Orazioni/Roberto Sarfatti e i divini fanciulli

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Roberto Sarfatti e i divini fanciulli

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Roberto Sarfatti e i divini fanciulli
Luigi Majno
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ROBERTO SARFATTI

E I DIVINI FANCIULLI.

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ROBERTO SARFATTI: Volontario alpino nato a Venezia il 10 maggio 1900, morto il 28 gennajo 1917 riconquistando il Col d’Echele.

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Appunto perchè la sua vita fu breve, conchiusa in un anello con la morte per gemma vermiglia, io qui la racconto.

Se fosse vissuto avrebbe spogliato tutti i rosai, bevuto a tutte le sorgenti, affrontato tutti i rischi, esplorato nuovi climi e nuovi cieli. Sarebbe riuscito l’uomo delle mille intraprese e delle mille avventure. Vi era nel suo giardino interno tanta ricchezza e inquietudine di germi, da prevederne una fioritura lussureggiante.

Per quella ricchezza di possibilità e di promesse, che nell’ora giusta [p. 120 modifica] segnata per gli olocausti egli con sicuro animo gettò nella voragine della guerra, — per quella ricchezza e per la magnificenza della sua morte, egli è degno che di lui si parli.

Possono le opere di una lunga e grande vita non valere l’esempio dato nel tempo e nel modo necessario da una grande precoce morte.

Stanno raccolte intorno al fanciullo Roberto ombre di altri giovinetti soldati d’Italia, anch’essi offertisi volontariamente al sacrifizio.

Non avevano chiesto di vivere, d’avere i loro felici diciassette anni in un’epoca nella quale all’uomo latino non fu posto che un solo dilemma: combattere fino allo stremo delle forze per vincere o per morire, o essere uno schiavo supino e vigliacco. [p. 121 modifica]

Scelsero di combattere. Consacrarono con l’azione l’unico valore ideale dell’esistenza. E caddero, come Roberto.

Siano qui ricordati e glorificati nel suo nome.

C’era una volta un bambino biondo.

Era nato a Venezia, da genitori veneziani, il dieci di maggio del 1900.

Si può incominciare questa evocazione con il «c’era una volta» delle leggende, perchè la data di nascita di quel bambino è di là dalla guerra, se ben di poco; e, ormai, tutto ciò che è anteriore alla guerra sprofonda nel lontanissimo mistero delle fiabe.

Il piccolo aveva nome Roberto [p. 122 modifica] Sarfatti. Ma babbo e mamma, parenti ed amici lo chiamavano Roby.

A Venezia non era rimasto che due soli anni, i primi della sua vita; poi la sua famiglia si era trasferita a Milano.

Quando, lungo le vie fiancheggiate dagli altissimi cubi moderni e lacerate dalle gialle traiettorie dei tranvai, tra il nero formicolìo della folla, sullo sfondo fuligginoso delle fabbriche milanesi, quella giovine madre passava con il suo casco d’oro, con la sua bellezza opulenta tutta in plasticità ed in colore, tenendo per mano il bambino che le rassomigliava, nessuno c’era che non si volgesse a guardare.

Una donna del Veronese, un putto del Tintoretto a passeggio per Milano. [p. 123 modifica]

Felicità di vivere, che splendeva di luce propria, come il sole.

Roby aveva trasparenti occhi grigioverdini frangiati di nero, una zazzera di morbida seta color di rame, nella quale affondar le dita era voluttà, gonfie labbra sinuose sempre offerte ai baci o schiuse a chieder perchè.

Roby era il bambino dei perchè.

Roby era anche il bambino delle innamorate.

Tutte le ragazzine amavano il muscoloso torello fulvo, per la sua bellezza e per la sua prepotenza: di tutte egli si considerava seriamente il fidanzato. Ma d’una in ispecie — tomboletta della sua stessa età, ma più piccola di lui, e prepotente come lui malgrado le sue precoci arie di donnina, — era preso. [p. 124 modifica]

Con lei, giochi furibondi, liti furibonde. Di lei agli altri diceva, con quella sua molle parlata rotonda:

— Ma quella Rosaspina è proprio una ma-gni-fi-cen-za!...

Istintivo: violento. Ai bagni di Lido, incontrato un giorno un bimbetto grassoccio e tranquillone, che teneva in mano un nuovissimo rastrelletto per la rena, repentinamente gli saltò addosso, glielo strappò, e ai suoi lamentevoli pianti rispose con tono che non ammetteva repliche:

— Adesso è mio e nemmeno te lo impresto!...

Logico. Gli avevano insegnato che i ragazzetti i quali stanno troppo vicini agli orli delle vasche e alle rive dei canali cadono in acqua e affogano. Ad un suo cuginetto che era stato ripescato, per fortuna incolume, [p. 125 modifica] dalla vasca d’un giardino, chiese a bruciapelo, squadrandolo da capo a piedi:

Parchè non ti sei annagato?...

Conseguente. Aveva udito, non si sa dove (che cosa non odono, che cosa non sanno i bambini?...), di sanguinosi scontri ferroviari e di incendi di vagoni. Al padre e alla madre, reduci, un poco spaventati ma illesi, d’un incidente di tranvai, domandò con severità:

Parchè non sete morti?...

A otto anni s’ammalò d’una grave infezione di scarlattina. Era la prima primavera tutta venti, nuvole e rovesci d’acqua. Costretto — lui, che era la personificazione del moto — alla più paziente prigionia in una camera gelosamente chiusa ad altri che non fosse la mamma, — durante [p. 126 modifica] la lunga convalescenza ascoltava dalla cara voce la storia dei Reali di Francia.

Il suo piccolo essere si tendeva in ansia verso le mirabili gesta.

L’istinto guerriero, intimo e schietto fermento vitale del bambino, ribolliva a quelle leggendarie evocazioni, ancora inconsapevole di sè, ma già robusto ed inquieto.

Leali combattimenti in campo chiuso e in campo aperto, lizze d’amore e d’onore, nobiltà di paladini erranti senza macchia e senza paura, scintillar di grevi ma oneste spade, pellegrinaggi verso le Terre Sante: nutrimento di midolla leonine per il piccolo avventuroso!...

Sgocciolavano lungo i vetri delle finestre i freddi rivoletti della pioggia marzolina: dietro quei cristalli e [p. 127 modifica] quelle grige cortine d’acqua il fanciullo sapeva l’implacabile monotonia delle strade rettilinee, lungo le quali ogni casa è numerata, ogni tram segue la propria rotaia, ogni uomo calca le meschine e sempre uguali tracce del proprio dovere quotidiano.

E una volta egli fissò i ben cigliati occhi grigioverdini in quelli della giovine madre, che, dopo la lunga lettura, deponeva il libro in grembo; e disse, assorto, come parlando a sè stesso:

— Allora sì che valeva la pena di venire al mondo!... Allora non si andava a scuola e si andava a combattere. Ma adesso!... Cos’è la vita adesso?... Nient’altro che una passeggiata noiosa per strade troppo comode.

Una pausa di silenzio seguì. La [p. 128 modifica] madre non dimenticò più mai quel silenzio. Le parole inconsciamente profetiche vi rimasero infitte, come se un bulino invisibile le avesse incise sulla parete.

Nulla di ciò che è regola fissa, consuetudine disciplinare, poteva imprigionar lo strano fanciullo. Per conseguenza egli non amò le scuole, e le scuole non lo amarono. La sua vivacità senza freno avrebbe saltato a piè pari tutti i banchi di legno di tutte le aule scolastiche del regno d’Italia, — più o meno sudici d’inchiostro, infiorati di pupazzetti e tagliuzzati da punte di temperini.

Egli apparteneva all’inquietante specie degli allievi che in apparenza non studiano e se ne infischian del maestro e non portano sempre il còmpito e mettono, se gliene salta il [p. 129 modifica] ghiribizzo, a soqquadro la scolaresca, facendo scoppiare un petardo dietro la cattedra, con la stessa disinvoltura con la quale un altro tira giù cifre e cifre sulla lavagna.

Ma in sostanza imparano prima e meglio degli altri, per un rapidissimo processo intellettuale di assimilazione; e, per un altro processo ugualmente istintivo, eliminano dalla nozione appresa il ciarpame didattico, per non serbarne, vivo e durevole, che il nocciolo essenziale.

I maestri che lo capirono gli vollero bene, nonostante la sua disattenzione, le sue disobbedienze, le sue bizzarrie. Molti non lo compresero. Usciva troppo nettamente dalla linea convenzionale. Non poteva trovarsi accanto al gregge.

Una forza era in lui, che sconfinava [p. 130 modifica] a tratti, sconquassando con colpi e colpi disordinati le cose e le anime intorno. Ribelle a qualunque forma di costrizione, anche nella casa era il terremoto. Una gentile amica della famiglia, che molto lo amava, lo aveva soprannominato «la raffica».

Di cuore tenerissimo, di pura e limpida dolcezza interiore, nella sua irrequietudine fisica non aveva e non concedeva sosta; ma sviluppava intorno a sè una magnetica atmosfera di movimento, che dava il capogiro e un senso di vertiginosa stanchezza anche a chi più gli voleva bene.

Il leoncello selvaggio metteva gli unghioni, temprava gli elastici muscoli, allargava le narici per respirare libera aria di deserto. Fasci di forze alle quali era impossibile dar sfogo attendevano, chiusi nel [p. 131 modifica] bellissimo corpo: toccarlo era ricevere una scossa elettrica.

Pareva non studiasse mai nulla: parlava pochissimo: sapeva tutto.

Il raffinato cenacolo intellettuale costituito dalla propria casa, la quotidiana compagnia di artisti, di letterati, d’uomini di pensiero, avevan certo contribuito alla sua singolar coltura. Coltura fresca, sdutta, sciolta dal gravame scolastico, ricca di sapor personale. Dei grandi classici e dei grandi moderni, nessuno gli era ignoto. E fra antichi e moderni, quando gli accadeva di frammettersi alla conversazione con quella sua voce di duplice timbro, un poco ironica, stabiliva confronti di un’acutezza che sorprendeva.

Non eran che scorci, illuminati da brevi lampi; ma rivelavano un mondo [p. 132 modifica] interiore di solida opulenza. Esistevano in lui, senza dubbio, i più aristocratici elementi di un critico e di uno scrittore di razza. Forse non ne avrebbe fatto nulla; ma l’avvenire ormai chiuso serba per sè il suo segreto.


Nel 1915, l’indomabile ribelle — che già aveva esulato da varie scuole — studiava al ginnasio d’Imola. Come sapeva, e come poteva: a sbalzi, capricciosamente, non scoprendo mai il proprio gioco, mettendo assai volte i professori fuor di strada sul proprio conto. Ma sovra tutto pensava alla guerra.

Già dall’anno prima, già da quando il duello fra Austro-Germania e il resto del mondo si era delineato nelle [p. 133 modifica] sue gigantesche proporzioni, il fanciullo non viveva che per viverlo. Aveva per conto suo afferrata e messa a nudo la spina dorsale del conflitto, liberandola (come già le nozioni apprese nelle scuole) da ogni aderenza bastarda. Virilmente aveva guardata in faccia la questione: sentita la necessità per ciascun popolo di prender ben chiaro e preciso il posto nella lotta: per l’Italia, la necessità d’onore dell’intervento contro i germani. E dell’intervento fiutava l’approssimarsi con voluttuose nari di felino pronto a balzare: ne difendeva contro i dissidenti le ragioni essenziali, con argomenti di stringente logica, e anche con pugni e schiaffi, ove occorresse.

Ogni giorno segnava discussioni, baruffe e pugilati. [p. 134 modifica]

Nel maggio, prima ancora della dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria, subito dopo l’ordine di mobilitazione, Roberto mandava al padre e alla madre una lettera, nella quale implorava d’esser lasciato andare volontario. Compiva allora i quindici anni.

Entrerà forse un giorno, questa lettera, a far parte delle pagine di un’antologia della guerra. Chiamandola un capolavoro epistolare mi parrebbe di disonorarla. È sangue che zampilla da generosa vena, è nervo, è muscolo che si tende in membro di corpo perfetto. È prescienza e volontà.

Così conclude:


«Credilo, papà, io non andrò in guerra per uno stupido desiderio di [p. 135 modifica] distruzione o di avventure: vi andrò perchè così vogliono la mia coscienza, la mia anima, le mie convinzioni. Penso che non si fa impunemente l’interventista per nove mesi, per poi rimanere a casa giunto il momento buono.

«Perciò, papà mio caro, dammi il tuo permesso e me lo dia la mamma: perchè sento che, con mio grande dolore, ne farei senza, e andrei a farmi uccidere senza che mio padre e mia madre mi abbiano dato il loro consenso e la loro benedizione.

«Io non so se morrò; ma anche se questo accadesse, che sarebbe ciò?... La morte trovata combattendo per il proprio ideale non è morte, ma trapasso: il sangue versato per un’idea fruttifica e produce. E poi, che cosa è la morte di tanto terribile, che si [p. 136 modifica] debba temerla e odiarla come una nemica?...

«Ricordati, ricordati di Socrate; e rileggi ciò ch’egli diceva prima di morire».


Il padre e la madre militavano allora, da molti anni, nel partito socialista; e attraversavano la tormentosa crisi morale che fu tragedia nell’animo dei migliori. Ma avevan visto il volto del dovere unico. Non poterono che dividere la convinzione e approvare, in massima, la risoluzione del giovinetto. Il volontariato non era in quel tempo permesso dalla legge che dopo i diciotto anni: inutile e folle intrapresa sarebbe stato il tentare: avesse pazienza, attendesse con calma.

Che fa allora l’avventuroso, capace ad otto anni di definire la vita [p. 137 modifica] moderna «una passeggiata noiosa per strade troppo comode»?...

Nel luglio, durante le vacanze, fugge di casa, s’arruola volontario con le false carte d’un certo Alfonso Allasia, false carte a lui procurate dalla fraterna complicità di Filippo Corridoni: entra sotto mentito nome nel 52.º reggimento di fanteria a Bologna: per un intero mese nessuno si avvede dell’inganno, tanto il novello fante è robusto, alto, tarchiato, ligio alla disciplina, resistente alle fatiche di marcia. Ma un bel giorno un giornalista di Milano lo riconosce, rivela imprudentemente il suo nome e la sua età al capitano; il quale, paterno ma inflessibile, rimanda in tutta fretta il troppo acerbo soldato alla famiglia.

Giornate nere. Avvilimento, rabbia compressa, digrignare di aguzzi [p. 138 modifica] denti. Il leoncello graffia e morde le sbarre del suo gabbione. Sogna, invelenito, chi sa quali altre fughe, quali altri più fortunati travestimenti. Pur di combattere!... Ad un piccolo ritratto, nel quale egli appare con la divisa di fante per così breve tempo portata, appone queste parole di dedica al padre, e non sa quale tremenda profezia vi racchiuda:

«Ricordo di una impresa che la seconda volta non fallirà».

Il buon padre, che lo ama sovra ogni cosa, fors’anche sovra gli altri figliuoli, lo blandisce, lo calma con la solenne promessa di consentire al suo volontariato di guerra, non appena egli avrà raggiunta l’età legale. Venuto l’autunno, lo manda all’Istituto Nautico di Venezia, per aprire alla sua esuberante natura, avida [p. 139 modifica] dell’ignoto e pronta a tutti gli sbaragli, la carriera commerciale di marina.

Ben superati gli esami del primo anno di corso, — il buon padre, che legge, con gli occhi inquieti dell’amore, nell’animo del sedicenne il tenace proposito di ritentare con maggior successo la marziale avventura, ha un’idea di genio: risolve d’imbarcarlo su una nave diretta a Buenos Aires e Rio Janeiro, per un viaggio di circa quattro mesi, in qualità di «allievo capitano di mare».

Gioia piena. Tensione di tutte le forze del sogno verso acque terre bellezze pericoli lontani.

Una sera il giovinetto, atteso a Milano dai genitori per essere accompagnato allo scalo di Genova, giunge da Venezia senza aver prima avvertito dell’ora del suo arrivo. [p. 140 modifica] Balza improvviso nella casa paterna, dove son raccolti alcuni amici in dolce intimità intorno al padre e alla madre. Ma nemmeno il padre e la madre, folgorati dallo splendore dell’apparizione, quasi lo riconoscono.

Egli è così bello che non sembra persona mortale. Odora di mare, par materiato di alghe, di sole, di fosforo e di spazio, come una deità marina. Sotto l’abito blu porta una semplice maglia blu: e lo strano è che non pare nemmeno vestito, tanto la maglia e la stoffa si adattano al ritmo arioso de’ suoi movimenti. È tutto color di rame e di sole, capelli, volto, collo. È tutto voluttà di vivere, dall’iride cangiante degli occhi verde-onda all’elasticità dei garretti. È tutto salute e bellezza, dalla greca purità dei lineamenti alle perfette proporzioni [p. 141 modifica] delle membra snelle. La sua presenza ingenera e sviluppa vibratili ondate di magnetismo animale, e visioni verdazzurre di cieli e di acque. Egli è in contatto diretto e inconsapevole con l’infinito. Oh, che altro non è, se non il mito della giovinezza immortale che passa?... Ognuno che è presente ne ha la sensazione, e adora in silenzio. Ma sente, anche, che quell’adolescente avvolto nel suo umano e divino mistero è stato inviato su questa terra per una testimonianza di sacro splendore.

Quale, non sa. L’avvenire è misterioso come l’adolescente dagli occhi verde-onda. Quale, non sa. Sa che l’ora segnata giunge a suo tempo, e che il cannone romba ancora in lontananza. [p. 142 modifica]

La ferrea disciplina marinaresca, le fatiche e le responsabilità della vita di bordo temprarono un corpo e uno spirito già pronti.

Parve che il futuro soldato accettasse la difficile prova semplicemente come una preparazione all’offerta che, a tempo opportuno, non essendogli prima stato concesso, intendeva fare di sè alla causa della libertà latina.

Godeva nel medesimo tempo, con tutti i pori di un organismo fatto per la pienezza delle sensazioni, la gioia di navigar nel più bel mare e di toccar le più belle rive del mondo. Le lettere che da ogni scalo egli mandava ai genitori ed agli amici erano [p. 143 modifica] canti di felicità, gorghi di luce: una da Dakar passò di mano in mano, scritta invero con la violenza di quel sole, con la densità voluttuosa di quei profumi, con la sensualità di quelle terre, con sostanza e respiro d’infinito.

Ma in tutte rintoccava, grave e soave, la campana della patria: l’animo del giovanissimo navigatore era, malgrado la lontananza, sul Carso, — dove egli pure avrebbe voluto vestirsi di fango e di sangue, per purificarsi, vincitore, nelle acque dell’Isonzo. Volgeva in Italia il tempo della presa di Gorizia: un ufficiale-poeta poco più che ventenne, di Figline Valdarno, Vittorio Locchi, viveva la gesta, per celebrarla nella canzone «La Sagra di Santa Gorizia», che tutte le bocche italiane [p. 144 modifica] ripetono ora a memoria; — e poi morire, rinnovando il miracolo di Goffredo Mameli.

Durante il ritorno da Rio Janeiro, essendo venuto a mancare il secondo commissario di bordo, il comandante che, certo, aveva, con il suo fiuto di dominatore d’uomini, indovinate le qualità eccezionali d’energia del giovinetto allievo, gli affidò quella mansione, malgrado l’estrema giovinezza. Si trattava della sorveglianza della terza classe: mille e cinquecento emigranti.

Roberto Sarfatti tenne il posto, come se non avesse mai fatto altro che comandare e dirigere: con fermezza, con giustizia.

Egli era della razza di coloro che per ben fare han bisogno di sentirsi responsabili. Forse, per capire a [p. 145 modifica] fondo il suo uomo sedicenne, al comandante era bastato di fissar gli occhi su quella fronte di marmo: la fronte d’un Capo.

Scoppiò un giorno, nel pandemonio della terza classe, una delle solite risse: per gelosia d’una donna, fra due piccoli siciliani vulcanici. Balenarono i coltellacci: già il sangue stava per zampillare. Ecco Roberto Sarfatti scagliato fra le due furie: riesce, fulmineo, a disarmare i forsennati, ristabilisce l’ordine, confisca i coltellacci. Calmissimo.

Dominio di sè, dominio sugli altri.

Finito il viaggio, portò le due armi alla casa, come trofei.

Ma aveva anche imparato a lanciar la navaja messicana con infallibilità di tiro — e il bellissimo pugnale segnava troppo spesso folgoranti [p. 146 modifica] traiettorie nelle stanze dell’appartamento cittadino, che — ahimè!... — non erano le foreste americane: configgendosi nel preciso segno prefisso, muro, mobile, portiera, cristallo, preziosa cornice. — «La raffica» era tornata, investiva turbinosamente l’aria e le anime.

Scherma, tiro di rivoltella, danza, foot-ball, equitazione, nuoto: non v’era esercizio sportivo che non s’adattasse in modo stupendo a quel corpo stupendo. Il suo pugno era temibile, il suo slancio era ferino, la sua elasticità acrobatica, ogni suo movimento imprevisto, pieno d’aria e d’armonia. In rasa campagna scagliava in alto il sasso con la sicura eleganza dell’antico Discòbulo. La duttilità dell’intelligenza si equilibrava in lui con la duttilità delle forze [p. 147 modifica] fisiche, come nel tipico campione latino. Il futuro combattente andava delineandosi: combattente che avrebbe pur potuto divenire un conduttore.

Sensibile nel profondo, come tutti quelli che non sanno dimostrare la loro affettuosità. Taciturno, come tutti quelli la cui vita non consiste che nell’azione. Non viveva che per il giorno nel quale i suoi diciassette anni gli avrebbero finalmente permesso di partire per la guerra; poichè una nuova disposizione del governo aveva diminuita di un anno l’età del volontariato.

Della fermissima risoluzione non menava vanto alcuno: chiudeva in sè l’ardore, alimentando in silenzio la fiamma. Ma se, con laconica frase, entrava a parlar della situazione [p. 148 modifica] politico-sociale e della guerra, sfiondavan d’impeto nel discorso la sua salda preparazione morale, la sua impavida tempra, la sua convinzione di ferro, il suo sacrifizio già consacrato nella volontà e nel tempo.

Venne il luglio del 1917; e Roberto, finito il secondo anno di studi all’Istituto Nautico, fu alpino. Volontario alpino; e pazzo per la gioia di esserlo.

Aveva scelto quell’arma per la certezza di non esser mai imboscato, nemmeno contro la propria volontà.

Entrò nel 6.º reggimento. Rise a sè stesso, da quel fanciullo che era, quando ebbe la divisa grigio-verde, la penna d’aquila al feltro e il saccapane.

Venne subito mandato a Caprino Veronese, con le reclute, per l’istruzione militare: subito rivelò le intrinseche qualità del soldato [p. 149 modifica] d’elezione: rispetto della disciplina, scrupoloso senso del dovere, resistenza alla marcia forzata, alle veglie, alla fame, alla sete, all’abbrutimento della fatica. Per il suo genere di studi avrebbe potuto essere aggregato nei telemetristi; ne fu richiesto: rifiutò energicamente. Per lui, il trovarsi cento metri più indietro della linea del fuoco significava l’imboscamento. L’imboscamento significava il marchio che non si cancella, il disonore dal quale non ci si redime.

— Chi sa imbracciare un fucile, — diceva — deve, ora, servirsene al fronte.

E di venir inviato al fronte quattro volte inutilmente domandò.

Troppo giovine: aspettasse: sarebbe venuta la sua volta.

Era alla vigilia di entrare in una [p. 150 modifica] scuola di allievi ufficiali, quando scoppiò la folgore di Caporetto. All’istante ritirò la richiesta: volle rimanere semplice soldato: i tre mesi del corso sarebbero stati un’imperdonabile perdita di tempo, ed egli non aveva tempo da buttar via: egli voleva, doveva battersi.

E tornò a tempestare, per essere scaraventato al fuoco, subito, subito, subito.

Alcune fotografie istantanee mandò in quel tempo di sè alla famiglia, presegli dai compagni nei pittoreschi dintorni di Caprino. In una d’esse egli appare in piedi, pensoso, snellissimo, tenendo con una mano il fucile, con l’altra il bastone ferrato da montagna. Soldato e pastore. Nel suo contegno, nessuna jattanza. È grave e calmo. Fresco fanciullo, uomo [p. 151 modifica] millenario. Sa che cosa vuole, sa dove va. Incarna un’idea, rappresenta una superiorità, sta alle porte dell’indipendenza con la sicurezza di difenderle sino alla morte e più in là della morte. Un vasto cielo sopra di lui. Dietro di lui, incorniciandolo nella duplice fiamma nera, due cipressi, — alti candelabri. In essi la profezia è segnata, il fato è scritto; ma tale è l’armonia del quadro, che la figura del giovinetto vi canta dentro, come nella religiosa bellezza di un salmo.

Andò la madre nel novembre ad abbracciare il figliuolo a Caprino, avanti ch’egli partisse per le prime linee. Pochissimo egli parlò, come sempre; ma le si stringeva accanto, appassionatamente. «Mamma cara, mamma bella.» Oh, tanto più alto di lei!... Oh, così bambino e così uomo!... [p. 152 modifica]

Sole limpidissimo di giorno, stelle limpidissime di notte. Egli guardava la madre e le stelle; e mormorava, chinando la testa sopra una spalla con quel suo vezzo ancora infantile:

— Mamma, credi tu che in certi momenti della storia molti sentano quanto sia grande l’onor di morire?...

Il ventun di novembre una sua cartolina giunge a Milano:

«Papà, mamma, il giorno della partenza è venuto. Viva l’Italia!...».


In una lettera del dicembre descrive il fuoco con un’evidenza, una spontaneità indiavolata di genuino scrittore:

«È stato un assalto da ridere, perchè i tedeschi sono scappati via quasi [p. 153 modifica] subito, e non avevano per fortuna nessuna mitragliatrice. Ma si sono vendicati con un bombardamento d’inferno. Se tu sapessi, mamma, che sensazioni desta un bombardamento di quella specie!... Si era distesi per terra, senza nessun riposo. Con un poco di pratica si conosce dal sibilo la direzione ed il calibro d’un proiettile. Questo, che fischia come un uccello: Sssii.... sssii.... — è un proiettile da montagna: oh!... ma scoppia lontano. Quest’altro: Vvuuvvuff.... — è un trecentocinque: corto a destra. Boum!... Ecco: scoppia. Ed ecco il settantacinque, elegante e preciso: questo — ahi!... — mi esplode sopra la testa. Sseu!... pan!... Mi ricopre tutto di terra. E le schegge sembran mosconi che passino rapidi. Una mi ha già ammaccato [p. 154 modifica] l’elmetto. Ho molta simpatia per l’artiglieria da montagna. È elegantissima. E le mitragliatrici?... Sembrano comari che si raccontino delle maldicenze. Ta-ta-ta-ta-ta... Bella ragazza, ma.... Dio me ne scampi e liberi!... E poi ci sono le pistole a mitraglia: ti-ti-ti-ti-ti.... Quelle sembrano collegiali che giochino ed urlino come uccellini spauriti. — Uh, l’ho presa!... Ma no!... Veh, scappa!... Brava Rosetta!... Corri!... ti-ti-ti... — Ed è la morte che passa. Ah!... La mort est une gaie maîtresse!...»

Prima è in un plotone di arditi: vi compie miracoli di valore; ma si guarda bene dal raccontarli. Scrive semplicemente che ha sofferto la fame e la sete. Ah, la sete!...

In data del trentun dicembre 1917:

«Questa sera è l’ultima dell’anno, [p. 155 modifica] ed io la passerò lavorando sotto alla «imminente luna», lontano da voi che amo, ma vicino a voi come non mai. Che Dio vi benedica tutti per l’anno nuovo, e con voi benedica l’Italia, e inspiri gli animi degli italiani, affinchè si ricordino d’essere prima di tutto e rimaner sopra tutto tali».

In data del primo gennajo, 1918:

«Anno che nasci nella strage e dalla strage, possa tu finire in pace, e che il sangue versato sia fecondo almeno!... Ma pace non può per noi significare che vittoria. Un’Europa sotto la Germania sarebbe cosa tanto impossibile e irrazionale, dopo venti secoli che le due razze latina e teutonica si trovan di fronte, in tregua talvolta, in pace mai, che la mente rifugge dal pensarlo!...». [p. 156 modifica]

Alla cuginetta Nucci, dal posto del più fiero pericolo:

«Ci si trova ora tra il freddo naturale e il caldo che cercano di produrre i tedeschi, sotto forma di pillole di varia grossezza. Mi rammento qualche volta che un tempo mi lavavo, e mi guardo con malinconia le mani e gli abiti ridotti a brandelli: eppure sento di essere migliore che non allora».

Promosso caporale per merito di guerra, e proposto per una licenza di premio (s’era negli ultimi fatti d’arme reso popolare nel suo plotone per atti di coraggio temerario), ne scrive al padre, con stupenda semplicità:

«Che gioia, che gioia!... Credo mi sarà data una delle cosidette licenze di premio; e il motivo dovrebbe [p. 157 modifica] essere quel che mi è successo in Val Capra: sai, quella volta, dopo la quale mi proposero per la nomina a caporale, che mi è ora venuta; ma in verità io non feci che quello che dovevo fare».

Sui primi galloni conquistati scherza in ogni lettera, mattacchione:

«Non mi lascerò ubriacare dalla gloria, sai: e penserò sempre, sia pur nella porpora di caporale, all’umile casetta dove nacqui».

Si precipita in casa il dieci di gennajo, per la famosa annunciata licenza di quindici giorni: ai familiari, che gli si buttano addosso ridendo e piangendo, grida gioiosamente, nel suo dolce dialetto veneziano:

Fève indrio, che son pien de peòci!...

Pidocchioso è, infatti: sporco, [p. 158 modifica] stracciato, con peli irsuti di barbaccia sulle guance fuligginose, con un calzone ridotto alla metà e l’altro sforacchiato e bruciacchiato dalle palle. Sa di ferino, sa di trincea. Mai non si vide veterano del fuoco più giovine, più robusto, più slabbrato, più lercio e più bello.

Presto, presto: disinfezioni, bagni, parrucchiere, sarto. Gli eroi sono gli eroi, ma la vita è la vita.

Ah, come se la gode, questa breve parentesi di vita in pace!... Come se la mastica!... Pare un gattone che faccia le fusa.

Potrebbe raccontare di sè cose mirabili: tace, sorride, abbandona alle carezze i serici capelli color di rame, così fini ed elettrici che dànno il fremito alle dita che vi si immergono: e mangia e mangia conserve e dolci. [p. 159 modifica]

V’è una mano nervosa e prensile che più dell’altre s’indugia, lenta lenta, fra le ciocche: lui lascia fare, socchiude beato gli occhi sotto la soavità penetrante di quel gesto, e tace.

Nel rapido tempo del suo servizio attivo ha veduto la guerra nel suo più sinistro orrore, l’ha provata nel più acuto patimento e con la più stoica pazienza: è scampato alla morte per miracolo, ha durato i tormenti dell’insonnia che rende pazzi, del bombardamento incessante che rende idioti e sordi, della fame, della sete, del dover riposare accanto ai morti nel fango acquoso di trincea, fetente di detriti e di membra in putrefazione.

Ha ucciso, e urlato di gioia nell’uccidere, e più nemici atterrò più se ne compiacque: così è la guerra. Ha veduto cari compagni procombere e [p. 160 modifica] boccheggiar nel sangue, e il suo volto è rimasto impassibile e il suo cuore di bronzo: così è la guerra.

Potrebbe dire e dire — e tace: — senza rimorso e senza orgoglio, perchè sa d’aver compiuto nulla più di quel che s’era prefisso come dovere, e che domani andrà a compiere il resto.

Riparte la sera del ventisei.

Nebbia asfissiante, oscurità di pozzo, senso di soffocazione: tutta la famiglia lo accompagna al treno di tradotta.

Ognuno cerca di mantenersi calmo; ma vi sono onde di presentimento che a un dato istante sommergono il cuore.

Ora e non più.

La piccola sorella è la sola che non riesca a frenare l’angoscia: s’aggrappa alle spalle del suo maggiore, piange, [p. 161 modifica] singhiozza, lo ricopre degli ondeggianti capelli rossicci, e non vuole lasciarlo partire, e grida, come se con tal grido potesse trattenerlo: Roberto mio!... Roberto mio!...

Da quel momento egli sa ciò che lo aspetta. Ma resta impavido, si strappa dalla dolce catena vivente, depone la sorellina a terra, bacia, saluta, sorride, scompare.

Divora spazio per arrivar più presto, quasi tema gli manchi il tempo di raggiungere il destino. Rientrando sa che la sua compagnia è impegnata in un’importante azione offensiva: si precipita per trovarsi in linea.

Il giorno ventotto, alle dieci del mattino, è dato principio all’assalto di Col d’Èchele — sull’Altipiano d’Asiago — fra il Monte Valbella e il Col del Rosso. [p. 162 modifica]

Dalle dolcezze della casa, il volontario si è riscagliato d’impeto nel divampare della battaglia. Egli respira a pieni polmoni l’odor della polvere: la furia bellica gli arde negli occhi, gli fuma dalle nari.

Si trova con le truppe del centro: resistenza, assai più che alle ali, aspra e accanita da parte degli austriaci; necessità, per sgominarli, di quella travolgente ondata d’entusiasmo che centuplica il valore. La sorte del combattimento ondeggia: vittoria e sconfitta pendono a un filo.

Ed ecco che, mentre gli ufficiali compiono il loro dovere, Roberto Sarfatti semplice caporale dà il suo rugghio e il suo balzo leonino. Ritrova nell’attimo incerto e che potrebbe esser nefasto, le qualità d’uomo di guerra innate in lui: [p. 163 modifica] fulmineamente le spiega: scavalca, o abbatte con il calcio del fucile, con la rabbia che stronca ogni ostacolo, quei reticolati che non furono prima fatti saltare dalle artiglierie: primo a scalare la trincea avversaria, si getta in un camminamento nemico, e da solo riesce a catturare trenta prigionieri, e ad impossessarsi di una mitragliatrice: e poi, avanti: trascina i soldati con la veemenza irresistibile dell’esempio e del grido, li travolge nel suo vortice eroico, è uno e diventa mille, è un ragazzo e diventa un Dio: e, mentre, lanciato all’attacco d’una delle ultime gallerie presso la vetta, canta vittoria con la voce, con gli occhi, con i rossi zampilli delle ferite, piomba fulminato da una palla in fronte.

Raccolto e seppellito l’indomani, con religioso raccoglimento, in terra [p. 164 modifica] per lui riconquistata, dai compagni che gli sopravvissero; ma una ciocca dei capelli fu recisa fra grumo e grumo, e portata alla madre.

Diciassette anni, otto mesi e diciotto giorni.

Proposto per la medaglia d’oro.

E adesso?...

Morti su morti. Chi li conta ormai?...

È così facile, mio Dio, è così facile dimenticare!...

L’alba senza sangue sta forse per sorgere; e nel mondo si va facendo un grande silenzio per meglio sentirne il brivido.

Ma noi dobbiamo pur ricordare che la nostra dolce vita, dolce [p. 165 modifica] malgrado tutto e semplicemente perchè è la vita e perchè è libera, sono i nostri giovani morti che ce l’hanno ridata.

Quanti furono gli adolescenti che, a somiglianza di Roberto Sarfatti, gettarono di proprio impulso nella immane fornace della guerra la loro esistenza, chiusa ancora nel mistero del boccio e non ricca che di promesse?...

Adolescenti che noi credemmo nati a perpetuare in sanità la nostra razza: che, felici d’intatte vene, freschi della freschezza delle sorgenti, noi credemmo, sì, destinati a raccogliere le faticose eredità della scienza rivolta a sollevare, a guarire i mali dell’umanità: — non a lacerarla, a martirizzarla con i più raffinati ordigni del ferro e del fuoco. [p. 166 modifica]

Ma vissero in tempo di strage.

Non essi la vollero: non essi disonorarono la loro somiglianza con Dio disseminandola per il mondo. Preferirono affrontarla, piuttosto che subirla. Difendersi e difendere, piuttosto che accettare il giogo per sè e per altri.

E partirono senza indugio, come se avessero una vera esistenza da offrire, con le sue colpe, le sue esperienze, le sue responsabilità; e non avevano invece fra le mani che un sacro germoglio.

E i padri e le madri tacquero; e non osan nemmeno piangere sui morti.

Noi potremmo ora sgranare piamente il rosario degli adolescenti che caddero nella nostra guerra, come Roberto Sarfatti: ad ogni nome un’Ave, ad ogni gesta un Gloria. [p. 167 modifica]

Tutte le sere, dopo il lavoro e prima del giusto riposo, ciascun uomo e ciascuna donna italiana dovrebbe recitarlo, in umiltà ed in passione.

Per la coscienza, affinchè ricordi: per la fortezza, affinchè perseveri: per la pietà, affinchè fruttifichi.

E con quale appellativo li chiameremo noi, quei fanciulli che nella carneficina senza uguali nella storia portarono in nome della giustizia il loro armato candore di arcangeli?... Li chiameremo noi, semplicemente, eroi?...

Chiunque è eroe che soccomba compiendo il proprio dovere; e di eroi d’ogni arma e d’ogni classe sono ora rosseggianti le patrie. Del cielo, del mare, della terra: del puro coraggio, del puro sacrifizio, della pura carità: noti ed ignoti, e gli oscuri [p. 168 modifica] son forse i più grandi. Al frenetico accanirsi degli spiriti del male le razze migliori hanno risposto esprimendo dalle forze più vive i campioni più perfetti, che la morte trasfigura, ma non distrugge.

Ma quei fanciulli, quei nostri fanciulli, vollero testimoniare la necessità della guerra per la pace andando incontro alla morte prima ancora di vivere.

Troviamo dunque per essi, nel nostro religioso fervore, il novissimo nome che li incoroni per l’eternità!...

Forse ignorarono essi medesimi il supremo valore della loro morte volontaria.

Credettero di offrirsi alla patria, per la sua libertà.

Alle patrie, per un accordo fondato [p. 169 modifica] sulle basi di una giustizia superiore, che renda inutile la potenza delle armi.

Grande sogno, e grande morte; ma il loro sangue innocente valeva di più.

Morirono perchè ritorni a vivere, nel cuore degli uomini, la bontà.

Perchè dagli uomini non venga più tradita la legge della carità.

Perchè l’anima umana ridiventi bambina, come essi erano alla vigilia di far di sè il tremendo e dolcissimo dono.

Verso che cosa non andiamo noi, fra tanti sommovimenti e tanti spasimi, se non verso la nostra liberazione dallo spirito del male?...

E quando mai avvenne che il sangue innocente versato in olocausto non abbia prodotto il miracolo?...

Più in là della patria, più in alto [p. 170 modifica] della patria, per un dovere e un amore più vasto, per una umanità che dopo il supplizio spaventoso si risollevi purificata, ritrovando nella sua stessa povertà, nelle sue stesse piaghe le somiglianze fraterne!...

Morti per questo, Roberto Sarfatti e i divini Fanciulli.

S’inganna chi fra noi deplora che tanta bellezza e tanta forza non abbiano avuto il tempo di trasmettersi in un’altra generazione. — Queste e le future generazioni essi invece fecondano, con il loro seme leonino che non potè in vita dar vita a singola creatura.

La virilità creativa del loro atto di morte sarà inesauribile nello spazio e nel tempo.

Non un atomo di quella sostanza di giovinezza andrà perduto. [p. 171 modifica]

Non un raggio di quelle essenze astrali andrà disperso.

In nome del passato, che è grandezza e rimembranza.

Del presente, che è grandezza e dolore.

Del futuro, che sarà grandezza ed amore: in vasta pace vastissimo amore, che solo ha smarrita ma non perduta la via del cuore degli uomini.

Ottobre del 1918.