicata contro i dubbi d’una critica tratta in inganno soprattutto dall’essersi fidata d’un testo assai difettoso55: colpa delle stampe che s’ebbero sin qui. Queste si riducono in sostanza ad una sola: quella che sul fondamento del ms. Marciano lat. XIV 223 (M) diede nel 1834 D. de’ Rossetti in appendice al vol. III dei Poëmata minora quae extant omnia del Petrarca da lui raccolti56; da essa procedono le ristampe del Pingaud57 e del Corazzini58. Ora M, pur non essendo quel mostruoso apografo che il Rossetti rappresentò59, è realmente assai poco corretto (basti dire che salta via del tutto i vv. 10 e 171!): ma per giunta fu letto male e riprodotto peggio, cosí che la lezione risultò per ogni sua parte infelice. Mette poi in evidenza la poca bontá di M il confronto col testo offerto dal ms. Bodleiano 558 di Oxford (O), da noi giá conosciuto60 e che fu esaminato da due dei maggiori boccaccisti del secolo scorso, senza per altro che ciò mutasse la sorte sventurata del componimento61. Su O, cc. 63 v-67 r62, è fondato il testo che, accolto nel presente volume, consentirá di giudicare quei versi in modo totalmente diverso da quello che fu possibile sin qui.
E tuttavia, non è stato lecito mettere M completamente da parte. Prima di tutto esso serve a correggere in qualche caso errori manifesti di O (non sono molti, ma ce ne sono: per esempio regis 82 manca in O ed è supplito da M; gravi e agros 47, memorans 84, avaritie 122 e differs 151 sono lezioni di M, contro a gravis e agris, memoras, avarite e differ di O; byrsea 164 non si caverebbe facilmente senza l’aiuto di M63 da birea di O, ridotto poi a biriea per l’aggiunta di un’i sopra il rigo); inoltre fornisce alcune rettifiche d’ortografia, la quale in O è un poco aliena dall’uso boccaccesco degli ultimi anni64 e può quindi ritenersi adattata alla sua propria dall’amanuense. Ma principalmente esso costituisce un controllo per il fatto che rappresenta una tradizione manoscritta diversa ed indipendente dall’altro testo, di che sono prova alcune lezioni sue speciali: ne rogis in luogo di non igni 74, supliciter orat in luogo di suplicanter adorat 111, Ne spreveris in luogo di Ne spernas 119, et lugubri in luogo di et tetro 147; lezioni, aggiungo, d’indubitabile genuinitá in quanto contengono errori di prosodia, ed errori al posto dei quali in O è subentrata la correzione65. Anche qui il Nostro aveva dunque dato fuori da prima il carme in una redazione meno elaborata, che piú tardi limò; ed è legittimo supporre che secondo tale redazione i versi siano stati originariamente trasmessi a Padova, poiché M è appunto un apografo d’origine padovana e fu scritto molto facilmente prima del 138966.
Invece O, di penna fiorentina, si può ritenere esemplato su una copia serbata dal poeta presso di sé, e nei margini della quale, con assiduitá pari a quella di cui scorgemmo le vestigia in un altro originale, il ms. R del Bucc. carmen, egli sarebbe andato, ulteriormente esercitando la sua opera di censore nel campo della quantitá delle sillabe. Vediamo infatti: nel testo di O, vv. 31 e 54, alle lezioni iam debiles e lacte nutrisse rispondono in margine le note alias fragiles e alias cibasse; ed osserviamo che dēbiles e nūtrisse sono incompatibili nelle due sedi finali del dattilo, mentre frăgiles e cĭbasse sono corretti. Che vorrá dunque dir ciò? Che il Bocc. nella prima redazione lasciò passare le forme errate (le quali sono anche in M), le accolse poi nella seconda redazione, e solo piú tardi, col mezzo del richiamo marginale, le surrogò67.
Debbo da ultimo avvertire di quattro correzioni da me introdotte nel testo. In luogo di concentum 60, O reca concentrum ed M invece conceptum: l’emendamento non par dubbio. OM leggono orchesta per orchestra 122. Il v. 153 presenta in O uno sbaglio di prosodia che non possiamo accettare come boccaccesco, poiché, leggendo pande precor aperique tuis, darebbe a precor la finale lunga (cfr. invece il secondo precor del v. 26); d’altra parte, M s’è mangiato un piede (pande tuis aperi); la lezione genuina verrá dallo scambiar di posto tuis e precor, che concilia insieme M con O. Finalmente ac letos 171 fu scritto in O da principio alectos, e poi la c fu espunta e non ricollocata al suo luogo; qui il confronto con M vien meno, visto che il verso è uno dei due che mancano a quel ms., ma la correzione è sicura egualmente.
Come s’è avvertito in precedenza, l’autenticitá dei Versus non è ormai piú sfiorata dal sospetto68. La loro composizione cadrá dentro l’ultimo anno della vita del poeta, poiché di essi non è parola dove il luogo parrebbe comportare almeno un accenno, vale a dire nell’epistola a Francesco di Brossano del 7 novembre 1374 (qui, p. 222 sgg.). Forse la poesia sará stata inviata appena buttata giú al genero stesso del Petrarca ovvero ad alcuno dei dotti padovani, per esempio a Lombardo della Seta, e quindi giá conosciuta a Padova nel frattempo che il Bocc. dedicava, si può dire, gli estremi suoi giorni all’infaticata revisione.
VIII. — Fu inciso sulla lastra tombale che coperse la sepoltura del Bocc. in mezzo al pavimento della canonica dei SS. Michele e Iacopo di Certaldo e che piú tardi fu spezzata ed andò in gran parte distrutta; l’iscrizione restò ben presto logorata dai piedi delle persone, ma sullo scorcio stesso del Trecento fu replicata in una lapidetta di forma quasi quadrata oggi affissa al muro della chiesa sotto al busto del poeta e ad un’altra memoria del 150369. In questa lapidetta da prima si presenta il tetrastico; la quinta riga dice: «Hec Iohannes Bocchaccius de se ipso»; segue nelle ultime tredici l’elogio dettato da Coluccio Salutati70. Nessun dubbio è possibile sulla veritá dell’affermazione che attribuisce al Bocc. l’epitafio71.
Abbiamo poi il ricordo di questi altri due carmi, oggi perduti72:
1) quello che fu inviato al Petrarca poco avanti ch’egli movesse alla volta di Firenze e di Roma, e quindi intorno alla metá del 1350: primo rapporto diretto tra l’ammiratore devoto ed il letterato giá famoso, il quale ultimo volle rispondere con una epistola metrica rimastaci (III 17), che fu a sua volta accompagnata da un’epistola in prosa (Fam., XI 2) del gennaio 1351. Da quest’ultima ricaviamo qualche indicazione sul contenuto della missiva boccaccesca: «Magnum tempus effluxit ex quo carmen tuum onustum querimoniis ad me venit; cuius, quantum meminisse valeo, summa erat quod, cum inter vulgares etiam profanosque crebra otii mei vulgarentur opuscula, tu unus, quo nemo rerum mearum appetentior, nemo ex eis solamen gratius percepturus, expers talium habereris»73;
2) quello inviato, presumibilmente da Ravenna e nel 1353, all’amico Checco Rossi, che rispose con una quarantina d’esametri, giunti questi sino a noi74, dai quali possiamo desumere che Menalca (come séguita ad essere chiamato pastoralmente il Bocc.) aveva trattato in forma bucolica un certo argomento, non meglio determinabile, per meritarsi l’approvazione di Bernardino da Polenta e, sembra, anche per rintuzzare una specie di provocazione poetica75.
- ↑ Nella I redazione cosí si esprime: «Edidit insuper... quamplures epistolas nexu vagas, et alias que librato pede procederent, non parvi apud peritos pretii», e poco diversamente nella II: «Edidit insuper... epistolas quamplures, aliquas nexu pedum ligatas, aliquas solutas et vagas, non parvi omnes pretii penes doctos» (cfr. Solerti, Le Vite di Dante, Petrarca e Bocc., p. 674 sg., e n. 1 a p. 675). Anche Giannozzo Manetti ricordò che il Bocc. «nonnullas etiam epistolas carminibus edidit» (ivi, p. 688).
- ↑ In un recente saggio bibliografico E. H. Wilkins non ne indica che tre, ai quali possiamo dare per quarto quello ch’egli chiamò «earlier form of Eclogue III», ossia il II degli otto da me raccolti (cfr. An introductory Boccaccio bibliography, nel Philological Quarterly, VI [1927], pp. 117-8).
- ↑ Presso il Narducci (Di un Catalogo cit., p. 11) si trova registrato anche un Carmen de passione Christi, titolo che potrebbe far pensare ad un carme latino; si tratta invece dell’insulso poemetto O increata maestá di Dio, malamente attribuito, com’è noto, al Bocc. e del quale non è da occuparci qui.
- ↑ Studj cit., pp. 350-1; cfr. anche p. 309.
- ↑ Art. cit., p. 120.
- ↑ Cfr. Zentralblatt für Bibliothekswesen, XXVIII, p. 76.
- ↑ Franc. Petrarchae Poemata minora quae extant omnia, II, p. 144. Nel ms. Laurenziano XC inf. 13, testo di grande autoritá, il carme è preceduto da questa didascalia: Hos versus misit dominus Franciscus Petrarca ad dominum Franciscum Bruni orantem cum ad reditum Avinionis; dopo l’ultimo verso segue, a mo’ di firma, «Franciscus Petrarca tuus». Cfr. anche il Laur. Strozziano 92, c. 22 v (Hos versus misit dominus Franciscus ad dominum Franciscum Bruni hortantem eum ut rediret ad unionem [l. Avinionem]).
- ↑ Cfr. il Catalogue général des mss. des bibliothèques publiques de France, Départ., XVII [1891], pp. 384-5. L’affermazione risale ad A. Molinier, autore dell’inventario dei mss. di Cambrai; egli senza dubbio fu tratto in errore dal titolo premesso al ritmo, Epistola directa notorio cuiusdam cardinalis Rome moranti, qui Benignus vocabatur, de promisso opere Laberinti. Evidentemente, si dev’essere corsi col pensiero al... Laberinto d’amore!
- ↑ Op. cit., pp. 353-6 (e cfr. pp. 311-4, 792). La terza parte, quattro distici, fu da lui tralasciata completamente.
- ↑ Cfr. CIL., VI, 11 [1882], n. 12652, p. 1556.
- ↑ Intorno allo Zibaldone boccaccesco, nel Giorn. stor., LXVI [1915], pp. 407-8.
- ↑ Hauvette, Boccace cit., p. 391, n. 4; Torraca, G. Bocc. a Napoli (estr. dall’Arch. stor. per le prov. napol., XXX), pp. 191-2.
- ↑ Novati, Giorn. stor., XXV, p. 424, n. 2 (ivi si promette di ritornare sull’argomento, ciò che non fu fatto mai); Zabughin, Vergilio nel Rinascim. ital., I, p. 87, n. 189. Ebbi anch’io ad esprimere la mia opinione contraria (Giorn. stor., LXV, p. 410, n. 9).
- ↑ Art. cit., p. 120.
- ↑ Mi riferisco ai carmi I e II, alle epistole I-IV e VI, ed al I tra gli Scripta breviora: tutte composizioni raccolte nel presente volume. Per le indicazioni sull’autore apposte in ZL a ciascuno scritto, cfr. qui, pp. 290, 292.
- ↑ Cfr. F. Bocchi, Le bellezze della cittá di Firenze, Firenze, 1677, p. 338: «credesi che l’Epitaffio... sia composizione del medesimo Boccaccio». Nell’edizione originale del libro del Bocchi (1591) il passo manca, e però si tratta di un’aggiunta introdotta da G. Cinelli, autore del rifacimento; «sulla costui asserzione alla corrente opinione appoggiata» riferí gli esametri il Manni (Ist. del Decam., pp. 28-9).
- ↑ L’Hortis non si espresse né prò né contro (op. cit., pp. 3or, n. 2, 514 e n. 3, 793); A. Thomas ricordò l’attribuzione, ma ammettendo che non se ne abbiano prove (Franc. da Barberino et la littérature provençale en Italie an moy. âge, Paris, 1883, p. 35); di fresco il Wilkins comprese l’epitafio tra le opere d’incerta autenticitá (art. cit., p. 120).
- ↑ Che la ricostruzione sia esatta, mostra la didascalia del carme responsivo, soggiunto nello stesso ms. (Respondet Checcus Iohanni: qui l’ultimo nome fu raschiato superficialmente ed è ancora leggibile). Secondo l’Hortis le abrasioni non risalgono al Bocc. ma ad un possessore cinquecentesco del volume, che volle sopprimere il nome di uno scrittore messo all’indice (p. 260, n. 2). Sulla rasura del carme boccaccesco una mano piú moderna (a me sembra del secolo XVII) sovrappose, forse seguendo i resti della scrittura precedente che ancora era visibile, Iohes de certaldo. Dal fatto che il Bandini (Catal. cit, II, col. 23) ascrisse il carme a Giovanni del Virgilio l’Hauvette (Notes cit. qui appresso, p. 107) volle inferire che queste parole non ci fossero al tempo del bibliotecario fiorentino, opinione che fu accolta dal Biagi ma che non persuade: il Bandini poté infatti non tenerne conto anche avendole sott’occhio, dato l’evidente carattere additizio di quell’integrazione. Per suo conto l’Hortis si limitò a riprodurre unicamente l’ultima parola della didascalia, e la lesse male (Mileto). Per la bibliografia di ZL va ricordato qui che l’Hauvette ne diede sin dal 1894 lo studio piú esauriente (Notes sur des mss. autographes de Boccace, nei Mélanges d’archéol. et d’histoire della Scuola Francese di Roma, XIV, p. 87 sgg.), e che le cc. 45 v-77 r, ossia la parte autografa del prezioso ms., furono di fresco riprodotte in fototipia per cura e con una prefazione di G. Biagi (Lo Zibaldone Boccaccesco Mediceo Laurenziano Plut. XXIX-8, Firenze, 1915).
- ↑ Pp. 351-2. Errori di lettura: quos (per quoque!) 21, quicunque (per quicquam!) 39, et (per eu) 40; per ciò ch’è dell’interpunzione, il punto fermo dopo arma 19 e capelle 25, e la virgola dopo stabant 26 e sistro 28 rivelano l’incomprensione dell’editore. Di valentis 20 la s finale è quasi illeggibile nel ms., e però l’Hortis stampò valenti.
- ↑ Pp. 352-3. Sfuggi all’editore che il carme del Rossi era stato stampato sin dal 1720 nel to. VI dei Carmina Illustrium poetarum italorum cit., pp. 315-6: non però da ZL, ma dall’altro Laurenziano XXXIX 26 egualmente a noi noto (L): in esso anche la parte contenente questo ed un altro carme del Rossi deriva, come sappiamo (qui, p. 623), da un originale boccaccesco.
- ↑ Scrivo comprendit 50 in luogo di comprehendit, per la quantitá, e correggo at in ac 36 e seque in eque 43: che saranno errori di trascrizione del Bocc. amanuense. L’Hortis lesse tenerisque invece di teneri sed 8, que tam invece di tamen 23, arborem per arboreum 37, mulcebitur per mulcebitis 47, deam invece di dicta 49; l’interpunzione lascia anch’essa moltissimo a desiderare: si veda il punto fermo inserito dopo cicutis 20, la mancanza di un segno alla fine dei vv. 19 e 53, la virgola dopo austrum 4, per tacer d’altri difetti minori.
- ↑ Qui il ms. pone «Expliciunt».
- ↑ Anche qui le parole mediane furono abrase. L’Hauvette credè di poter indovinare, piú che scorgere, Boccaccii nella lacuna (Notes cit., p. 139, n. 1), ma lo Hecker stabilí qual fosse la vera lezione originaria (op. cit., p. 37). Alla fine deli’egloga si legge: «Explicit Faunus feliciter».
- ↑ S’ingannò l’Hauvette nel sospettare un tentativo di «gratter l’écriture dans toute l’étendue de la page» (Notes cit., p. 108; anche a p. 138, n. 3, parla di «ratures qui, parfois, en rendent la lecture impossible». Rilevo ancora che, nel titolo riferito sopra, le parole Iohannes e cui furono tracciate nuovamente in séguito da mano moderna, e che lo stesso trattamento subirono tutte le lettere svanite dei versi 1-7 e 17-18, con l’effetto d’inserirvi qualche grossolano errore di lettura (cfr. Hauvette, p. 139, n. 4).
- ↑ Notes cit., pp. 139-45. Incompleti si leggono i vv. 9, 63, 66, 68, 70, 72, 78, 79, 89, 91, 92, 116, 131, 134, 135.
- ↑ Per questa, cfr. qui, p. 290, n. 1; Sabbadini, Giorn. stor., LXVI, pp. 409-10 (in pochi casi lesse o supplí meno bene: si vedano le sue proposte ai vv. 69, 70, 79, 81, 84).
- ↑ Di profuerit il pro è tuttora visibile; al v. 69 il Sabbadini propose post, e dove il ms. ha uicte lesse meri, che integrò in meritis.
- ↑ Nel v. 43 il ms. ha pulcre e non pulcro; la lezione fulmina 103 è sbagliata: il Bocc. scrisse da prima fulmina, ma poi espungendo la l, e tornandola a scrivere sopra il rigo tra f ed u, ridusse la voce a flumina, confermato dal confronto col passo corrispondente del Bucc. c. (III 74). L’editore invece si tenne certo «qu’il a voulu dire fulmina» (p. 142, n. 3). Nel v. 1 quoque è certo originale, benché oggi appaia ripassato a penna modernamente (cfr. n. 1 qui sopra): l’editore lo ridusse a quo senza ragione.
- ↑ Con riferimento anche al carme precedente, che si trova nelle medesime condizioni di questo e va soggetto al medesimo trattamento, do conto qui delle grafie di ZL modificate da me: rappresentazione del suono ñ (congnita I 21); rappresentazione del suono nasale innanzi a dentale o a gutturale (amtro amtrum II 1 e 56, Amthiopa 113, limquensque 164, tamquam 61, umquam 93: in altri casi analoghi la nasale fu segnata dal Bocc. col compendio); oscillazioni tra i ed y (lymphys II 73, Dionem I 34 ma Dyonidis 19, nimphis I 12 ma nymphe II 128, satiri I 31 ma satyroque e satyri II 113 e 128, Tityrus II 160 e Titiron 177 ma Tytirus 170); surexit II 184 (ma subfulta 61); set scritto per disteso II 72 (gli altri casi non danno norma perché rappresentati col compendio).
- ↑ Il plur. potrebbe anche sostenersi in considerazione del doppio soggetto ludus vel sonnus (ma vel!); tuttavia ho preferito tenermi alla lezione del passo corrispondente del Bucc. c., III 12.
- ↑ Cfr. E. Carrara, Cecco da Mileto e il Bocc., nel Giorn. stor., XLIII [1904], pp. 13-21; La poesia pastorale cit., pp. 84-6.
- ↑ Alla. c. 270 r del Pal. (a c. 269 v termina la Comedia: precede la rubrica Versi di messer Giovanni Boccacci a messer Franc. Petrarcha mandatigli a Vignone choll’opera di Dante, ne’ quali loda decta opera e persuadegli che la studi; in margine si legge questa postilla: «Versus Iohannis Boccaccii ad Franciscum Petrarcham cum ei librum Dantis ad Avinionem transmitteret, transcripti ex originalibus ipsius Boccaccii». Per un ms. strettamente affine al Pal., giá esistente a Genova in possesso privato, cfr. Colomb de Batines, Bibliografia dantesca, II, pp. 162-3 (ed anche Hecker, op. cit., p. 12, n. 2); un altro testo a penna della medesima libreria genovese conteneva il carme, e cosí pure i cinque codici fiorentini rammentati dal Colomb de Batines (I, pp. 370-1; l’ultimo dei cinque, Magliab. VII 1040, è il solo registrato dal Narducci, Di un Catalogo cit., p. 11). Sembra risalire al Pal. o ad un suo congenere anche la lezione ch’ebbe presente l’autore di quel raffazzonamento cinquecentesco del carme che fu introdotto nella Vita del Petrarca di mons. Lodovico Beccadelli (cfr. Solerti, Vite di Dante cit., p. 463): autore che con molta verisimiglianza si può ravvisare nel Beccadelli medesimo.
- ↑ Per cura di A. Fantoni nella prefazione alla sua edizione del poema di Dante (Roveta, 1820), p. xxvii.
- ↑ Hecker, pp. 18-9; alle pp. 20-6 un pregevole commentario. Tanto il testo Fantoni quanto il testo Hecker furono poi riprodotti ripetutamente, ma non è il caso di far luogo qui a mere registrazioni bibliografiche; anche piú larga fortuna ebbe il raffazzonamento, dato in luce per la prima volta nel 1650 per entro alle pagine della Vita beccadelliana: per le ristampe, cfr. Carducci, Opere, VIII, p. 240, n. 1 (andava aggiunta quella del Corazzini nel volume che sará citato qui oltre, pp. 53-4: l’editore secondo il suo metodo rimaneggiò arbitrariamente il testo in piú luoghi).
- ↑ Essa è affatto identica a quella del Pal. prescelto dallo Hecker, salvo un’inversione, in questo, dovuta a sbadataggine di un amanuense (suscipe, iunge tuis, cole, perlege 38 invece di suscipe, perlege, iunge tuis, cole).
- ↑ Vat. 3199 citato; il carme ha il titolo: Francisco Petrarche poete unico atque illustri, ed è firmato: «Iohannes de Certaldo tuus».
- ↑ Per tutte le questioni accennate in questa pagina cfr. Massèra, Di tre epistole metriche boccaccesche, I, nel Giorn. Dant., XXX [1927], pp. 31-6.
- ↑ Basti ricordare che nel testamento del Nostro (28 agosto 1374) fu nominato come uno dei «tutores seu defensores» degli eredi pupilli ed inoltre compreso tra gli esecutori delle ultime volontá.
- ↑ Furono stampati in varie occasioni da F. Zambrini e da altri; cfr. i cenni bibliografici dati dal primo nel Propugn., XIV [1881], 1, p. 436 sgg. (ivi è detto che il ms. Laur. «non può essere autografo», ma il giudizio è d’un incompetente).
- ↑ Il recto porta la nota: «Iste liber est Angeli Torini. Deo gratias», e piú sotto: «Brevis colletio contemtus humane conditionis composita ab Agnolo Torini incipit. Deo gratias 1363. Cioè breve tractato della miseria della humana conditione».
- ↑ Qui p. 303, n. 4. Si ricava da quanto sto avvertendo che la contenenza di questa facciata fu scritta dopo il 1375; d’altra parte il Bencivenni visse almeno sino al 1394
- ↑ Tioli, Epistolae orationes carmina et opuscula virorum illustrium, to. XV, pp. 1073-78; Frati, Epistola ined. di G. Bocc. a Zanobi da Strada, nel Propugn., n. s., I, 11, p. 31 sgg. (a p. 39, n. 3, il carme missivo, a p. 44 sgg. la risposta).
- ↑ Cfr. Hortis, op. cit., pp. 343-44.
- ↑ Cfr. Novati, nell’Arch. stor. ital., serie quinta, VI [1890], pp. 381-85.
- ↑ Prima fu scritto cunta e poi surrogato e richiamato, in margine, vincta; anche nel v. seg. serta fu sostituito in margine alla scrittura primitiva certa.
- ↑ Impossibile ĕt alias. Altro errore di prosodia l’avere inteso venerandĕ 2, ch’è un vocativo, come il genitivo venerandae. Nel v. 10 non è vero che V legge Faciant. Si potrebbe anche rilevare qualche interpunzione inopportuna.
- ↑ Per la biografia di G. Bocc. cit., p. 149, n. 1.
- ↑ E fu riportata da Filippo Villani nella seconda redazione delle sue vite dei fiorentini illustri, elaborata tra il 1395 e il ’97, nella notizia di Zanobi da Strada.
- ↑ Al v. 23, contro humeris digna onera nostris di V, gli altri due leggono humeros spectantia nostros (e con essi concorda il testo trascritto dal Villani, di cui nella n. prec.). Al Foresti, che studiò i rapporti di queste lezioni (pp. 491-2 dello scritto che citerò qui oltre), parve non essere dubbio che l’ultima «sia correzione dell’autore, accortosi di essersi lasciato sfuggire nella prima dettatura un verso zoppicante». Ma humeris digna onera nostris è metricamente corretto quanto humeros spectantia nostros, ed è inoltre concettualmente molto piú chiaro per la presenza del sost. onera, a cui fa capo la proposizione seguente que fuerint; logicamente sará da conchiudere, dunque, posto che ambedue le lezioni risalgono all’autore e che la migliore deve stimarsi piú tarda, per la superioritá del testo V.
- ↑ L’intestazione di V è stata riferita qui sopra (p. 296); il Laur. reca semplicemente: Zenobii de Strata poete laureati ad Iohannem Bochaccium, ed è privo della data e della soscrizione; l’Ox. consuona in queste ultime due clausole con V, e porta l’indirizzo: «Eliconico vati Iohanni Boccaccii de Certaldo tanquam fratri in urbe Florenti[e]». È stato emendato V in tre luoghi soltanto: placeat 6 e faciam 19, oltre che nella firma ut suus (ms. placet, faciant, et suus); la correzione, voluta nel primo caso dalla quantitá e negli ultimi dal senso, è confermata dagli altri testi a penna; rispetto all’ortografia, in V si legge apolinea 2, occulos 10, dificile 20, succurere 25, otubris 36. Inutile riferire le varianti individuali dei due mss. Laur. ed Ox.; comune essi non hanno che quella del v. 23 giá osservata, humeros spectantia nostros. Pessima riuscí la stampa dell’Hortis, fondata su gli stessi due testi; basti dire che un v. intero (12) fu tralasciato, oltre a singole parole (est 17, quicunque 35), che sententia 30 non fu saputo leggere e che si fecero sbagli di lezione e d’interpunzione.
- ↑ A. Foresti, Una epist. poetica del Petrarca falsamente attribuita al Bocc., nei Rendiconti del R. Ist. Lombardo di scienze e lettere, LIV [1921], p. 490 sgg.
- ↑ Cfr. Massèra, Di tre epist. metriche cit, II, pp. 36-41.
- ↑ Cfr. G. Vandelli, G. Bocc. editore di Dante, negli Atti della R. Accad. d. Crusca, [1921-’22], pp. 35-6; per la valutazione del ms. Riccard., p. 21.
- ↑ Cfr. Colomb de Batines, Bibliografia dantesca cit., II, p. 74. Due versi, il primo ed il quarto, furono anche riferiti dal Vandelli.
- ↑ Cfr. Massèra, art. cit., III, pp. 41-44. Contemporaneamente a questo scritto, e in coincidenza con alcune ragioni d’ordine interno in esso contenute, il Wilkins, che giá aveva riconosciuto l’autenticitá del carme (An introd. Bocc. bibliogr. cit., p. 117), dichiarava non esservi ragioni sufficienti «for questioning Boccaccio’s authorship of the Versus pro Africa» (cfr. Modem Philology, XXV [1927], pp. 115-6).
- ↑ App. iii, p. 47 sgg.; per la sua fonte, cfr. p. 73, 11. 1. Il ms. M appartenne precedentemente a Iacopo Morelli, il quale aveva anche pensato di pubblicare il carme (cfr. Baldelli, Vita di G. Bocc., pp. xlvii e 209, n. 2); alcuni suoi appunti presi a tale scopo sono nel Marc. lat. XIV 312, cc. 13-14. Questo ms. fu giá citato dal Narducci sotto la segnatura antica RR. LXXXII (Di un Catalogo cit., p. 11).
- ↑ F. Petrarchae Africa, Paris, 1872, pp. 363-70 (con qualche arbitraria correzione della prosodia, per es. ai vv. 155 e 156, nel quale ultimo fu congetturalmente restituita la lezione giusta fĕrox in luogo di fēlix del Rossetti).
- ↑ Nel vol. che citerò qui avanti, pp. 243-51.
- ↑ Egli disse che i versi sono «scritti a caratteri non belli, senza quasi alcuna interpunzione» (né l’uno né l’altro asserto risponde alla veritá), ed aggiunse che sono «pieni zeppi di scorrezioni tali, che per rettificare e talvolta per intendere il testo ci volle non poco di studio e di fatica». Qui fu appunto il guaio!
- ↑ Cfr. p. 265.
- ↑ Più scusabile il Baldelli, il quale non conosceva il carme se non per quanto gli era stato fatto sapere dal Morelli, e tuttavia sospettò che i versi letti nel cod. di Oxford fossero una cosa stessa con quello (Vita cit, p. xlvi sg.; l’identitá fu affermata a p. 209, n. 2); invece l’Hortis, che parlò del ms. nella sua bibliografia del Bucc. carm., segnalò l’esistenza della poesia (op. cit., pp. 911-2).
- ↑ Precede il titolo: Versus domini Iohannis Boccacci ad Affricam d. Francisci (nella mia stampa parve bene aggiungere Petrarce); in fine: «Explicit». Piú enfaticamente in M si ha: Versus Iohannis Bochacii de Certaldo pro Africa divina Celebris Petrarce poetarum eximii (c. 25 r); si osservi anche la maggior esattezza dell’espressione Versus ad Affricam di O in confronto di quella di M.
- ↑ Che legge precisamente e chiaramente birseaque; e non è vero, come affermò il Rossetti, che «la sola B in principio ed una consonante col segno d’abbreviazione in fine vi sono leggibili, mentre il resto non distinguesi piú» (onde supplí di suo arbitrio Barcaea per arva).
- ↑ Quello rappresentato dall’ultima revisione del ms. originale del Bucc. carm. e seguito nel mio testo in questo volume. Per un criterio di coerenza ho dovuto introdurre le modificazioni seguenti: y invece d’i nelle voci Ytalie 1 (ma lo stesso O reca Ytalie 39, ytali 127 e 154), sidus 3, 93 e 157, sirene 78, Pierydes 108, Nise 119, citaris 134, birsea 164; i invece d’y, Thetys 50, Bayas 77, Pierydes 108, Eneydos 181; h inserito, catena 30 e 170, corus 51, 108 e 139, pulcram 60 e 114, citaris 134; h soppresso, chalamis 120, exhusta 165; tt in luogo di ct, actica 15 e forme del verbo mittere (permictant 4, emictunt 72 e 79, emictet 135); altre variazioni: sociata e non sotiata 17 e 51, quicquam e non quidquam 27, assumpta e non assunta 40, oppletus e non obpletus 47, caput e non capud 50 (ma caput in O 88), sculptum e non scultum 80, Phebi e non Febi 131.
- ↑ Nel v. 111 l’errore è rimasto, ma attenuato (sŭplicanter). La stampa Rossetti corresse ne rogis 74 in neve rogis e conservò tutte le altre lezioni.
- ↑ Si può credere infatti di mano del medico Giovanni Dondi dall’Orologio, amico e corrispondente del Petrarca, morto in quell’anno (cfr. Giorn. Dant. cit., p. 42 e n. 5).
- ↑ Gli arbitri marchiani del testo Rossetti, hisăpnus 155 e fĕlix 156, non furono mai da imputare al Bocc.: il primo è un errore di lettura dell’editore (M ha hesperus come O), il secondo un lapsus calami del menante di M. Non eliminabili restano il solo sŭplicanter 111 (cfr. p. 301, n. 3) ed un esametro di sette piedi al v. 51 (toto fu tralasciato dal Rossetti, ma l’accordo OM ed il senso consigliano di non toccarlo).
- ↑ Se ne fecero interpreti gli ultimi due editori dell’Africa, F. Corradini (nel vol. Padova a F. Petrarca nel quinto centenario dalla sua morte, Padova, 1874, p. 98 sg., in n. [2] a p. 83) e N. Festa (L’Africa, ediz. critica, Firenze, 1926, p. xlii sg.).
- ↑ Per queste vicende della lastra tombale e del cenotafio cfr. Giorn. stor., LXV, pp. 415-6.
- ↑ La forma Bocchaccius, cosí nella dicitura riferita come nel v. 3 dell’epitafio, è aliena dall’uso del Nostro e risalirá allo scalpellino.
- ↑ Ciò nondimeno il Wilkins lo incluse tra gli scritti d’incerta autenticitá (An introduct. Bocc. bibliography cit., p. 122). Di nessun vantaggio ci sono in questo caso i mss., eccezion fatta per il ricordato (qui, p. 296) Laur. Gadd. Rel. 75 di Agnolo Bencivenni, il quale trascrisse con esattezza letterale la lapidetta di Certaldo (come dimostra il ricorrere, dopo il tetrastico, della frase «Hec Iohannes Bocchaccius de se ipso», seguita dalle parole «Coluccius Pyerius hec subiunxit» e dai 12 versi colucciani); esso documenta per conseguenza che la lapide stessa fu incisa prima della fine del secolo XIV. Il codice del Silvestri, O (c. 58 v), reca una variante notevole nel primo verso:
Conspicui sub mole iacent hac ossa Iohannis,
che non può davvero risalire al modestissimo poeta; si avrá qui un intervento di qualche ammiratore, forse del Silvestri medesimo. Ai mss. quattrocenteschi indicati dal Narducci (Di un Catal, cit., p. 11), Laurenziani XC sup. 131 e Strozz. 105 e 173, si possono aggiungere il Laur. XC sup. 97-11, il Nouv. acq. lat. 650 della Nationale di Parigi, e altri ancora; per le stampe cfr. Hortis, op. cit., p. 793. - ↑ Si potrebbe anche pensare ad un terzo e ad un quarto. I tredici esametri sul corso dell’Arno, che fan parte del dizionario geografico boccaccesco (Hortis, p. 257), non saranno un frammento di piú ampia composizione, che in séguito sarebbe stata rifiutata dall’autore? Troviamo poi nella Fam. XVIII 15 del Petrarca l’accenno ad un altro scritto dell’amico: «Legi Syracusas tuas et Dionysium intellexi». Che cos’era questa Syracuse? Si pensa ad un’allegoria, poiché il Petrarca dice di aver capito o riconosciuto Dionisio; e dal séguito dell’epistola sembra di poter sospettare che il Bocc. vi si mostrasse disgustato della poesia, forse per conseguenza della recentissima coronazione pisana di Zanobi da Strada («An forte quia nondum peneia fronde redimitus sis, poeta esse non potes?»). La lettera è, si badi, del 20 dicembre 1355. Che l’allegoria fosse svolta in un carme, ammesso il presupposto, è perfettamente verisimile. Quanto alla spiegazione delle allusioni, cfr. Foresti, Giorn. stor., LXXVIII, pp. 338-39.
- ↑ Il Petrarca accenna al medesimo carme nella Fam. XXI 15, dove ricorda che il Bocc. gli mosse incontro quando s’avanzava verso Firenze, ma che prima che del viso gli aveva fatto conoscere l’aspetto del suo ingegno, «premisso haud ignobili carmine». Il Foresti, il quale determinò esattamente la data e la storia dell’epistola metrica petrarchesca, accostò troppo, per altro, il viaggio alla poesia del Bocc., facendola «della seconda metá inoltrata del 1350» e immaginando buttato giú nel settembre il primo getto della metrica III 17 (Per la storia del carteggio di F. Petr. con gli amici fiorentini, II. L’epistola metrica al Bocc., nel Giorn. stor., LXXIV [1919], pp. 251-3).
- ↑ Il carme del Rossi inc. Non tam prepetibus captabant ethera pennis e ci è conservato dal solo Laur. XXXIX 26, le cui origini boccaccesche ci son note (pp. 262-4), alle cc. 115 v-116 v. Fu stampato con qualche correzione arbitraria nel to. VI dei citati Carmina ill. poet. ital., pp. 317-8, e piú esattamente nell’art. indicato qui sotto.
- ↑ Cfr. Massèra, Il preteso epicedio bucolico dantesco di un letterato forlivese, in Felix Ravenna, fasc. 9 [1913], p. 366 sgg.
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